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venerdì 30 novembre 2012

CHE GRANDE PLATONE !!! CHE PAROLE PROFETICHE !!!

 CHE GRANDE PLATONE !!!
CHE  PAROLE PROFETICHE !!!
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Quando la città retta a democrazia si ubriaca, con l'aiuto di cattivi coppieri, di libertà confondendola con la licenza, salvo a darne poi colpa ai capi accusandoli di essere loro i responsabili degli abusi e costringendoli a comprarsi l'impunità con dosi sempre più massicce d'indulgenza verso ogni sorta d'illegalità e di soperchieria; quando questa città si copre di fango accettando di farsi serva di uomini di fango per poter continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; quando il padre si abbassa al livello del figlio e si mette, bamboleggiando, a copiarlo perché ha paura del figlio; quando il figlio si mette alla pari del padre e, lungi dal rispettarlo, impara a disprezzarlo per la sua pavidità; quando il cittadino accetta che, di dovunque venga, chiunque gli capiti in casa possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l'ha costruita e c'è nato; quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine, c'è da meravigliarsi che l'arbitrio si estenda a tutto, e che dappertutto nasca l'anarchia e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle? In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e confonde; in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti fra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche compiacenze nelle reciproche tolleranze;in cui la demagogia dell'uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo sulle gambe di chi le ha più corte; in cui l'unico rimedio contro il favoritismo consiste nella reciprocità e moltiplicazione dei lavori; in cui tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici; in un ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell'anarchia, e nessuno è più sicuro di nulla, e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono, anche del suo letto e della sua madia a parità di diritti con lui e i rifiuti si ammonticchiano nelle strade perché nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli; in un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe in armi a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell'autoritarismo? Ecco, secondo me, come nascono e donde nascono le tirannidi. Esse hanno due madri. Una è l'oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L'altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l'inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro cui fa colpa di averla condotta a tanto disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza, che della tirannide è pronuba e levatrice. Così muore la democrazia: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo.» PLATONE

La Repubblica Cap. VIII, Atene 370 A.C. 

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Dio non esiste! è la verità Vediamo

Dio non esiste! è la verità

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L'amicizia

 L'amicizia
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È una vecchia sapienza, ma fa piacere averla riscoperta. Credi solo all’attaccamento che costa sacrificio: tutto l’altro è, nel migliore dei casi, retorica.
Del resto Cristo – il nostro divino modello – non pretendeva di meno dagli uomini.
Da chi non è pronto – non dico a sacrificarti il suo sangue, che è cosa fulminea e facile ma a legarsi con te per tutta la vita (rinnovare cioè ad ogni giornata la dedizione) – non dovresti accettare neanche una sigaretta.

Pavese
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Qualunque vera amicizia comincia dal fuoco, dal cibo, dalle bevande e dalla percezione della pioggia e del gelo (...) Ogni anima umana, in un certo senso, deve compiere quel gigantesco atto di umiltà che è l'Incarnazione. Ogni uomo deve farsi carne per incontrare i suoi simili.

G.K.Chesterton, da  Ciò che non va nel mondo

la sola ed eterna educazione

  la sola ed eterna educazione
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«Finché non si salveranno i padri, non si potranno salvare i bambini e, allo stato attuale, noi non possiamo salvare gli altri, perché non sappiamo salvare noi stessi. Non possiamo insegnare cosa sia la cittadinanza se noi stessi non siamo cittadini; non possiamo dare ad altri la libertà se noi stessi abbiamo dimenticato l’ardente desiderio di libertà. L’educazione è semplicemente la trasmissione della verità; e come possiamo passare ad altri la verità se noi non l’abbiamo mai avuta tra le mani?» 
 
«Gran parte della libertà moderna è, alle radici, paura. Non è tanto che noi siamo troppo audaci per sopportare le regole, è che siamo troppo paurosi per sopportare le responsabilità. Mi riferisco alla responsabilità di affermare la verità della nostra tradizione umana e di tramandarla con la voce dell’autorità, una voce insopprimibile. Questa è la sola ed eterna educazione: essere così sicuri che qualcosa è vero da avere il coraggio di dirlo a un bambino»

lunedì 26 novembre 2012

Il matrimonio omosessuale condannato nella Grecia classica


Lo spunto è tratto dalla recente pubblicazione de II matrimonio nella Grecia classica, saggio del filologo e grecista Francesco Colafemmina, intervistato da Valerio Pece per Tempi. Nello scritto si stigmatizza la convinzione di una generalizzata diffusione dell’omosessualità nella Grecia classica, da parte di chi, deformando la realtà storica a vantaggio della moderna ideologia omosessualista, reclama diritti al matrimonio omosessuale, ascrivendone spesso la nascita alla più alta cultura del mondo precristiano. Ciò è falso.
Il paganesimo greco sin dagli inizi (Omero chiama gli uomini i mortali – oi brotoi, per contrapporli agli dèi), infatti, ha una visione profondamente religiosa del mondo e della vita, che subordina sempre il piano umano al piano divino (ricordiamo il tempio eretto al Dio Ignoto in Atene). La rilettura laica che ne è stata fatta è ideologica: questo discorso si applica anche alla sfera della sessualità, che oggi pare afflitta da una sorta di pansessualismo ideologico. Per quanto l’argomento sia complesso e generatore di divisioni nel mondo laico, è il caso di fare alcune precisazioni, ad esempio ricordare che il fenomeno dell’omosessualità nell’antica Grecia è diverso da quello odierno, è soprattutto il fenomeno della pederastia ad essere diffuso ed in certo qual modo tollerato (cosa abominevole per i cristiani, ma anche per i latini) come parte dell’educazione dei giovani. Eppure, la norma, o consuetudine, non dovette essere di questo tipo, ma sincera e premurosa cura ed amicizia: l’affetto, ed anche la tenerezza che si accompagna alle migliori speranze, che spesso intercorrono fra maestro (o allenatore) ed allievo non devono essere male interpretate, come oggi anche allora; dato che la natura dell’uomo è sempre la stessa. D’altra parte dobbiamo ammettere che è difficile negare che i primi contatti omofili in tutti i tempi siano nella stragrande maggioranza dei casi fra un adulto ed un adolescente od un giovane.
Dice il Colafemmina: «Secondo il dogma ormai imperante, nell’antica Grecia la pedofilia (o efebofilia) sarebbe stata al centro di un vero e proprio rito di iniziazione: l’uomo adulto, l’erastés, aveva rapporti sessuali con l’adolescente, l’eròmenos, e così facendo lo formava anche spiritualmente. […] Di qui si è poi passati a definire il dogma dell’assenza di una “morale sessuale” nell’antichità classica attraverso la proclamazione dell’omosessualità come qualcosa di naturale. […] Attenzione però: quello dell’amore puro e spirituale non è altro che ciò che anche i gay del tempo affermavano per giustificare le loro pratiche, in un contesto sociale che invece le condannava risolutamente. L’errore madornale è che chi ripete oggi queste tesi non fa altro che ripetere ciò che dicevano gli autori omosessuali della Grecia classica. Oppure non fa altro che ridire ciò che Platone fa dichiarare ad alcuni suoi personaggi già noti come omosessuali nell’antichità (come Pausania nel Simposio) per arrivare però a smontare le loro tesi e a sostenere l’esatto contrario».
Oltretutto quando si parla di Grecia spesso ci si riferisce involontariamente ad Atene, come in sineddoche: in questo caso è da notare che i costumi delle varie poleis, le città-stato, potevano essere differenti, la pederastia era tollerata a Tebe e prevista prima del matrimonio dalla legge di Sparta (cfr. Suida), in ogni città c’erano prostituti. Mezza eccezione è Atene, dove viene ritenuta contro natura, per fare due esempi, da Platone e da Eschine. «Nelle Leggi (636, c) di Platoneprosegue Colafemmina,  «ad esempio, si legge testualmente: “II piacere di uomini con uomini e donne con donne è contro natura e tale atto temerario nasce dall’incapacità di dominare il piacere». Più chiaro di così! La verità è che nella Grecia classica l’omosessualità non era affatto così diffusa come si crede, e soprattutto, cosa che conta ancora di più, non era istituzionalizzata». Infatti gli antichi Greci mai si sognarono di rivendicare il matrimonio omosessuale!
Intendiamoci: la pederastia nella Grecia antica c’è ed è praticata. Ma resta un fatto sessuale che addirittura l’uomo comune, l’uomo della strada ritiene perverso e ridicolo, ne sono testimonianza le commedie di Aristofane: «Celebre è il repertorio, che oggi si direbbe omofobico, che il commediografo greco dedica ad Agàtone, noto gay del suo tempo. Parliamo di epiteti come lakkoproktos, katapygon, euryproktos, parole assolutamente intraducibili». Il linguaggio è di bassa lega: euryproktos, per esempio, può tranquillamente tradursi con “culaperto”.
Per quanto riguarda la teoria dell’amore platonico, l’amore è legato al bello ed al bene. Poiché per il Greco il Bello coincide con il Bene, si capisce come Platone si spinga oltre precisando che Eros rappresenta ogni forma di attività umana che tenda al Bene. Solo a causa di una sorta restrizione di carattere linguistico, viene chiamato “Eros” unicamente la tendenza al Bene nella dimensione del Bello. In particolare, Eros realizza questa tensione verso il Bene soprattutto nella dimensione del Bello, per procreare nel Bello. Dato il fatto che la bellezza è epifania del bene, Eros si realizza certamente, prima di tutto, nella dimensione del fisico: qui, tramite la bellezza e la ricerca di essa ha luogo la procreazione, mediante la quale il mortale, rigenerandosi in altri esseri, cerca di farsi immortale. Da ciò si deduce anche l’avversione di Platone per l’amore omosessuale. Ne troviamo riscontro in alcuni passi poco conosciuti:
«- E l’amore veramente giusto non è quello che con moderazione ed equilibrio ha una naturale attrazione per ciò che è armonioso e bello? - Certamente, ammise. - Sicché all’onesto amore non si dovrà aggiungere alcun elemento di follia, né qualcosa che abbia a che fare con l’intemperanza. - Allora non si dovrà aggiungergli questo piacere: di esso, insomma, non dovranno avere parte l’amante e l’amato che siano oggetto e soggetto di questo amore buono. - E lui: no per Zeus, caro Socrate, una tale aggiunta non s’ha da fare. - E così mi pare ovvio che nello Stato che andiamo istituendo tu istituirai per legge che all’amante sia bensì lecito trattare con effusione d’affetto e accarezzare il fanciullo che ama come un figlio, in grazia di sentimenti elevati, e previo il suo consenso; ma che, per il resto, egli debba frequentare l’oggetto del suo amore in modo da non dare l’impressione di volere spingersi oltre nel rapporto; in caso contrario offrirebbe il destro all’accusa di scarsa sensibilità e rozzezza». (Repubblica, III 403 a-c)
Mentre in due passi, nel Fedro e nelle Leggi, Platone si spinge ad affermare che la sessualità omofila è contro natura:
«Chi non è di recente iniziato, o è già corrotto, non si innalza prontamente di qui a lassù, verso la Bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta lo stesso nome. Di conseguenza, guardandola, non la onora, ma, dandosi al piacere come un quadrupede che cerca solo di montare e generare figli, e, abbandonandosi a eccessi, non prova timore e non si vergogna nel correre dietro a un piacere contro natura» (Fedro, 250e-251a).
«Da un lato avremo, dunque, chi è amante del corpo ed è affamato dalla sua fiorente giovinezza come di un frutto di stagione; costui si farà forza per saziarsene senza dare alcun valore allo stato d’animo dell’amato. Dall’altro lato avremo, invece, chi non dà soverchio valore alla brama del corpo e per questo, pur ammirandolo, piuttosto che amandolo, con la sua anima desidera sinceramente un’altra anima, così da ritenere un mero atto di violenza il godimento che segue al rapporto fra due corpi, e, invece, così da onorare e insieme rispettare la temperanza, il coraggio, la magnanimità e l’assennatezza, tanto che il suo ideale sarebbe quello di vivere sempre in castità con un amico casto». (Leggi, VIII 837 c-d)
Inoltre, il riferimento esplicito al giusto amore, alla temperanza ed al rapporto casto non fa che confermare la spinta anagogica insita nell’amore platonico; infatti, la stessa tendenza si realizza anche nella dimensione spirituale dell’anima, in quanto è proprio il Bello, suscitatore dell’Eros, che fa generare all’anima le sue migliori virtù e le sue opere più grandi. Quindi, Eros, nella dimensione del Bello e pur senza mai rifiutare l’amore fisico, cerca di salire sempre più in alto, percorrendo come una scala che lo conduce al vertice del Bello assoluto.
Possiamo cogliere questo concetto (ed ulteriore riprova del rifiuto dell’amore omoerotico da parte di Socrate) in estrema sintesi nelle parole di Socrate nelle pagine finali del Simposio, fra le più toccanti della letteratura mondiale, la bellezza fisica e quella spirituale sono su piani incomunicabili ed è impossibile un paragone, scambiarle sarebbe come “scambiare armi di bronzo con armi d’oro”, come maldestramente vorrebbe fare Alcibiade: «E Socrate, dopo che mi ebbe ascoltato, con molta della sua ironia e com’è solito, rispose: “Caro Alcibiade, si dà il caso che tu sia veramente un uomo non da poco, se ciò che dici di me è proprio vero, e se in me c’è una forza per la quale potresti diventare migliore. Tu vedresti in me una bellezza straordinaria, molto diversa dalla tua avvenenza fisica. E se, contemplandola, cerchi di averne parte con me, e di scambiare bellezza con bellezza, pensi di trarre non poco vantaggio ai miei danni: in cambio dell’apparenza del bello, tu cerchi di guadagnarti la verità del bello, e veramente pensi di scambiare armi d’oro con armi di bronzo» (Simposio, 217e-219a
Lo Jaeger giustamente rileva: «Per il modo di sentire greco è proprio il colmo del paradosso che il giovinetto [Alcibiade] bellissimo, oggetto dell’ammirazione di tutti, si metta ad amare quell’uomo di grottesca bruttezza [Socrate]; ma si esprime potentemente nel discorso di Alcibiade il nuovo senso, proclamato nel Simposio, per il valore della bellezza interiore, quando egli paragona Socrate con le statuette dei Sileni che gli scultori tengono nelle loro botteghe, che quando uno le apre, sono piene di belle immagini di dèi»  (W. Jaeger, Paideia, cit., Vol. II, p. 235-236).
L’altro autore citato ad esempio è Eschine, famoso politico ed oratore ateniese del IV secolo avanti Cristo, il quale – continua il grecista – “nell’orazione Contro Timarco scrive che ad Atene era vietato aprire scuole e palestre col buio affinchè i ragazzi fossero sempre sorvegliati; e che, anche se col consenso del familiare, era vietato dare un giovane a un amante omosessuale per ottenerne in cambio denaro o altri benefici. Eschine scrive che era addirittura vietato agli adulti essere apertamente omosessuali praticanti. È interessante notare che gli omosessuali erano chiamati con un appellativo decisamente forte: cinedi (kinaidos al singolare), etimologicamente “colui che smuove la vergogna” o, per altri, e in un senso ancor più realistico, “le vergogne”.
Dunque, per i classici l’amore lecito e normalmente diffuso era quello eterosessuale ed il matrimonio era scontatamente fra un uomo ed una donna, poi il Cristianesimo lo renderà indissolubile, prima non lo è nemmeno per gli ebrei – famoso il rimbrotto di Gesù: “Per la durezza dei vostri cuori…” (Mt, 19:8-18) – ed il suo fine è la procreazione. Per questo discorso “ci aiuta molto l’Economico di Senofonte. Come per il cattolicesimo, anche per la Grecia classica il fine principale del matrimonio era la procreazione. L’ateniese del IV secolo avanti Cristo considerava i figli “una grazia di Dio”. Sempre da Senofonte sappiamo che l’altro fine del matrimonio era l’educazione della prole. Per cui quanto a scopi principali siamo perfettamente in linea con quanto insegna la dottrina cattolica nella Gaudium et Spes. Non solo, nel matrimonio greco c’è anche la meta della castità coniugale. Oltre che in Senofonte, la sophrosyne, un concetto assolutamente analogo a quello di castità, lo troviamo in Plutarco e in autori come Cantone d’Afrodisia.
La virtù dei filosofi greci è la conoscenza del bene (e il Bene), che si rivela poi nell’applicazione della giusta misura nella pratica di vita, ergo anche nella castità matrimoniale. Per certi versi si può trovare nell’indissolubilità, elemento che il cristianesimo ha portato a pienezza e purificato.
”Eppure – conclude Colafemmina – anche su questo tema quello che solitamente non si legge è che il rapporto monogamico è in qualche modo insito nella cultura greca. Basterebbe leggere l’Andromaca (vv. 11-179), in cui Euripide si lancia in un nobilissimo elogio della fedeltà monogamica, come del resto fa anche nell’Alcesti”. Inoltre, per finire, “I Precetti coniugali (Gamikà Paranghélmate) sono una lettura strabiliante se pensiamo che provengono da una fonte pagana. Furono composti da Plutarco in occasione del matrimonio di due suoi allievi, Polliano ed Euridice, nel I secolo dopo Cristo. È un’opera agile e godibilissima, un trattatello sulla vita coniugale ricco di massime, amorevoli consigli pratici e racconti esemplari, quasi un libro sapienziale se non fosse per l’allegria che lo pervade. Un’opera che personalmente farei leggere nei corsi prematrimoniali, spesso così scialbi. Di certo i Precetti coniugali rappresentano bene quella che era l’etica matrimoniale per gli antichi greci, nutrita da valori saldi, da rapporti fondamentalmente monogamici propri di una solida civiltà contadina, valori poi trasferitisi nella società cristiana e nobilitati dalla sua etica. Non è certo un caso se l’opera plutarchea sarà poi ripresa da autori cristiani come Ugo da San Vittore (De amore sponsi ad sponsam) e san Girolamo (Adversus lovinianum)”.
Lo scopo di questo saggio, a detta dello stesso autore, “in realtà è un augurio. Che una sintesi alta tra una ritrovata morale ellenica e l’etica cattolica possa offrire uno specchio in cui riflettere l’eredità inestimabile che abbiamo ricevuto dal mondo classico. E in cui vedere anche il rischio che comporta l’incamminarsi a passo svelto nella direzione opposta, quella del baratro”.
Matteo Donadoni
da: UCCR

domenica 25 novembre 2012

Come è nato il Banco Alimentare

Oggi ho pubblicato su “Libero” questo articolo

LA NOSTALGIA DI QUELL’ABBRACCIO
                                     ***                         


Un sabato di festa e di solidarietà. Oggi si compie in Italia il più grande evento di carità del nostro Paese: la “Colletta alimentare”.
L’anno scorso 5 milioni di italiani hanno partecipato, consegnando ai 130 mila volontari (di decine di associazioni diverse), presenti fuori dai supermercati, 9700 tonnellate di cibo.

Che si sono sommate a eccedenze e donazioni confluite per tutto l’anno al “Banco alimentare”. In tutto 70 mila tonnellate di derrate.
Così nel 2011, attraverso 9 mila istituzioni caritative, si è dato da mangiare a 1 milione e 700 mila persone che ogni giorno si rivolgono a queste strutture di solidarietà.
Bisogna riflettere sull’enormità di questa cifra, perché si tratta di 1 milione e 700 mila persone, coi loro volti, nomi, storie, drammi umani.
In tempi di crisi, disoccupazione e impoverimento la “Colletta alimentare” è dunque un avvenimento popolare e – con il Banco - anche un fatto sociale di straordinaria importanza che dovrebbe insegnare molte cose. Pure a politici ed economisti.
Ma l’imponenza di quest’opera del volontariato non deve far dimenticare come tutto questo è nato. Ogni grande quercia infatti cresce da un piccolissimo seme, apparentemente trascurabile.
E’ una storia che inizia nel 1967. Siamo negli Stati Uniti. Un certo John Van Hengel, ex playboy in crisi e in difficoltà, in fuga dai problemi, finisce a Phoenix, in Arizona.
Senza meta, bussa alla parrocchia cattolica di Saint Mary, tenuta da frati francescani, e lì viene accolto. Non c’entrava niente con la Chiesa, ma era un uomo alla deriva e fu ospitato come un fratello. Per riconoscenza cercò subito di rendersi utile ai frati, specie alla loro mensa dei poveri.
Un giorno fu colpito da una povera donna, madre di dieci figli, che venne a chiedere aiuti, ma non il cibo. Lui si domandò: “Ma perché – con tanti figli – non chiede qualcosa da mangiare?”.
Così decide di tenerla d’occhio e scopre che lei andava nei supermercati e si faceva regalare quello che doveva essere buttato e che era ancora buono. Geniale idea.
John decise di fare lo stesso per la mensa dei frati. In poco tempo riempì di alimentari la stanza di una ex pasticceria. Così, quando incontrò di nuovo quella donna, le raccontò tutto e lei gli rispose con una battuta che di nuovo accese qualcosa nella sua testa: “noi poveri avremmo bisogno di una banca del cibo”.

Nacque in questo modo – e proprio con il nome suggerito da quella madre – la “Food Bank”, il primo Banco alimentare del mondo, che – essendo germogliato all’ombra della chiesa di Saint Mary - fu denominato “St. Mary’s Food Bank”.
Il nome ha un suo senso profetico. Del resto i francescani di Phoenix sapevano bene che la Madonna, a Betlemme (toponimo che significa “casa del pane”), aveva messo al mondo Colui che si definì “il pane della vita”. Colui che ha descritto così il Giudizio finale: “avevo fame e mi avete dato da mangiare…”.
Il Banco alimentare nacque dunque negli Stati Uniti dall’intelligenza e la generosità di John Van Hengel, ma presto l’idea rimbalzò e si concretizzò pure in Canada, poi in Francia e in Spagna.
Noi” mi racconta Marco Lucchini, Direttore generale del Banco alimentare italiano “incontrammo questa esperienza nel 1989”. Per “noi” intende un gruppo di amici che fanno parte di Comunione e liberazione.
Ancora una volta tutto accade tramite semplici incontri umani.
“Mi telefona Giorgio Vittadini perché sapeva che io lavoravo allora in una piccola catena di supermercati. E mi dice: ‘bisogna andare a Barcellona perché Diego mi ha raccontato che là ha visto una cosa che l’ha colpito: si chiama banco degli alimenti’. Vuoi andare a capire di che si tratta?”.
Lucchini continua: “Da quel viaggio ci venne la prima spinta. Così provammo a sondare il terreno fra le aziende. Finché incontrammo una persona straordinaria, Danilo Fossati fondatore della ‘Star’, la famosa azienda alimentare”.
Fossati è il classico lombardo tutto lavoro e voglia di fare. E’ diventato un imprenditore di grande successo, ma non si accontenta della ricchezza raggiunta. Si pone domande profonde sulla vita.
Del resto ha chiamato “Star” la sua azienda in onore a sua madre che si chiamava Stella, donna di grande fede, che, pur nella povertà, era sempre lieta. Non gli sfugge il paradosso per cui lui – pur avendo successo e ricchezza – si sente invece inquieto.
“Dunque” racconta Lucchini “gli facciamo incontrare don Giussani, per conoscerci meglio. Era il 1989. Non dimenticherò mai quel giorno. Don Giussani lo abbracciò alla sua maniera, con forza e affetto, e gli disse le parole che folgorarono quell’uomo: ‘lei ha un cuore grande come sua madre’. Fossati da quell’incontro intuì che poteva vivere la stessa umanità che ricordava in sua madre. Rispose commosso: ‘qualunque cosa mi chiederà io la farò’. Don Giussani non gli chiese mai niente, perché era già accaduto tutto. Fossati aveva capito che da lì, dall’azienda dove lavorava, poteva aiutare tanta gente. Era ciò a cui aspirava, un senso diverso della sua vita”.

Ma anche coloro che erano presenti a quell’incontro e a quell’abbraccio, e che iniziarono il Banco Alimentare con l’aiuto di Fossati, restarono commossi e colpiti per sempre. Lucchini per esempio lasciò il precedente lavoro e si buttò totalmente in questa avventura.
“Da allora” confida oggi “io ho desiderato essere abbracciato tutti i giorni in quel modo e ho desiderato di poter abbracciare tutte le persone che incontravo così, ogni giorno”.
Il Banco alimentare in fondo è stato ed è solo lo strumento per realizzare questo desiderio.
Lo è stato per i primi che lo iniziarono e oggi è lo strumento con cui migliaia di volontari e milioni di italiani, ogni anno, con la “Colletta alimentare” realizzano il desiderio di abbracciare chi è nell’indigenza e non ha neanche pane a sufficienza per sé e per i propri figli.
In fondo è lo stesso abbraccio che John Van Hengel ebbe quando bussò alla porta di quei frati francescani di Phoenix. E – andando a ritroso – è lo stesso abbraccio che ebbero quelle persone, in aperta campagna e senza cibo, a cui Gesù, “preso da compassione”, fece distribuire i due pani e cinque pesci. Che prodigiosamente si moltiplicarono sotto i loro occhi sfamando cinquemila persone.
Tutta la vita di Gesù era l’immenso abbraccio di Dio: a ciascun uomo, ognuno con la sua fame di amore, la sua sete di significato. Ognuno col suo segreto dolore.
“La Colletta” aggiunge Lucchini “è un’idea che dal 1997 abbiamo copiato dai francesi. Per coinvolgere tutti nell’opera del Banco Alimentare”.
Oggi è davvero diventata quello che desiderava don Giussani, un immenso fondo comune volontario creato dagli italiani a favore dei poveri.
E non è solo un grande gesto di carità. E’ anche la soluzione di un grave problema sociale perché migliaia di persone che hanno fame sarebbero pure un problema di ordine pubblico e di sicurezza collettiva.
“Per questo” aggiunge Lucchini “chi dona un centesimo al Banco alimentare, ha indietro dieci volte tanto”.
E’ una storia molto istruttiva. Fra l’altro spiega la grandezza di un principio – la sussidiarietà – che tutti a parole omaggiano (ma senza praticarlo).
Basta immaginare cosa accadrebbe se fosse lo Stato a doversi occupare di allestire e gestire un simile “ammortizzatore sociale” per 1 milione e 700 mila persone.
E’ lecito temere enormi problemi di sprechi, inefficienze, spesa pubblica e quant’altro? Anche nei casi eventuali di efficienza, una cosa sarebbe ricevere un piatto di minestra da un ufficio, per via burocratica, altra invece riceverlo con un sorriso e un gesto di fraternità in opere di volontariato e di carità.
Perché l’uomo non vive di solo pane, ma soprattutto di umanità e ideali morali. Così pure l’economia di mercato, come ha spiegato Benedetto XVI nella “Caritas in veritate”. E qui comincerebbe un’altra riflessione sulla crisi economica che ci attanaglia.
Ma per oggi partecipiamo alla festa della gratuità.

Antonio Socci
Da “Libero”, 24 novembre 2012
www.antoniosocci.com

mercoledì 21 novembre 2012

TESTIMONIANZA. SONO FIERO DI CL (E ANCHE DI FORMIGONI)

TESTIMONIANZA. SONO FIERO DI CL
                            (E ANCHE DI FORMIGONI)
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Io sono orgoglioso di far parte di Comunione e liberazione. Voglio dare questa testimonianza oggi che CL sui media sembra diventata una pessima congrega.
E’ invece una luminosa compagnia che fin da quando avevo 15 anni ha suscitato in me entusiasmo e meraviglia: qui ho scoperto il senso della vita.
Cosa sia Comunione e liberazione, anche oggi, non si apprende da ciò che scrivono i giornali. Io lo vedo anzitutto nei volti dei miei figli. L’ho reimparato in questi anni da Caterina.
Dai suoi occhi bellissimi che illuminano il mondo quando ridono insieme a Stefano, a Mira, a Maria, a Laura, a Maria Chiara, a Massimo e Martina, a tutti i suoi amici, che sono suoi fratelli e sorelle e che le fanno sentire la carezza del Nazareno nella sua sofferenza.
E che le danno la forza di una Giovanna d’Arco nella sua battaglia.
L’ho visto anche nel suo sguardo fiammeggiante e indignato quando – giorni fa – le ho raccontato, perché ne stavo scrivendo, i drammi che vivono le giovani ragazze cristiane del Pakistan, sottoposte a causa della fede a ogni forma di violenza.
Per questo lei – Caterina, pur senza poter parlare – ha voluto che mandassimo quanto potevamo, attraverso un’associazione che paga la cauzione per la piccola Rimsha, per permettere ad alcune ragazze cristiane di poter studiare e sottrarsi agli aguzzini.
Lo imparo dal volto entusiasta di mio figlio dalla capigliatura ribelle quando torna dalla caritativa per portare viveri a dei poveri clochard insieme alle suore di Madre Teresa: “Sai babbo, don Andrea ci ha fatto capire che si è veramente felici solo nel donarsi gratuitamente, anche senza sentirsi dire grazie. Ed è proprio vero!”.
Mi accorgo di cosa è CL quando sento la passione dell’altra figlia, per il suo violino e il suo pianoforte. Questo struggimento per la bellezza se l’è trovato dentro il cuore anche lei perché l’abbiamo imparato, assorbito per osmosi da don Giussani che ci ha fatto gustare tutto, dalla Sonata per violino e pianoforte n. 2 di Schubert, al panorama mozzafiato delle Dolomiti, dal mare azzurro e infinito al buon vino del mio amico Michele.
Lo struggimento per la bellezza, il gusto della vita, la fraternità vera (di chi ti accoglie in casa sua anche in piena notte), la fede e la speranza nella sofferenza, la compassione per il mondo intero, l’innamorata passione per Gesù benedetto e l’amore alla sua Chiesa fino al martirio.
Tutto questo miracolo in terra è CL, con tante opere meravigliose che ho scoperto di recente come la splendida Cometa di Como o che conosco da tempo come il Banco alimentare o i nostri medici dell’Avsi che da decenni curano gli ammalati di Aids nell’Africa profonda.
E tanti altri miracoli quotidiani, come la scelta della verginità di giovani di venti anni o l’ “amore vero” fra ragazzi e ragazze di 25 anni che per grazia si amano con eroismo e purezza (un tempo ci prendevano in giro, mentre oggi loro si sentono dire dai coetanei: “vi invidio”).

E’ veramente un’umanità affascinante. Una storia di santità che si porta dietro anche tutti i limiti di noi peccatori, ma la Chiesa stessa è così.
Nel suo cammino attraverso i secoli – scrive Eliot – gli uomini che si lasciano abbracciare da lei – e diventano cristiani - si trovano “salvati a dispetto del loro essere negativo;
bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima;
Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce.
Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via”.
Questo sono i cristiani. Gente misera, ma in cammino con i santi. La persona che mi ha fatto incontrare CL – Andrea Aziani, che poi è pure il padrino di battesimo di Caterina – incarna questa storia di grazia.
Andrea arrivò a Siena mandato da don Giussani. Era responsabile di CL alla Statale di Milano dove, nel post-68, il movimento subiva tutto l’odio ideologico e la violenza fisica di quegli anni da parte dei vari gruppi estremisti (Andrea era stato spesso aggredito).
E’ impossibile descrivere la sua umanità eccezionale. Aveva l’ardore missionario di san Paolo (del resto era ebreo per parte di madre e suo nonno aveva subito persecuzioni sotto il fascismo prima perché cattolico, militante del Partito popolare, e poi per le leggi razziali).
Andrea da Siena andò in missione in Perù, nelle miserabili bidonville di Lima. E’ vissuto venti anni in quel mare di povertà ed è morto d’infarto, letteralmente consumandosi per Cristo e per i suoi fratelli, nel 2008, a 55 anni.
E’ significativa la testimonianza del suo vescovo, diocesi Carabayllo, periferia nord di Lima, il cappuccino padre Panizza: “l’avevo conosciuto una ventina di anni fa qui a Lima e mi aveva colpito per la sua preparazione e franchezza… Nel 1998 pensai alla necessità di costruire un’università per permettere di studiare alle migliaia e migliaia di giovani che mi circondavano. Lo cercai e la sua disponibilità” confermata da don Giussani “ci permise di iniziare questa grande opera che è l’Università Cattolica Sedes Sapientiae”.

Il vescovo ricorda che Andrea, insieme ad altri amici di CL, era “l’anima di questa avventura… febbre di vita era il suo motto, e realmente era una febbre di dedizione che lo portava a volte a dimenticarsi di mangiare e di dormire, per non dimenticarsi di Cristo e delle persone”.
“Oggi questa università” prosegue il vescovo “è una realtà di seimila studenti, con succursali nel pieno della foresta amazzonica e in mezzo alle Ande, nate per rispondere anche lì alla necessità di educazione e conoscenza di tanti giovani che vivono in situazioni di povertà”.
L’Università in pochi anni ha permesso a tanti di loro di costruirsi una vita degna. Monsignor Panizza conclude: “E’ difficile descrivere la grandezza della persona di Andrea perché è stato insieme un maestro di migliaia di giovani, un padre attento e discreto per moltissimi, un grande uomo di cultura, un rivoluzionario dei cuori. Ma non posso pensare ad Andrea se non come a un santo di oggi. Infatti, appena saranno passati i cinque anni previsti dal diritto canonico, comincerò la causa di beatificazione, perché l’esperienza che ho vissuto nell’amicizia con lui non si può spiegare senza arrivare alla fonte della sua umanità, alla sua fede in Gesù”.
Forse sarà il primo santo che abbia vissuto il ’68. Monsignor Panizza aggiunge: “Era un ‘Memor Domini’, un laico consacrato… nessuno è potuto rimanere indifferente davanti alla sua testimonianza di passione per le persone, di attenzione ai più bisognosi, di apertura al dialogo con tutti, di lavoro incessante per una società più umana. Non ha vissuto nemmeno un minuto senza dare tutto per il bene degli altri”.
E’ da lui che ho sentito raccontare, da ragazzo, di Roberto Formigoni e di Antonio Simone. Diceva che essendo alti e robusti stavano spesso in prima fila e si prendevano le sprangate con lui durante le aggressioni a CL nella Milano degli anni Settanta.
Anche a loro, al loro coraggio e alla loro testimonianza, devo gratitudine se questa storia, questa carezza del Nazareno, è arrivata fino a me e ai miei figli.
Se hanno fatto errori (come tutti noi) ne risponderanno al confessore oppure agli elettori. Per eventuali reati ai magistrati. E’ certo però che la Lombardia governata da Formigoni – secondo i principi della dottrina sociale della Chiesa - è stata la regione più prospera, solidale ed efficiente d’Italia. Fra le prime d’Europa.
Usciranno indenni dalle indagini come nel passato? Glielo auguro. Ma anche in questo caso sono certo che porteranno addosso il dolore dei propri limiti che oggi vengono usati dal mondo per picchiare su CL.
Ma la storia cristiana è così. Da duemila anni. E’ fatta di uomini che si sentono umiliati per la propria miseria, ma la cui imperfezione è usata dal Signore dell’universo come piedistallo della Sua gloria.


Antonio Socci
Da “Libero”, 18 ottobre 2012
www.antoniosocci.com
UNA TESTIMONIANZA BELLISSIMA !!!
CRISTO SI MANIFESTA ATTRAVERSO
 LA CIRCOSTANZA
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sabato 17 novembre 2012

Barack Obama e i "valori irrinunciabili" della Chiesa

http://www.zenit.org/article-33751?l=italian

Barack Obama 

e i "valori irrinunciabili" della Chiesa


Una riflessione sull'esito delle elezioni presidenziali negli USA

di padre Piero Gheddo, del Pime
ROMA, giovedì, 8 novembre 2012 (ZENIT.org).– Si accusano come "di destra" i valori del matrimonio, della nascita, della morte naturale. Per la Chiesa questi sono “valori irrinunciabili” per lo sviluppo dei popoli. Aborto, sterilizzazione, controllo delle nascite, eutanasia, matrimoni gay hanno conseguenze nefaste per la soluzione dei problemi sociali.
Nelle elezioni americane del 6 novembre 2012, com'è noto, ha vinto Barack Obama e tutti auguriamo al Presidente USA di poter adempire il suo secondo mandato facendo scelte ispirate alla pace e allo sviluppo solidale del suo paese e dell'intera umanità.
AsiaNews riporta la notizia con il titolo: "La vittoria di Obama preoccupa i mercati, ma potenzia il matrimonio gay". E spiega che Obama è il primo Presidente a sostenere il matrimonio fra le coppie gay (cambiando la posizione che aveva nel 2008): "Nel Maine e nel Maryland si è andati alle elezioni per approvare (nel referendum) il matrimonio fra persone dello stesso sesso. Finora i matrimoni gay erano riconosciuti in Massachusetts, Iowa, New York, Connecticut, New Hampshire, Vermont e District of Columbia, ma come decisione della Corte suprema. La vittoria alle urne mostra un profondo cambiamento nella mentalità della popolazione Usa. Secondo alcuni exit poll, i tre quarti di coloro che volevano il voto sul matrimonio gay sono sostenitori di Barack Obama".
Mi chiedo: perché, in genere, nei paesi dell'Occidente cristiano, i partiti e le coalizioni di sinistra sono favorevoli a molte soluzioni in campo sessuale e familiare, che la Chiesa cattolica condanna? Di per sé, quando la Chiesa, il Papa e i vescovi, parlano dei problemi che riguardano la visione cristiana della vita e del matrimonio, sono totalmente al di fuori delle dispute politiche fra destra e sinistra. Ma perché i partiti e le coalizioni di sinistra approvano quello che la Chiesa condanna in questo campo?
L'enciclica Caritas in Veritate (CV) di Benedetto XVI (2009) congiunge il diritto alla vita allo sviluppo di ogni popolo e dell'umanità (n. 28). La "questione antropologica", su cui tanto insistono la Santa Sede e la Conferenza episcopale italiana, diventa a pieno titolo "questione sociale" (nn. 28, 44, 75). Nella CV i temi di bioetica sono letti in relazione allo sviluppo dei popoli. Il controllo delle nascite, l'aborto, le sterilizzazioni, l'eutanasia, le manipolazioni dell'identità umana e la selezione eugenetica sono severamente condannati (sono "valori irrinunciabili" n.d.r.) non solo per la loro intrinseca immoralità, ma soprattutto per la loro capacità di lacerare e degradare il tessuto sociale, corrodere la famiglia e rendere difficile l'accoglienza dei più deboli e innocenti: "Nei paesi economicamente sviluppati - scrive Benedetto XVI (CV 28) - le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi... L'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo...". L'enciclica spiega che per lo sviluppo dell'economia e della società occorre impostare programmi di sviluppo non di tipo utilitaristico, ma che tengano "sistematicamente conto della dignità della donna, della procreazione, della famiglia e dei diritti del concepito".
Spesso l'insistenza del Papa e dei vescovi, dalla Humanae Vitae di Paolo VI (1968) ad oggi, non è compresa nemmeno dai cattolici, una parte dei quali pensano che la difesa della vita e della famiglia passa in secondo piano di fronte alle drammatiche urgenze della fame, della miseria disumana, delle ingiustizie a livello mondiale e nazionale. Non capiscono il valore profetico di quanto dicono il Papa e i vescovi, che vedono nella cultura che rifiuta la vita la rottura sostanziale fra l'uomo e la Legge di Dio, con conseguenze nefaste anche per la soluzione dei problemi sociali.
Quando nelle legislazioni nazionali, come anche negli organismi dell'Onu e della Comunità Europea, prevale l'egoismo dell'uomo, com'è possibile pensare che poi, nell'accoglienza del più povero e del diverso, quest'uomo diventi altruista e animato dalla carità cristiana? Tra opere sociali e difesa della vita non esiste alcuna contraddizione, ma anzi c'è un'integrazione vicendevole, si  richiamano a vicenda, l'una non sta senza l'altra. La protesta per la fame nel mondo e per l'aborto hanno eguale significato e valore. Ma in Italia i No Global (la maggioranza dei quali cattolici) hanno fatto molte proteste contro la fame, nessuna contro gli aborti, nessuna contro le coppie di fatto, i divorzi, le separazioni, i matrimoni tra gay! Accettiamo tranquillamente che in queste situazioni vinca l'egoismo umano e poi chiediamo che nella lotta contro la fame nel mondo prevalga l'altruismo. Dov'è la logica?
Se nei nostri Paesi occidentali e cristiani si sfascia la famiglia, si dissolve anche la società, come purtroppo stiamo sperimentando. Non si capisce come mai una verità così evidente è snobbata da chi appoggia altri tipi di famiglia (tra i gay ad esempio) e toglie ai coniugi lo stimolo di un patto d'amore da consacrare di fronte alla società col matrimonio, favorendo le coppie che si uniscono e si separano liberamente, il divorzio, le separazioni, come  il "divorzio rapido" approvato dalla Spagna di Zapatero, che si realizza in 15 giorni.
Gli indici dell'Istat di qualche anno fa (2007) dicevano che le coppie sposate (religiosamente o civilmente) producono in media più figli di quelle conviventi, perché è provato che il matrimonio dà stabilità alla coppia e maggior sicurezza alla donna per fare un figlio. Ora, sappiamo che il popolo italiano è sotto lo zero demografico, cioè diminuisce di numero. Però come cittadini italiani aumentiamo perché i "terzomondiali" fanno molti figli. Come facciamo ad aiutare i popoli poveri, se non aiutiamo nemmeno noi stessi?

Se il senso del divino manca, tutto si deturpa

 Se il senso del divino manca, tutto si deturpa
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Se il senso del divino manca, tutto si deturpa:
la politica diviene mezzo di arricchimento, 
l'economia arriva al furto e alla truffa,
 la scienza si applica ai forni di Dachau, 
la filosofia al materialismo e al marxismo; 
l'arte decade nel meretricio. 
(don L. Sturzo)

 Guardate bene ai pericoli delle correnti organizzate in seno a un partito. Si comincia con le divisioni ideologiche. Si passa alle divisioni personali. Si finisce con la frantumazione del partito. 
(don L. Sturzo)

 La missione del cattolico in ogni attività umana, politica, economica, scientifica, artistica, tecnica è tutta impregnata di ideali superiori, perchè in tutto vi si riflette il divino. 
 (don L.Sturzo)

venerdì 16 novembre 2012

“Per me la vita è stata bella perchè l’ho pagata cara”

“Per me la vita è stata bella perchè l’ho pagata cara”

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di MARIA DI LORENZO
«Quando il cielo baciò la terra nacque Maria. 
Che vuol dire la semplice, 
 la buona, la colma di grazia.
Maria è il respiro dell’anima,
 è l’ultimo soffio dell’uomo. 
Maria discende in noi, 
è come l’acqua che si diffonde
 in tutte le membra e le anima,
 e da carne inerte che siamo noi
 diventiamo viva potenza». 
 Versi potenti, e al tempo stesso semplici, di una grande poetessa italiana, Alda Merini, che alla Madonna dedicò molte pagine della sua ricca produzione e, in particolare, uno splendido libro uscito nel 2002 per l’editore Frassinelli: Magnificat. Un incontro con Maria
 «Sei la povertà e la ricchezza scrive rivolgendosi alla Madre di Dio – 
 il sogno e la contraddizione,
 la volontà di Dio e la volontà dell’uomo,
 che tu educhi alla contemplazione.
 Il dolore è la tua casa, è la casa del mondo, 
eppure tu sei la regina degli angeli,
 la regina nostra, la regina di tutti i tempi».
Una grande voce del Novecento. Alda Merini era nata a Milano il 21 marzo 1931 («Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta…»). Aveva iniziato a comporre le prime liriche a quindici anni e non ne aveva ancora venti quando, nel 1950, Giacinto Spagnoletti aveva pubblicato nell’antologia Poesia italiana contemporanea 1909-1949 le liriche Il gobbo e Luce. L’anno successivo, queste liriche insieme ad altri due componimenti verranno incluse da Vanni Scheiwiller nel volume Poetesse del Novecento, su consiglio di Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani. Già da questi primi versi si intuiscono i motivi ricorrenti della sua poesia: l’intreccio di temi mistici e sensuali, di luce e di ombra, il tutto però amalgamato da una concentrazione stilistica notevole, che nell’arco degli anni lascerà spazio a una poesia più immediata, intuitiva.
Nel ’53 sposa Ettore Carniti (da cui avrà quattro figlie: Emanuela, Flavia, Simona, Barbara) e lo stesso anno esce la prima raccolta poetica La presenza di Orfeo, seguita nel ’55 da Paura di Dio e Nozze romane. Dopo la silloge Tu sei Pietro, edita nel ’61 da Scheiwiller, segue un silenzio durato circa vent’anni, durante i quali la Merini viene ricoverata per disturbi mentali nell’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano («Per me è stato un miracolo di Dio essere uscita viva da lì. Ho visto morire tanti ragazzi. Mi ha salvata mio marito che veniva a trovarmi, perché chi non aveva nessuno scompariva all’improvviso nel nulla»). Nel ’79 il lungo silenzio editoriale è rotto e la Merini inizia a lavorare su quello che è considerato il suo capolavoro: La Terra Santa, vincitrice del premio Montale nel ’93.
La Terra Santa segna l’inizio di una poetica diversa, impregnata della devastante esperienza manicomiale («Il manicomio è il monte Sinai, / maledetto, su cui tu ricevi / le tavole di una legge / agli uomini sconosciuta»). Si tratta di liriche di un’intensità potente, dove la realtà lascia il posto all’idea stessa del reale, sublimata e deformata dal delirio della follia. La prima proposta di stampa dell’opera fu accolta da una totale indifferenza da parte degli editori. Solo Paola Mauri accetta di pubblicare trenta liriche, scelte su un dattiloscritto di oltre un centinaio di testi composti dalla Merini durante l’internamento, sul n. 4 della rivista Il cavallo di Troia, nel 1982. Due anni dopo Schweiller riprende le trenta liriche e, con l’aggiunta di altre dieci, dà alle stampe la prima edizione de La Terra Santa, decretando la fine dell’ostracismo dell’artista.
Intanto, dopo la morte del marito, Alda Merini conosce il poeta Michele Pierri che sposa nell’83 trasferendosi a Taranto; qui però si riaffacciano i problemi mentali e nell’86 la Merini torna definitivamente a vivere a Milano, sulle rive dell’amato Naviglio, in una casa piena di libri, quadri e fotografie, in Ripa di Porta Ticinese 47. Lì ricomincia a scrivere con continuità, alternando versi e prosa. Sono anni assai fecondi, dove si contano sempre maggiori pubblicazioni ed interventi pubblici e in cui le vengono assegnati diversi premi letterari e una laurea honoris causa dall’Università di Messina.
Nell’89 esce Delirio amoroso e nel ’92 Ipotenusa d’amore, cui l’anno dopo fa seguito il volume in prosa La pazza della porta accanto. Nel ’95 viene data alle stampe la raccolta Ballate non pagate e nel ’96 le viene aggiudicato il premio Viareggio per la poesia. Nello stesso anno Alda Merini viene proposta per il Nobel per la letteratura dall’Academie française.
Del ’97 è la raccolta La volpe e il sipario, la più alta dimostrazione dello stile poetico dell’artista: una poesia che nasce dall’emozione, improvvisa e violenta, mai ritoccata, riletta. Una scrittura nata di getto, sull’onda del pensiero che si fa man mano sempre più astratto e simbolico. E nel 2002 esce per Frassinelli Magnificat. Un incontro con Maria, dove la Merini evoca la Vergine Madre indagandone soprattutto l’aspetto umano e femminile, opera che, nel settembre dello stesso anno, le vale il premio Dessì per la poesia. 
«Se Tu sei la mia mano, / il mio dito, / la mia voce, / se Tu sei il vento / che mi scompiglia i capelli, / se Tu sei la mia adolescenza / io ho il diritto di servirti / e il dovere, / perché l’adolescenza / non ha mai chiesto nulla / alle sue stagioni. / Tu mi hai presa / perché io non ero una donna / ma solo una bambina. / E le bambine si accolgono / e si avvolgono di mistero. / Tu mi hai resa donna, Signore, / e la donna è soltanto / un pugno di dolore. / Ma questo pugno / io non lo batterò / verso il mio petto, / lo allargherò verso di Te / come una mano / che chiede misericordia…».
Un destino mai tradito. I testi di Alda Merini sono tra le maggiori espressioni liriche del Novecento. La colpa e la grazia, l’inferno e la gloria, la tenebra e la luce sono stati i poli della sua ricerca poetica («Le più belle poesie / si scrivono sopra le pietre / coi ginocchi piagati / e le menti aguzzate dal mistero. / Le più belle poesie si scrivono / davanti a un altare vuoto, / accerchiati da agenti / della divina follia»). Un destino di poesia, il suo, «mai tradito», come scrive Maria Corti nella prefazione a Fiore di Poesia (Einaudi 1998), ma anche il destino di una donna capace di rinascere mille volte dalle proprie ceneri.
Alda Merini si è spenta il 1° novembre 2009 all’ospedale San Paolo di Milano, in seguito ad un tumore. Aveva detto: «Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita». Aveva 78 anni la «piccola ape furibonda » che, con la sua vita difficile e la sua opera sofferta, ha segnato la storia culturale italiana. La donna che per dodici anni era stata rinchiusa in manicomio, cui avevano allontanato le figlie, il cui cervello avevano folgorato con 37 elettrochoc. Nata il primo giorno di primavera e morta il giorno di tutti i Santi. Un’artista che ha saputo fondere vita e arte in un’unica, inscindibile forma. E che ha lasciato scritto, quasi un testamento: «Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno… Per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara».
(c) Maria Di Lorenzo – all rights reserved
Articolo pubblicato sul mensile “Madre di Dio” – gennaio 2011

Gertrud von Le Fort: scrittura e trascendenza

Gertrud von Le Fort: scrittura e trascendenza

***

di MARIA DI LORENZO

Quando Edith Stein decise di lasciare il mondo per entrare nel Carmelo di Colonia furono in molti a stupirsi di quella scelta: lei che era stata una filosofa, un’intellettuale, con il suo grande bagaglio culturale e un passato di brillante studiosa, abbandonava ogni cosa per inabissarsi in una vita totalmente povera, oscura, senza privilegi. Una vita nascosta, fatta di immolazione e di sacrificio. Tante persone allora le scrivevano e cominciarono a farle visita, secondo le possibilità e gli orari del Carmelo, e tra queste la scrittrice tedesca Gertrud von Le Fort, una aristocratica protestante che a Roma si era convertita al cattolicesimo, autrice di romanzi assai famosi, fra cui L’ultima al patibolo. Un giorno Gertrud andò a trovare la Stein al convento per vedere con i propri occhi se Edith fosse davvero felice al Carmelo: davanti a sé trovò una creatura radiosa, trasfigurata dalla gioia.

Gertrud von Le Fort, la “più grande poetessa trascendentale contemporanea“, ed Edith Stein, “la più grande donna nel cielo dei filosofi tedeschi” del Novecento, come le definirono i loro contemporanei, divennero amiche. Erano due convertite: l’una dal protestantesimo, l’altra dall’ebraismo. Fu il padre gesuita Erich Przywara il mediatore, per così dire, di questa singolare amicizia umana ed intellettuale. La scrittrice tedesca ebbe a dire: “Nella mia vita ho visto solo due volte un volto umano che mi travolgesse: suor Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, e Papa Pio X”.
Gertrud von Le Fort nacque nel 1876 in Westfalia. Il padre era un ufficiale prussiano, e lei potè studiare privatamente fino all’età di 14 anni in casa per poi intraprendere alcuni viaggi. Studiò Teologia evangelica, filosofia e storia, ma senza immatricolarsi perché priva del titolo statale per accedere all’Università. Nel 1914 frequentò ad Heidelberg un seminario del giovane C. Jaspers dedicato a Kierkegaard e la definì “la tappa più importante e decisiva della mia vita”.
Allieva prediletta del celebre filosofo delle religioni Ernst Troeltsch, del quale nel 1925 curò la pubblicazione del libro Dottrina della fede (Glaubenslehre), la coltissima baronessa tedesca di confessione protestante abbracciò la fede cattolica durante un viaggio a Roma quando era alla soglia dei cinquant’anni. Evento misterioso e segreto, come ogni conversione che si rispetti, ma di cui abbiamo una lieve traccia in uno dei suoi testi: “Quel vecchio, rigido crocefisso a metà cancellato, quel crocefisso della più cadente basilica di Roma, vuota di preghiere improvvisamente mi aperse le braccia e mi costrinse a inginocchiarmi. Mi sembrò che qualcuno alzasse una tenda sul fondo della mia anima, in cui riconobbi, simile a stigmata d’amore, la stessa immagine dinanzi alla quale mi trovavo inginocchiata: ricevuta, rinnegata, dimenticata eppure intatta, perché quell’amore si era conservato per me”.
E ancora lei scrive: “Sapevo che né in cielo né in terra né fino alla fine dei tempi né nell’eternità, mai vi potrebbe essere cosa alcuna capace di eguagliare quell’amore in forza e dolcezza. Avviluppata ad esso, strappata a me stessa, e già quasi immersa nella sua immensità, credetti di morire. Ma lo stesso infinito mi teneva in vita con un comando dolce e commovente: amami ancora“.
Soltanto un anno prima della sua conversione, e forse non a caso, Gertrud von Le Fort aveva pubblicato gli Inni alla Chiesa (Hymnen an die Kirche), versi solenni come Salmi, che della Chiesa cantavano nascita e natura, missione e santità, amore e destino. Esaltandone l’eterna, universale e soprannaturale potenza ordinatrice, l’autrice intendeva riconoscere alla Chiesa il fatto di aver raccolto e purificato in sé ogni pensiero e fermento religioso della storia millenaria del mondo. Pagano o profano, ateo o agnostico fosse stato il passato contesto dell’intera umana avventura, da Cristo in poi tutto è stato posto sotto il segno della Redenzione del mondo.
“Poetessa della trascendenza”, l’ha definita il critico P. Ferdinando Castelli SJ. Per la forte tensione metafisica che pervade tutta la sua opera, per il rigore della ricostruzione storica che molto spesso le fa da sfondo, per il vigore dell’ideale cristiano cui questa si ispira nonché dei personaggi in cui si incarna, oltre che per la profondità dell’analisi psicologica, la Von Le Fort è senza dubbio una delle figure più interessanti della cultura cattolica tedesca del secolo scorso. La sua opera narrativa forse più importante, L’ultima al patibolo (1931), su una vicenda di suore ghigliottinate durante la rivoluzione francese, da cui successivamente lo scrittore francese Georges Bernanos trasse ispirazione per I dialoghi delle carmelitane, la rese celebre in tutto il mondo.
Le sue pagine vengono accostate senza esitazioni a quelle di Claudel, Bernanos, Mauriac, Dostoevskij, Péguy. Prolifica e raffinata, Gertrud von Le Fort fu autrice di oltre venti libri, raccolte di poesie, romanzi e racconti che, tra l’altro, sembra abbiano contato molto anche nella formazione culturale di Joseph Ratzinger. Nel 1949 Hermann Hesse, insieme con Martin Buber, la propose per il premio Nobel. Prima della conversione aveva scritto gli Inni alla Chiesa. Dopo scriverà molti romanzi, fra i quali: La fontana di Roma (in due riprese: Il lino della Veronica, 1928 e La corona degli angeli, 1946), Il Papa del Ghetto (1930), Le nozze di Magdeburgo (1938), La donna eterna (1934), L’estasi di suor von Barby (1940), La Consolata (1947), La figlia di Farinata (1950).
Il fascino delle opere della scrittrice è quello di seminare elementi biografici nei suoi scritti, ma di non lasciare traccia autobiografica, tanto che i critici hanno a lungo cercato ed indagato, e chiesto a contemporanei che la conobbero di persona, e perlustrato archivi ed articoli alla ricerca di elementi biografici. Rimane a nostro avviso una lettera assai significativa, vergata di pugno della stessa Gertrud, e datata 27 dicembre 1947, in cui rivolgendosi ad una studentessa laureanda sulle sue opere, la scrittrice spiega che “di autobiografico esiste poco, perché io credo che l’autore sia responsabile di fronte al pubblico con la sua opera e non con la sua persona… Del resto – lei dice – questo mio modo di comportarmi è in stretta relazione con il mio libro “La donna eterna” e cioè non si può esigere che caratteristica della missione della donna sia il velo senza che essa lo porti”.
La scrittrice pensava alla donna come al canale dei grandi misteri del cristianesimo nel mondo: la nascita di Cristo, l’annuncio della Pasqua, la discesa dello Spirito Santo che “mostra l’uomo nell’atteggiamento femminile di chi riceve”, e che è la “cellula primogenita della Chiesa”. Il femminile che innerva tutta la creazione, come viene bene espresso in “La donna eterna”.
E a buon ragione allora Bonaventura Tecchi potè parlare di un “velo” che si stende su tutta l’opera dell’autrice tedesca: caratteristica e compito della donna è di conservare cioè un velo, qualcosa di misterioso, non solo nel suo corpo ma anche nella sua anima, nell’abbandono e nella dedizione, nell’amore totale, come accadde a Maria quando pronunciò il suo Fiat. Maria, la Donna per eccellenza, da Gertrud tanto amata e che aveva celebrato nei suoi splendidi versi: “Rallegrati, vergine Maria,/ figlia della mia terra,/ sorella dell’anima mia,/ rallegrati, gioia della mia gioia./ Sono come un vagabondo nella notte,/ ma tu sei un tetto sotto il firmamento./ Sono una coppa assetata,/ ma tu sei il mare aperto del Signore./ Rallegrati Vergine Maria,/ ala della mia terra,/ corona dell’anima mia;/ rallegrati, gioia della mia gioia:/ felici coloro che ti proclamano felice!”.
(c) Maria Di Lorenzo – all rights reserved
Articolo pubblicato sul mensile “Madre di Dio” – ottobre 2011

giovedì 15 novembre 2012

Cl continuerà a vivere la fede “in faccia al mondo”

UNA LETTERA DI MONS. NEGRI AL DIRETTORE DE "IL FOGLIO"

                             Ma quale egemonia Cl continuerà a vivere la fede  “in faccia al mondo”       
Al direttore -
 Per l’amicizia che ci lega e
con la mia consueta libertà di parola intendo
intervenire brevemente sulla tua “noterella
sui movimenti e la loro nuova scelta
religiosa”.
1. La prima osservazione riguarda quelle
righe in cui tu sintetizzi questa conversione
spirituale che sarebbe in atto in alcuni
movimenti ecclesiali, e, al di là di essi,
nella intera chiesa. A un certo punto dici,
riferendoti a coloro che starebbero vivendo
questa riforma spirituale “… lontani
dalle tentazioni della storia e della politica,
immersi nella vita dello spirito che ha
le sue regole…”. Non c’è un’immagine più
lontana dalla sensibilità e dalla cultura di
monsignor Giussani che questa. Egli, attraverso
il suo carisma, ha precisamente fatto
emergere dalla grande tradizione ecclesiale
ambrosiana un avvenimento di popolo,
di popolo cristiano, caratterizzato da
una fede ecclesiale e dal desiderio di comunicare
questa stessa fede agli uomini,
dentro le vicende concrete e quotidiane
della società.
Questo il messaggio della sua
ultima intervista al Corriere della Sera, pochi
mesi prima di morire: “Vivete coraggiosamente
la fede in faccia al mondo”
. Sapeva
bene don Giussani, e noi l’abbiamo imparato
da lui fin dai primi giorni della nostra
amicizia con lui, che il cristianesimo
autentico non è mai uno spiritualismo individualistico,
pietistico e moralista, che rende
sostanzialmente impossibile una presenza
visibile e apprezzabile dei cristiani
nella vita della società.
Non una esperienza
“aristocratica”, intellettualistica
e moralistica: questo iniziava e favoriva l’inesorabile
declino della grande tradizione cattolica
che aveva segnato in modo straordinario
la vita del nostro popolo e della
nostra società. Per Giussani il protagonista
della storia è il popolo cristiano: quel popolo
che “mangia e beve, veglia e dorme, vive e
muore non più per se stesso, ma per Lui,
che è morto e risorto per noi”
.
2. Nelle ultime righe del tuo intervento
dici che sarebbe stato meglio “proiettare la forza
dei movimenti novecenteschi sulla scena
europea e mondiale, ormai sempre più
saldamente occupata dalla spiritualità gay
e politicamente corretta, per dire delle cose
realistiche, di fede e ragione”. Caro Ferrara,
da oltre cinquant’anni è solo questo
che abbiamo tentato di fare nella chiesa e
nella società. Abbiamo detto cose di fede e
di ragione, alla luce del grande magistero
di Pio XII e poi di Giovanni XXIII e
di Paolo VI fino alla straordinaria
esperienza di Giovanni Paolo II e di Benedetto
XVI.
(Perché anche nella interpretazione
del Magistero pontificio vale
l’ermeneutica della continuità e non
quella della discontinuità).
Questo e solo questo è l’esperienza
di vita e di testimonianza che abbiamo
vissuto di cinquant’anni e che
viviamo anche oggi.
La storia della vita di Comunione e liberazione
è la storia di una realtà ecclesiale:con grandi e quotidiani
esempi di quella che il Concilio ha chiamato “la santità comune
del popolo di Dio”, e io ho visto e vedo tantissime
testimonianze in questo senso. Ma
è certamente anche la storia dei limiti e degli
errori, che accompagnano inevitabilmente
ogni esperienza umana. Nessuno ha
comunque il diritto di leggere in modo
esclusivamente negativo la storia di Cl. Lo
dico per le centinaia e centinaia e migliaia
di persone che si sono aiutate a vivere di
fede, che hanno vissuto la loro testimonianza
negli ambienti: la loro è stata ed è una
vita buona, sacrificata e lieta. Né posso dimenticare,
perché i loro nomi e i loro volti
mi sono presentissimi alla coscienza e al
cuore, quei tanti studenti, liceali e universitari,
massacrati fisicamente nelle scuole
e nelle università, nei tempi bui dell’extraparlamentarismo
violento e dell’iniziale
terrorismo, solo per la loro volontà di essere
autenticamente cristiani presenti nel loro
ambiente e certamente non preoccupati
di alcuna “egemonia”.
Questa è la storia
cristiana di Comunione e liberazione, della
luce di questa storia sono lieto da tanti
anni, i limiti di alcuni porto con chiarezza
di giudizio e compassione. A nessuno concedo
il diritto di criminalizzare questa storia,
di cui mi sento orgogliosamente partecipe,
oggi ancor più che all’inizio
. Con tutta
la mia amicizia e con un augurio sincero
che tu non cessi la tua grande battaglia
per la libertà e la ragione, in questa società
così triste e avvilita.

Luigi Negri
vescovo di San Marino - Montefeltro