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lunedì 31 dicembre 2012

Dove Dio fu senza un tetto, tu e io siamo a casa. Poesia di Natale 

di G. K. Chesterton

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dicembre 24, 2012 Annalisa Teggi
Una miriade di luci illuminano le nostre strade e soprattutto le nostre case in questo periodo. E dicono che è festa perché la luce è entrata in casa nostra. Abbiamo bisogno di paradossi come quelli che scriveva il signor Chesterton per poter guardare le cose vere con occhio strano quanto basta per continuare a meravigliarci,  di giorno in giorno, di anno in anno. Tra le molte poesie sul Natale che Chesterton scrisse, questa, che riporto con una mia traduzione scritta per questa occasione, ci porta dentro quella capanna di Betlemme e ce la fa guardare una volta di più con occhi incuriositi: solo là dove Dio fu senza un tetto, tu ed io siamo a casa.

Laggiù  una madre senza posa camminava,
fuori da una locanda ancora a vagare;
nel paese in cui lei si trovò senza tetto,
tutti gli uomini sono a casa.
Quella stalla malconcia a due passi,
fatta di travi instabili e sabbia scivolosa,
divenne qualcosa di così solido da resistere e reggere
più delle pietre squadrate dell’impero di Roma.
Perché tutti gli uomini hanno nostalgia anche quando sono a casa,
e si sentono forestieri sotto il sole,
come stranieri appoggiano la testa sul cuscino
alla fine di ogni giornata.
Qui combattiamo e ardiamo d’ira,
abbiamo occasioni, onori e grandi sorprese,
ma casa nostra è là sotto quel cielo di miracoli
in cui cominciò la storia di Natale.
Un bambino in una misera stalla,
con le bestie a scaldarlo ruminando;
solo là, dove Lui fu senza un tetto,
tu ed io siamo a casa.
Abbiamo mani all’opera e teste capaci,
ma i nostri cuori si sono persi – molto tempo fa!
In un luogo che nessuna carta o nave può indicarci
sotto la volta del cielo.
Questo mondo è selvaggio come raccontano le favole antiche,
e anche le cose ovvie sono strane,
basta la terra e basta l’aria
per suscitare la nostra meraviglia e le nostre guerre;
Ma il nostro riposo è lontano quanto il soffio di un drago
e troviamo pace solo in quelle cose impossibili,
in quei battiti d’ala fragorosi e fantastici
che volarono attorno a quella stella incredibile.
Di notte presso una capanna all’aperto
giungeranno infine tutti gli uomini,
in un luogo che è più antico dell’Eden
e  che alto si leva oltre la grandezza di Roma.
Giungeranno fino alla fine del viaggio di una stella cometa,
fino a scorgere cose impossibili che tuttavia ci sono,
fino al  luogo dove Dio fu senza un tetto
e dove tutti gli uomini sono a casa.

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domenica 30 dicembre 2012

Chi è l’autore cercato dai sei personaggi? Me lo ha spiegato una diciassettenne

Chi è l’autore cercato dai sei personaggi?

 Me lo ha spiegato una diciassettenne 

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dicembre 30, 2012 Giovanni Fighera
 
Avete mai capito chi cercano i sei personaggi di Pirandello? La semplicità del cuore e la purezza dello sguardo sanno cogliere la verità più di tanti discorsi e di tante elucubrazioni di eruditi e di intellettuali. Con questa affermazione non intendo certo svilire gli studi letterari, la seria critica letteraria, la filologia in nome di un soggettivismo nella lettura delle opere. Intendo, però, sottolineare che la letteratura nasce da un uomo e parla di un uomo e dell’uomo. E per comprenderla, quindi, dobbiamo interrogarla e incontrarla come si incontra una persona e mettere in campo non solo le nostre conoscenze e competenze, ma tutta la nostra persona e la nostra umanità.
Ecco brevemente che cosa è accaduto l’altro giorno a scuola durante un’ora di Caffè letterario. Il Caffè letterario si tiene una volta al mese su un libro assegnato come lettura. Dopo una discussione guidata su alcuni punti che maggiormente hanno colpito segue un breve momento conviviale di assaggio di dolci preparati dagli studenti. Il libro assegnato per il mese era il dramma di Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore. Tra le domande più significative emerse nel dialogo con gli studenti eccone una: chi cercano i sei personaggi? Ovvero qual è l’autore di cui hanno bisogno perché la loro esistenza si tramuti in vita, perché loro possano vivere, compiersi, realizzarsi? Con sicurezza tanto quanto con semplicità una ragazza alza la mano e dice: «L’autore è il maestro di cui abbiamo tutti bisogno nella vita. Ma l’autore è anche Dio, è Lui che abbiamo bisogno, è Lui che cerchiamo». Questa è la stessa conclusione a cui è arrivato lo scrittore e drammaturgo Giovanni Testori che tra l’altro ha scritto un’opera teatrale dedicata ai Promessi sposi sull’impalcatura dei Sei personaggi in cerca d’autore pirandelliani, ovvero I promessi sposi alla prova,  nella cui conclusione l’autore presenta la necessità per ogni uomo di avere un maestro. Dando una sua personale interpretazione all’opera teatrale di Pirandello, Testori arriva poi ad affermare che l’autore di cui i personaggi sono alla ricerca è Dio, cancellato dalla cultura odierna.
Vale la pena ora ricordare che quando il dramma I sei personaggi in cerca d’autore uscì nel 1921 non venne compreso. Se leggiamo recensioni e possibili interpretazioni dell’opera nei decenni successivi, per lo più si incontrano letture dal punto di vista meta teatrale, si utilizza la distinzione tra persona e personaggio, si parla di critica al teatro borghese e ancora di riflessione sull’incomunicabilità tra gli esseri umani. Nella prefazione apposta all’edizione del 1925 Pirandello scrive: «Io ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi appunto perché manca l’autore che essi cercano; e si rappresenta invece la commedia di questo loro vano tentativo, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi sei personaggi sono stati rifiutati».
Al di là delle molteplici interpretazioni che sono state date al testo, ci sembra che la chiave di lettura più efficace sia quella profetica. Il genio di Pirandello aveva percepito nei primi decenni del Novecento la perdita della figura del padre nella cultura contemporanea e ne descrive le tragiche conseguenze. Nella conclusione del dramma Pirandello anticipa il baratro e l’istinto autodistruttivo che attirano l’uomo contemporaneo. Ora facciamo un passo indietro e ripercorriamo le linee essenziali dell’opera.
Sei personaggi (il padre, la madre, la figliastra, il figlio, il giovinetto, la bambina) si presentano al capocomico pretendendo che venga rappresentato il loro dramma. La loro storia è, infatti, stata scritta, ma non è stata rappresentata. L’autore li ha abbandonati dopo averli creati. Il padre esclama: «L’autore che ci creò, vivi, non volle, poi, o non poté materialmente metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto […] perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo può ridersi anche della morte. Non muore più!». Più avanti ancora, rivolgendosi al capocomico che vuole il copione, insiste: «Il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!». L’uomo ha urgenza di vita, non vuole solo esistere, ma vuole vivere, profondamente e drammaticamente vivere, con entusiasmo.
A causa della loro insistenza il capocomico dapprima interrompe la rappresentazione dell’opera in corso, poi chiede alla strana nuova compagnia di dare indicazioni agli attori sulla rappresentazione del loro dramma. Dopo aver mostrato insofferenza per la mancata corrispondenza della recita alla loro storia, i personaggi pretendono e ottengono di essere loro stessi a recitare o meglio a vivere. Sulla scena i sei personaggi così mettono in scena la loro storia.  Scopriamo che un uomo (padre) ha sposato una donna (madre) generando un figlio. Col tempo, però, scema l’amore tra i due sposi. Innamoratasi del segretario del marito, la madre si allontana dalla famiglia per costituire un’unione col nuovo amante. Da questa nasceranno tre figli (la figliastra, il giovinetto, la bambina). Dopo alcuni anni muore il segretario e la donna si trova sola con l’onere del sostegno dei figli. La madre ritorna al paese del primo marito senza dirgli nulla. La figlia maggiore (figliastra) inizia a lavorare nell’atelier di Madama Pace su suggerimento della madre. Lì ben presto per arrotondare si trova a fare la prostituta. Un giorno, però, si presenta come cliente il primo marito della madre. L’incesto è impedito solo all’ultimo momento. A questo punto, forse preso dal rimorso o dal desiderio di risarcire in qualche modo la famiglia, il padre accoglie in casa la moglie e i tre figli non legittimi. Si crea, però, nella casa un clima surreale, di forte disagio. La convivenza è, infatti, un motivo di ricordo costante dei due drammi familiari. La figliastra, il fanciullino e la bambina hanno perso il padre (segretario), ma non riescono a vedere nella nuova figura maschile un personaggio paterno. La tragedia è alle porte. Un giorno il fanciullino trova la sorellina annegata in una vasca, si spara un colpo di rivoltella e muore. Il pubblico pensa che sia solo una finzione teatrale, ma non è così. La tragedia si è compiuta davvero!
Nell’opera compaiono alcuni segnali interni che permettono di comprendere chi sia l’autore che ricercano i personaggi. La storia raccontata è, infatti, quella di un padre assente e di personaggi che non riescono a vivere, perché sono stati abbandonati dal loro «autore». Pirandello mette a tema una delle perdite più drammatiche dell’epoca contemporanea. L’anatema che grava sull’uomo contemporaneo è pesante. L’umanità senza padre (tradizione, radici, origine, Dio) perde la sua identità e smarrisce la strada. Rischia, così, l’autodistruzione. Senza padre la bambina e il bimbo si suicidano. La gioventù odierna (non tutta, fortunatamente!) cerca spesso il sonno e la distrazione, nel peggiore dei casi l’annientamento e l’autodistruzione nella forma di suicidi palesi o celati (droghe, alcool, corse spericolate, …). Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovanissimi. La prima causa di mortalità è rappresentata dagli incidenti stradali che nascono spesso da una volontà di rischio, di trasgressione, di annichilimento. L’incidente stradale è spesso un suicidio travestito. Senza padre, oggi, i giovani perdono l’energia vitale, appaiono abulici, sempre più inetti e incapaci ad affrontare la sfida della realtà.

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Il Natale è una verità

 Il Natale è una verità
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"Il Natale è una verità:
la verità di Dio che sorprendentemente ci ama
ed è venuto a farsi uno di noi.

Dio ormai non ci lascia più;
non siamo più soli:
i compagni, gli amici, i parenti
ci possono abbandonare.
Ma il Dio che ha tanto amato il mondo
da dare il suo unico Figlio,
unito personalmente per sempre alla nostra natura
di creature fragili e dolenti,
non ci abbandonerà mai alle nostre tristezze,
alla nostra inquietudine,
al nostro peccato.

Non è una fiaba, è una notizia,
cioè l'informazione su un fatto avvenuto;
non è un bel sogno,
è una realtà ancora più bella
di ciò che desidereremmo sognare
.
Nessun uomo ormai può sfuggire al suo Creatore,
che lo insegue,
lo vuol raggiungere e legare a sè.
Non possiamo sfuggirgli,
perché il suo amore corre più veloce di noi."


(Giacomo Biffi, teologo e cardinale emerito

Santo e musicista

Santo e musicista

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Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo”: inizia così la più celebre canzone popolare di Natale, e può venir voglia di conoscere chi sia l’autore e quale sia stata la sua vita. Alfonso Maria de Liguori, questo il nome di colui che la ideò, nasce a Napoli nel 1696, da famiglia nobile e ricca. Dati i natali, la sua vita sembrerebbe già scritta: lo aspettano onori, ricchezze, potere. Suo padre nutre grandi ambizioni per il figlio, e lui ha doti non ordinarie. Studia musica, ama dipingere, si iscrive, a 12 anni, presso l’Università di Napoli, per divenire avvocato.
L’età minima, per accedere al titolo, sono i 20 anni: Alfonso viene rivestito di una toga più grande di lui, già a 16. Se l’aspirante è eccezionale, si può fare eccezione. Divenuto avvocato, Alfonso si impone una moralità ferrea, in un mestiere difficile. Nello stesso tempo frequenta varie confraternite, che lo portano per esempio a visitare i malati, i sifilitici, i derelitti del grande ospedale di Napoli, gli Incurabili. L’ ingresso “nella confraternita della Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana, per anni, l’uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: ‘Quello che fate al più piccolo dei miei lo fate a me’” (T.R.Mermet). Alfonso fa parte anche della Confraternita di santa Maria della Misericordia, i cui membri sono dediti al seppellimento degli indigenti, ai preti pellegrini o stranieri, e a quelli detenuti per indegnità nelle carceri dell’Arcivescovado. Alfonso per dieci anni, dal 1714 al 1726, gira per Napoli, una volta la settimana, questuando per tutti questi. E’ nel 1723, quando la carriera sembra inarrestabile, che proprio mentre si piega su un malato degli Incurabili, egli sente come una voce che lo chiama: “Lascia il mondo e datti a me”. Nonostante la disperazione del padre, Alfonso segue l’ispirazione e si avvia agli studi per il sacerdozio, che sarà speso negli studi, negli scritti di morale (tra cui la Theologia moralis, La pratica del Confessore e Apparecchio alla morte), nelle missioni al popolo, nel confessionale, nelle celle dei prigionieri, tra i lazzaroni, le prostitute, i poco di buono e i peccatori di ogni genere…
Qui, tra questa umanità dolorante, l’uomo di dottrina e di carità, acquista quella saggezza, nel trattare non solo con i malati nel corpo, ma anche con quelli nello spirito, che gli varrà il titolo, concesso da Pio XII nel 1950, di “celeste patrono dei moralisti e dei confessori”. Saggezza che consiste in quel santo equilibrio con cui il santo sa affrontare il peccato: condannandolo, certamente, ma piegandosi anche con benignità ed amore sui peccatori. Alfonso è un avversario del rigorismo che trasforma la vita morale in terrorismo spirituale: confessa, esige e perdona, impone penitenze che non siano eccessive e da buon ammiratore di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paoli e di san Francesco di Sales (quello che invitava a conquistare le anime con il miele piuttosto che con il fiele), impara ad evangelizzare gli uomini con la semplicità (voleva farsi intendere anche dalle “menti di legno”), le devozioni popolari, la meditazione. Tenendosi lontano dallo zelo amaro e dall’algida moralità giansenista. Alfonso invita i confratelli predicatori a non dimenticare di inculcare il “timor di Dio”, ma evitando gli eccessi, le “maledizioni”, perché le conversioni vere nascono solo quando “entra nel cuore il santo amore di Dio”.
Napoli è la città giusta per lui: così piena di contraddizioni, di cultura e di miseria, di fede e di superstizione, di processioni e di bestemmie e sacrilegi… Un impasto in cui l’umanità dà il meglio e il peggio di sé, e in cui non si può raccogliere solo ciò che brilla e riluce, a prima vista.
Napoli è anche la città della musica che Alfonso ama sin da ragazzo (abbandonerà il suo clavicembalo solo una volta divenuto vescovo) e che sarà sempre, per lui, un modo per pregare ed istruire il popolo. Napoli è infatti la città in cui i discepoli di san Filippo Neri, inventore dell’Oratorio, frequentati da Alfonso già dal 1706, propongono di continuo concerti religiosi e ‘ricreativi’; è la città in cui gli orfani “scugnizzi” sono internati nei “Conservatori”, luoghi in cui, come dice la parola, devono essere custoditi e magari educati anche attraverso la musica. “A Napoli, scrive il già citato Mermet, la musica era per il popolo una seconda lingua, così questi Conservatori divennero ‘gabbie di usignoli’ e nel corso del XVII secolo si evolveranno progressivamente in scuole musicali”.
Da sant’Alfonso, “il più napoletano dei santi”, avvocato, moralista, confessore, amico dei poveri, è nato dunque quel canto di cui si diceva all’inizio; come pure quell’altro, bellissimo, in cui i Cieli fermano la loro armonia, perché la Madonna canti la sua ninna nanna; e pure quell’altro, così dolce, in dialetto napoletano: “Quanno nascette Ninno…. Il Foglio, 27 dicembre


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Te Deum, Aldo Trento:

 Per la Tua Misericordia che supera le calunnie dei nemici
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Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità./ Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro./ Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi./ (…) Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza./ Aspergimi con rami d’issòpo e sarò puro; lavami e sarò più bianco della neve.
Cari amici, in questo fine anno desidero esclusivamente parlare della Misericordia di Dio, del suo più bel dono. Per questo metto come premessa alle mie parole il salmo 50. È il cantico alla carità, alla gratuità di Dio verso ognuno di noi. L’autore di questo grido lo conosciamo tutti, come conosciamo il peccato col quale macchiò la sua vita. Il re David un giorno perse la testa a causa di una bella donna e arrivò fino a favorire la morte del marito per impadronirsi di lei. Tuttavia, una volta realizzato il suo progetto dovette fare i conti con Natan, il profeta, che gli rinfacciò la sua grave responsabilità e la punizione di Dio. David riconobbe il suo peccato e il salmo 50 è il frutto di questa coscienza. Guardando la mia vita, presto avrò 66 anni, rimango sempre più commosso e colmo di pace per l’infinita pazienza con la quale il Signore mi porta per mano in ogni momento. Non mi ha mai abbandonato, neanche quando ho fatto di tutto per allontanarmi dalla Sua Presenza, seguendo ideologie o falsi infiniti. Quante volte ho tentato di fuggire da Lui ma me lo sono sempre trovato davanti! L’uomo nasce peccatore perché figlio di Adamo ed Eva. Gesù non è venuto al mondo per fare una passeggiata, ma per salvarci dal peccato, per restituirci la grazia persa. Cristo è la risposta di Dio al peccato dell’uomo.
Senza la “grazia” del peccato non avremmo potuto nemmeno pronunciare il dolce nome di Gesù. A volte dico a me stesso: sì, il paradiso terrestre sarà stato qualcosa di infinitamente meraviglioso, ma quanto più bello, benché riempia di dolore e di fatica, è poter dire: “Tu, o Cristo mio”! Cosa c’è di più grande, di più commovente del fatto del Figlio di Dio fatto carne? Lo abbiamo visto il giorno di Natale nel presepe, lo vediamo tutti i giorni nei sacramenti e in particolare nell’Eucaristia e nella Confessione. Lo vedo nella mia vita, lo vedo nei miei figli che soffrono. San Paolo afferma: «Dove abbonda il peccato sovrabbonda la grazia». La grazia per la quale l’uomo afferrato da Cristo è cosciente e sperimenta la bellezza di quello che afferma il cantico di Isaia: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome». Che gioia riconoscere che io sto da sempre nel pensiero di Dio e che, pur conoscendomi bene, conoscendo tutto quello che io avrei combinato, mi ha scelto per essere ciò che sono. Mentre oggi tutti ricorrono allo specialista per decidere se sono o non sono adatti per il regno dei cieli, Dio mi ha voluto, mi ha scelto per essere quello che gli specialisti non avrebbero ritenuto idoneo per me. Spesso dico che se dovessi entrare oggi in seminario non mi accetterebbero perché sarei un caso patologico. Invece la modalità di Dio nella sua relazione con l’uomo non ha niente a che vedere con i criteri del mondo moderno.
O Gesù! Come vorrei che fosse la Tua misericordia a guidarci tutti. Durante questo anno ho sofferto sulla mia carne e sulla carne di un amico sacerdote un po’ di quello che Tu hai sofferto davanti a Pilato e a coloro che ti accusavano. Non c’è stato giorno senza sentire il peso delle calunnie, della diffamazione. E la tentazione della ribellione è stata grande. Tuttavia, guardandoti, sostenuti da alcuni amici, abbiamo scelto il silenzio, obbedendo alle circostanze così come si presentavano. Tutte le volte che vado alla Clinica Ti vedo, Gesù, in ogni viso, e questa certezza mi dà l’energia per andare avanti, specialmente in questo momento in cui il mio amico non sta più fisicamente condividendo il cammino. Quando mi inginocchio e do un bacio a un malato di Aids, la cui vita è stata disordinata, non mi fermo davanti al fatto che sia un travestito o che l’omosessuale abbia al suo fianco il proprio compagno, bensì vedo in ognuno il Tuo viso, o Gesù! Molti si scandalizzano quando dico queste cose, tuttavia, come Tu ci hai detto nel capitolo 25 di Matteo, questa è la verità. Come è verità che anche chi ha violato uno dei miei figli ed è in carcere è il Tuo viso, o Gesù! Questa è l’unica certezza che mi permette di vivere con letizia la mia vita quotidiana, una vita completamente dedita a chi è niente o è materiale inutile per il mondo.
O Gesù, alla fine di quest’anno ti chiedo perdono per i miei peccati. Chiederti perdono significa abbracciare tutte le persone che hanno sofferto ingiustizie, hanno conosciuto il dramma della prigione. Che bella la consolazione che deriva dalla certezza che tutti possono condannarmi e giustamente (esistono il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio), ma tuttavia Dio non si dimentica mai dei suoi figli. Ai miei pazienti terminali che non parlano o parlano solo guaraní, chiedo se sono pentiti dei loro peccati e loro alzano il pollice a conferma e allora do loro l’assoluzione…
In fondo basta così poco per essere abbracciati dalla infinita Misericordia di Dio. Auguro a ognuno di voi di sperimentare la bellezza di questa Misericordia, confessandosi ogni settimana, perché il sacramento della penitenza è l’unico che può essere ricevuto in ogni momento. Se Dio nella mia vita ha fatto quello che ha fatto, è stato grazie al mio sì al sacramento della penitenza. La compagnia stessa, quella compagnia che ci rimanda al Destino, è impossibile senza vivere intensamente questo sacramento. «In te, Domine, speravi; non confundar in aeternum».

il figlio non può essere “aspettato”, ma deve essere “voluto”.

 il figlio non può essere “aspettato”, 
ma deve essere “voluto”.
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 È convinzione di molti ormai che il figlio non può essere semplicemente “aspettato”, ma deve essere “voluto”. Certamente dietro a questo cambiamento di prospettiva ci può essere quell’attitudine che anche la Chiesa raccomanda quando parla di procreazione responsabile. Ma normalmente ormai non è di questo che si tratta. E il rapporto del genitore col figlio “voluto” è profondamente diverso dal rapporto col figlio “venuto” [desumo questo vocabolario assai felice da A. Polito, Contro i papà, Rizzoli, Milano 2012].
La diversità consiste nel fatto che il figlio “voluto” rischia di essere considerato non come qualcuno, ma come qualcosa di cui ormai ho bisogno per il mio benessere psicologico. Il passaggio poi alla visione coerente del figlio come “proprietà” è, in questa logica, un rischio assai reale. Esattamente il contrario di quanto ci dice oggi la parola di Dio.
La conseguenza più grave di questo profondo cambiamento culturale nel rapporto genitori-figlio è che la coppia si attribuisce l’autorità di dare un giudizio sul diritto o non all’esistenza del figlio concepito, ma non voluto. Si è così legittimata anche la soppressione del medesimo, sulla base dell’ideologia “a favore della scelta [pro-choice].
Ma nello stesso tempo – e si tratta solo di una contraddizione apparente con ciò che ho appena detto – se il rapporto giusto è solo col figlio “voluto”; se egli diventa qualcosa di necessario per la propria felicità, viene logicamente legittimata ogni tecnica che possa produrre il figlio voluto. E il prodotto è a disposizione del produttore.

Carlo Caffarra nell’omelia della Messa celebrata in occasione della Festa della Sacra Famiglia a Bologna. 2012

giovedì 27 dicembre 2012

La lezione di Rublëv: senza l'eterno non c'è la vita

TARKOVSKIJ/
 La lezione di Rublëv: senza l'eterno non c'è la vita
                                                                                    ***
Francesco Baccanelli
sabato 15 dicembre 2012
«Io sono sostenitore di un’arte che porti in sé l’aspirazione all’ideale, che esprima lo slancio verso di esso. Io sono per un’arte che dia all’uomo Speranza e Fede. E quanto più disperato è il mondo di cui parla l’artista, tanto più, forse, si deve avvertire l’ideale che viene ad esso contrapposto, altrimenti sarebbe semplicemente impossibile vivere». Con queste parole il famoso regista cinematografico Andrej Tarkovskij (1932-1986), nel volume Scolpire
il tempo (1986), sintetizza il suo punto di vista sulle finalità dell’arte e invita gli artisti a mantenere un costante
confronto con la dimensione dello spirito, con l’ineffabile, con le domande forti dell’esistenza umana.
Tarkovskij dimostra sempre grande attenzione per le tematiche legate al ruolo dell’arte. Se i suoi scritti ricordano
questo interesse un po’ ovunque, a livello cinematografico è soprattutto Andrej Rublëv (1966) ad affrontare
l’argomento. Il film, tratto da un romanzo scritto dallo stesso regista con Andrej Koncalovskij nel 1963 (ma
pubblicato soltanto vent’anni dopo), ricostruisce alcuni episodi della vita del celebre monaco-pittore vissuto a
cavallo tra il 1300 e il 1400 e canonizzato dalla Chiesa ortodossa russa nel 1988. E, nel raccontare la vicenda
artistica del protagonista, ci svela il grande amore di Tarkovskij per la pittura, un amore che trova conferma anche
nei tanti dipinti ospitati nelle altre pellicole (si pensi, giusto per fare qualche esempio, al florilegio leonardesco de
Lo specchio oppure alla Madonna del parto di Piero della Francesca in Nostalghia) e in alcune pagine di Scolpire
il tempo, il libro al quale il regista ha affidato perfino una sua personalissima lettura critica dell’opera di Vittore
Carpaccio.
Nel film di Tarkovskij il primo Rublëv ha le virtù e le pecche di ogni giovane di talento. È già esperto nel suo
lavoro, ma nei confronti della vita è ancora un novellino. Educato al valore della fratellanza, disapprova le
filippiche che Teofane il Greco, il più illustre (e anziano) dei suoi colleghi, scaglia contro il genere umano. La sua
fiducia nella gente però, per quanto solida, non si è ancora misurata con nessuna insidia e così, al primo intoppo,
lo sconforto prende in fretta il sopravvento.
L’infelice circostanza si presenta, per la precisione, quando il fratello del principe regnante, deciso a usurpare il
trono, si allea con i tartari e invade la città di Vladimir. Nella cattedrale Rublëv assiste a un assalto che cambierà
per sempre la sua vita. Violenza, sangue, distruzione. È spettatore di una tragedia atroce e, per salvare una
giovane sordomuta da uno stupro, si arma di accetta e colpisce a morte l’aggressore. L’efferatezza dei ribelli non
risparmia né la sacralità del luogo né le opere d’arte. E di fronte all’iconostasi data alle fiamme, Rublëv, oppresso
dagli eventi, comincia a pensare che l’arte sia inutile. Non ha più senso per lui dipingere: se gli uomini non hanno
a cuore la pittura, tanto vale smettere.
Mentre fissa i cadaveri e le macerie, ha una visione: gli appare Teofane il Greco. Dall’amico, morto da alcuni anni,
riceve parole d’incoraggiamento. Nel romanzo, con qualche lieve differenza rispetto alla successiva versione
cinematografica, Tarkovskij scrive: «Comincia a nevicare. Radi e lenti fiocchi di neve cadono incerti sul
pavimento della cattedrale. Teofane all’improvviso si ferma davanti a un muro annerito dal fumo su cui spicca un
frammento di affresco: un sudario, un pezzo di spalla, un braccio... Inclinando la testa come fanno i vecchi,
Teofane guarda fisso l’affresco e poi dice: “Che bellezza...”. Schioccando la lingua si gira di nuovo verso Andrej che
sta in piedi nel centro della cattedrale, con le braccia tese, e afferra con le mani i primi fiocchi. Teofane sorride.
“Ascoltami, non smettere, non priveresti di una gioia te stesso, ma gli altri uomini” gli dice sottovoce».
Lo sconforto però è davvero forte. Angosciato dall’idea di aver ucciso un uomo, scottato dall’empia indifferenza
degli invasori nei confronti della religione e dell’arte, Rublëv non riesce a seguire il consiglio di Teofane. Le
esperienze vissute nella cattedrale di Vladimir sono ferite troppo profonde per continuare a dipingere. E così,
sotto il peso dei propri peccati, decide di fare voto di silenzio e si ritira nel monastero Andronikov a svolgere i
lavori più umili.
Gli anni passano e ogni tentativo di riconciliare Rublëv con l’arte sembra vano. Qualcosa, tuttavia, comincia a
cambiare quando il monaco, quasi per caso, si trova ad assistere alla fabbricazione di una campana. I lavori sono
diretti dal giovanissimo Boriska, che sostiene di aver appreso dal padre, morto di peste, i segreti per una fusione
perfetta. Sa che, in caso di fallimento, per lui ci sarà la condanna a morte, ma non si lascia scoraggiare. La sua
risolutezza colpisce Rublëv, che segue fase per fase il procedere delle operazioni e non si perde il giorno in cui
tutta la gente del luogo si riunisce, con curiosità e speranza, per ascoltare il primo rintocco: la campana suona in
modo perfetto, la folla abbonda di gioia e la vita di Boriska viene risparmiata. A cerimonia finita, però, il giovane
fonditore, tra le lacrime, gli rivela di non aver mai conosciuto il segreto per una fusione perfetta. Il monaco allora prova ancora più ammirazione per il ragazzo e ha per lui parole di conforto (al voto di silenzio, del resto, è già venuto meno nel momento in cui ha chiesto a Boriska il motivo del pianto): «Ce ne andremo via insieme, io e te.
Tu potrai fondere le campane e io dipingerò icone. Andremo alla Trinità, ci andremo insieme. Pensa che festa per gli uomini: hai dato loro una gioia così grande e piangi. Adesso basta, no... basta, non piangere. Non devi, non devi più piangere, non è giusto». E così, piacevolmente stupito dall’impresa di Boriska e incoraggiato dall’affetto che la folla
ha espresso nei confronti della campana, Rublëv è ormai pronto per riprendere la sua attività di pittore.

Il film ci invita (anzi ci costringe) a riflettere sul rapporto che lega gli artisti alla loro vocazione. Per Tarkovskij
l’artista ha sempre il dovere di coltivare con impegno il proprio talento e di metterlo al servizio di tutti. Non deve arrendersi quando incontra indifferenza e rifiuto, perché il suo fine non è compiacere la gente, ma inseguire la Verità. E nei momenti di angoscia, non deve lasciarsi abbattere, ma provare a far tesoro delle proprie inquietudini.

Al Meeting di Rimini del 1983, invitato a presentare il romanzo su Rublëv, il regista, riferendosi anche a
Nostalghia, dichiara: «La sofferenza in quanto tale non può mai essere vana, deve portare dei frutti. E la sofferenza morale deve portare frutti positivi [...] La cosa più terribile è appunto l’indifferenza, la mancanza totale di turbamento, di sofferenza verso il mondo circostante». Infatti della celebre Trinità apprezza molto il sentimento di speranza che Rublëv ha sviluppato come risposta alle sofferenze vissute dal popolo russo nel primo ’400.
Con Andrej Rublëv Tarkovskij, da sempre avverso al materialismo sovietico, invita gli artisti (pittori, registi
cinematografici, scrittori...) a tenere viva la loro sete d’infinito anche, e soprattutto, nei periodi in cui la dimensione dello spirito viene trascurata o, addirittura, messa al bando. In Scolpire il tempo, oltre ad affermare che «l’arte priva di spiritualità reca in se stessa la propria tragedia», scrive: «Quando un uomo che non sa nuotare viene gettato in acqua, non lui, ma il suo corpo comincia a compiere dei movimenti istintivi cercando di salvarsi.
Anche l’arte è come un corpo umano gettato nell’acqua: essa è, per così dire, l’istinto dell’umanità di non affogarebin senso spirituale. Nell’artista si manifesta l’istinto spirituale dell’umanità, e nella sua opera l’aspirazione dell’uomo verso l’eterno, il trascendente, il divino, sovente a dispetto della natura peccaminosa del poeta stesso».

Se poi l’artista è in grado di penetrare a fondo la sofferenza che trova dentro e intorno a sé, ecco che il suo
richiamo alla spiritualità si fa ancora più concreto e prezioso. Il Rublëv di Tarkovskij diventa un vero artista solo
dopo essersi scontrato con dolori e delusioni. Durante il periodo di crisi matura una maggiore consapevolezza nei
confronti della sua attività di pittore. Capisce quanto può essere importante l’arte per le persone. Comprende
meglio se stesso, le proprie attitudini, le esigenze spirituali degli uomini. Anche in quest’ottica, quindi, il film si
rivela davvero utile sia per gli artisti che per la gente comune. Tarkovskij, infatti, ci insegna che i momenti di
smarrimento non devono servirci come pretesto per soffocare i nostri talenti, ma come mezzo per rinvigorirli e,
soprattutto, per capire meglio il nostro ruolo nel mondo.

don Didimo

Don Didimo: salvarne dieci per salvarli tutti  
***
di Giovanni Fighera27-12-2012
Comune dei Giovani
Nasceva cento anni fa don Didimo Mantiero, un prete che ha lasciato un segno indelebile nella storia di Bassano del Grappa e che ha dedicato tutta la sua vita all'educazione dei giovani. In effetti, «la sollecitudine per la salvezza dei giovani abbandonati a una triste vita di miseria materiale e di vuoto spirituale è il punto di partenza della pastorale di don Didimo» (Ludmila Grygiel).

C'è un evento all'inizio del sacerdozio di don Didimo che lo conferma nel suo compito e nella sua missione. Il prete si è gravemente ammalato e un'anziana signora offre la sua vita per la guarigione del prete. La donna glielo rivelerà in punto di morte dicendogli anche: «Il Signore mi ha detto di dirLe che l'ha destinata a compiere il suo apostolato tra la gioventù. Attenda ai giovani» e ancora: «Se disporrà di altro tempo assista ammalati e poveri vecchi come me. Questo è quanto il Signore vuole da lei». Come è facile capire, l'episodio della nonnina diventa un incontro determinante per il prete di Bassano che «col passare degli anni si rende conto sempre di più che da solo non riuscirà mai a realizzare il suo grande sogno di salvare tutti i giovani della parrocchia» (Ludmila Grygiel).

Un giorno mentre prega di fronte a Gesù, proprio come don Camillo di Guareschi, ripete «a uno a uno i nomi tanto cari al suo cuore, esponendo di ognuno i desideri, chiedendo per sé e per loro grazie divine» (dal Diario). Il prete parla con Dio e tratta con Lui, proprio come Abramo nella Bibbia, quando, preoccupato per le sorti della città di Sodoma dove abita Lot con la sua famiglia, vuole salvarla dalla distruzione e cerca dieci giusti. Da qui nasce La dieci. Don Didimo chiede a Dio: «Perché, o Signore, se io Ti presenterò dieci giovani “giusti” per la loro santità, Tu non perdonerai ai miei figli meno buoni, Tu non benedirai tutti?» (dal Diario). Così il prete comincia a cercarli insistendo «sul fatto che non era lui, ma Dio stesso a invitare i giovani per essere accompagnato».

In pochi anni nasce La Dieci, il cui primo statuto è del 1944: preghiera e sacrificio offerti per quei giovani che erano lontani da Dio. Un'offerta che arriva fino all'offerta di tutto, al dono totale della vita per la salvezza altrui. Pochi sanno che alcuni dei primi membri della Dieci muoiono proprio nei primi anni dalla loro adesione: don Mauro Ghibaudi (19 settembre 1943), Aldo dall'Alba (19 aprile 1944), Lino Vitella (25 maggio 1944), Stelvio Vitella (12 agosto 1944), Corrado Giovanni (18 luglio 1944), Guido Revoloni (27 maggio 1945). Negli anni successivi altri offrono totalmente la loro vita. «Don Didimo, pur fra tutti i dubbi e nonostante la tristezza, si rallegra del frutto della loro morte. Così sperimenta un altro paradosso della storia della salvezza […]. Paragona la morte dei suoi ragazzi alla morte dei primi martiri. Ripete e sperimenta in prima persona il detto di Tertulliano, che il sangue dei martiri è seme di cristiani» (Ludmila Grygiel).

Negli anni successivi si vedranno i grandi frutti della preghiera e dell'offerta. Nel 1962 si concretizza il progetto pastorale del Comune dei Giovani, «un'associazione di giovani di età dai 15 ai 30 anni che propone l'educazione integrale della persona: cristiana e umana, sociale e civile. Il metodo educativo del Comune dei Giovani favorisce la responsabilità e la partecipazione attiva mediante l'animazione e l'organizzazione di attività formative, ricreative e di gestione del tempo libero. Il fine primario dell'associazione è l'incontro personale e comunitario, graduale e gioioso con Gesù Cristo nella Chiesa». Così recita il primo articolo dello statuto del Comune dei Giovani.

Nella comunione, nella condivisione, nell'amicizia autentica possono avvenire la crescita e la formazione di ciascuno nella valorizzazione delle differenze e dei talenti individuali, messe a disposizione di tutti e dell'Ideale. La proposta educativa di don Didimo è incentrata sui cardini della formazione, della preghiera e della responsabilità. Ogni particolare dell'esistenza, dalla vita quotidiana alla cultura, dalla politica allo sport, dalla scuola e dal lavoro al tempo libero, viene così vissuto alla luce dell'incontro fatto con Cristo e dell'esperienza vissuta.

In seguito, nell'ottobre del 1981, dagli ex cittadini del Comune dei Giovani nascerà la Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa per «promuovere la crescita integrale della persona umana e […] presentare una visione organica dell'uomo, illuminata e vivificata dai valori del vangelo, con l'impegno a educare alla vera vita che è Dio in noi, rivelato da Gesù Cristo, che è la verità liberatrice». La scuola discute i temi fondamentale della vita e della cultura contemporanea alla luce del magistero della chiesa.

Dal 1983 la Scuola di Cultura Cattolica conferisce il Premio internazionale della Scuola di Cultura cattolica che ha come obiettivo quello di «indicare al pubblico delle personalità che, nel loro specifico ambito di competenza, abbiano saputo "fare della fede cultura", esponenti di tutti i campi del sapere: dalla filosofia alla teologia, dal giornalismo al cinema, dalla musica alla letteratura, dalla scultura alla scienza» (Andrea Mariotto, Presidente della Scuola di Cultura cattolica). Quest'anno è stato insignito il fisico Ugo Amaldi, «scienziato di fama internazionale, […] uomo di profonda fede» il cui amore «per la scienza, per la verità e per l'uomo appaiono sempre saldamente ancorati alla fiducia nello Spirito Santo» (dalle motivazioni dell'assegnazione al Premio ad Amaldi).

Tra gli illustri personaggi che hanno conseguito il Premio annoveriamo i filosofi Augusto del Noce e Cornelio Fabbro, il pontefice Joseph Ratzinger (allora Cardinale), i cardinali Giacomo Biffi, Carlo Caffarra, Camillo Ruini, Angelo Scola, il fondatore di Comunione e Liberazione don Luigi Giussani, i giornalisti e scrittori Vittorio Messori e Cesare Cavalleri, il teologo René Laurentin, il romanziere Eugenio Corti, l'Ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede Mary Ann Glendon.

Il 2012 è un anno particolare per la città di Bassano del Grappa. Ricorrono il trentesimo compleanno del Premio di Cultura cattolica, i cinquant'anni dalla fondazione del Comune dei Giovani, i cent'anni dalla nascita di don Didimo Mantiero. È una realtà da conoscere e incontrare quella del Comune dei Giovani e della Scuola di Cultura cattolica di Bassano del Grappa. Quest'anno l'opportunità c'è stata offerta in più circostanze.

Ad agosto il Meeting di Rimini ha ospitato la mostra intitolata «Io voglio fare di me un uno», che ha ripercorso la storia di don Didimo Mantiero, il prete fondatore, «una figura umile e appunto grande proprio nell'umiltà […], che non ha mai cercato onore e cariche, ma voleva solo servire semplicemente Dio negli uomini e gli uomini per Dio» (Cardinale Joseph Ratzinger), un uomo in cui traspariva «una umanità che dalla familiarità col Signore traeva l'esempio di una partecipazione appassionata e fedele alla vita dei giovani che incontrava» (Don Luigi Giussani). Marina Corradi vede in lui una figura che ha un po' del santo Curato d'Ars, di don Camillo e di don Giussani.

Cristina Acquistapace

Io vivo

***

di autori vari

di Cristina Acquistapace
Sono nata nel 1972 con la Sindrome di Down; a quel tempo, non vi erano le associazioni che esistono ora: con me, c’erano solo mia madre e mio padre e intorno a noi c’era l’ignoranza umana. Questa, comunque, non ha avuto influenze realmente negative. Ho proceduto nella frequenza delle scuole dalla materna alla superiore. Grazie a mamma e papà che non mi hanno segregato in casa o inviato in un istituto ma, al contrario, mi hanno messo in contatto con la gente, in breve tempo mi sono fatta molti amici e mi sono anche innamorata, imparando cose importanti.
Ho potuto andare a trovare mia zia che è suora missionaria in Kenya.
Di fronte a una così grande povertà, mi sono sentita fortunata e felice. E’ stato così bello! Un’esperienza che non vorrei cambiare con nessun riconoscimento, ma è impossibile renderla solo attraverso le parole; voi dovete vedere con i vostri occhi, proprio come ho fatto io. La sindrome di Down, anche se ha costituito talvolta per me un peso, nel mio modo di pensare non ha mai costituito una maledizione bensì una benedizione (grazia); forse è stata una prova per vedere se, nonostante tutto, io possa vivere una vita piena, una vita come tutti gli altri.
Io sono convinta che vi sia stato anche un incentivo per me stessa, nel dimostrare che sono come chiunque altro, una specie di sfida, dopotutto. Non mi sento diversa da nessuno. Mi sono sempre considerata come gli altri in quanto, come tutti, io sogno, spero e desidero, provo dei sentimenti, gioco. In una sola parola, io vivo.
Le persone con Sindrome di Down hanno i medesimi diritti e doveri degli altri: forse non possono fare alcune cose, ma sono in grado di farne altre. Io, per esempio, non mi metto in testa di guidare l’automobile in quanto, per i miei problemi di vista, non sarei in grado di farlo ma persevero nel sostenere di essere idonea a prestare aiuto agli altri in quanto so che sono in grado di farlo.
Le persone danno prova di intelligenza nel momento in cui accettano i loro limiti e investono le loro energie e capacità in quanto sono in grado di fare. Nel mio futuro, vi sono molte aspirazioni; una di queste, è quella di prendere i voti e dedicarmi interamente alla scelta religiosa. Anzitutto, perchè sento di essere stata chiamata e in secondo luogo, perchè c’è troppa povertà nel mondo: povertà spirituale, soprattutto, e la Chiesa ha bisogno di me, delle mie preghiere e della mia dedizione incondizionata.

Cristina Acquistapace, Down, entra nell’Ordo Virginum nel 2006 a 33 anni

Taci, anima stanca di godere

Taci, anima stanca di godere

Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all'uno e all'altro vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.

Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.

Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato...
Invece camminiamo, camminiamo
io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca.
Perduto ha la voce la sirena del mondo,
e il mondo è un grande deserto.
Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.


                Camillo Sbarbaro, da Pianissimo

"La verità manifestata è amore. L'amore realizzato è bellezza"



"La verità manifestata è amore.
L'amore realizzato è bellezza".

P. A. Florenski

martedì 25 dicembre 2012

Dio non è venuto a spiegare la sofferenza.

 ***
“Dio non è venuto a spiegare la sofferenza. E’ venuto a riempirla della Sua presenza”
 (Paul Claudel)

lunedì 24 dicembre 2012

I cristeros

Rino CAMMILLERI 
                        I cristeros                            
                             ***  
                 
tratto da: Rino CAMMILLERI, I Santi militari, Piemme, Casale Monferrato 1992, p. 276s.
Tra il 1915 e il 1929 le condizioni della Chiesa in Messico furono terribili. Una minoranza liberal-massonica sostenuta dagli Stati Uniti aveva preso il potere e inaugurato una politica ferocemente anticlericale. La Costituzione del 1917 (tuttora valida) era dichiaratamente antireligiosa e diversi sacerdoti vennero uccisi in odio alla fede (la Chiesa ha dichiarato recentemente il primo Beato della persecuzione, il gesuita padre Humberto Pro). Ancora oggi in Messico è vietato l'abito ecclesiatico in pubblico e il Papa è stato accolto come "signor Woytila".
Il governo, sulla scia della rivoluzione sovietica, aveva avviato il «socialismo» nelle campagne e svenduto le poche industrie del Paese agli americani. Il cattolicesimo era fuorilegge e bande di desfanatizadores percorrevano il territorio per assicurarsi che gli ordini fossero eseguiti. Chiese profanate, ateismo insegnato obbligatoriamente a scuola, gente fucilata perché trovata con la medaglietta della Madonna di Guadalupe addosso.
Dapprima i cattolici si organizzarono in associazioni che boicottavano tutti i prodotti dello Stato, smettendo perfino di prendere il treno e di fumare. Queste misure, tuttavia, provocarono l'appoggio degli americani, lesi nei loro interessi economici, ai federali. Il presidente Plutarco Elias Calles (fondatore del Partito Rivoluzionario Istituzionale, ancora oggi al potere) rispose con una recrudescenza da persecuzioni.
Pio XI nel 1926 protestò fermamente con l'enciclica "Iniquis afflictisque" e i vescovi del Messico decisero di sospendere il culto pubblico. Ma quindici milioni di messicani si precipitarono a tenere le chiese aperte, in lunghissime code ai santuari, sfidando i governativi alla luce del sole.
Dopo una nuova ondata di fucilazioni il popolo insorse. Armati di machete, di vecchi fucili da caccia e soprattutto di armi prese al nemico, i Cristeros al canto del "Christus vincit" si batterono per quattro anni contro l'esercito regolare, che andava all'assalto spiegando un vessillo nero con teschio e tibie, urlando "Viva el demonio!", e riuscirono in breve tempo a controllare quasi tutto il Paese.
I governativi incendiavano i villaggi, violentavano le donne (specialmente quelle giovanissime delle Brigate Femminili Santa Giovanna D'Arco, che assicuravano i servizi logistici agli insorti), torturavano e impiccavano bambini, fucilavano gli ostaggi davanti ai familiari obbligati ad assistere, dopo aver tagliato loro la lingua per impedire che gridassero "Viva Cristo Rey!".
I ribelli, tutti del popolo (i ceti superiori rifiutarono perfino di contribuire finanziariamente), combattevano con le armi che riuscivano a prendere, non imponevano alcuna requisizione e liberavano tutti i prigionieri.

Nel 1929, con la mediazione degli USA, la Chiesa stipulò un modus vivendi col Messico e i Cristeros, all'ordine di Roma, si arresero. Era stata una vera epopea: banditi da strada si convertivano e si univano agli insorti, imitati da decine di migliaia di disertori dell'esercito; un generale massone passò con i Cristeros e ne divenne comandante in capo, finendo ucciso a soli trentadue anni. Cristeros era un insulto, ma il nome fu adottato con orgoglio da quegli umili campesinos che andavano a morire sotto la bandiera che recava il Sacro Cuore e la Vergine di Guadalupe.
I patti non vennero rispettati dal governo, che si diede subito a feroci rappresaglie: cadaveri di preti crocifissi e di suore violentate si vedevano un po' dovunque, tutti i combattenti arresisi furono passati per le armi e la vendetta durò ancora per anni.
Roma aveva chiesto l'amnistia e i vescovi locali avevano minacciato di scomunica chi non avesse deposto le armi. Ma l'amnistia non venne mai e perfino quelli che erano riusciti a fuggire in America furono riconsegnati ai federali e fucilati. Ancora una volta il papa protestò vanamente. Non gli rimase che ripetere la concessione ai caduti dell'indulgenza plenaria in "articulo mortis", come già aveva fatto nel 1927.

Cristeros: dalla disobbedienza alla lotta armata

Alberto LEONI                                                            25 marzo 1929
                            Cristeros:                            
       dalla disobbedienza alla lotta armata        
tratto da: Tempi, anno V, 31.03.1999, n. 11.

Il 25 marzo 1929 il regime massonico instauratosi in Messico deve affrontare la realtà della sconfitta militare in un conflitto assolutamente imprevisto. Plutarco Elias Calles e Alvaro Obregòn, gli uomini forti emersi dopo la grande guerra civile di inizio secolo hanno realizzato una simpatica alternanza: quattro anni al potere ciascuno e una dittatura ininterrotta.

Appoggiati dagli americani che intravedono la possibilità di sfruttamento delle risorse naturali messicane, i due militari hanno un nemico comune: la Chiesa cattolica, unico ostacolo contro lo sfruttamento delle classi subalterne. Il 14 giugno 1926 viene approvata la famigerata "Legge Calles" che sopprime, di fatto, la chiesa cattolica messicana con misure repressive inaudite.

La risposta dei cattolici è non violenta ma non per questo meno devastante: il 31 luglio, tutte le chiese vengono chiuse al culto e i cristiani entrano ufficialmente in clandestinità, iniziando un feroce boicottaggio economico che porta al fallimento della Banca di Tampico e della Banca Inglese, oltre alla chiusura delle Camere di Commercio. Calles, che nel frattempo ha ricevuto una prestigiosa decorazione dalle più importanti logge massoniche, è già passato da tempo alla maniera forte, massacrando decine di preti e centinaia di fedeli; ma i cattolici messicani, discendenti di aztechi e castigliani, non temono la morte e vengono addestrati dai veterani di Pancho Villa e di Sebastiano Zapata, pronti a iniziare una nuova sfida nei confronti dello Stato.

Inizia così la Cristiada, una guerra feroce, dove i governativi saccheggiano e stuprano salvo poi essere regolarmente sconfitti dai guerriglieri cattolici. Il 17 luglio 1928, un giovane pittore cattolico partecipa a una festa in onore di Obregòn e gli dona un bel ritrattino: un attimo dopo, il ragazzo scarica il revolver nella testa di Obregòn, risolvendo i problemi di alternanza al potere e decretando la fine politica di Calles, messo da parte dal più astuto e sottile Lazaro Cardenas.

Nel marzo del 1929 i Cristeros conquistano Guadalajara ma un accordo tra il governo e l'episcopato cattolico inaugura una pace di compromesso che esporrà i combattenti per la libertà a rappresaglie che dureranno decenni. Quando vengono firmati gli accordi si contano trentamila morti tra le file dei Cristeros, quarantamila tra i governativi e ben centocinquantamila tra la popolazione civile; richiesta di scuse e di perdono da parte degli eredi dei persecutori, per ora, nessuna.

Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso bambinello di gesso

 Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso bambinello di gesso 
***
 
Vicino alla Madonna curva sul bambinello, don Camillo pose la statuetta del somarello. ”Questo è il figlio di Peppone, questa è la moglie di Peppone e questo è Peppone”, disse toccando per ultimo il somarello. E questo è don Camillo!” esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo. ”Bah! Fra bestie ci si comprende sempre” concluse don Camillo. Peppone finì allora di dipingere la statua del Bambin Gesù per il Presepio. “E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino”.
G. GUARESCHI
NASCE GESU’, 
          NOSTRA CONSOLAZIONE, FORZA E FELICITA’ 
                                                       ***                                            

La storia è un’immensa macelleria, diceva il vecchio Hegel. Ed è vero. Per secoli e secoli sulla scena del mondo stavano pochi protagonisti e molte comparse.
I protagonisti erano capibanda, re, imperatori e tiranni vari: di solito grandi (o piccoli) macellai. Le comparse erano i popoli da loro assoggettati: carne da macello.
Poi, un giorno di duemila anni fa, tutto è stato silenziosamente rovesciato. Dal quando Dio si fece uomo, da quando è nato Gesù, è nato anche l’uomo come essere sacro e inviolabile in tutti i suoi diritti.
Per la prima volta nella storia è entrato l’individuo singolo. O meglio la persona (perché l’individuo è se stesso attraverso tutti i suoi rapporti affettivi e sociali).
Tutte le religioni sacralizzavano il potere. Dopo la nascita di Gesù a essere sacralizzato è il singolo essere umano, a partire dal più irrilevante e marginale.
OGGI
Il Natale di quest’anno arriva in un mare di preoccupazioni e ansie della gente comune. Tutti, demoralizzati, hanno la sensazione di non contare niente, di essere in balia di potenze enormi e incontrollate (lo spread, la Bce, l’Unione europea, le lobby di potere, le banche e via dicendo). Tutti si sentono esclusi o inascoltati e irrilevanti nella storia. E tanti sono veramente ai margini o sottoposti a dure prove.
Ebbene, Benedetto XVI da giorni cerca di parlare proprio a questo popolo di smarriti, che si sentono impotenti.
Per annunciare loro che il Natale di Gesù c’entra fortemente col loro dolore, perché Gesù ha reso ognuno di loro – padre o madre, figlio o persona che sgobba o che soffre - il vero protagonista della storia.
Da settimane il Pontefice ripete e approfondisce questo annuncio. L’8 dicembre, per l’Immacolata, in Piazza di Spagna ha sottolineato che
“quel momento decisivo per il destino dell’umanità, il momento in cui Dio si fece uomo, è avvolto da un grande silenzio. L’incontro tra il messaggero divino e la Vergine Immacolata passa del tutto inosservato: nessuno sa, nessuno ne parla.
E’ un avvenimento che, se accadesse ai nostri tempi, non lascerebbe traccia nei giornali e nelle riviste, perché è un mistero che accade nel silenzio. Ciò che è veramente grande passa spesso inosservato”.
Questo già ribalta il nostro punto di vista che normalmente classifica le cose secondo la gerarchia di importanza del potere e della mentalità dominante.
IL VERO CAMBIAMENTO
Bisogna capovolgere tutto.
Infatti il Papa ha aggiunto:
“la salvezza del mondo non è opera dell’uomo – della scienza, della tecnica, dell’ideologia – ma viene dalla Grazia. Che significa questa parola? Grazia vuol dire l’Amore nella sua purezza e bellezza, è Dio stesso così come si è rivelato nella storia salvifica narrata nella Bibbia e compiutamente in Gesù Cristo”.
E’ vero. Infatti gli antichi imperi (e anche quelli moderni, basti pensare a comunismo e nazismo), che sembravano invincibili, sono crollati e han lasciato solo rovine.
L’inerme Gesù invece ha conquistato e illuminato il mondo.
Un’altra immagine del Papa da quel discorso:
“Maria è chiamata la ‘piena di grazia’ (Lc 1,28) e con questa sua identità ci ricorda il primato di Dio nella nostra vita e nella storia del mondo, ci ricorda che la potenza d’amore di Dio è più forte del male”.
I martiri dei totalitarismi del Novecento mostrano davvero che l’apparente debolezza dell’amore, vince su qualsiasi formidabile potere.
E’ “il potere dei senza potere” – per riprendere la formula del grande dissidente cecoslovacco Havel. Oltre all’amore è anche il potere della Verità. Che vince il male del mondo e anche il nostro.
A questo proposito Benedetto XVI ha detto:
Maria ci dice che, per quanto l’uomo possa cadere in basso, non è mai troppo in basso per Dio, il quale è disceso fino agli inferi”. Infatti “il soffio mite della Grazia può disperdere le nubi più nere, può rendere la vita bella e ricca di significato anche nelle situazioni più disumane”.
Qui, spiega il Papa, diventa possibile la gioia: “la Grazia porta la vera gioia… che nulla e nessuno possono togliere”.
Il giorno dopo, all’Angelus, il Santo Padre è tornato a mostrare questo capovolgimento della storia realizzato dal “vero grande avvenimento, la nascita di Cristo, che i contemporanei non noteranno neppure”.
Ha affermato: “Per Dio i grandi della storia fanno da cornice ai piccoli!”.
IL FILOSOFO LAICO
E’ impressionante questo ribaltamento, che si fa evidentissimo nella storia di Maria e poi nella storia cristiana.
Infine il Papa nel suo recente articolo per il “Financial Times”, incentrato tutto sul rapporto fra Cesare e Gesù, fra il potere del mondo e il re dell’universo, è tornato a spiegare ancora più profondamente:
la nascita del bambino Gesù segna la fine dell’antico ordine, il mondo pagano, nel quale le rivendicazioni di Cesare apparivano impossibili da sfidare. Adesso vi è un nuovo re, il quale non confida nella forza delle armi, ma nella potenza dell’amore. Egli” scrive il Pontefice “porta speranza a tutti coloro che, come lui stesso, vivono ai margini della società. Porta speranza a quanti sono vulnerabili nelle mutevoli fortune di un mondo precario. Dalla mangiatoia, Cristo ci chiama a vivere da cittadini del suo regno celeste, un regno che ogni persona di buona volontà può aiutare a costruire qui sulla terra”.
Infatti così è stato. Dopo la nascita di Gesù la macelleria del mondo è stata illuminata di umanità, di amore e di divina eternità.
Puro filosofo quale sono e, per sincerità verso me stesso, voglio restare”, scrisse Benedetto Croce “io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto dall’umanità sia stato il cristianesimo”.
Pur da laico, Croce nel memorabile saggio del 1942 “Perché non possiamo non dirci cristiani”, scrisse:
Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo”.
Il filosofo aggiunse: “Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate”.
Quelle antiche “e le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni (…) non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l’impulso originario fu e perdura il suo”.

Ogni giorno questo ciclone di amore torna a investire il mondo. Ecco perché ieri Benedetto XVI ha compiuto il grande affresco dei suoi discorsi prenatalizi esortandoci così:
Imitiamo Maria nel tempo di Natale, facendo visita a quanti vivono un disagio, in particolare gli ammalati, i carcerati, gli anziani e i bambini. E imitiamo anche Elisabetta che accoglie l'ospite come Dio stesso: senza desiderarlo non conosceremo mai il Signore, senza attenderlo non lo incontreremo, senza cercarlo non lo troveremo”.
Don Giussani è arrivato a formulare questo paradossale rovesciamento illustrato dal Papa con un’immagine folgorante: “il protagonista della storia è il mendicante. L’uomo mendicante Cristo e Cristo mendicante del cuore dell’uomo”.
Né la grande finanza, né gli stati, né le ideologie – che passano come carri armati sulle singole persone – sono i protagonisti della storia. Ma colui che mendica Cristo, il suo amore, la sua verità. E il Figlio di Dio che è l’Amore e la Verità incarnate.
Il Natale è dunque l’esaltazione della persona, del piccolo e spesso oppresso e disprezzato essere umano.


Antonio Socci
Da “Libero”, 24 dicembre 2012
www.antoniosocci.com