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su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


mercoledì 29 febbraio 2012

Dio è Amore


Dio è Amore.
 ***


L'amore incoraggia, l'odio deprime;
l'amore sorride, l'odio ringhia;
l'amore attrae, l'odio rifiuta;
l'amore confida, l'odio sospetta;
l'amore ammorbidisce, l'odio infiamma;
l'amore canta, l'odio teme;
l'amore calma, l'odio agita;
l'amore è silenzioso, l'odio parla,parla,parla;
l'amore edifica, l'odio distrugge;
l'amore spera, l'odio ha disperazione;
l'amore consola, l'odio esaspera;
l'amore tranquillizza, l'odio irrita;
l'amore chiarisce, l'odio confonde;
l'amore perdona, l'odio no;
l'amore dà la vita, l'odio uccide;
l'amore è dolce, l'odio è amaro;
l'amore è tranquillo, l'odio è esplosivo;
l'amore è vero; l'odio è bugiardo;
l'amore è luce, l'odio è tenebre;
l'amore è umile, l'odio è superbo;
l'amore è semplice, l'odio è presuntuoso;
l'amore è delicato, l'odio è rude;
l'amore è spirituale, l'odio è carnale;
l'amore è sublime, l'odio è triste.
Dio è Amore.


martedì 28 febbraio 2012

lunedì 27 febbraio 2012

Il creato rimanda al Creatore



Il creato rimanda al Creatore

 

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«Il fatto miracoloso che il linguaggio della matematica sia appropriato per la formulazione delle leggi della
 fisica è un regalo meraviglioso che noi non 
comprendiamo né meritiamo»
Eugene Wigner Nobel

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«La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la 
corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell'universo [...] suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. [...] Diventa inevitabile chiedersi se non debba esservi un'unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell'una e dell'altra»
Benedetto XVI

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Esplorare l'esplorabile e venerare silenziosamente l'inesplorabile
Max Plank. 
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Colui che ti cammina insieme […] ti dice con certezza ciò per cui sei fatto. E sai cosa ti dice? «Sono
io, ma non come mi vedi qui, io che in questo momento sto dando la vita all’universo
», e perciò con il suo aiuto lo raggiungeremo, sorprendendolo mentre sta facendo nascere
tutti i fiori del mondo e sta facendo innalzare tutte le montagne del mondo e sta distendendo i laghi, tutti i laghi del mondo e sta distribuendo tutte le stelle, tutte le stelle del cielo
don Giussani

***

 

 «Per noi Dio non è un'ipotesi distante

non è uno sconosciuto che si è ritirato 

dopo il Big Bang. Dio si è mostrato in Gesù Cristo. Nel

 volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio, nelle sue 

parole sentiamo Dio stesso parlare con noi».

Benedetto XVI




tre distinzioni che permettono a un uomo di essere un uomo


Le tre distinzioni che permettono a un uomo di essere un uomo
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Se io vedo un film dell'orrore provo orrore; i ragazzi invece si divertono. Hanno una comunanza e una familiarità con l'orrido così gravi da non far loro più sentire orrore per ciò che è orrido. Sono venuti meno i parametri di giudizio, in riferimento al brutto e al bello, al bene e al male, al vero e al falso. Le tre distinzioni che permettono a un uomo di essere un uomo -bene e male, vero e falso, brutto e bello -la cultura che respirano i nostri figli tende a farle saltare, nei nostri figli non sono affatto scontate.

Nembrini Franco da : Dante poeta del desiderio ed. Itaca

domenica 26 febbraio 2012

Il più grande spettacolo dopo il Big Bang


Il più grande spettacolo dopo il Big Bang

Marco Bersanelli
CULTURA - SCIENZA E FEDE
Non solo i “cieli”, ma tutto parla del Creatore, il bagliore primordiale come le montagne. L’uomo? Un nulla. Che però è «coronato di gloria e di onore». Un astrofisico che per mestiere va in cerca dell’origine dell’universo interviene al Pontificio Consiglio per i Laici sul tema: «Chi è Dio?». Raccontando di sé, del suo lavoro e di quei grani di polvere sul tavolo...

La domanda “Chi è Dio per te?” chiama in causa tutta la vita: la famiglia, le amicizie, i desideri, gli interessi, il lavoro. E, come mi è stato chiesto, è proprio a partire dall’esperienza del mio lavoro quotidiano che proverò a rispondere a questa domanda.
Il mio lavoro è un po’ particolare. Mi occupo di ricerca scientifica nel campo della cosmologia, la scienza che studia la struttura e l’evoluzione dell’universo nel suo insieme. Da molti anni, con molti colleghi e amici sparsi un po’ in tutto il mondo, stiamo studiando “la prima luce dell’universo”: si tratta della luce primordiale rilasciata nei momenti iniziali dell’espansione cosmica, prima della formazione delle galassie, delle stelle, dei pianeti, e degli stessi atomi che costituiscono il nostro corpo. Da quasi 20 anni sono impegnato nel più ambizioso progetto in questo settore, il satellite Planck dell’Agenzia Spaziale Europea, lanciato nello spazio il 14 maggio 2009, e che si trova in un’orbita a un milione e mezzo di chilometri dalla Terra. Grazie a strumenti ad altissima sensibilità, raffreddati a temperature vicine allo zero assoluto, Planck osserva questo debole bagliore proveniente dai confini dello spazio-tempo, che giunge a noi dopo un viaggio di quasi 14 miliardi di anni, e ci permette di ricostruire un’immagine dell’universo appena nato con un dettaglio senza precedenti. 
La vastità dell’universo, che la scienza contemporanea mette davanti ai nostri occhi, ci lascia sbalorditi: miliardi di galassie, ciascuna composta da centinaia di miliardi di stelle, distribuite in uno spazio la cui profondità si misura in miliardi di anni luce (e ogni anno luce è circa diecimila miliardi di chilometri!). Ma da molto prima dell’avvento della cosmologia moderna, l’uomo ha vissuto con grande intensità il rapporto con l’universo. 

Fascino misterioso. Tutte le civiltà antiche sono state profondamente segnate dal fascino misterioso del cielo, e hanno avvertito nella volta stellata la vertigine, l’immensità, la bellezza del creato. Anche la nostra tradizione biblica è ricchissima di simboli e riferimenti astronomici: “i cieli” sono spesso chiamati in causa quando si parla di Dio. Così oggi, davanti agli spazi sconfinati della cosmologia moderna, oggetto del mio lavoro quotidiano di ricerca, non posso non chiedermi: chi è Dio, in questo universo immenso? E chi è l’uomo? Come la nostra tradizione giudaico-cristiana ci introduce e illumina queste domande? L’antico popolo ebraico, scrutando la volta celeste a occhio nudo, si rese conto molto bene della sproporzione che sussiste tra la natura umana e l’immensità del cosmo. Le parole del Salmo 8 sono ancora oggi - a mio parere - insuperabili nel dar voce a questa sproporzione, anche secondo la sensibilità che nasce dalla nostra visione attuale dell’universo:
«Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal 8,4-5)
Che cos’è l’uomo, chi siamo noi in questa “smisurata stanza” della creazione? Grani di polvere. L’uomo è “quasi nulla” nell’immensità del cosmo. La scienza moderna, ben lungi dal ridimensionare questa sproporzione, la amplifica a dismisura. Ma il Salmo 8 mette subito in luce l’altro versante del paradosso della condizione umana:
«Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8,6)
L’uomo è una particella infinitesima nell’universo, eppure ogni essere umano, l’io di ciascuno di noi, è un punto vertiginoso nel quale l’universo diventa cosciente di sé. È impressionante pensare alla piccolezza dell’uomo, e al tempo stesso alla grandezza della sua natura, commensurabile solo con l’infinito. L’uomo è l’autocoscienza del cosmo.
Mi colpiscono quei passi dell’Antico Testamento nei quali la vastità del cielo è usata come immagine della grandezza di Dio, come segno della sproporzione tra Dio e l’uomo, come emblema della Sua misericordia infinita:
«Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55,9)

L’enormità delle dimensioni cosmiche che oggi la scienza ha messo in luce approfondisce ancor più la forza di questo paragone. Ma per quanto meraviglioso, nell’Antico Testamento l’universo è sempre indicato come un “segno”, una “immagine”, una “analogia” del suo Creatore. C’è una distinzione fondamentale tra la creazione (l’universo) e il Creatore (Dio). Le cose, infatti, non si fanno da sé. 

Questione di equilibrio? Ricordo che una volta, molti anni fa, mi trovavo in una situazione difficile. Ero appena tornato in Italia dopo alcuni anni trascorsi negli Stati Uniti e avevo iniziato insieme ad altri quel progetto che poi sarebbe diventato Planck. Il lavoro era intensissimo, dovevo spesso viaggiare, stare lontano da casa anche per lunghi periodi. Avevamo un figlio piccolo, nato in America, e appena ritornati in Italia era nata la nostra seconda figlia. Nel frattempo avevo anche iniziato a insegnare in università. Insomma, mi sembrava di non riuscire a rispondere a tutto quello che la vita mi chiedeva. Un giorno ebbi la fortuna di incontrare don Giussani, al quale raccontai questa situazione e gli chiesi un consiglio su come trovare un equilibrio, un giusto compromesso, tra la mia responsabilità in famiglia, l’impegno nella ricerca, l’insegnamento, eccetera. Dopo qualche secondo di silenzio lui mi guardò, e mi rispose: «No, non è un problema di equilibrio. Quello di cui devi renderti conto è che quando hai a che fare con i tuoi figli e con tua moglie, e quando hai a che fare con il tuo lavoro e le tue ricerche, con i tuoi studenti, con i tuoi amici, hai a che fare con Cristo». Poi prese di tasca un fazzoletto, lo passò sul tavolo e me lo mostrò dicendo: «Vedi questi grani di polvere? Anche questi grani di polvere, ultimamente, vengono da Lui».
Quel dialogo mi colpì a fondo. Non ha magicamente risolto i miei problemi (anzi… negli anni la complessità della vita è aumentata!), ma ha introdotto uno sguardo nuovo sulle cose, uno sguardo che pian piano si è fatto largo in me. «Tutto, ultimamente, viene da Lui». La realtà non si fa da sé, ogni cosa è data, è creata, ora. Cogliere questo fa la differenza. C’è un punto nel quale la natura della realtà come “data”, “creata”, è più facilmente accessibile alla nostra ragione, diventa un’esperienza sensibile per ognuno di noi: l’esserci del mio io in questo istante. Per usare ancora le parole di don Giussani: «In questo momento io, se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono “dato”... Io sono Tu che mi fai» (Il senso religioso, Rizzoli, p. 146). 

La sorpresa del reale. Questa è la nostra condizione, ed è la stessa condizione in cui si trovano tutte le cose intorno a noi: i grani di polvere, le stelle del cielo, ogni galassia e ogni particella dell’universo, il tempo e lo spazio, ogni creatura se potesse pensare, dovrebbe dire: «Io sono Tu che mi fai». Ultimamente ogni cosa ha radice nel mistero che la chiama all’essere in ogni istante. È di qui che nasce in noi la sorpresa per la presenza del reale, senza della quale tutto sarebbe scontato, tutto si fermerebbe alla pura apparenza, tutto si svuoterebbe di senso: 
«Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere. Ma o il fuoco o il vento o l’aria sottile o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo considerarono come dèi, reggitori del mondo. Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,1-5)
Uno degli aspetti più affascinanti che emergono dall’astrofisica attuale è l’evidenza che la vita, e la nostra esistenza, richiedono il concorso dell’intera storia dell’universo per poter sussistere. Già gli antichi sapevano che la vita umana dipende dal sole e dalla pioggia, dalla fertilità della terra, dal giorno e dalla notte, dall’avvicendarsi delle stagioni. Oggi sappiamo che la vita dipende anche dai cicli stellari, dalle esplosioni di supernovae, dal ritmo dell’espansione cosmica, dal contrasto di densità nell’universo primordiale, dalla struttura delle leggi fisiche, dal valore delle costanti fondamentali. Senza tutte queste cose (e molte altre), senza una storia cosmica di 14 miliardi di anni, non ci sarebbe la vita. Più conosciamo l’universo e più ci accorgiamo che ogni suo aspetto sembra concorrere alla possibilità di ospitare la nostra esistenza. 
Nell’Antico Testamento si trovano riferimenti sublimi all’universo (non solo alla Terra) come il luogo che accoglie la vita, l’ambiente creato per rendere possibile la nostra esistenza.
«Egli stende il cielo come un velo, lo spiega come una tenda ove abitare» (Is 40,22)
L’universo intero è il grembo della vita, fino al miracolo dell’unicità della creatura umana. Dio chiama per nome ogni uomo, unico e irripetibile, e ha dato forma alla figura personale di ciascuno di noi dalle profondità della storia del cosmo, nel segreto delle sue viscere, fino alla fisicità del ventre di nostra madre.
«Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra» (Sal 138,15)
Ho cercato di dire come, nella mia esperienza, il rapporto con Dio allieta la percezione dell’oggetto del mio lavoro quotidiano, che è lo studio dell’universo. Ma a dire il vero, nella mia vita, la familiarità con Dio non è anzitutto il frutto della ricerca scientifica, che pure tanto mi appassiona. È piuttosto il frutto di un incontro umano che ho fatto, e che continuo a sperimentare nel presente. “Dio” sarebbe per me una parola astratta se non Lo avessi incontrato in Gesù, attraverso l’incontro con testimoni credibili, affidabili, affascinanti, nella Chiesa. Senza l’avvenimento di questa umanità cambiata, che continuamente mi sorprende e mi corregge, che ne sarebbe del mio sguardo all’universo? Sarebbe forse più cinico, più smarrito, più presuntuoso... E che ne sarebbe del mio rapporto con i colleghi, con i collaboratori, con i miei studenti? Perché ogni lavoro, anche il mio, è fatto soprattutto del rapporto con le persone con cui si lavora. E questo non è tutto. Che ne sarebbe del bene che voglio a mia moglie e ai miei figli, agli amici? Che ne sarebbe di me?

Il Mistero e noi. È commovente pensare che il Mistero eterno che trae dal nulla l’universo in ogni istante si è interessato a noi fino a diventare compagnia umana alla nostra vita. E in questa prospettiva cosmica, che impressione sentirsi dire da Gesù, Re dell’universo: «Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati» (Lc 12,1-7). Che tenerezza infinita, che vertigine. È questo il carattere di Dio, il vero abisso: la cura che Egli ha per ciascuno di noi. «Per noi Dio non è un’ipotesi distante», ha scritto Benedetto XVI ai seminaristi il 18 ottobre 2010, «non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il Big Bang. Dio si è mostrato in Gesù Cristo. Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio, nelle sue parole sentiamo Dio stesso parlare con noi».
Intervento alla XXV Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici su “La questione di Dio oggi”. Roma, 25 novembre 2011
da tracce N.1 2012

Incontri

Incontri
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Capitano a volte incontri con persone a noi assolutamente 
estranee, per le quali proviamo interesse fin dal primo sguardo, all’improvviso, in maniera inaspettata, 
prima che una sola parola venga pronunciata.

F. Dostoevskij

Foster Friess


Questa è la storia di Foster Friess, il cowboy milionario che sostiene Santorum

Figlio di un allevatore di cavalli e mucche e di una donna che raccoglie cotone, Foster Friess è l'autentico uomo a stelle e strisce che ha incarnato l'American Dream. Soldi, successo, moglie e quattro figli. Ma il denaro a un certo punto non basta più e il matrimonio entra in crisi, fino a quando non scopre un vuoto «che solo Dio può riempire».
in Esteri
24 Feb 2012
Lo ha urlato un ospite durante il pranzo del suo compleanno: «Il Signore sapeva bene cosa faceva quando ha dato a Foster e Lynn tutti questi soldi». L'ospite parlava di Foster Friess e della sua dolce metà. Friess è il principale finanziatore della campagna elettorale di Rick Santorum ed è un cowboy milionario del Wyoming, conosciuto come uno dei filantropi più eccentrici, divertenti e scomodi d'America (ha ironizzato, scatenando l'indignazione dei liberal, sulla contraccezione a spese dello Stato dicendo che ai suoi tempi bastava un'aspirina fra le gambe che era molto più economica). Ha deciso di sponsorizzare la campagna elettorale del cattolico conservatore Rick Santorum, e ripete da quasi quarant'anni che «noi siamo solo amministratori e non padroni di quanto Dio ci ha regalato». A chi lo rimprovera di donare davvero troppi soldi, risponde «che quelli che ho sono i soldi di Dio. Se fossero miei non avrei racimolato un solo centesimo».

Ma Friess non ha sempre parlato così. Leader sì, quello lo è sempre stato. Ma lui si definisce «un uomo nato due volte». Foster nasce la prima volta nel 1940 dall'unione tra un allevatore di cavalli e di mucche e una donna, che per salvare la fattoria di famiglia lascia gli studi e si mette a raccogliere cotone nei campi. Mamma e papà lavorano sodo per mandare Foster all'high school dove il giovane dimostra di avere la stoffa per incarnare l'American Dream. Il figlio del contadino diventa presto il capo classe, il presidente del consiglio di istituto, il capitano della squadra di basket, di golf e di baseball. Foster quindi viene ammesso all'università del Wisconsin, dove è eletto presidente di una confraternita e riceve la nomina di «miglior allievo» del suo anno. Nel 1961 si laurea in business administration e nel 1962 sposa un'altra leader, quella della confraternita delle Chi Omega, Lynnette Estes, con cui poi avrà quattro figli.
    1. Friess fa carriera militare. Poi, a soli 34 anni, decide di fondare con la moglie la Friess Association, fiore all'occhiello del Brandywine found. In pochi anni il fondo da lui amministrato entra nella classifica, stilata dal Forbes magazine, dei dieci migliori d'America. Una stoffa quella di Friess che non è mai venuta meno. Almeno fino al 1978, 
    quando come padre e marito si accorge che la sua vita è un fallimento: «Dietro il successo mondano nascondeva un vuoto», come lo chiama lui. Quel vuoto di cui parla Blaise Pascal e che poi «mi salvò». Il filosofo Pascal, infatti, tornò alla mente di Friess con quel suo assunto sul fatto che «in ogni persona c'è un vuoto a cui dà forma Dio e che solo Dio può riempire». Così Friess ci riprova con quello che ora chiama «il capo». E, come raccontò una volta, «feci una di quelle cose che ti fanno rinascere di nuovo, chiedendo a Gesù di diventare il comandante della nave della mia vita». Così il matrimonio, ormai in crisi, rifiorisce e i figli, «da cui il mio cuore si era allontanato», tornano all'ovile. È allora che il milionario decide di cedere al «capo» anche la sua attività economica.
  • Il milardario Foster Friess sceglie Santorum
  • Da quel momento, Friess inizia quindi a prendere il Vangelo alla lettera: «Basta seguire Gesù per capire la soluzione di tutto». È così anche in politica, dove la sua bussola è l'esortazione paolina ai Galati: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo». Da qui la sua convinzione che lo Stato debba essere solo sussidiario di «una società che fiorisce se segue questa legge dell'aiutarsi a vicenda». E la constatazione che, di fatto, sono state tutte le associazioni create dalla libera iniziativa degli uomini a rendere l'America un grande paese, modellato dai suoi cittadini e quindi libero. Per questo Friess comincia anche a dedicarsi al sostegno delle scuole create dai cittadini, delle associazioni no profit, degli ospedali privati nati dall'iniziativa di singoli che si uniscono per modellarli secondo le proprie esigenze. Per fare tanto, Friess dà vita alla Friess Fundation con cui serve «coloro che non possono pagarsi le cure, perché non è vero che la riforma di Obama li aiuta». A quello prova a pensarci lui con una rete di 13 cliniche, 30 parrocchie che fanno da braccia al suo progetto e 38 medici volontari che girano con camion adibiti a ospedali per curare la gente nei quartieri più poveri.

Ma non basta, «perché queste persone devono andare a scuola». Per questa ragione, scrive Friess, «sosteniamo le scuole di quartiere: il problema è educativo e parte dai genitori, che devono essere messi nelle condizioni di poter crescere i loro figli». Friess è dunque un filantropo, ma non certo di quelli che parlano con aria triste o indignata davanti alla povertà del mondo. Friess non si vergogna della ricchezza «con cui posso fare la carità e la Sua volontà» e resta ironico anche quando fa beneficenza. Così l'anno scorso alla sua cena di compleanno ha invitato un centinaio di amici e ha chiesto loro di alzarsi in piedi e presentare il proprio ente di beneficenza preferito: al profilo più convincente avrebbe donato 70 mila dollari, annunciando che il vincitore si sarebbe trovato nel piatto un biglietto con la notizia. A sorpresa si sono alzati tutti annunciando la vittoria: Friess ha staccato un assegno per ciascuno, per un totale di 7.7 milioni di dollari.

E non è tutto. Il cowboy milionario, dieci anni fa, ha anche creato un fondo per intervenire in casi di disastri umanitari. Ed è stato il primo a donare 5 milioni di dollari dopo lo tsunami asiatico e l'uragano Katrina. E con la sua fondazione sostiene anche opere educative in Africa e in America: «Soprattutto per i musulmani, perché imparino a rifiutare l'ideologia della coercizione, intimidazione e violenza, che minaccia sia noi sia loro stessi». «Perché», spiega Friess senza giri di parole, «a molti ragazzini musulmani viene inculcato l'odio contro l'America. Questo movimento per la civiltà occidentale è più pericoloso del Nazismo e del Comunismo».

Friess non si lascia poi scappare una notizia, anzi le analizza fino a conoscerle nei dettagli spesso nascosti, perché l'informazione secondo lui «è un po' troppo faziosa». Per questo il ricco cowboy è il principale azionista del sito Daily Caller news di Tucker Carlson. E attraverso il suo web, FosterFriess.com e il Campfire Blog, il ricco filantropo lavora anche per promuovere i princìpi dei padri fondatori: quelli della libera iniziativa, dei limiti costituzionali posti al potere dal governo centrale, della responsabilità fiscale e dei valori americani tradizionali, «perché sono convinto che possiamo trovare soluzione a ogni problema, basta partire da quelli».

È per questa ragione, ha detto in un'intervista rilasciata a gennaio all'emittente televisiva Reuters Tv, che «sostengo Rick: dobbiamo decidere se vogliamo che le cose cambino con un presidente che cerca di invertire i ruoli accentrando il potere, o se vogliamo aiutare Rick a ridarci la nostra America». Va bene i valori, l'integrità e la vita del suo candidato, gli ha fatto notare la giornalista che lo intervistava, ma come la mettiamo con la crisi economica? «Non voto Rick perché è un amico, non lo voto per i suoi valori, ma perché penso che sia un grande amministratore». Parola di imprenditore milionario che, settantenne, l'anno scorso è riuscito a uccidere un coccodrillo di 4 metri e mezzo, quando tutti gli dicevano che era impossibile.

Twitter: @frigeriobenedetta     da www.tempi.it

sabato 25 febbraio 2012

Il Cristianesimo è gioia.


Il Cristianesimo è la sola cornice in cui sia preservata la gioia del paganesimo.
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"I paesi di Europa rimasti sotto la influenza dei preti sono precisamente quelli dove ancora si canta, si danza, e ci si mettono vestiti sgargianti e l’arte vive all’aperto. La dottrina e la disciplina cattolica possono essere dei muri, ma sono i muri di una palestra di giuochi. Il Cristianesimo è la sola cornice in cui sia preservata la gioia del paganesimo. Immaginiamoci dei fanciulli che stanno giocando sul piano erboso di qualche isolotto elevato sul mare; finché c’era un muro intorno all’orlo dell’altura, essi potevano sbizzarrirsi nei giochi più frenetici e fare di quel luogo la più rumorosa delle nurseries; ora il parapetto è stato buttato giù, lasciando scoperto il pericolo del precipizio. I fanciulli non sono caduti, ma i loro amici, al ritorno, li hanno trovati rannicchiati e impauriti nel centro dell’isolotto, e il loro canto era cessato".
G. K. Chesterton, Ortodossia


Gesù ci ha comandato di amarci


Gesù ci ha comandato di amarci

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Gesù ci ha comandato di amarci scambievolmente. Non ci ha comandato di piacerci l’un l’altro. Se aspettiamo che alcune persone ci diventino gradite o attraenti prima di cominciare ad amarle, non cominceremo mai.

T. Merton

Nel nome del Padre perduto



Nel nome del Padre perduto

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INTERVISTA
«Il sacrificio della croce risiede nel fatto che in Cristo l’umanità riconosce di provenire dal Padre e che vi ritornerà». Per il francese Jean-Luc Marion, fra i più autorevoli pensatori viventi, il messaggio cristiano continua a stimolare ed irradiare, in modi anche imprevedibili, la filosofia contemporanea. Già docente presso prestigiose università europee e statunitensi, accademico di Francia, dei Lincei e membro del Pontificio Consiglio della Cultura, Marion parteciperà domani al grande convegno romano «Gesù nostro contemporaneo», intervenendo proprio su «La potenza e la gloria del sacrificio» (ore 15, Auditorium Conciliazione).

Professore, la frase di Gesù «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» è stata recentemente scelta da vari scrittori francesi, credenti e no, come il passaggio più emblematico del Vangelo. Un puro caso?
«Comprendo bene che soprattutto oggi si possa restare colpiti da questa frase, apparentemente in contraddizione con quanto potremmo attenderci da Gesù. Credo si tratti del riflesso di uno stato d’animo diffuso fra i nostri contemporanei. I quali, spesso senza ammetterlo, sembrano voler dire: "Dio mio, Dio mio, perché ti abbiamo abbandonato?". Siamo noi ad abbandonare Dio. In proposito Nietzsche ha ragione, quando riconduce la morte di Dio all’interrogativo sul perché l’abbiamo ucciso. Dunque, ciò equivale pure a: "Dio mio, Dio mio, perché hai permesso che l’uomo ti abbandoni?"».

C’è un legame con l’atteggiamento di chi, in Europa, denuncia la crisi del valore repubblicano di fratellanza?

«Sì. Perché la società laica comincia a comprendere di non poter produrre questo valore. Se ci riferiamo alla triade dei valori repubblicani francesi, la libertà può forse essere garantita a livello pubblico. E, si spera, pure l’uguaglianza. Ma la fratellanza presuppone invece un padre, mentre la società laica è fondata proprio sull’assenza del padre. Il solo padre assente possibile è Dio, ma non è stato finora riconosciuto. Dunque, nei sistemi fondati sui tre valori francesi, c’è una contraddizione interna. I primi due termini non possono garantire il terzo. La fratellanza non doveva essere inclusa, perché va oltre il progetto illuministico».

Assistiamo dunque ad ammissioni d’insufficienza, sia pure spesso involontarie. Ciò tradisce pure un certo bisogno di tirar fuori l’amore dalle secche del relativismo?
«In certi casi sì, è evidente. In generale, cresce la consapevolezza che non vi è alcun legame serio e immediato fra edonismo ed amore. La confusione è di certo antica e rimane moneta corrente, ma il piacere non ha mai reso felici».

Kierkegaard giudicava la relazione con Dio come innestata sempre nel tempo presente. La filosofia contemporanea continua a rimuginare quest’idea?
«Questa riflessione non è mai scomparsa. Ma il problema è che quando si parla di una relazione con Dio, molte categorie abituali non sono applicabili, a cominciare proprio dalla relazione. Quest’ultima presuppone in teoria due termini paragonabili e che esprimono uno stesso tipo di presenza. Ma la relazione fra uomo e Dio non è riconducibile né alla relazione fra due sostanze, né a quella fra una sostanza e un suo attributo. Dunque, il nostro rapporto con Dio è più complesso e profondo di una semplice relazione. La filosofia è stata sempre cosciente che si può parlarne solo per paradossi. Kierkegaard è un ottimo esempio e non certo il solo. Quando non immaginiamo più questo rapporto come paradossale, smettiamo di comprenderlo».

Dopo il crollo delle ideologie novecentesche, la filosofia sta riallacciando nodi nuovi con il messaggio di Gesù?
«Ogni epoca ha avuto l’impressione di coltivare un rapporto onesto ed autentico con il messaggio di Gesù. Persino nei periodi di ateismo e d’iper-razionalismo. In generale, il rapporto della filosofia e della cultura con Cristo è conflittuale, nel senso che la ragione deve sempre fare autocritica per approdare a un rapporto corretto con l’avvenimento cristiano. Oggi, comunque, percepiamo molto meglio ciò che c’impedisce d’instaurare un rapporto autentico. L’eredità delle ideologie totalitarie, certo. Ma pure l’imperialismo un po’ ingenuo delle scienze umane o esatte».

Su quest’ultimo versante, cosa pensa dei promotori di un nuovo ateismo militante, come Richard Dawkins e Christopher Hitchens? 
«L’esposizione mediatica di cui godono ha un sapore molto ideologico. Da un punto di vista filosofico, invece, quanto scrivono è completamente ingenuo, dogmatico, acritico, con frequenti confusioni sui risultati scientifici citati e un’ignoranza evidente sulle conclusioni della filosofia. Trovo tutto ciò un po’ comico».

I vertici europei hanno negato le radici cristiane del continente. Stiamo già pagando in parte le conseguenze di quella scelta? 
«L’attuale crisi europea è soprattutto politica, perché l’Europa è ancora sprovvista di un orientamento politico. Dunque, non può divenire un’entità politica forte. Tutto il resto, mi pare una conseguenza. Ora, se non abbiamo una vera Costituzione europea, ciò è dovuto a un rifiuto da parte dei popoli. Occorre dunque interrogarsi sulle ragioni profonde di questo rifiuto. Ve ne sono forse diverse, ma occorre pure constatare che le élites europee ci avevano chiesto di avallare una menzogna sull’identità europea. I popoli hanno rifiutato pure questa negazione delle radici cristiane. Non si può costruire l’Europa senza i cristiani e il fatto cristiano. Spero sia stata compresa almeno questa lezione».

Daniele Zappalà



zverina


LETTERA AI CRISTIANI D'OCCIDENTE
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Pubblichiamo qui la famosa "Lettera ai cristiani d'Occidente" scritta nel 1970 da Zverina, in una versione "migliorata" rispetto a quella normalmente diffusa.
Fratelli, voi avete la presunzione di portare utilità al Regno di Dio assumendo quanto più possibile il saeculum, la sua vita, le sue parole, i suoi slogan, il suo modo di pensare. Ma riflettete, vi prego, cosa significa accettare il saeculum. Forse significa che vi siete lentamente perduti in essa? Purtroppo sembra che facciate proprio così. E' ormai difficile ritrovarvi in questo strano mondo e distinguervi da esso. Probabilmente vi riconosciamo ancora perchè è un processo lento, perchè vi assimilate al mondo, adagio o in fretta, ma sempre in ritardo. Vi ringraziamo di molto, anzi quasi di tutto, ma in qualcosa dobbiamo dissentire. Abbiamo molti motivi per ammirarvi, per questo possiamo e dobbiamo indirizzarvi questo ammonimento. "E non vogliate conformarvi a questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, affinché possiate distinguere qual è la volontà di Dio, ciò che è bene, ciò che gli è gradito, ciò che è perfetto" (Rm 12,2). Non conformatevi! Me suskhematizesthe! Come è ben mostrata in questa parola la radice verbale: schema. Per dirla in breve, è vacuo ogni schema, ogni modello esteriore. Dobbiamo volere di più, l'apostolo ci impone: Tras-formare il proprio modo di pensare - metamorfousthe te anakainosei tou nous. Com'è espressiva e plastica la lingua greca di Paolo! A differenza dello skhema della morphe - forma permanente - c'è la metamorphe, il cambiamento della creatura. Non si cambia secondo un qualsiasi modello che è comunque sempre fuori moda, ma è qualcosa di completamente nuovo, ricco di tutta la sua novità (anakainosis). Non cambia il lessico, ma il significato (nous). Quindi non contestazione, desacralizzazione, secolarizzazione, perchè questo è sempre poco di fronte alla anakainosis cristiana. Riflettete su queste parole e vi abbandonerà la vostra ingenua ammirazione per la rivoluzione, il maoismo, la violenza (di cui comunque non siete capaci). Il vostro entusiasmo critico e profetico ha già dato buoni frutti e noi, in questo, non vi possiamo indiscriminatamente condannare. Solo ci accorgiamo, e ve lo diciamo sinceramente, che teniamo in maggior stima il calmo e discriminante interrogativo di Paolo: "Esaminate voi stessi per vedere se siete nella fede, fate la prova di voi medesimi. O non conoscete forse neppure che è in voi Gesù Cristo?" (2 Cor 13,5). Non possiamo imitare il mondo proprio perchè dobbiamo giudicarlo, non con orgoglio e superiorità, ma con amore, così come il Padre ha amato il mondo (Gv 3,16) e per questo sui di esso ha pronunciato il suo giudizio. Non phronein (pensare) e, di conseguenza hyperphronein (arzigogolare), ma sophronein, pensare con saggezza (cfr. Rm 12,3). Essere saggi al punto di discernere quali sono i segni della volontà di Dio e dei tempi. Non ciò che è parola d'ordine del momento, ma ciò che è buono, onesto, perfetto. Scriviamo come gente non saggia a voi saggi, come deboli a voi forti, come miseri a voi ancor più miseri! E questo perchè certamente fra di voi vi sono uomini e donne eccellenti. Ma proprio perchè vi è qualcuno occorre scrivere stoltamente, come ha insegnato l'apostolo Paolo quando ha ripreso le parole di Cristo, che il Padre ha nascosto la saggezza coloro che molto sanno di questo (Lc 10,21).
Fonte: J. Zverina, L'esperienza della Chiesa - Scritti per una "Chiesa della compassione", Jaca Book 1971. Cfr. J. Zverina, Pet cest k radosti, Zvon 1999.


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Il rabbino David Dalin:
«il più grande amico degli ebrei?
Pio XII ovviamente»
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Non meno di 700.000 ebrei furono salvati daLL’attività caritativa della Chiesa per diretto interessamento di Pio XII. No, non solo sono gli storici occidentali a dirlo, ma uno storico leader ebraico, il rabbino David G. Dalin.
Egli ha dichiarato: «Durante il ventesimo secolo il popolo ebraico ha avuto un grande amico. Pio XII ha salvato più vite di ebrei di chiunque altro, anche più di Oskar Schindler e Raoul Wallenberg». Intervistato da Zenit.es, lo storico ebreo ha spiegato: «Oggi c’è una generazione di giornalisti impegnati a screditare gli sforzi documentati di Pio XII per salvare gli ebrei durante l’Olocausto. Questa generazione si è ispirata all’opera teatrale “Il Vicario” di Rolf Hochhuth, che però non ha alcun valore storico. Questi critici ignorano anche lo studio illuminate di Pinchas Lapide, che è stato console generale di Israele a Milano, il quale ha scoperto molti ebrei italiani sopravvissuti all’Olocausto. Nei documenti Lapide si dice che Pio XII ha incoraggiato la salvezza di almeno 700.000 ebrei dai nazisti. Ma secondo un’altra stima, questa cifra sale a 860.000».
Si è detto molto circa i presunti “silenzi” di Pio XII, tuttavia «abbiamo un sacco di documentazione che non stette proprio in silenzio, parlò infatti ad alta voce contro Hitler e quasi tutti lo vedevano allora come un oppositore del regime nazista. Durante l’occupazione tedesca di Roma, Pio XII ha segretamente incaricato il clero cattolico di salvare tutte le vite umane possibile con tutti i mezzi possibili. In questo modo vennero salvati migliaia di ebrei italiani dalla deportazione. Mentre l’80% degli ebrei europei morirono in quegli anni, l’80% degli ebrei italiani furono salvati. Solo a Roma, 155 conventi e monasteri diedero rifugio a 5000 ebrei. Almeno 3.000 vennero nascosti nella residenza pontificia di Castel Gandolfo. Seguendo le istruzioni dirette di Pio XII, molti preti e monaci resero possibile la salvezza di centinaia di vite di ebrei, rischiando la propria stessa vita».
Un’altra accusa fatta a Pio XII è il non aver denunciato pubblicamente le leggi antisemite, ma ovviamente fu costretto ad agire in questo modo: «Il suo silenzio era una strategia efficace per proteggere il maggior numero di ebrei dalla deportazione. Un’esplicita e dura denuncia contro i nazisti sarebbe servita come invito alla ritorsione, e avrebbe peggiorato le disposizioni sugli ebrei in tutta Europa. Certamente ci si potrebbe chiedere: cosa c’è di peggio che lo sterminio di sei milioni di ebrei? La risposta è semplice e terribilmente onesta: l’assassinio di centinaia di migliaia di altri ebrei. I Vescovi cattolici provenienti dai Paesi occupati hanno consigliato a Pacelli di non protestare pubblicamente contro le atrocità commesse dai nazisti. Abbiamo le prove che, quando il vescovo di Münster avrebbe voluto parlare contro la persecuzione degli ebrei in Germania, il responsabile della comunità ebraiche della sua diocesi lo pregò di non farlo, avrebbe infatti provocato una repressione più dura contro di loro».

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sabato, 28 febbraio 2009

 Prima dell’alba
La biografia del rabbino capo della comunità ebraica di Roma che si convertì al cristianesimo. Pubblicata nel 1954 negli Usa, ora viene edita anche in Italia
di Giovanni Ricciardi
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Eugenio Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, 283 pp., euro 16,00

     «La conversione è un se­guire un appello di Dio. Uno si converte né pri­ma né dopo, né quando vuole o preferisce, ma solo nell’ora in cui l’appello giunge. Giunto che è, a chi è rivolto non resta che una via sola, ed è obbedire».
     
A quest’appello Israel Zolli, allora rabbino capo della comunità ebraica di Roma, obbedì alla fine del 1944. Andò a cercare un sacerdote “sconosciuto” e chiese di essere istruito nella fede cattolica ricevendo il battesimo il 13 febbraio 1945. Un avvenimento che destò scalpore e risentimenti da parte degli ebrei di allora e che apparve quasi come un fulmine a ciel sereno, dopo gli anni delle deportazioni e dei lager nazisti. Ma così non era. La conversione di Zolli, sia pure improvvisamente deliberata, era stata preparata da un cammino di progressivo accostamento al cristianesimo, maturato durante tutta la vita. Ne dà testimonianza l’autobiografia da lui redatta e pubblicata nel 1954 negli Stati Uniti con il titolo Before the Dawn, «Prima dell’alba». Quel testo non era mai stato edito nel nostro Paese, benché l’autore l’avesse originariamente redatto in italiano. Ragioni di opportunità politica, forse. Eugenio Zolli aveva scelto il nome di battesimo di Pio XII, Eugenio Pacelli, per gratitudine verso ciò che il Pontefice aveva fatto per gli ebrei durante la guerra. Ma già negli anni successivi un’altra “vulgata” su papa Pacelli andava a dominare l’editoria italiana e internazionale. Le pagine di Zolli contengono accenti di ammirazione e affetto verso Pio XII, anche se la sua conversione non può essere interpretata come un mero “debito di riconoscenza” nei riguardi del Papa: «La conversione» scrive Zolli «è un atto di Grazia di Dio e allo spirare dello Spirito Santo e della Grazia, si compie ogni conversione onesta. Non posso gloriarmi di nulla, proprio di nulla, e il dire che la mia conversione fu onesta equivale a: non fu disonesta, quindi alcun vanto. Giunta l’ora della Grazia, mi sono convertito».
      A cinquant'anni di distanza da quella prima pubblicazione inglese, le Edizioni San Paolo danno ora alle stampe il testo originale redatto in italiano (Eugenio Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata), basato sul dattiloscritto recentemente ritrovato, e curato dal nipote Enrico De Bernart. Un libro che assume un po’ lo stile delle Confessioni di Agostino. Più che autobiografia vera e propria, compaiono cenni di memoria, episodi, incontri, ricordi d’infanzia, da cui Zolli prende spunto per meditare sulla propria vita, scoprire, nella trama della sua esistenza, fin da quando muoveva i primi passi nello studio delle Scritture alla scuola di Leopoli, sul finire dell’Ottocento, le tracce del suo cammino verso la fede cristiana. Qua e là fa capolino una non comune conoscenza delle Scritture, in particolare della lingua ebraica, che Zolli insegnò all’Università di Padova negli anni Trenta, nonché della tradizione talmudica: il professore si sofferma spesso a commentare questa o quella espressione della Bibbia, o a richiamare la sapienza ebraica del midrash (una forma di esegesi delle Sacre Scritture) e delle diverse scuole rabbiniche. Dappertutto un periodare lento e riflessivo, una prosa antica, che alterna il racconto alla riflessione spirituale, la meditazione delle Scritture al ricordo dei tragici eventi di cui Zolli fu spettatore e protagonista, soprattutto dopo l’8 settembre 1943, quando si trovò ad essere – lo era dal 1940 – rabbino capo della Sinagoga romana durante l’occupazione nazista.
Eugenio Zolli

     «Da mio padre imparai la grande arte di pregare piangendo» ricorda Zolli: «Durante la persecuzione nazista io ho vissuto nel cuore di Roma in una piccola stanza in mezzo al freddo, alla fame e al buio. E pregavo piangendo: “Oh Tu guardia di Israele, proteggi l’avanzo di Israele, fa’ sì che non perisca l’avanzo di Israele che tre volte al giorno dice: Ascolta Israele”. Sul mio capo pendeva una taglia di 300.000 lire, allora una cifra notevole; la Gestapo mi cercava per terra e per mare e io non sono mai riuscito a pregare per me. Ripetevo sempre di nuovo guardando da un angolo oscuro, attraverso le lacrime, il cielo stellato: “Oh Tu guardia di Israele…”».
     All’indomani dell’arrivo dei tedeschi, Zolli, che negli anni in cui era stato rabbino a Trieste aveva avuto informazioni di prima mano sulla situazione degli ebrei sotto il nazismo, tentò invano di convincere il presidente della Comunità ebraica di Roma, Ugo Foà, a chiudere la sinagoga e gli uffici della comunità, a distruggere tutti gli elenchi e i documenti relativi agli ebrei romani e ad aiutare quante più persone possibile a emigrare all’estero o a rifugiarsi fuori da Roma. Ma Zolli ebbe a scontrarsi contro un incredibile muro di incomprensione. Foà e altri autorevoli membri della comunità erano convinti che il rabbino coltivasse allarmismi pericolosi e ingiustificati, tanta era la disinformazione che illudeva gli ebrei romani sulle vere intenzioni dei tedeschi: «Lei dovrebbe infondere coraggio» fu la risposta di Foà «anziché scoraggiare».
     E quando, svanite le illusioni, Kappler chiese cinquanta chili d’oro agli ebrei romani come riscatto per evitare la deportazione, fu Zolli a presentarsi in Vaticano e a ottenere da Pio XII i 15 chili mancanti, in quelle terribili 24 ore di tempo concesse dal comando tedesco per consegnare la somma. Com’è noto, i nazisti non mantennero la parola e nell’ottobre del 1943 la Gestapo deportava più di mille ebrei verso una fine che purtroppo conosciamo. Il professore annota nel suo scritto documenti relativi a quegli anni, che potranno essere di sicuro interesse per gli storici. Ma in tutto il suo percorso dà conto pure di quei segni che fin dai primi anni della sua vita avevano fatto sorgere in lui una curiosità verso Cristo. Già nel 1938 aveva pubblicato un saggio interamente dedicato alla figura di Gesù dal titolo Il Nazareno. Nell’autobiografia Zolli ricorda le occasioni grazie alle quali  si era accostato al cristianesimo: ad esempio, gli amici cristiani della sua infanzia, come Stanislao, uno dei più cari compagni di scuola e di giochi, dal quale si recava a studiare una volta alla settimana. Il crocifisso «in legno semplice, con vicino un ramoscello d’ulivo», appeso nella stanza dell’amico, e la bontà premurosa di quella famiglia avevano lasciato in lui una traccia indelebile. Più tardi il giovane Israel si era accostato ai Vangeli con commozione, entrando in familiarità con la persona di Gesù: «Un dopopranzo» – siamo nel 1917 – «ero in casa solo soletto e scrivevo uno dei soliti articoli per la solita Lehrerstimme. Credevo di essere tanto lontano da me stesso. A un tratto misi la penna sul tavolo senza rendermi conto del perché di questa interruzione del lavoro e, come rapito, cominciai a invocare il nome di Gesù… Gesù era entrato nella mia vita interiore come un dolce ospite, invocato e bene accolto.  L’amore per Gesù non doveva significare rinnegare l’ebraismo né abbracciare il cristianesimo. Né negazione, né affermazione a carattere ufficiale. La Comunità  israelitica e la Chiesa rappresentavano per me vita religiosa, ciascuna per conto suo, organizzata, mentre io mi sentivo ebreo, perché naturaliter ebreo, e amavo naturaliter Gesù Cristo. In questo mio amore per Gesù non dovevano entrare per nulla né l’ebraismo, né il cristianesimo. Io al cospetto di Gesù e Gesù in me».
     Questo accostamento a Gesù non significava allora e non significò mai per Zolli, tantomeno dopo la conversione, un rinnegare le proprie radici ebraiche: «Nel monoteismo di Israele trova la sua espressione l’anelito di generazioni intere; sono lunghi periodi di nostalgia, di sete di Dio, di un protendersi appassionato verso l’eterno mistero, che poi si riassumono rapidamente nell’anima di un singolo, di un uomo di Dio. […] Iddio chiama colui che da gran tempo lo cerca, lo invoca e l’uomo risponde: “Eccomi!”».
Sopra, ebrei rifugiati nel salone dei ricevimenti della residenza pontificia di Castel Gandolfo. Il rabbino Israel Zolli nella sinagoga di Roma, il 31 luglio 1944

     Del suo personale cammino alla ricerca di Dio Zolli darà più avanti quest’immagine: «Io sono mendico alle porte di Dio. All’infuori della mia povertà non ho nulla. Io sono proprio uno di quelli di cui sant’Agostino dice: “Che cosa può l’uomo offrire a Dio che non sia di Dio? Tutto dell’uomo è di Dio, solo i peccati sono dell’uomo”. E allora? E allora io dicevo a me stesso: Tu perché attendi? Che cosa attendi?».
     La risposta per Zolli arrivò alla fine del 1944, quando, celebrando il “Giorno dell’espiazione” in quella sinagoga in cui, dopo la liberazione, era stato reintegrato come rabbino dall’amministrazione provvisoria americana, sentì la spinta decisiva ad aprirsi alla fede cattolica.
     Zolli non trasse vantaggi materiali dalla sua conversione. La comunità ebraica di Roma lo bandì come apostata, e fu costretto a lasciare la sua casa del Ghetto. Dovette anche resistere alle lusinghe di quegli ebrei americani che gli offrirono molto denaro in cambio di un ritorno alla religione dei suoi padri. Ebbe ospitalità e alloggio per qualche tempo, grazie all’allora rettore padre Dezza, all’Università Gregoriana, finché non trovò un piccolo appartamento per sé e per la famiglia. Scelse di farsi terziario francescano e, come Francesco, visse in povertà, fino alla morte, avvenuta nel 1956: «Gli ebrei che oggi si convertono» scrive «come ai tempi di san Paolo, hanno di solito, sotto tanti aspetti, molto o tutto da perdere e poco o nulla da guadagnare». Ma questo giudizio non fu per lui motivo di risentimento o di rimpianto. E la sua autobiografia è, da cima a fondo, anche un atto d’amore appassionato a Israele: «Io non ho rinunciato all’ebraismo. L’ebraismo è una promessa e il cristianesimo è il compimento».
     
Un compimento che non cessa però di essere attesa. Così, nel congedo, alla fine dell’autobiografia, due anni prima di morire, Zolli conclude:
«Quando io sento il peso del vivere mio, quando sento la nostalgia immane di lacrime non piante, di beltà sfiorite e morte, in me morte, io piango il Cristo da me, in me, crocefisso. E il mio io vero non è l’io che in sé ha crocefisso il Cristo, ma l’io che Lo piange e Lo rimpiange: che in sé Lo chiama e a sé Lo richiama;  che Lo vuole vicino, che con Lui vuol essere tutt’uno. E giunto alla fine di questo libro, di queste pagine di strazio, io mi sento simile a chi è giunto all’ora della morte, sento in me la coscienza di chi sta  morendo senza aver vissuto… Vive male chi non vive il Cristo in pieno. Noi non possiamo che confidare nella pietà del Signore, nella pietà del Cristo, ché l’umanità non sa che uccidere, perché non Lo sa vivere. Non possiamo confidare che nell’intercessione di colei che ebbe il cuore trafitto dalla stessa spada che trafisse il Figlio… Ma per Gesù Cristo né si soffre né si ama mai abbastanza. Io ancora attendo Cristo. Lo attendo, ora e nell’ora della mia morte. Gesù, Signore, vieni. Ti attendo…».

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Pio XII e la persecuzione nazista
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Su questo argomento molto è stato scritto e tuttora se ne fa oggetto di discussioni e polemiche. Ritengo necessario parlarne un po' diffusamente, proprio perché i giudizi critici della stampa italiana ed estera a proposito del Documento vaticano Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah del 16 marzo 1998, rilevano "limiti" e "silenzi" proprio sull'operato di Pio XII negli anni della persecuzione nazista.
1. Attestati a favore di Pio XII alla fine della guerra
Il documento vaticano, in una Nota ( 1), riporta, con precisi riferimenti ad articoli dell'Osservatore Romano, attestati di riconoscenza. Il 7 settembre 1945 Giuseppe Nathan, commissario dell'Unione delle comunità israelitiche, il sommo pontefice, i religiosi e le religiose che, "attuando le direttive del santo Padre, non hanno veduto nei perseguitati che dei fratelli, e con slancio e abnegazione hanno prestato la loro opera intelligente e fattiva per soccorrerci, noncuranti dei gravissimi pericoli ai quali si esponevano" (Osservatore Romano, 8-10-1945).
Pio XII

Il 21 settembre 1945 Pio XII ricevette il Dott. A. Leo Kubowitski, segretario del Congresso Mondiale Ebraico, per presentare i più sentiti ringraziamenti per l'opera svolta dalla Chiesa cattolica in tutta l'Europa a favore della popolazione ebraica (Osservatore Romano, 23-09-1945).
Il 29 novembre 1945 il Papa ricevette circa 80 delegati di profughi ebrei, provenienti dai campi di concentramento in Germania, "sommamente onorati di poter ringraziare personalmente il santo Padre per la sua generosità dimostrata verso di loro durante il terribile periodo del nazifascismo" (Osservatore Romano, 30-11-1945).
Ancora, in occasione della morte di Pio XII (9 ottobre 1958), dopo più di 10 anni dalla fine della guerra e dopo il famoso processo di Norimberga, che diede il più ampio spazio alle inchieste sugli artefici, sulle cause, sulle trame e sulle alleanze dirette e indirette con il nazismo, la fama di Papa Pacelli è rimasta intatta.
Le più alte cariche politiche di Israele, e rappresentanti di organismi ebraici mondiali e nazionali, condividono "il lutto dell'umanità per la morte di Sua Santità Pio XII". Così in un cablogramma Golda Meir, che prosegue: "Quando venne il tremendo martirio del nostro popolo, nel decennio del terrore nazista, la voce del Papa si elevò per le vittime [...] Piangiamo un grande servitore della pace" ( 2).
2. Attestato del Gran Rabbino di Roma, Israele Zolli.
Un silenzio impenetrabile e inspiegabile è calato sulla figura e sulla vicenda del personaggio Zolli, che per tutto il periodo della guerra fu a Roma Gran Rabbino della comunità israelitica, a capo, cioè, di una delle più antiche e autorevoli comunità della diaspora, e Direttore del Collegio Rabbinico italiano. In nessun documento, neppure da parte cattolica, si cita quanto egli, a parole e con i fatti, testimoniò a favore di Papa Pacelli.
In una intervista data a Stefano Zurlo e pubblicata sul Giornale, 31 marzo 1998, la figlia Myriam (che vive e abita a Trastevere) racconta: "Quando i nazisti chiesero 50 chili d'oro per risparmiare la vita agli abitanti del Portico d'Ottavia, mio padre disperato corse in Vaticano... Il Santo Padre gli fece sapere che il Vaticano avrebbe messo a disposizione i 15 chili mancanti. Da allora Israele Zolli stabilì un rapporto di simpatia umana, quasi di identificazione con Pacelli".
Purtroppo il tesoro non servì a placare l'ira dei nazisti. Fra il 15 e il 16 ottobre 1943 i tedeschi rastrellarono il ghetto. "Mio padre - aggiunge Myriam - aveva capito anche questo: come sarebbe andata a finire. Lui non si fidava delle SS, e in precedenza aveva suggerito ai leader della comunità di bruciare i registri e di far fuggire la gente. Gli diedero del visionario. Anche perché avevano avuto notizie rassicuranti dall'allora capo della polizia Carmine Senise."
Sempre a proposito del rastrellamento del ghetto, in un simposio su "Cristiani ed ebrei durante la persecuzione nazista a Roma", svoltosi nella capitale il 23 marzo 1999, alla domanda fatta da Emanuele Pacifici, presidente dell'Associazione "Amici di Yad Veshem": "Ma dov'era Pio XII in quel 16 ottobre?", il P.Gumpel, gesuita e relatore nel processo per la beatificazione di Pio XII, senza citare Zolli e l'offerta dei chili d'oro, ricorda che Papa Pacelli non era stato a guardare. Aveva incaricato P.Pancrazio Pfeiffer di recarsi dal comandante dell'esercito, il generale Stahel, perché fermasse l'operazione. Il generale mandò un telegramma a Himmler spiegando che l'operazione sarebbe stata controproducente perché avrebbe potuto provocare una reazione violenta. Ottenne solo un ritardo di qualche giorno (Cf. Avvenire, 24 marzo 1999, p.22).
Uno dei treni che arrivavano ad Auschwitz con gli Ebrei deportati

Ritornando al rabbino Zolli, ci domandiamo: che cosa ha provocato la sua scomparsa dalla Storia? Non c'è altra ragione se non il fatto che egli, profondo studioso dei testi biblici dell'Antico e del Nuovo Testamento, nonché profondo conoscitore delle tradizioni talmudiche, dopo anni di solitaria ricerca, sulle orme del "Servo sofferente di Isaia", partecipando intimamente alle sofferenze del suo popolo e fra molte lacrime, aveva riconosciuto nel Cristo crocifisso il Volto del Servo.
Agli inizi del 1945 Israele Zolli chiese e ottenne il battesimo, prendendo il nome di Eugenio, come segno di ringraziamento al Papa Eugenio Pacelli per quanto aveva fatto in aiuto degli ebrei. Questa conversione suscitò un grande scandalo.
Il cardinale Paolo Dezza, recentemente scomparso, ha testimoniato: "Gli fu fatto il vuoto intorno... Il nome di Zolli fu addirittura cancellato dall'elenco dei rabbini di Roma, il settimanale ebraico uscì listato a lutto. Gli Zolli che vivevano ancora a due passi dalla sinagoga, ricevettero telefonate piene di insulti e dovettero cercarsi una nuova abitazione. Nell'attesa lo ospitai all'Università Gregoriana di cui ero rettore, mentre la moglie e la figlia trovarono ricovero in un convento di suore" (Il Giornale, ib. p. 9).
Qui è in ballo la condizione previa a ogni dialogo: il rispetto della persona umana e della libertà religiosa. Per noi cattolici sono state acquisizioni di altissimo valore. E per i fratelli ebrei? Il gran Rabbino di Roma, in piena libertà (nelle sue meditazioni autobiografiche) scrive: "Mai nessuno ha tentato di convertirmi... forse la mia anima si sarebbe esacerbata." Rinuncia a tutte le cariche per imboccare una strada irta di difficoltà per sé e per i suoi: "Sono povero, i nazisti mi hanno portato via tutto, non importa, vivrò povero, morirò povero, ho fiducia nella Provvidenza."
A un giornalista ebreo che gli aveva dato del "serpente scaldato nella comunità", risponde: "Lei non sa immaginare quante lacrime ho versato e quante ne verso anche in questi giorni nelle mie preghiere per gli israeliti perseguitati e barbaramente trucidati. Il tuo popolo è il mio popolo, il ceppo è comune."
"A chi, per incomprensione, mi domandò come avessi potuto 'rinnegare' me stesso, risposi: Non ho rinnegato, ho la coscienza chiara e sicura di aver soltanto affermato me stesso senza rinnegare nulla". Ecco come l'ebreo fatto cristiano sente di non aver ripudiato l'ebraismo: "Non ho mai altercato con me stesso... Tutto, pur trasformandosi, si armonizzava. L'anima andava saturandosi di valori spirituali nuovi senza espellere... i vecchi, ma trasformandoli sino al giorno in cui l'otre vecchio era pieno e riboccante del vino nuovo" ( 3). Siamo nel 1945, e, ancora oggi, per noi quelle parole sembrano una acquisizione audace!
Mi rendo conto che qui tocchiamo un nervo scoperto nei rapporti fra ebraismo e cristianesimo. Nessuno pretende che la scelta fatta dal rabbino Zolli sia condivisa dai suoi correligionari. Così dice la figlia Myriam in questa intervista: "Meglio non parlare di Zolli, nemmeno 40 anni dopo la sua morte (2 marzo 1956). E’ meglio non accostarlo a Pio XII. Troppi luoghi comuni scricchiolerebbero" (Il Giornale, stessa intervista).
A un uomo di tale levatura intellettuale e morale, di estremo disinteresse e di impegno in prima persona per le sorti del suo popolo perseguitato (già negli anni 30, a Trieste, dove era Gran Rabbino, si era adoperato a favorire l'espatrio di molti ebrei tedeschi), giustizia vuole che si rispetti la sua scelta, e si riconosca l'importanza della sua testimonianza a favore di Pio XII, forse, più efficace di tutte le altre.
3. Cambiamento di scena: cominciano gli attacchi.4. Per facilitare una seria ricerca storica su Pio XII
Era stato profeta Eugenio Zolli. Dice la figlia Myriam: "Subito dopo la guerra papà mi diceva spesso: Vedrai, faranno di Pio XII il capro espiatorio del silenzio che tutto il mondo ha mantenuto dinanzi ai crimini nazisti" (Il Giornale, inizio dell'intervista citata).
Il primo ad attaccare pubblicamente Pio XII fu Rolf Hochhuth con un testo teatrale: Der Stellvertreler (Il Vicario), pubblicato nel 1963. La sua tesi era che Pio XII non aveva fatto quel che poteva e doveva fare in difesa degli ebrei. A parte il chiasso nell'opinione pubblica, il contenuto della prova era semplicemente dilettantesco, e diversi ebrei ben informati criticarono fortemente l'autore.
Nel 1968 fu tradotto in italiano un libro scritto a New York: "Morte a Roma". Quando ne fu tratto un film, l'autore, Robert Katz, fu condannato dalla Corte di Cassazione per diffamazione.
Bisogna segnalare due libri di storici ebrei: La Chiesa cattolica e la Germania nazista, di Gunther Lewy, e Pio XII e il Terzo Reich, di Saul Friedlander, apparsi pure negli anni '60. Ma per ambedue troviamo un giudizio fortemente negativo di uno storico di fama internazionale, il gesuita P.Robert Graham, e di un'autorità incontestabile, Robert Kempner, sfuggito al regime nazista e poi avvocato dell'accusa al processo di Norimberga: "Nessuno dei due offre ragioni per cambiare questa opinione" (di energica difesa di Pio XII).
Vista la poca serietà scientifica delle pubblicazioni storiche sull'operato di Pio XII, Paolo VI nel 1964 ordinò che tutti i documenti vaticani riguardanti la seconda guerra mondiale fossero resi pubblici. Un gruppo altamente qualificato di storici produsse l'opera monumentale: Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale: 12 volumi contenenti 5.100 documenti editi secondo rigorosi criteri scientifici.
Pio XII
dopo la liberazione di Roma

Avrebbe dovuto bastare per impostare seriamente uno studio su Pio XII. Ma ecco che in questi ultimi anni lo scrittore americano John Cornwell col suo libro Il Papa di Hitler, accusa Pio XII addirittura di essere fautore del nazismo, e pretende di aver documentato la sua tesi con ricerche fatte nell'archivio della Segreteria di Stato, primo ed unico a consultare tali archivi.
Gli risponde proprio uno storico ebreo, Michael Marrus: "Il libro di Cornwell? Superficiale e scandalistico... Sul piano accademico, l'opera di Cornwell non ha valore: si basa su pochi documenti già noti da anni e sostiene la sua tesi in modo superficiale" (Cf. Avvenire, 25 novembre 1999).
Stando così le cose, e in adesione a diverse richieste anche da parte cattolica (per es., il Cardinale americano O'Connor) la Santa Sede ha costituito una Commissione mista, formata da tre cattolici (Eva Fleischner, il gesuita Gerald Fogarty, Don John Morley) e tre ebrei (Michael Marrus, Bernard Suchecky, Robert Wistrich), evidentemente tutti studiosi di chiara fama.
Lo scopo è di fare insieme una analisi accademica sulla figura di Pio XII, non solo sulla base di 12 volumi già pubblicati, ma di qualunque altra fonte documentaria eventualmente non ancora pubblicata. Estrema prova di buona volontà della Santa Sede che ha sempre dichiarato di non aver nulla da temere dalla verità. Il lavoro di questa commissione mista è del tutto indipendente dal processo di beatificazione di Pio XII, e potrà consolidare il dialogo tra ebrei e cattolici.
5. La vera materia del contendere su Pio XII
Che Papa Pacelli conoscesse bene l'ideologia anticristiana e antireligiosa dei nazisti non si può dubitare, essendo egli stato Nunzio Apostolico in Germania proprio negli anni in cui si andava affermando il partito di Hitler.
Questo spiega, per esempio, un certo sostegno offerto ai generali tedeschi che nel 1940 avevano messo a punto un complotto per liberarsi di Hitler. E spiega anche l'incoraggiamento dato ai cattolici americani, tramite il Delegato Apostolico, che non temessero di fare alleanza con la Russia di Stalin, pur di respingere l'invasione nazista.
Che la linea di prudenza adottata da Pio XII durante la guerra abbia consentito alla Chiesa cattolica (mobilitata proprio per volontà del Pontefice) di salvare almeno 800.000 ebrei, è fuori discussione. La ricercatrice americana Margherita Marchione, nel libro Pio XII e la questione ebraica, sostiene addirittura che Pio XII, "rischiò personalmente la deportazione e il lager per aver aiutato i perseguitati dal regime nazista" (Avvenire, 17 marzo 1998).
Si poteva, si doveva fare di più, per evitare la "soluzione finale" dell'Olocausto? Una premessa riguarda due fatti. Il primo fatto era stato già preannunziato da Eugenio Zolli: "Faranno di Pio XII il capro espiatorio del silenzio che tutto il mondo ha mantenuto dinanzi ai crimini nazisti" (Il Giornale, inizio dell'intervista alla figlia Myriam). E’ storicamente accertato che né il governo degli Stati Uniti, né della Gran Bretagna, né della Russia di Stalin, né De Gaulle, né Organismi Internazionali come la Croce Rossa e lo stesso Consiglio Mondiale Ebraico, che pure erano informati dell'esistenza dei campi di sterminio, elevarono proteste pubbliche e specifiche.
Solo a partire dagli anni '50 cominciò a diffondersi in tutta Europa una nuova sensibilità nella valutazione delle responsabilità circa la Shoah.
In questa linea abbiamo avuto, da parte cattolica, molte dichiarazioni di Episcopati nazionali, fino all'ultimo documento vaticano: "Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah ". Ma non è contraddittorio il tentativo di scaricare la principale responsabilità della Shoah sulle spalle di Pio XII, che pochi anni prima si elogiava per le sue benemerenze a difesa degli ebrei perseguitati?
Edith Stein, vittima dell'Olocausto ad Auschwitz.

Il secondo fatto è il cosiddetto "silenzio" di Pio XII, che è poi l'accusa principale. Su questo silenzio bisogna bene intendersi. Scrive il P.Gumpel: "La verità è che Pio XII condannò ripetutamente e pubblicamente la persecuzione di gente innocente "solo a causa della loro razza". "A quei tempi, chiunque capiva a chi si stesse riferendo". E a conferma cita vari testi dei massimi vertici nazisti che manifestano ostilità per il Papa "portavoce dei guerrafondai ebrei".
E’ vero però che Pio XII nelle sue proteste pubbliche non ha mai usato il termine "ebreo", né ha fatto dichiarazioni veementi. Possiamo capire un po' di più le ragioni di questo atteggiamento?
Qualche osservatore fa notare quanto sia difficile, con la sensibilità di oggi, in un contesto culturale profondamenmte diverso, poter giudicare le scelte che la coscienza di Pio XII si trovò a prendere. Altri sottolineano la formazione diplomatica ricevuta da Papa Pacelli, e come egli avesse più fiducia nell'azione diplomatica spiegata in tutte le direzioni, piuttosto che nelle pubbliche dichiarazioni. E si attenne a questa impostazione. Ma ascoltiamo il grido del cuore di Pio XII:
"Più volte avevo pensato a fulminare di scomunica il nazismo, a denunciare al mondo civile la bestialità dello sterminio degli ebrei! Abbiamo udito minacce gravissime di ritorsione, non sulla nostra persona, ma sui poveri figli che si trovano sotto il dominio nazista; ci sono giunte vivissime raccomandazioni, per diversi tramiti, perché la Santa Sede non assumesse un atteggiamento drastico.(4 ).
Dopo molte lacrime e molte preghiere, ho giudicato che una mia protesta, non solo non avrebbe giovato a nessuno, ma avrebbe suscitato le ire più feroci contro gli ebrei... Forse la mia protesta solenne avrebbe procurato a me una lode nel mondo civile, ma avrebbe procurato ai poveri ebrei una persecuzione anche più implacabile di quella che soffrono"
Questa era la convinzione di Pio XII. E che fosse molto fondata, lo conferma quello che successe alla Chiesa d'Olanda. Domenica 26 luglio 1942 fu letta in tutte le chiese cattoliche una lettera di protesta contro le deportazioni di intere famiglie ebree (più di 10.000 persone).
E quale fu il risultato? Non solo la deportazione degli ebrei di sangue e di religione venne accelerata, ma, come ritorsione diretta contro i Vescovi, autori della protesta, furono deportati innanzi tutto gli ebrei battezzati (tra questi, Edith Stein e sua sorella Rosa), che da questo momento sarebbero stati considerati "i nostri peggiori nemici".
Quando Pio XII fu avvertito di questa tragedia, si recò in cucina e personalmente bruciò due grandi fogli scritti molto fitti, dicendo: "E’ la mia protesta contro la spaventosa persecuzione antiebraica. Stasera sarebbe dovuto comparire sull'Osservatore Romano. Ma se la lettera dei Vescovi olandesi è costata l'uccisione di quarantamila vite umane, la mia protesta ne costerebbe forse duecentomila. Perciò è meglio non parlare in forma ufficiale e agire in silenzio, come ho fatto finora, per tutto ciò che è umanamente possibile per questa gente" ( 5).
Conclusione1. Regno-documenti, 1 aprile 1998, pp. 201.204. La Nota è a p. 204.
2.
Dall’articolo del gesuita Gumpel, apparso sul settimanale cattolico inglese The Tablet del 13 febbraio 1999.
3.
Queste citazioni in corsivo sono prese da alcuni testi autobiografici scritti nei primi mesi del 1945, durante l’ospitalità alla Gregoriana. Furono pubblicati come Appendice al volume Christus, Ed.Ave, Roma 1945.
4.
G.Angelozzi Gariboldi, Pio XII, Hitler e Mussolini. Il Vaticano fra le dittature, Mursia, Milano 1988, p.152. La citazione è presa dall'interessante volume di G.Centore, Il canto di Gabila - Lettura poetica dell'Ebraismo, Napoli, Ed.Scientifiche Italiane 1994, p. 28.
5. Cf. Avvenire, 7 ottobre 1998. Le parole riportate tra virgolette riferiscono la testimonianza di Sr.Pascalina Lenhert, molto nota per essere stata per anni al servizio di Pio XII.
La Chiesa ufficiale, che pure ha molto riflettuto sulle colpe e sulle responsabilità dei cristiani a riguardo delle persecuzioni naziste, non ritiene di dover chiedere scusa per il silenzio di Pio XII. Lo ha detto il Nunzio Apostolico in Israele, in una dichiarazione alla televisione di Stato. Quel silenzio era necessario (Avvenire, 27 febbraio 2000).
Questo però non significa che, sul piano storico-scientifico, sia detta l'ultima parola su Pio XII. Così il Cardinale Cassidy, che presiede la Commissione per i rapporti con l'ebraismo, in una conferenza stampa a Londra, qualche settimana dall'uscita del documento sulla Shoah (Avvenire, 14 maggio 1998).





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