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martedì 31 luglio 2012

«Simone, mi ami tu?»


«Simone, mi ami tu?»

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Luigi Giussani, Stefano Alberto e Javier Prades Anticipiamo un brano del nuovo libro di Luigi Giussani, Stefano Alberto, Javier Prades, Generare tracce nella storia del mondo (Rizzoli editore)

Il capitolo ventunesimo del Vangelo di Giovanni è la documentazione affascinante del sorgere storico dell'etica nuova. La storia particolare che vi si documenta è la chiave di volta della concezione cristiana dell'uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo.

I discepoli erano di ritorno, all'alba, da una brutta nottata sul lago, in cui non avevano pescato nulla. Vicino alla riva, vedono sulla spiaggia una figura che s'adoperava per accendere il fuoco. Avrebbero visto dopo che sul fuoco c'erano pesci raccolti per loro, per la fame di quel primo mattino. Ad un certo punto Giovanni dice a Pietro: «Ma quello è il Signore!». Allora si aprono gli occhi di tutti e Pietro si butta in acqua, così com'è, e giunge per primo a riva. Seguono gli altri. Si dispongono in cerchio, in silenzio: nessuno parla, perché tutti sanno che è il Signore. Sdraiati per mangiare, dicono tra loro qualche parola, ma sono tutti intimiditi dall'eccezionale presenza di Gesù, Gesù risorto, che era già apparso loro in più circostanze.
Simone, che i molti errori avevano reso il più umile di tutti, steso pure lui a terra davanti al cibo preparato dal Maestro, guarda chi ha vicino e con stupore e tremore vede che è Gesù. Allora volge via lo sguardo da Lui e resta così, impacciato. Ma Gesù gli parla. Pietro pensa in cuor suo: «Dio mio, Dio mio, quanto rimprovero merito! Adesso mi dirà: "Perché mi hai tradito?"». Il tradimento era stato l'ultimo grosso errore fatto, ma tutta la sua vita, anche nella familiarità con il Maestro, era stata tribolata, per via del suo carattere impetuoso, della sua imponenza istintiva, del suo farsi avanti senza calcoli. Tutto di sé egli vedeva alla luce dei suoi difetti. Quel tradimento aveva fatto emergere con chiarezza in lui il resto dei suoi errori, quanto lui non valesse niente, quanto fosse debole, debole da far compassione. «Simone...» - chissà che brivido mentre quella parola si scandiva dentro il suo orecchio toccandogli il cuore -, «Simone...» - e qui avrà accennato a voltare verso Gesù la sua faccia -, «...mi ami tu?». Chi si sarebbe mai aspettato quella domanda? Chi si sarebbe atteso quella parola?
Pietro era un uomo di quaranta o cinquant'anni, con famiglia e figli, eppure così bambino di fronte al mistero di quel compagno incontrato per caso! Immaginiamoci come si sarà sentito trapassare da quello sguardo che lo conosceva in ogni sua parte. «Ti chiamerai Cefa»:1 il suo caratteraccio era identificato con quella parola, «pietra», e l'ultimo pensiero era per lui immaginare che cosa il mistero di Dio e il mistero di quell'Uomo - Figlio di Dio - avrebbero fatto con quella pietra, di quella pietra. Dal primo incontro Egli ingombrò tutto il suo animo, tutto il suo cuore. Con quella presenza dentro il cuore, con la memoria continua di Lui, guardava la moglie e i bambini, i compagni di lavoro, gli amici e gli estranei, i singoli e le folle, e pensava e s'addormentava. Quell'Uomo era diventato per lui come una grande, immensa rivelazione non ancora chiarita.
«Simone, mi ami tu?». «Sì, Signore, io Ti amo». Come faceva a dire così dopo tutto quello che aveva fatto? Quel «sì» era l'affermazione del riconoscimento di una eccellenza suprema, di una eccellenza innegabile, di una simpatia che travolgeva tutte le altre. Tutto restava inscritto in quel loro sguardo, coerenza e incoerenza era come se passassero finalmente in secondo ordine, dietro alla fedeltà che sentiva carne della sua carne, dietro alla forma di vita che quell'incontro aveva plasmato.
Di fatto non ci fu nessun rimprovero. Risuonò solo la stessa domanda: «Simone, mi ami tu?». Non incerto, ma timoroso e tremante, rispose di nuovo: «Sì, io Ti amo». Ma la terza volta, la terza volta che Gesù gli rivolse la domanda, dovette chiedere la conferma di Gesù stesso: «Sì, Signore, Tu lo sai, io Ti amo. Per Te è tutta la mia preferenza d'uomo, tutta la preferenza dell'animo mio, tutta la preferenza del mio cuore. Tu sei l'estrema preferenza della vita, l'eccellenza suprema delle cose. Io non lo so, non so come, non so come dirlo e non so come sia, ma nonostante tutto quello che ho fatto, nonostante quello che posso fare ancora, io Ti amo».
Questo «sì» è la scaturigine della moralità, il primo fiato di moralità sul deserto arido dell'istinto e della pura reazione. La moralità affonda la sua radice nel «sì» di Simone, e questo «sì» può attecchire nella terra dell'uomo solo per una Presenza dominante, compresa, accettata, abbracciata, servita con tutto lo slancio del proprio cuore che solo così può ritornare bambino. Senza Presenza non c'è gesto morale, non c'è moralità.

Ma perché il «sì» di Simone a Gesù è scaturigine della moralità? Non vi sono prima i criteri di coerenza e incoerenza?
Pietro ne aveva fatte di tutti i colori, eppure viveva una simpatia suprema per Cristo. Capiva che tutto in sé tendeva a Cristo, che tutto si raccoglieva in quegli occhi, in quella faccia, in quel cuore. I peccati passati non potevano costituire obiezione e nemmeno tutta l'immaginabile sua incoerenza futura: Cristo era la fonte, il luogo della sua speranza. Gli avessero pure obiettato quello che aveva fatto o quello che avrebbe potuto fare, Cristo rimaneva, attraverso le nebbie di quelle obiezioni, la fonte di luce della sua speranza. Ed egli Lo stimava sopra ogni altra cosa, dal primo momento in cui si era sentito fissato da Lui, guardato da Lui: Lo amava per questo.
«Sì, Signore, Tu sai che sei l'oggetto della mia simpatia suprema, della mia stima suprema»: così nasce la moralità. Eppure l'espressione è molto generica: «Sì, io Ti amo»; ma è tanto generica quanto generatrice di una diversità di vita perseguita. «Chiunque ha questa speranza in Lui purifica se stesso come Egli è puro».2 La nostra speranza è in Cristo, in quella Presenza che, per quanto distratti e smemorati, non riusciamo più a togliere - non fino all'ultimo briciolo, almeno - dalla terra del nostro cuore per tutta la tradizione dentro la quale Egli è giunto fino a noi. È in Lui che io ho speranza, prima di avere contato i miei errori e le mie virtù. Non c'entrano, qui, i conti numerici. Nel rapporto con Lui il numero non c'entra, il peso misurato e misurabile non c'entra, e tutta la possibilità di male che in me può realizzarsi nel futuro, anche questa non c'entra, non riesce ad usurpare il titolo primario che possiede davanti agli occhi di Cristo il «sì» di Simone, da me ripetuto. Allora viene un fiotto dal fondo di noi, come un respiro che salga dal petto e inebrii tutta la persona e la faccia agire, le faccia desiderare di agire in modo più giusto: scaturisce, scatta dal fondo del cuore, il fiore del desiderio della giustizia, dell'amore vero, autentico, della capacità di gratuità. Come l'inizio di ogni nostra mossa non è un'analisi di ciò che gli occhi vedono, ma un abbraccio di ciò che il cuore attende, così la perfezione non è l'espletare delle leggi, ma l'adesione a una Presenza.

Solo l'uomo che vive questa speranza in Cristo continua tutta la sua vita nell'ascesi, nello sforzo per il bene. E anche quando egli sia palesemente contraddittorio, desidera il bene. Questo vince sempre, nel senso che è l'ultima parola su di sé, sulla propria giornata, su quello che si fa, su quel che si è fatto, su quello che si farà. L'uomo che vive questa speranza in Cristo continua nell'ascesi. La moralità è una tensione continua al «perfetto» che nasce da un avvenimento in cui un rapporto col divino, col Mistero, è segnato.

La ragione ultima del «sì»
Qual è la ragione vera del «sì» a Cristo detto da Simone? Perché il «sì» detto a Gesù vale di più che enumerare tutti i propri errori ed elencare tutte le possibilità di errori futuri che la propria debolezza implica? Perché questo «sì» è più decisivo e più grande di tutta la responsabilità morale tradotta nei suoi particolari, tradotta in pratica concreta? La risposta a queste domande rivela l'essenza ultima del Mandato dal Padre. Cristo è il «mandato» dal Padre, è Colui che rivela il Padre agli uomini e al mondo. «Questa è la vita vera: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo».3 La cosa più importante è «che conoscano Te», che amino Te, perché questo Tu è il senso della vita.
«Sì, io Ti amo», disse Pietro. E la ragione di questo «sì» consisteva nel fatto che egli aveva intravisto in quegli occhi che l'avevano fissato quella prima volta, e che poi lo avevano fissato tante altre volte durante le giornate e gli anni seguenti, chi era Dio, chi era Jahve, il vero Jahve: misericordia.4 In Gesù gli si svela il rapporto di Dio con la sua creatura come amore e quindi come misericordia. La misericordia è la posizione del Mistero verso qualsiasi debolezza, errore e dimenticanza dell'uomo: Dio, di fronte a qualsiasi delitto dell'uomo, lo ama.
Questo ha sentito Simone, da qui nasce il suo «Sì, io Ti amo».
Il senso del mondo e della storia è la misericordia di Cristo, Figlio del Padre, mandato dal Padre a morire per noi. Nel dramma di Milosz, a Miguel Mañara, che andava da lui tutti i giorni a lamentarsi dei suoi peccati passati, l'Abate, a un certo punto, come spazientito, dice: «Finiscila con questi lamenti da donnicciola. Tutto questo non è mai esistito». Come, «non è mai esistito»? Miguel aveva assassinato, stuprato, era stato ingiusto... «Tutto questo non è mai esistito. Egli solo è».5 Egli, Gesù, si rivolge a noi, si fa «incontro» per noi, chiedendoci una cosa sola: non «che cosa hai fatto?», ma «mi ami?».
Amarlo sopra ogni cosa, allora, non vuol dire che io non abbia peccato o che io non abbia a peccare domani. Che strano! Occorre una potenza infinita per essere questa misericordia, una potenza infinita dalla quale - in questo mondo terreno, nel tempo e nello spazio che ci è dato di vivere, negli anni, pochi o tanti che siano - noi mutuiamo, attingiamo letizia. Perché un uomo, con la coscienza di tutta la sua pochezza, è lieto di fronte all'annuncio di questa misericordia: Gesù è misericordia. Egli è mandato dal Padre per farci conoscere che l'essenza di Dio ha come caratteristica suprema per l'uomo la misericordia. «Ti sei chinato sulle nostre ferite e ci hai guarito - dice un Prefazio della Liturgia ambrosiana - donandoci una medicina più forte delle nostre piaghe, una misericordia più grande della nostra colpa. Così anche il peccato, in virtù del Tuo invincibile amore, è servito a elevarci alla vita divina».6
Da questa letizia sorge la pace, la possibilità della pace. Anche in tutte le nostre sfortune, in tutte le nostre cattiverie, in tutte le nostre incoerenze, in tutta la nostra debolezza, in quella debolezza mortale che è l'uomo, possiamo realmente respirare e sospirare la pace, generare pace e rispetto per l'altro.
E rispettare l'altro vuol dire guardarlo con l'occhio a un'altra Presenza. «I cristiani» si dice nella Lettera a Diogneto del II secolo «si trattano con un rispetto agli altri inconcepibile».7 La parola «rispetto» (respectus, da re-spicio) ha la stessa radice di aspicio (guardare), e il re- sta a indicare che si continua a tenere lo sguardo rivolto-a, come fa colui che, camminando, tiene tuttavia lo sguardo fermo sull'oggetto. «Rispetto» vuol dire: «guardare una persona tenendone presente un'altra». È come guardare un bambino quando c'è, lì vicino, la mamma: la maestra non lo tratta come al solito, sta più attenta, ammesso che abbia un po' di pudore (ma oggi, forse, anche questo è smarrito). Senza il rispetto di ciò che si manipola, di ciò che mi deve servire, di ciò che afferro perché mi serva, non c'è rapporto adeguato con niente. Ma il rispetto non può nascere dal fatto che ciò che ho davanti mi serva: da questo punto di vista, lo domino. No, il rispetto «sfonda» quello che uso. Così il lavoro acquista una nobiltà, una leggerezza d'animo più grande, pur in mezzo a tutte le tribolazioni con cui ci alziamo dal letto. E il rinnovarsi di questa coscienza è la preghiera del mattino. Un uomo che guardi sua moglie percependo e riconoscendo l'Altro, Gesù, dentro e oltre la figura di sua moglie, può portarle rispetto e venerazione, può avere stima per la sua libertà, che è rapporto con l'infinito, rapporto con Gesù.


L'inizio della moralità umana è un atto d'amore
Il «sì» di Simone a Gesù non può essere considerato come la nota di un sentimento, ma è l'inizio di una strada morale che o si apre con quel «sì» o non si apre. L'inizio di una morale umana non è l'analisi dei fenomeni che gremiscono l'esistenza dell'io, né l'analisi dei comportamenti umani in vista di un bene comune; questo potrebbe essere l'inizio di una astratta morale laica, ma non di una morale umana.
San Tommaso nota che «la vita dell'uomo consiste nell'affetto che principalmente la sostiene e in cui trova la sua più grande soddisfazione».8 L'inizio di una moralità umana è un atto d'amore. Per questo si esige una presenza, la presenza di qualcuno che colpisca la nostra persona, che raccolga tutte le nostre forze e le solleciti attraendole a un bene ignoto eppure desiderato e atteso: quel bene che è Mistero.
Il dialogo tra Gesù e Pietro termina in un modo strano. Questi, che sta per seguire Gesù, è preoccupato del più giovane, Giovanni, che era per lui come un figlio: «E, vedutolo, disse a Gesù: "Signore, e lui?". Gesù gli risponde: "Non preoccuparti di lui, tu seguimi"».9 Quel «sì» è rivolto a una Presenza che dice: «Seguimi, abbandona la tua vita». «Jesu, tibi vivo, Jesu tibi morior, Jesu sive vivo sive morior, tuus sum».10 Sia che tu viva sia che tu muoia, sei mio. Mi appartieni. Ti ho fatto. Io sono il tuo destino. Io sono il significato di te e del mondo.
Protagonista della morale è la persona intera, l'io intero. E la persona ha come legge una parola che crediamo tutti di conoscere e di cui, dopo molto tempo, se c'è un minimo di fedeltà a ciò che è originale in noi, si incomincia a intravedere il significato: amore. La persona ha come legge l'amore. «Dio, l'Essere, è amore», scrive san Giovanni.11
L'amore è un giudizio commosso per una Presenza connessa con il destino. È un giudizio, come quando si dice: «Questo è il Monte Bianco», «questo è un mio grande amico». L'amore è un giudizio commosso per una Presenza connessa con il mio destino, che io scopro, intravedo, pre-sento connessa con il mio destino. Quando Giovanni e Andrea l'hanno visto per la prima volta e si sono sentiti dire: «Venite a casa mia. Venite a vedere», e sono rimasti tutte quelle ore a sentirlo parlare, non capivano, ma presentivano che quella persona era connessa con il loro destino. Quelli che parlavano in pubblico li avevano sentiti tutti, avevano sentito i pareri loro e di tutti i partiti; ma solo quell'Uomo era connesso con il loro destino.
La morale cristiana è la rivoluzione in terra, perché non è un elenco di leggi, ma è un amore all'essere: uno può sbagliare mille volte e sempre gli sarà perdonato, sempre sarà ripreso e riprenderà il suo passo sul cammino, se il suo cuore riparte con il «sì». L'importante di quel «Sì, Signore, io Ti amo» è una tensione di tutta la propria persona, determinata dalla coscienza che Cristo è Dio e dall'amore a quest'Uomo che è venuto per me: tutta la mia coscienza è determinata da questo, e io posso sbagliare mille volte al giorno, fino ad avere vergogna di alzare la testa, ma questa certezza non me la toglie nessuno. Soltanto, prego il Signore, prego lo Spirito che mi cambi, che mi faccia imitatore di Cristo, che la mia presenza diventi di più come quella di Cristo.
La morale è amore, è amore all'Essere diventato uomo, avvenimento nella storia, che mi raggiunge attraverso la misteriosa compagnia che storicamente si chiama Chiesa o Corpo misterioso di Cristo o Popolo di Dio: io Lo amo dentro questa compagnia. Mi possono rimproverare per centomila errori, mi possono mandare in tribunale, il giudice mi può mandare in carcere senza neanche esaminarmi, con una ingiustizia patente, senza considerare se ho fatto o non ho fatto, ma non possono togliermi questo attaccamento che continuamente mi fa sussultare di desiderio del bene, cioè dell'adesione a Lui. Perché il bene non è il «bene», ma è l'adesione a Lui, è il seguire quel volto, la sua Presenza, il portare la sua Presenza ovunque, il dirlo a chiunque, perché questa Presenza domini il mondo - la fine del mondo sarà nel momento in cui questa Presenza diventerà evidente a tutti.
Questa è la morale nuova: è un amore, non regole da seguire. E il male è offendere l'oggetto dell'amore o dimenticarlo. Si può benissimo poi, analizzando con umiltà tutti i corsi e ricorsi della vita di un uomo, dire: «Questo sarebbe male, questo sarebbe bene», elencare, mettendoli in ordine, tutti gli errori in cui l'uomo può incorrere: si può fare, cioè, un libro di morale. Ma la morale è in me, che amo Colui che mi ha fatto e che è qui. Se non fosse questo, la morale la potrei usare esclusivamente per affermare un mio vantaggio; sarebbe in ogni caso disperante. Bisognerebbe leggere Pasolini o Pavese per capirlo; no, basta ricordarsi di Giuda.

La permanenza della moralità nuova
Se l'inizio della moralità nuova è un atto di amore, di adesione, e ciò esige la Presenza di qualcuno che ci colpisca e attiri tutte le nostre forze - come Gesù ha sollecitato Simone -, diventa fondamentale rispondere alla domanda: come questo avvenimento si mantiene vivamente presente nella nostra esistenza? La risposta stabilisce la possibilità della nuova morale nel presente, qui e ora, altrimenti essa inizierebbe per noi in modo intellettualistico, astratto, discorsivo. Tale risposta è in quel termine cristiano che appartiene all'esperienza del presente, senza del quale non potremmo sapere se la nostra esperienza è concreta o fantasiosa: «memoria». Nella memoria, l'avvenimento che sperimento secondo tutta la sua ricchezza viene immerso nel flusso del tempo e dello spazio, fa parte di una storia.
La prima condizione per la moralità nuova è fare memoria di quella Presenza che eccede i termini dell'umano conoscere, vale a dire riconoscere qui e ora la Presenza che non si può ridurre a nessuna ipotesi umana.
Questa Presenza è una realtà che sta davanti a noi e, con la forza del Suo Spirito, in noi. Essa è permanente nella nostra vita ed è talmente potente da rendere possibile, nella nostra adesione ad essa, lo svolgersi di una nuova creazione in noi. Così uno può risorgere dopo l'imperfezione e l'errore, al termine di ogni azione che è sempre sproporzionata e sempre imperfetta, con un passo più giusto, perché il Suo dono continua, come sorgente fresca, senza che nessun limite nostro lo possa arrestare.
La permanenza di questa Presenza è grazia, puro avvenimento, a cui non resistiamo nell'aderire qui e ora. Lo riconosciamo e vi aderiamo. È grazia, come lo è l'incontro, lo stupore, la sua continuità, l'impeto di adesione: e tale grazia diventa nostra perché l'accettiamo. Accettare questa novità assoluta, che riaccade mille volte al giorno, è l'aspetto supremo della libertà.
Come per Giovanni e Andrea, per Simone, per Zaccheo, l'inizio del nostro cambiamento è una grazia, un dono. Abbiamo fatto un incontro che ha come scopo quello di cambiarci e di compierci. E abbiamo aderito a questa Presenza che corrisponde in modo eccezionale alle nostre attese, con una adesione resistente, come in Zaccheo, che non era più definito dall'imperfezione in cui cadeva, perché quella Presenza era lì a trapassare come un rigagnolo fresco e puro tutto il lordume della foresta della sua umanità.12
Lo stupore dell'incontro, la continuità dello stupore, l'adesione a quella Presenza che permane implicano l'abbraccio e l'unità con tutti coloro che quella Presenza stessa ci pone vicino. Essa si è resa oggetto del nostro sguardo perché attraverso noi, con i nostri difetti, e il dolore per essi, e l'impeto strano che ne deriva, sia più conosciuta e amata.

Note
1 Cfr. Gv 1,42.
2 1 Gv 3,3.
3 Gv 17,3.
4 Un brano di sant'Ambrogio può illuminare in proposito. Nel suo lungo commento alla Creazione, giunto al settimo giorno, quello in cui Dio si riposò, egli afferma: «Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un'opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo. Creò il cielo, e non leggo che si sia riposato; creò la terra, e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna, le stelle, e non leggo che nemmeno allora si sia riposato; ma leggo che ha creato l'uomo e che a questo punto si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati» (Sant'Ambrogio, Exameron, IX, 76, in Opera omnia di Sant'Ambrogio, vol. 1, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova Editrice, Milano-Roma 1979, p. 419).
5 Cfr. O. Milosz, Miguel Mañara, Jaca Book, Milano 1998, pp. 48-63.
6 Prefazio della XVI domenica del tempo «per annum», in Messale Ambrosiano Festivo, Marietti-Jaca Book, Torino-Milano 1976, p. 653.
7 Epistola a Diogneto, PG 2, 1167-1186.
8 Cfr. San Tommaso, Summa Theologiae, II, IIae, q. 179, art. 1.
9 Cfr. Gv 21,20-22.
10 «Jesu tibi vivo», canto medioevale, in Canti, Coop. Edit. Nuovo Mondo, Milano 1995, p. 34.
11 1 Gv 4,8.
12 Cfr. Lc 19,1-10.

domenica 29 luglio 2012

Preghiera di Frate Ave Maria

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Tu hai convertito in luce le mie tenebre ed in gioia la mia tristezza; e la mia luce e la mia gioia Tu solo sei, o Gesù!”.
 “Dicono che sono cieco. Ma io affermo, con tanta compassione per gli altri: «Io non sono veramente cieco. I veri ciechi sono quelli che guidano alla perdizione le anime; i veri ciechi sono quelli che non vedono Gesù, e Gesù si vede con la luce della fede!».
  Eppure,  essendo cieco, quanta luce! Eppure, essendo sordo, quanta armonia!.. Eppure, avendo una voce rauca, con la quale mi faccio a stento intendere dai miei simili, che gioia parlare di tutti al Creatore, implorando per tutti la sua misericordia!
  Ah, come è bello e santo, per chi non ha da fare tantissime cose, per chi, come me, non sa fare altro, vivere nella solitudine, ubbidendo al divino Comandamento: “Ama Iddio con tutte le forze e il prossimo come te stesso”. Come è bello pregare per la perseveranza dei buoni e per il ravvedimento dei cattivi! Come è bello pregare con Gesù per i suoi crocifissori di ogni tempo: ”Padre, perdonali! Non sanno quello che fanno!”.
Questo è il mio ufficio; non so fare altro che stare in ginocchio davanti a Gesù e a Maria. Parlo a Gesù delle anime o parlo alle anime di Gesù. So che il Signore non mi vuole né predicatore né scrittore, ma con le mani giunte e davanti a Lui. Pregherò, dunque, molto”.
  Tu hai convertito in luce le mie tenebre ed in gioia la mia tristezza; e la mia luce e la mia gioia Tu solo sei, o Gesù!”.[1]“Vedete, io sono il più ignorante di tutti gli uomini della terra. Tutti sanno molte cose, ed io una cosa sola: so soltanto essere felice! Tutti posseggono più oggetti; io invece non posseggo che una cosa: la vera felicità! Io altro desiderio non ho, se non di adempiere sempre ed ovunque la santissima volontà di Dio.
  Questo cieco, questo ammalato è felice di una felicità non egoista; perché piange per la infelicità altrui e prega il suo Dio e la sua Madre celeste, affinché il numero degli infelici sia ridotto a più pochi che è possibile..."

Frate Ave Maria

 
UN RAGAZZETTO PIENO DI VITA
Pogli, il paese di nascita di frate Ave Maria, situato alla riva sinistra dell'Arroscia, a 10 km. da Albenga, conta un 300 abitanti e fa parte del comune di Ortovero che sorge più a valle ed è un centro di floridi mercati.
La famiglia di Cesare Pisano, un uomo gagliardo e labo­rioso che esercita il mestiere di panificatore, è di stampo e antico e di buona tempra religiosa, garantita in modo spe­ciale dalla mamma Serafina che deve allevare quattro ma­schietti e una bambina.
Il primogenito è il nostro frate Ave Maria, che vede la luce il 24 febbraio 1900 e al battesimo, somministratogli dal parroco don Giovanni Favara, riceve il nome del padre, ca­so non raro tra la gente di campagna, con altri due nomi di santi protettori, Domenico e Francesco che si riveleranno fa­tidici della sua fede, del suo amor di Dio, del suo spirito di povertà e di penitenza.
Il miraggio di un guadagno più sicuro seduce l'umile pa­nettiere che nel 1906 parte per l'America in cerca di fortuna e riesce a procurarsi un posto di macchinista nelle ferrovie.
In casa oltre la mamma Serafina e i fratelli, e poi la sorel­lina, ci sono i nonni materni e alcune zie.
Cesarino si affeziona alla chiesa: serve da chierichetto al­l'altare e a nove anni fa la prima Comunione e riceve la Cre­sima il 12 luglio 1909. Promette veramente bene.
E’ sano, vispo, ardito, con una faccia tonda e rosea e due occhi limpidi castani che sono una meraviglia. Ed è sveglio di intelligenza, primeggia tra gli scolari che frequentano le elementari a Ortovero e, più avanti, la IV classe, presso l'i­stituto Sacro Cuore di Albenga retto da don Isola. Quando s'iscrive alle tecniche guadagna una borsa di studio per pro­fitto e buona condotta. Ha già davanti a sé un avvenire di distinzione.
Alla serietà di piccolo studente unisce una grande vivaci­tà di carattere che lo stimola a scavalcare rapidamente la fron­tiera dei giochi fanciulleschi.
Su alcuni ricordi della prima infanzia tornerà volentieri Cesare Pisano già avanti negli anni, scrivendo alla mamma: «Vi ricordate quando mi feci male all'occhio destro tra­scinando rami d'olivo e rovi in piazza? (Alla vigilia di san Gio­vanni Battista a Pogli, come altrove, di sera accendono i falò). Voi andavate coi secchielli ad attingere acqua alla fonta­nella ed i miei compagni e io venivamo dal ponte verso la piazza trascinando e spingendo rami d'olivo, quando, ad un tratto, scappa di sotto ad un mio compagno un ramoscello e mi batte nell'occhio. Ricordo ancora come fosse ora, il vo­stro viso pieno di spavento nel vedermi portare piangendo le mani all'occhio. Mamma cara, quanti spaventi vi ho fatto prendere... Eppure quello non era che un preludio, a colori assai sbiaditi...».

LA SPAVENTOSA «DISGRAZIA»
La sollecitazione per l'avventuroso era nei ragazzi dell'e­poca allo stato vergine e istintivo, non inficiato da deforma­zioni mentali. Si sviluppava su di un fondo di semplicità prendendo forma dall'ambiente non dai fumetti pornografi­ci o da complessi freudiani.
Piuttosto confluivano nelle determinazioni i libri di Ver­ne e di Salgari, le reminiscenze letterarie dei poemi omerici, virgiliani e romanzeschi, e le immagini delle ultime guerre, quelle dell'Africa, sempre deleterie alla fantasia dei ragazzi. Fare il grande andando a caccia era uno dei diversivi pro­grammatici della gioventù in quella zona che vi si prestava, a due passi da casa, con la libera campagna e la distesa dei boschi ricchi di selvaggina.
Non esisteva ancora la passione per lo sport della palla rotonda nella quale si scaricano tanti richiami di lotta insiti nell'animo. Ma usava molto il pallone elastico anche nelle minuscole frazioni. Cominciava ad affermarsi il ciclismo, quel­lo dei tempi leggendari, e lungo la Via Aurelia ogni anno dal 1907, il giorno di San Giuseppe, passava la Milano - Sanremo resa dura dal favoloso Turchino. Ma i pochi chilometri che separavano la corsa dal paesetto di Cesarino potevano an­nullarsi dai giovani che possedevano una bicicletta, non dai ragazzini che ancora dovevano sognarsela.
La caccia invece era a portata di tutti se non altro come spettatori e aiutanti in campo.
È il 1° novembre 1912, un pomeriggio tiepido, soleggia­to, che richiama i parrocchiani alla pratica dei suffragi dopo che con la messa cantata del mattino si è esaurita sostanzial­mente la solennità di Tutti i Santi.
In chiesa prima, ognuno con la candela accesa, a recitare l'ufficio dei Morti, e poi, in processione, al piccolo cimitero, già tutto infiorato ai tumuli erbosi e alle bianche lapidi, per la commemorazione anticipata dei fedeli defunti.
Nessuno manca al dovere umano e cristiano.
Il nonno sta avviandosi alla parrocchia dove la sua pre­senza è richiesta come cantore anziano e incontrando Cesa­rino per la strada lo invita a seguirlo. Ma il ragazzo scantona. Ha scorto il suo «Tumelin» Vignola di un anno maggiore di lui e suo indivisibile compagno di svago nel pescar anguille all'Arroscia e nell'arrampicarsi su per i boschi a caccia di ni­di e di uccelli: con quel desiderio ancora inappagato di poter un giorno concedersi il gusto e il piacere di imbracciare il fu­cile ed imitare i grandi.
Lo raggiunge, lo segue e nella penombra di una stalla aper­ta, coi ruminanti sdraiati sullo strame, intravvedono le can­ne lucenti di un fucile da caccia appoggiato alla umida parete.
Perché non provarlo? Il padrone è altrove in quel momento.
Bartolomeo entra, afferra l'arma, la palleggia bilancian­dola tra le mani e poi la spiana per gioco in direzione di Ce­sare: «Scappa, se no ti tiro come a un piccettu» (il pettirosso).
Cesare vorrebbe palparla, maneggiarla subito anche lui quell'arma così seducente, ma si scosta per sostenere «l'altra parte», quella di bersaglio. Tanto il fucile è scarico. E pre­gustando la gioia che proverà dopo di lui, incita il compa­gno: « Su, presto, presto, spara io non ho paura!». E allarga le braccia, pronto a ricevere la scarica.
Bartolomeo preme il grilletto.
Un grido: «Mamma!». Cesarino urlando si copre con le mani la faccia, da cui gronda il sangue, e crolla a terra terro­rizzato.
Il velo delle tenebre è calato sui suoi occhi per sempre. Bartolomeo fugge via a dar l'allarme, con il cuore in tu­multo. La gente accorre. Il nonno è il primo a raggiungere il fanciullo. Lo prende sulle braccia e lo porta in casa. Di lì si prepara in fretta un mezzo di trasporto per l'ospedale di Porto Maurizio.
I medici dopo aver apprestato al ferito i soccorsi imme­diati, pietosamente alla mamma e ai nonni, che gli sono ac­canto, lasciano un lieve margine di speranza. Cesarino continua a protestare, smaniando, che vuol vederci, che gli levino quelle bende. «Stai tranquillo - gli dicono - che ap­pena tolta la fasciatura ci vedrai!».
Un mese a Porto Maurizio.
Nel frattempo il padre è accorso dall'Argentina. Il ragaz­zo una volta sente il dottore che gli dice: «Solo un miracolo potrebbe salvargli la vista». Ne rimane sgomento. Comincia nel suo pensiero un sordo lavorìo di ribellione, di rabbia, di disperazione.
Con ogni cautela si compiono diversi interventi operato­ri. I pallini sono asportati con l'occhio colpito, il sinistro. Si tenta il possibile per salvare quello destro, ma per il pericolo del tetano, e perché ormai spento, lo devono enucleare.
Due occhiaie vuote dove prima brillava tanta luce di in­telligenza e di bellezza. Un mese di strazio e la più cupa an­goscia nel cuore. Un'indole tanto buona, portata naturalmente all'ottimismo, che rischia di deteriorarsi in un carattere irri­mediabilmente introverso.

ALL'ISTITUTO DAVIDE CHIOSSONE DI GENOVA
Tornato in famiglia dopo le ultime medicazioni, colle fe­rite rimarginate ma spaventose a vedersi, se le lenti nere non le nascondevano, rimase a smaltire i mesi più duri del suo tirocinio di adattamento ad una vita da condurre nella cecità totale, mentre in casa con l'accorata partecipazione del par­roco, degli insegnanti di Albenga, si venivano prendendo le decisioni per la sua sistemazione definitiva.
Il fanciullo si sente tremendamente solo.
Il pensiero e la presenza dei ragazzi che ci vedono, che si divertono, può influire negativamente su di lui, accentuando il suo complesso d'inferiorità nell'inevitabile, ossessivo con­fronto.
L'affetto della mamma e del papà, dei parenti, dei sacer­doti che lo avvicinano, mitiga quel senso di abbandono e so­litudine, ma non può ancora sostituire il tesoro perduto.
Il rimedio più adatto è vivere con dei compagni simili a lui nella menomazione fisica. Se il collegio è un ospedale ri­spetto alla famiglia, diventa utile, indispensabile, nel caso par­ticolare.
I ciechi non amano sentirsi compatiti, perché hanno del­le possibilità di ricupero e di affinamento delle doti migliori dello spirito, che largamente li compensano.
Per Cesarino fu deciso il ricovero all'Istituto Davide Chios­sone di Genova.
È una tra le migliori opere sorte in Italia a sollievo dei giovani privi del dono della vista. Porta il nome del suo fon­datore medico e letterato, autore di diversi drammi a sfondo sociale (Genova 1822-1873).
E’ bene impostato religiosamente. L'infermeria è affidata alle Figlie della Carità.
Cesare Pisano vi entra il giorno 8 maggio 1913 ed è subi­to circondato di affetto, oggetto di amabili attenzioni spe­cialmente da parte del direttore don Giovanni Gando e del confessore dell'Istituto don Giovanni Lagomarsino prete della Missione e presidente dell'Associazione Ligure Ciechi. Gli dà subito una sensazione di sollievo, se non di rasse­gnazione alla tremenda «disgrazia» che l'ha colpito, la com­pagnia di giovani e di adulti che soffrono come lui, hanno come lui il rimpianto della luce e dei colori, del libero movi­mento, degli incontri con le persone e il contatto visivo della natura, ma, con sua sorpresa, diversamente da lui si son adat­tati all'ineluttabile destino e gli presentano con l'esempio pra­tico la via da seguire per uscire dalla tetraggine e riprendere un po' di confidenza e di fiducia nell'avvenire.
Egli si dibatte in una crisi che per ora non offre alternati­ve di sicura salvezza.
A scuola non si applica come potrebbe, però realizza qual­che buon profitto. Apprende il metodo di scrittura e lettura Braille, e le sue dita acquistano molta finezza tattile e percet­tiva; segue piuttosto distratto, da principio, le lezioni di sto­ria, di letteratura, di scienza e matematica che gli vengono impartite, attende con risultati appena mediocri allo studio della musica e nell'ora di esercizi pratici impara qualche me­stiere come quello di impagliare sedie, confezionare coronci­ne, eseguire determinati lavoretti, nei quali potrebbe anche distinguersi, se tutto non rimanesse offuscato, paralizzato da quell'oscuro sentimento di irreparabile inferiorità di cui si sente ingiustamente vittima.

L'AZIONE BENEFICA DI SUOR TERESA
Il confronto con il passato lo getta nell'angoscia ogni volta che si presenta al suo pensiero. Dotato di buona sensibilità artistica, egli avverte ancor più struggente il rammarico. Re­so precocemente adulto dalla sventura, non più protetto e sal­vaguardato dalla gioconda esuberanza giovanile, piomba in un abisso di tristezza che col tempo si esaspera e s'intorbida di cupe riflessioni demolitrici della stessa fede.
È il momento più lontano da Dio da lui vissuto. La Provvidenza non tarda però a manifestarsi. Trasferita da Cagliari, giunge, come prima infermiera del­l'Istituto Chiossone, suor Maria Teresa Chiapponi di Pianello Val Tidone.
Diventerà l'angelo tutelare di Cesare Pisano.
Suor Teresa lo incontrò al quarto anno di cecità, quando il giovane entrava nell'età critica e i germi malefici dello scet­ticismo e della incredulità avrebbero potuto avviluppargli il pensiero e rapidamente inaridirgli il cuore.
La piccola suora, fornita di senso pratico e di finezza psi­cologica, serviva con grande bontà i suoi ragazzi, li coltiva­va moralmente e spiritualmente, e, senza ricorrere all'uso di troppe parole, aveva al momento buono il tocco risolutore per attirarseli e convincerli al bene.
Cesare da molto tempo non pregava più e covava in sé una specie di rancore contro la fede che gli pareva inefficien­te a ridargli la pace e la gioia di vivere. Nell'intimo del suo animo compiva due operazioni contraddittorie: negava Dio e lo contestava, lo «bestemmiava».
Era insofferente di tutto. All'ora della messa, della do­menica e del giovedì, si dava malato: e malato lo era solo nello spirito. La suora capiva benissimo che era un pretesto per sottrarsi al dovere religioso, ma non lo redarguiva diret­tamente, per non mortificarlo e irritarlo. Mentre gli passava una sigaretta per tenerlo su di morale, gli diceva: «Non ne hai abbastanza della cecità degli occhi: vuoi crescere cieco anche nell'anima. Poveretto!».
Lui però non si sentiva affatto disposto a secondare le af­fettuose iniziative. La considerava un'inesperta della vita, una fanatica, una pazza.
Ma poi capì che era possibile un'altra spiegazione di quel suo caritatevole sacrificarsi: - E se fosse una santa?
La grazia di Dio, per mezzo di quell'anima pia e genero­sa, cominciava a operare in lui.
L'alba della salvezza non era lontana. Un fatto che potrebbe ritenersi decisivo.
Muore nel 1918 la nonna, da lui visitata poco prima al­l'ospedale di Galliera. Ne prova una vera desolazione. Suor Teresa lo esorta a onorare la memoria della defun­ta con la preghiera e con la santa Comunione. Agisce cioè sul suo naturale sentimento di affetto verso i congiunti. Straordinariamente Cesare Pisano acconsente: si confes­sa e ritorna alla Comunione.
Non si esagera a parlare di conversione, anche se si trat­ta di un giovane sotto i 18 anni. E di «conversioni» ce ne sa­ranno altre lungo il cammino della sua vita, che da quel punto ha trovato il suo orientamento definitivo.
Chissà! Avrebbe potuto applicandosi meglio essere tra gli allunni scelti per continuare lo studio della musica al Con­servatorio. Ne fu escluso, ma non senza un provvidenziale disegno di Dio, che «scrive diritto sulle nostre linee storte», come usava dire don Orione.

VOCAZIONE RELIGIOSA
Davvero straordinario! Va a casa per passare un po' del­le sue vacanze in famiglia, ma lo prende la nostalgia dell'Isti­tuto, e comunica a suor Teresa che vuol presto rientrare per potersi concedere la gioia di «pregare».
Tornato al suo «dolce nido», studia appassionatamente la religione, pone domande, chiede soluzioni ai suoi dubbi e medita a lungo sul proprio avvenire.
Non è però un cammino scevro di difficoltà e di contra­sti. A volte lo invade un senso di malinconia, e teme di per­dere quel «gusto sensibile», quel fervore della preghiera, a cui si è applicato.
Intanto s'insinua nel suo cuore un'idea e forse già un de­siderio: donarsi tutto al Signore entrando a far parte di qual­che comunità religiosa.
«Ogni immagine che dimora in noi, tende a impossessar­di di noi, a modellarci del suo stampo. Penetrati da una idea liberamente scelta, noi ne diventiamo schiavi: schiavi di noi stessi, della nostra volontà di scelta, cioè liberi» (Sertillanges). Una volta a suor Teresa, che gli domandava perché era triste e cogitabondo, Cesare Pisano rispose per scherzo che stava mulinando nel cervello l'idea di farsi frate. Ma poi l'i­dea s'impossessò di lui nel senso or ora esposto, e quando un'idea signoreggia un cuore libero nessun ostacolo può più impedirne la realizzazione.
Il padre Lagomarsino, messo al corrente, si adoperava per tener viva la fiamma della vocazione e avrebbe voluto indi­rizzarlo al Cottolengo di Torino. Non era quello il suo posto.
Suor Teresa gli veniva parlando di un sacerdote, don Luigi Orione, fondatore d'una Congregazione dove egli avrebbe me­glio attuato il suo sogno claustrale.
A don Orione suor Teresa si era già rivolta per raccoman­dargli alcune suore, cieche o vedenti, in quel periodo di tempo. Parlava di lui all'aspirante religioso con tanta convinzio­ne da accendere nel suo cuore non un vago desiderio o una semplice curiosità di conferire con lui, di ascoltarlo, di sag­giarlo, ma la brama risoluta e incontenibile di donarsi inte­ramente a lui, di mettersi da quel momento a sua completa disposizione.

DON ORIONE E IL SUO IDEALE DI VITA
Il sacerdote don Luigi Orione era già stimato, specialmente nelle alte sfere ecclesiastiche, come uno degli esemplari più significativi del clero, mentre rappresentava nel modo più de­gno la tradizione delle grandi figure apostoliche piemontesi, dal Murialdo al Cottolengo, dal Cafasso a don Bosco.
La sua caratteristica più qualificante era l'ardente brama di immedesimarsi con Gesù Crocifisso, divenuto il centro pro­pulsore della sua vita, da cui derivava, come logica conse­guenza, l'assoluta e incondizionata fedeltà alla Chiesa e al Papa «dolce Cristo in terra», e lo zelo generosissimo per la salvezza delle anime, di tutte le anime, comprese nel grido: «Ho sete!» che parte dalla croce di nostro Signore.
Ma per salvare le anime «membra di Cristo» occorre una fede, uno spirito di dedizione e di sacrificio capace di sugge­rire e accompagnare l'esercizio di tutte le opere di misericor­dia. E per realizzare questo programma e raggiungere queste finalità, è indispensabile la devozione alla celeste Madre, di­spensiera di grazie, «posta da Dio sull'orizzonte del cristia­nesimo, perché a lei si rivolgano i voti di tutti coloro che soffrono e sperano», secondo una sua espressione, oggi scol­pita sul marmo nella parete centrale esterna della torre - mo­numento che fa da piedestallo alla grande statua dorata splendente sul santuario da lui eretto alla Madonna della Guardia di Tortona.
Per questo, Luigi Orione - nato a Pontecurone (AL) da un'umile famiglia di selciatori di strade il 23 giugno 1872, e passato da giovane per esperienze in parte dolorose, ma sem­pre vissute nella luce della vocazione, prima come postulan­te dei Minori francescani di Voghera, poi come allievo dell'Oratorio salesiano di Valdocco, dove conobbe don Bo­sco, e finalmente nel seminario vescovile di Tortona, - sua diocesi -, quando, spinto dagli esempi dei Santi torinesi, inaugurò, ancor semplice chierico, l'Oratorio festivo "San Lui­gi", il 3 luglio 1892, che segna l'inizio della «Piccola Opera della Divina Provvidenza» da lui fondata, e approvata il 21 marzo 1903 dal suo vescovo Igino Bandi, volle nel timbro e nello stemma della Congregazione fissare questa sigla: «Ge­sù, Papa, Anime, Maria».
Tutta la sua vita si sviluppa su queste quattro direttrici intercomunicanti pur nelle diverse forme delle loro attuazioni. Nell'esercizio della carità («Fare del bene sempre, del be­ne a tutti, del male mai a nessuno») e nell'intento particolare di portare la gioventù «sole e tempesta di domani» all'amor di Dio e del prossimo, egli non si rivela solo un buon orga­nizzatore, ma un esecutore, votato a tutti i sacrifici e pronto a morire sul campo del lavoro, come poteva succedergli quan­do accorse nel 1909 tra i superstiti del terremo calabro - siculo, e nel 1915 tra quelli del terremoto marsicano, meri­tandosi il titolo di «padre degli orfani» ravvivato da prodez­ze ed eroismi eccezionali.
Per questo ancora, alla Congregazione di sacerdoti chie­rici e coadiutori professi, e alla famiglia religiosa degli Ere­miti (1899), aggiunse la fondazione delle «Piccole Suore Missionarie della Carità», impegnate soprattutto in quelle Ca­se di assistenza denominate «Piccoli Cottolengo di don Orio­ne», iniziate si può dire fin dal 1915 ad Ameno (NO) e nel 1917 a San Sebastiano Curone (AL), ma sorte come una feli­ce costellazione a Genova dal 1924, a Milano nel 1933, e poi in ogni regione d'Italia, come in Polonia, in Brasile, in Uruguay, in Argentina, nel Cile, in Inghilterra (ancora lui vi­vente), e oggi presenti anche in Spagna, in Francia, nell'A­merica del Nord, in Africa e in Asia.
Ma proprio negli anni seguiti al suo primo incontro col nostro giovane, don Orione provvedeva a fondare in Con­gregazione due nuove famiglie: quella degli Eremiti ciechi (1923) e quella delle Sacramentine cieche Adoratrici (1927). In questo periodo di tempo (1920) il nostro beato padre Fondatore era ancora nel pieno vigore delle sue energie morali e fisiche. Aveva 48 anni. Esprimeva forte volontà dal volto rude e sorridente sotto una fitta corona di capelli corti e gri­gi, e una luminosità affascinante dagli occhi grandi mobili penetranti, magari anche il segreto delle anime. Gli rimane­vano altri quattro lustri da vivere, durante i quali attuerà un efficace rinsanguamento dell'organismo religioso mediante la questua delle vocazioni, e subirà la provvidenziale Visita Apo­stolica compiuta dall'abate Emanuele Caronti, che dava il suo contributo di pietà e di esperienza all'organizzazione e allo sviluppo della Congregazione, rinnovata nelle sue strutture ai sensi del diritto canonico, per l'approvazione delle Regole da parte della S. Sede e il riconoscimento pontificio, che av­verrà alcuni anni dopo, col decreto del 20 novembre 1954.
Il volto della Congregazione era diverso da quello attuale. Ma quanto c'era o ci poteva essere di confusionario, di farraginoso, d'improvvisato, di empirico e di manchevole nella tenuta esterna, era compensato dal fervore religioso che ci animava, dalle buone disposizioni al lavoro anche quello più faticoso e umile, dalla semplicità di vita, da una carità fra­terna di vicendevole edificazione, che escludeva qualsiasi aspi­razione a distinzioni e cariche onorifiche e di comando. Si guardava ai più anziani con rispetto e venerazione, si prati­cava la povertà a tavola e in tutto il costume di vita. Paste, dolci, gelati, bibite, non si sapeva mai che gusto avessero. Neppure a Natale e a Pasqua compariva alla mensa un as­saggio di panettone: bastava un po' di frutta, mandarini, aran­ce e le belle mandorle di Noto, oltre le castagne secche, naturalmente bollite, qualche volta nel latte adacquato.
Lo spirito di mortificazione rientrava di continuo nell'os­servanza delle norme pratiche, molto austere, a cominciare dall'ora della levata. Si scansava persino l'uso del vocabolo «vacanze», ritenuto indegno di un figlio della Divina Provvi­denza. «Labor, Sudor, Fervor», erano le vie maestre da per­correre asceticamente. Di libri personali non avvertivamo la necessità. I testi di meditazione, oltre la Sacra Scrittura, era­no l'Apparecchio alla morte di S. Alfonso de' Liguori e il De Imitatione Christi.
Don Orione disapprovava la cura ricercata dei capelli: li voleva sempre tagliati corti; condannava magari con draco­niane decisioni l'uso di abiti troppo fini o secolareschi, anzi voleva che portassimo la veste talare anche durante il lavo­ro. Al limite, a un damerino avrebbe preferito un trasanda­to, sempre però disapprovando, lui che teneva tanto all'ordine e alla pulizia, come al decoro sacerdotale, certe penitenze in­settiformi praticate da Giuseppe Benedetto Labre «santo non per quelle ma malgrado quelle».
Cesare Pisano si trovò così sbalzato dall'Istituto Chios­sone di Genova al Convitto Paterno di Tortona, che presen­tava aspetti del tutto nuovi per lui.

A TORTONA NEL 1920
Dunque la decisione è presa e confermata: entrerà nella Congregazione di don Orione. L'attivissima suora ottiene per­sino che don Orione sosti per breve tempo all'Istituto Chios­sone per vedere il postulante, al quale rivolge parole di fede non scevre di una certa austerità per imprimere in lui fin dal primo incontro il concetto dell'umiltà, dello spirito di sacri­ficio e di rinuncia necessario a chi intende consacrarsi a Dio, avendo già concepito in cuore di farne il capostipite d'una istituzione destinata ad una vita di silenzio e di preghiera.
Dice al riguardo frate Ave Maria, rievocando in seguito tale incontro: - Allora io ero disperato, non avevo fede, de­sideravo solamente la luce del mondo, la sapienza del mon­do. Con molta pazienza riuscì a farmi capire e ricordare che la vera pace è un dono di Dio e che il Signore la promette a tutti gli uomini, e non solo ai potenti, ai sapienti, ai ricchi, ai dotati di un corpo sano, bello, agile: anzi chi, più privo di questi vistosi vantaggi, ha miglior volontà, quegli ha mag­gior pace. Don Orione, con grande paterno amore, mi dette dello stordito. «Oh, stordito - mi disse - tu desideri i beni che poi dovresti abbandonare; di quello che avresti nelle tue mani, forse te ne serviresti per diventare colpevole. Tu devi vedere la luce, per non correre il pericolo di andarti a fracas­sare; tu devi avere la sapienza dell'uomo giusto, e sta certo che non ti annoierai. Devi affidarti alla Madonna, che ti as­sisterà sempre, continuamente, col suo materno cuore... » (La luminosa notte, p. 21).
Ma suor Teresa vuol conoscere le modalità e le condizio­ni della sua accettazione: come dev'essere il corredo, di quali cose indispensabili deve fornirsi, quale la retta da corrispon­dere. Don Orione, dopo aver ascoltato tutto in silenzio, fino in fondo, godendosi quasi la premurosa ansietà che era nelle parole della suora, prese un contegno di serietà e movendo il capo in segno di approvazione, disse: «Sì, una cosa è pro­prio necessaria e indispensabile perché il giovane sia accolto». «Quale? Dica, dica, padre».
«Che si presenti alla porta personalmente».
Qui c'è tutto don Orione intus et in cute, con la sua cari­tà, la sua intuizione, il suo umorismo.
Ha compreso benissimo che quella era un'anima che Dio gli mandava come il più desiderabile dei regali.
L'undici marzo 1920 Cesare Pisano è di nuovo al paese per salutare la famiglia. I genitori, la nonna rimasta, gli ac­cordavano il consenso, un fratello no. Riparte quasi subito per Genova e di lì per Tortona.
È ricevuto affettuosamente al Convitto Paterno. Don Orione è assente, ma torna presto da Roma e il giovane aspi­rante lo può avvicinare e parlargli mentre tutti sono riuniti in refettorio per il pranzo.
La prima impressione che egli riporta dell'ambiente non è di entusiasmo. Tutto quel fervore elogiativo, tutti quei rac­conti di sogni e di visioni dell'uomo di Dio che formano l'a­bituale tema dei discorsi al Paterno, gli sembrano viziati di fanatismo. Anche la voce di don Orione (evidentemente un po' diversa da quella del primissimo incontro al Chiossone) gli giunge dapprima «sgradevolissima». Ma poi...! I dubbi, le riserve mentali, lo scetticismo, se mai ci furono, cedono all'ammirazione e alla venerazione per l'uomo straordinario a cui si è affidato.
Si fa così presto ad affezionarsi a lui!
«Man mano che i giorni passano - dirà poi Cesare - io andavo sempre più affezionandomi a don Orione, tanto che avrei desiderato star sempre con lui, ascoltare la sua Mes­sa, far da lui la Comunione, sentirlo predicare, far con lui tutte le altre pratiche di pietà, perché tutto in lui aiutava il raccoglimento, a meditare, a pregare. Preferivo sentir legge­re don Orione, che predicare qualsiasi altro oratore, perché, anche quando leggeva, aveva la parola viva. Don Orione pre­dicava un ideale sublime, in modo da invogliare molti a vi­verlo» (Ibid., 23).
Una volta durante la ricreazione don Orione lo sorpren­de alle spalle e con le mani gli chiude gli occhi. Cesare scam­biandolo per un confratello, completa lo scherzo dicendo: «Come volete che possa conoscervi se mi tenete chiusi gli oc­chi con le mani?».
Come sono lontane le ore della sua disperazione per la vista perduta!
Un vivo desiderio è riposto in fondo al cuore. Lo aveva subito manifestato a don Orione e ora lo custodisce segreta­mente e non osa farvi riferimento, forse nel timore che la spe­ranza di realizzarlo, concepita dal primo momento del suo incontro, trovi un freno o una smentita per sopravvenuti osta­coli aggiunti a quello fondamentale della cecità: «Divenire sacerdote!»
È una fiamma che lo divora. Ma basta accennarvi. Il si­lenzio di Cesare Pisano deve essere il nostro.
Per ora si tratta di un miraggio. Realizzarlo sarebbe un prodigio.
Egli crede possibile questo prodigio.

NOVIZIO A VILLA MOFFA DI BRA
Nella austera divisa del "Chiossone" il giovane, ben por­tante fisicamente, gli occhi di cristallo sempre velati da lenti oscure, rimase fisso al "Paterno" per alcuni mesi, e sul finire di luglio don Orione gli procurò un'ambita soddisfazione: la partecipazione al corso di Esercizi Spirituali che si svolgeva­no a Villa Moffa di Bra per i sacerdoti e chierici della Piccola Opera.
Villa Moffa (dal nome dell'antico proprietario, il conte Moffa di Lisio uno dei più celebri patrioti piemontesi del pri­mo Ottocento) situata a mezza costa della lunga linea di col­line che da Bra fiancheggiano la ferrovia e la statale fino a Sommariva Bosco, verso Torino, costituiva un soggiorno in­cantevole.
Là si venivano formando, attraverso il noviziato e gli studi ginnasiali (allora... era così) le più giovani speranze della Con­gregazione.
Compiuto il corso di Esercizi, Pisano fu ammesso a ve­stire la talare, con altri aspiranti, durante la suggestiva fun­zione solita a compiersi nella vigilia notturna dell'Assunta, e fu ascritto tra i chierici della Divina Provvidenza.
Però per il nuovo anno scolastico egli dovette far ritorno al "Paterno" di Tortona.
La sventura che lo ha privato della vista è ormai un sem­plice ricordo. Egli serve il Signore in letizia, tutto compreso dell'impegno di farsi santo alla scuola di don Orione e dedi­to ad un'assidua preghiera.
Il capovolgimento (metànoia) nella valutazione delle co­se è già perfettamente attuato. Egli considera la cecità fisica come un'occasione e un mezzo più efficace per approfondire la penetrazione dei misteri e della bontà di Dio, per una mag­giore acquisizione di luce spirituale.
È di carattere tanto lieto nella sua costante unione con Dio, da non estraniarsi al divertimento dei convittori del "Pa­terno" e dell'Istituto "Dante" sorto quell'anno in Tortona, che a carnevale si concedono le tradizionali esibizioni comiche e drammatiche.
Anzi, vi prende parte attiva, lui, l'unico capace di muo­vere decentemente le dita su di una tastiera, accompagnan­do al pianoforte le gustosissime macchiette di un «matador» dell'arte scenica, Guido Serventi, maestro di legatoria, noto in tutta la Congregazione e particolarmente in due città, Tor­tona e Venezia. Così è fatta la sua pietà cristiana: aliena da musonerie e agli antipodi degli atteggiamenti puritani.
Tuttavia il suo cuore è ancora a Villa Moffa che gli pare l'ambiente meglio adatto per l'esercizio della preghiera, del lavoro, della penitenza, e domanda a don Orione di poter fare anch'egli là il suo noviziato.
Don Orione, che aveva già pensato di destinarlo all'ere­mo di Sant'Alberto di Butrio, lo accontenta due volte: prima consentendogli di prendere parte, a Villa Moffa, agli Eserci­zi Spirituali del 1921, e poi di fermarsi là come novizio.
Ha 21 anni, veste da chierico, ma ha già cominciato, d'or­dine di don Orione, a farsi crescere la barba. Continua pe­raltro a tosarsi i capelli, per ora.
A Villa Moffa (Casa dell'Immacolata) funzionano la III e la IV ginnasiale, per i giovani chierici, di differente età e formazione intellettuale, ma tutti considerati novizi (prima che la Congregazione si organizzasse bene, ai sensi del dirit­to canonico).
Cesare frequenta la IV classe (che svolge però anche il pro­gramma della V), come uditore, senza obbligo di presentare gli scritti e di rispondere alle interrogazioni. È lo scolaro più adulto. Solo don Cremaschi e l'aspirante Castagnetti gli sono superiori d'età. I chierici docenti che coadiuvano il direttore sono più giovani di lui, che cerca di profittare soprattutto nello studio del latino, e si esercita sul testo del Vangelo di San Lu­ca con un doppio guadagno, per la mente e per lo spirito.
Durante quell'anno scolastico 1921-`22 don Orione si trovava in America (Brasile e Argentina). A Villa Moffa s'e­ra cominciato con un po' di accademia per la festa del diret­tore don Giulio Cremaschi il 31 gennaio; ma siccome l'appetito viene mangiando, i più animosi tra i chierici otten­nero dal superiore di preparare qualche spettacolo più sostan­zioso per la successiva primavera.
Assente don Orione, don Cremaschi era un ostacolo fa­cile da superare. Soffiarono nel fuoco dei suoi entusiasmi per­missivi e la voce «teatro» divenne la più attiva a Villa Moffa nei mesi di marzo, aprile e maggio di quell'anno. Un reper­torio coi fiocchi. Quattro rappresentazioni pubbliche in un salone capace di 500 posti a sedere ricavato da un ampio por­tico cascinale alla periferia di Bandito (la frazione di Bra dal­la cui parrocchia dipendeva la casa). Ai numeri principali, consistenti in drammi e commedie, si intrecciavano le famo­se macchiette, e Cesare Pisano non oppose difficoltà all'invi­to di prestarsi come pianista. Nel suo giocondo spirito di carità prendeva viva parte al divertimento comune.
Come faceva a esprimere tanta gioia e tanta serenità? Ma attenzione: parlando e scrivendo di quelle allegre se­rate, frate Ave Maria dichiara d'avervi preso parte «come strimpellatore e come buffone». In realtà vilipende un po' se stesso. Non disperdeva nulla della sua intimità con Dio. An­zi... ascoltiamolo: «Riconosco che queste uscite (le recite a cui assiste limitandosi ad accompagnare con l'harmonium al­cune macchiette) mi servono a meraviglia per acquistare un totale disprezzo del mondo e, quel che più importa, di me stesso».
E qui sarà bene ricordare che don Orione, quando istituì il Presepio Vivente, preparava i suoi chierici attori con au­stere riflessioni sui novissimi, perché non si lasciassero incan­tare da quelle pubbliche esibizioni. La Villa Moffa era al centro di un paesaggio idillico che doveva sedurre in modo speciale l'estro poetico dei giovani, esaltarli nell'ammirazio­ne del bello e della natura, primo gradino per arrivare alla contemplazione di Dio. Ma Cesare Pisano non ne percepiva gli aspetti visibili: solo quelli tattili, olfattivi, auricolari.
Quei liberi orizzonti col Monviso e la cerchia alpina «a portata di mano» nelle giornate limpide, quell'ampiezza pa­noramica compresa tra i colli della Maddalena e di Superga a nord e le Langhe a sud, con di fronte, a ovest, la pianura su sfondo alpino, non potevano rivelarsi al suo sguardo, ma solo giungere di riflesso all'immaginazione quando i suoi com­pagni glieli commentavano.
Ma bastava per suscitargli in cuore la lode al Signore e il gaudio della contemplazione. La verità é che egli attingeva direttamente alla fonte divina la propria gioia pura e genui­na, più profondamente radicata, più espansiva.

LAVORO E PENITENZA SULLA VIA DELLA PERFEZIONE
Il ricavato delle recite andò a beneficio d'una costruenda Grotta di Lourdes e di un vicino pozzo d'acqua potabile che effettivamente si rese utilissimo negli anni successivi, prima dei nuovi impianti.
La Grotta di Lourdes, da erigere a Villa Moffa a qualche centinaio di metri dalla casa, in un angolo suggestivo della collina di là dal frutteto, ai piedi dei Tarlapini, era un «so­gno» che don Cremaschi - autorizzato da don Orione - voleva realizzare ritenendolo di ispirazione della Madonna. Tutti ci si misero dentro con entusiasmo, a cominciare dai contadini di Bandito, che davano mano personalmente ai lavori di scavo e all'apprestamento del materiale in pietre e calcari estratti e portati sul luogo dalle rocce di Pocapaglia
Le ore di ricreazione erano interamente dedicate a quella dolce e animosa fatica.
Il chierico Pisano vi si applicava addirittura in alcune ore della notte. Sapeva usare piccone, badile e carriola con una sicurezza che gli veniva dalla pratica e dall'affinamento degli altri sensi.
«Se non nevica forte - scriveva alla suora sua benefat­trice - vado soletto alla Grotta e là lavoro (...). Vado a se­gar legna per la cucina (...). Il sagrestano mi chiama ad aiutarlo (...). Vado pure a sbucciare patate, zucche e rape». Aveva molta fiducia in don Cremaschi che cooperò effi­cacemente con i suoi consigli semplici e saggi a levargli dal­l'animo alcuni scrupoli nei quali andava impegolandosi. Chiese più di una volta il permesso di vegliare fino a mezza­notte Gesù eucaristico. E già tutto infervorato della devozione alla Madonna ottenne in segreto dal direttore di poter tra­scorrere alla Grotta l'intera notte sul Capodanno 1922, so­lo, nel gelo, a lavorare e pregare a cantare lodi al Signore.
Al mattino si ritrovò puntuale con la comunità in cap­pella per la messa, la Comunione e la meditazione.
Ma sopravvenne la bronchite e fu l'inizio di un calvario. Perché tanta brama di penitenza? Perché lui è convinto di essere stato un grande peccatore: «Di me altro non so dire se non che molto, infinitamente, inauditamente offesi Dio». Si considera «erbaccia tra i fiori», «fango tra le perle», «vi­zio tra virtù», «diavolo tra gli Angeli. E il suo è un sentimen­to di sincera profonda convinta umiltà, come quella del padre Felice di fronte agli scampati della peste (Promessi Sposi, XXXVI). Ha tanta fiducia nella misericordia di Dio, però deve far ammenda dei suoi peccati, della sua disperazione, delle sue bestemmie di quando odiava, detestava la propria infeli­cità e osava ribellarsi a Dio.
«Tutti mi leggono sulla fronte la serenità e la pace - con­fessa in una delle lettere - mentre nel petto mi rugge la tempesta».
È la lotta contro le passioni che lo impegna così dura­mente, ma è anche il desiderio di soffrire che ora trova osta­coli nel divieto dei superiori di vegliare la notte.
La bronchite lo ha debilitato e gli ha lasciato uno strasci­co di tosse e di febbriciattola di cui egli non si preoccupa mi­nimamente. Riconosce però di sentirsi fiacco, di aver bisogno di nutrimento, ma teme che il gusto del cibo ridondi a danno dello spirito di mortificazione e arriva a chiedere alla suor Teresa un ricostituente amaro con cui aspergere le vivande, per essere certo di non condiscendere alle tentazioni della gola. Deve nutrirsi, ma prega Dio di levargli il gusto e da parte sua fa di tutto per rendere il cibo intollerabile al palato.
Lotta di santi. Pensino cosa vogliono gli spregiosi denun­ciatori della mortificazione tradizionale. Certo però anche un residuo d'antichi scrupoli, povero giovane, gli causava sfu­mature di esagerazione.
La missione che don Orione gli ha affidato, di far peni­tenza dei suoi peccati, di pregare per tutti e di santificarsi, intende compierla diligentemente, perché (richiamo ancora il Manzoni che egli ben conosceva nei punti culminanti della sua sapienza cristiana) era «persuaso della verità delle mas­sime evangeliche».
La via della perfezione è infinita. Cesare Pisano l'ha già imboccata e vi corre a passi da gigante. Pochi desideri che non siano di completa rinuncia rimangono in lui: preminen­te l'aspirazione al sacerdozio.

GLI EREMITI DELLA DIVINA PROVVIDENZA
Fra le "stranezze" di don Orione c'è anche quella - e il biografo è costretto ad annotarlo - della istituzione di un particolare ramo di religiosi, dediti alla preghiera e al lavo­ro, detti appunto "eremiti della Divina Provvidenza".
Il bollettino dell'Opera del 6 agosto 1899 dava questo an­nuncio: «Domenica scorsa (30 luglio) all'offertorio della Messa solenne, a' piedi del sacro Cuore a Stazzano, monsignor Ve­scovo vestiva e benediceva i primi nostri eremiti della Divina Provvidenza. Ora sono tornati alla preghiera e al lavoro tra i boschi montuosi e le campagne delle loro solitudini. Amici e fratelli in Gesù, ringraziamo e lodiamo insieme il Signore!».
La famiglia religiosa di don Orione, converrà sapere, com­prende nel suo seno ben due rami di "contemplativi", ossia di religiosi dediti al silenzio orante e adorante, tessuto di pre­ghiera e di umile lavoro, proprio in fedeltà al motto bene­dettino, a don Orione carissimo, "Ora et labora" (prega e lavora). Uno di questi rami è costituito dalle suore sacramen­tine cieche, adoratrici perpetue del sacramento dell'altare, ostie viventi, anche per la loro menomazione fisica, trasformate in lucida testimonianza di adesione al divino volere e di apo­stolico ardore per la salvezza delle anime.
Il ramo maschile di queste anime contemplative è costi­tuito dagli "eremiti della Divina Provvidenza", persone con­sacrate alla vita religiosa desiderose di solitudine - e per questo don Orione restaurò antichi abbandonati eremitaggi e li rivitalizzò - e impegnate in una incessante preghiera, in­tervallata dall'umile e salubre lavoro dei campi.
Di recente, le costituzioni della Congregazione hanno co­dificato la possibilità anche per sacerdoti di scegliere la vita eremitica, come risposta ad una particolare vocazione di so­litudine, di lavoro, di silenzio e di preghiera.
Perché gli eremiti, in una congregazione che, per il suo molteplice servizio di carità e di promozione umana, ha bi­sogno di braccia e di cervelli sommamente attivi?
Facilissima, alla scuola della santità di don Orione, la ri­sposta.
Innanzitutto don Orione stesso, come si può dedurre dalla sua vita e dai suoi scritti, fu un'anima altamente contempla­tiva, assetata di misticismo, innamorata di silenzi colmi di mistero, francescanamente affascinata dalla natura sorella, avida di preghiera e di solitudine orante, affamata di assolu­to, quindi di silenzio e di preghiera, un'anima bruciante d'a­more. «Un amore, come ha scritto don Giuseppe De Luca, dentro lo avvampava, che non doveva dargli sosta un atti­mo, se talvolta gli dava il tremito insostenibile dell'estasi, la leggerezza sovrana d'un tutto - anima, d'un tutto - Dio. I suoi sogni, i suoi silenzi, le sue opere non spiate da nessuno, i suoi solo a solo con Dio, nessuno potrà mai raccontare».
Questa caratteristica che spiega anche il suo indubbio amore alla spiritualità benedettina, egli voleva trasfusa nei suoi. Forse per giustificare prima a se stesso e poi ai suoi figli questa esigenza di mettere a fondamento dell'attività carita­tiva un'abbondante misura di silenzio e di preghiera, e per­ché di essa restasse un monumento vivente, pensò ed attuò la famiglia degli eremiti fin dai primi tempi della sua attività di Fondatore.
Inoltre la fondazione della nuova famiglia di umili, silen­ziosi e tenaci «lavoratori della preghiera e della terra», dava ampio respiro per le capacità della Congregazione di acco­gliere quei fanciulli o giovani o uomini maturi, più portati al lavoro manuale dei campi, alla fatica agricola, allora ge­neralmente abbracciata dalle famiglie umili e meno abbienti.
L'idea del progetto si può ricavare, in don Orione, già nel 1895, quando sul bollettino "La Scintilla" del 31 agosto egli scrive queste espressioni significative:
«I ROMITI DEI MIEI MONTI - Sono usciti dal mondo e si sono ritirati a fare orazione nelle tacite valli che circondano il mio lago, là, nell'eremo, tra rupi selvagge. Quando la sera è vicina e il vasto paese montuoso s'oscura, e il gran lago s'ad­dormenta nella pace del crepuscolo, i santi romiti escono e salgono i deserti sentieri della montagna. Giungono alle ci­me sull'imbrunire, mentre l'aria intorno s'oscura e sul gran lago si stende un grigio velo di ombre. Tristi ad occidente si raccolgono rosseggiando le nubi che tutta la giornata erra­rono di vetta in vetta. Nel cielo sereno brillano le prime stel­le. Tutta la montagna tace. Allora i romiti innalzano al Cielo la preghiera della sera, mentre i boschi nereggiano sui dorsi montuosi. E quando l'ultimo barlume è lì per spegnersi e sul­l'ampio paese s'addensano le tenebre, avanti di scendere pei sentieri serpeggianti nell'umida valle, i santi romiti levano dal­l'alto la mano a benedire... Oh quanta pace soave scende al­lora per le pendici boscose! E quale il bianco lume della luna che si espande per le infinite vallate. La benedizione de' santi è soave..., è la benedizione di Dio!».
Nuovo impulso all'idea germinale del progetto dové ac­cendersi nell'animo di don Orione, quando, nel 1898, reca­tosi a Noto di Siracusa, durante la visita ivi fatta all'eremo di San Corrado fuori le mura (ancor oggi affidato alle cure dei suoi figli) vi aveva trovato alcuni solitari la cui vita gli sembrava corrispondere al disegno accarezzato interiormen­te. Ne scaturì anzi un lungo articolo, pubblicato nel bolletti­no dell'Opera il 2 ottobre 1898 col titolo "Una cara visita".
Dato che vi si coglie assai bene il pensiero del Fondatore circa i suoi eremiti, piace riferirlo in parte.
«UNA CARA VISITA - Pensieri e voti - Stamattina ebbi il piacere di trovarmi con due monaci, o meglio - come li di­cono qui - eremiti di San Corrado: sono solitari molto avanti nella via della perfezione. Mi dissero che avevano altri com­pagni, e tre eremi, e tener essi in venerazione la "Madonna della Divina Provvidenza". Quest'ultima circostanza mi ha fatto un'impressione così rara che non vi so dire, e mi ha fat­to balenare un'idea.
Pensai dunque tra me e me: - I boschi che la Provviden­za ha già mandato all'Opera, e perché non potrebbero po­polarsi poco a poco di questi santi uomini? L'eremita fu sempre qualche cosa di caro nella religione, è un essere che deve pur vivere nell'Opera della Divina Provvidenza: vivervi quasi sacrificio continuato, continua voce di amore a Gesù per la solitudine dei fratelli!
L'eremita! - Uomo che rinunzia alle gioie della famiglia, alle ricchezze, a tutto che è di quaggiù, e se ne va all'eremo a piegare la fronte al cenno d'un fratello, che sulla terra gli tiene le veci di Dio. Egli segue i consigli di Gesù, e promette osservarli tutti i giorni della vita: è della milizia che si stringe più davvicino al Signore: l'amore di Gesù gli rende facile ogni prova più ardua, fa soave e desiderabile ogni sacrificio.
Gli antichi ebbero le loro legioni più forti: l'età dei Co­muni e della Lega Lombarda ebbe le famose Compagnie del­la morte, dove l'amore della patria, della gloria, della libertà, più fortemente sentito, traeva nuovi prodi là ove più viva fer­veva la pugna, ove più grande era il numero dei caduti. Ma, e Cristo non avrà Lui la sua falange che, nel sacrifi­cio continuato d'una vita immacolata e d'un lavoro assiduo, preghi, e sia come una gran voce di amore a Gesù, che Lo plachi e implori la vittoria sui campi dell'azione cattolica in mezzo alla società, e affretti la conversione de' peccatori, l'u­nione dei poveri fratelli separati, e il trionfo della Chiesa e del Pontificato? Oh sì! - ci deve pure essere (...).
La società è in pericolo, perché l'oro non è pure una for­za, è un idolo che ormai tiene luogo di tutto: di fede, di reli­gione, di onore. La società è in pericolo perché la disonestà allaga, spegne le intelligenze, infiacchisce la gioventù. La so­cietà è in pericolo: - vuole indipendenza da ogni autorità: ormai regna l'orgoglio, l'insubordinazione, la ribellione ne­gli spiriti. Per allontanare questo triplice pericolo, il mondo ha bisogno di vedersi innanzi le virtù opposte. Ebbene, ec­covi gli eremiti!
Quale predica e quanto efficace non faranno ogni giorno questi servi di Dio, mostrandosi nei loro costumi e nella pra­tica della vita, così diversi dagli altri! Come un giorno, nelle lotte sanguinose, legioni di anacoreti diedero al mondo esempi di austerità incredibile e dall'Oriente sino a queste coste del Mediterraneo, parlarono con l'esempio e impedirono il ritorno del mondo a un paganesimo più reo dell'antico: - così oggi che la società si va paganizzando, urge che l'eremita risorga, e allontani, con l'esempio di una vita santa, i nuovi pericoli e, con l'opera paziente, porti anche la prosperità temporale a molti nostri paesi.
Sì, la prosperità temporale a molti paesi! - Questa Sici­lia, ad esempio, un giorno granaio non pur di Roma, ma del­l'Impero, ora è una delle parti meno coltivate della nostra patria. Quanto bene le potrebbe fare l'opera loro! E all'Ita­lia? Pensate che abbiamo due milioni di ettari di terreno non coltivato eppure suscettibile di coltivazione, - non tenendo conto di quelle zone di terra che, per la elevazione sul livello del mare, o per la natura rocciosa, non possono essere sotto­poste a coltivazione alcuna, come pure astraendo da quei ter­reni destinati unicamente al pascolo del bestiame, che non si potrebbero per la loro stessa giacitura apparecchiare ad altre coltivazioni.
Ebbene, e perché quest'isola fertilissima, perché tanti luo­ghi, ridenti una volta di bella cultura, si cambiano in isqual­lide e abbandonate campagne? Perché, dove biondeggiavano le messi, crescerà irto il prunaio?
Ben sorgano e si moltiplichino gli eremiti della Divina Provvidenza, perfezionino le anime, e ridonino col lavoro la perduta fertilità della terra!
Tra le preghiere e le astinenze facciano la legna dei bo­schi per le case dell'Opera, facciano il carbone, vi sia chi me­ni le bovine e gli agnelli al pascolo, e provveda di lana e di latte gli Istituti nostri, e siano loro i nostri fratelli della pre­ghiera specialmente, i fratelli che fanno piovere le benedizio­ni del cielo sulle nostre fatiche, sui nostri giovani, sui loro studi e su tutti i nostri carissimi benefattori!
Aprano, nei loro romitaggi, un asilo a noi, nei giorni agi­tati della vita: aprano un asilo a tutti gli oppressi, a tutti i cuori straziati dagli sconforti e dai dolori. E l'orazione alter­nino al lavoro manuale: asciughino stagni, conducano le ac­que a dare fertilità ai campi, aprano strade, gettino ponti, lavorino pel povero ricovero!
Dal loro volto discenda il raggio della pace... Con le vir­tù e con la preghiera tengano sospesa la mano di Dio sugli uomini peccatori..., e la voce, che, dal silenzio delle loro ca­panne solitarie, verrà sino a noi, muova i nostri cuori a con­versione, e ad amare ardentissimamente Colui che si compiacque essere chiamato giglio del bosco e fiore della convalle.
Oh sorgete, dunque, sorgete, pieno il cuore di amore a Gesù, o eremiti fratelli! Io saluto la vostra venuta come una benedizione del Signore, e m'inchino davanti a voi, chiamati a fare tanto bene! Mille volte vi amo!».
Tra gli "eremiti della divina Provvidenza" vengono accolti anche i non vedenti che si distinguono per il saio bianchissi­mo con due clavi neri.
Gloria di questi ultimi, nella Piccola Opera della Divina Provvidenza, il nostro Cesare Pisano che sta per diventare il "Frate Ave Maria" che conosciamo.

UN'OASI DI PACE: L'EREMO DI SANT'ALBERTO
Al ritorno di don Orione dall'America nel luglio 1922, dopo meno d'un anno di assenza, Cesare Pisano sta per com­piere il suo noviziato e presto sarà disponibile per l'attuazio­ne di un programma che il Fondatore aveva già chiaro nel pensiero fin dal primo istanti in cui lo conobbe, cieco e desi­deroso di darsi a Dio nella vita religiosa: farne il capostipite di una famiglia di vita contemplativa non disgiunta peraltro da quella attiva, nei limiti del possibile, che raccogliesse, senza distinzione di età e di formazione, i non vedenti in uno degli eremi da lui restituiti al fasto ascetico del passato: quello di Sant'Albero di Butrio, in diocesi di Tortona, provincia di Pa­via, quello di San Corrado, presso Noto in Sicilia, quello del Monte Soratte (venuto più tardi, ma già «adocchiato» nella «sua» lungimiranza).
Il venerdì 13 maggio 1923 il chierico Cesare Pisano, for­nito d'una barba cospicua, ma ancora in abito talare, varca­va la soglia dell'antica abbazia di Sant'Alberto, e si aggregava alla piccola comunità composta dal parroco don Domenico Draghi e da tre eremiti dediti alla preghiera e al lavoro manuale.
L'Eremo, fondato da Alberto di Butrio nel primo secolo dopo il Mille (il santo morì nel 1073), attraversò periodi di grandi splendori, poi decadde in un quasi completo abban­dono, quando i monaci si ritirarono da esso, divenne sem­plice parrocchia - la più povera - della diocesi tortonese e fu risuscitato a nuova vita da don Orione a partire dal 1900, quando si compì la seconda ricognizione delle ossa di San­t'Alberto (la prima risale a pochi anni dopo il 1100).
Vi ricomparve allora, ma per breve tempo, un gruppo di eremiti, e dopo un silenzio di quattro lustri, passata la par­rocchia alla Congregazione (1920), i religiosi di don Orione vi si stabilirono definitivamente, in numero esiguo, ma co­stante.
L'amore di don Orione per il fondatore dell'abbazia risa­le ai tempi della prima sua giovinezza. Infatti egli ricorda: «Io, povero fanciullo e contadinello, andavo a pregare do­v'erano (nel passato lontano) le celle e una chiesa di S. Al­berto, a Bagnolo, tra Pontecurone e Voghera».
Un senso di pace e di beatitudine si comunica allo spirito dal paesaggio. Attorno ai muri grezzi della chiesa e del mo­nastero, dominati dalla torre quadrata e da un campaniletto disadorno, non ci sono case di abitazione. Solo verso sud­ovest è uno spiraglio che rompe la cerchia claustrale e di là s'intravvedono le montagne che s'alzano oltre la valle Staffo­ra avvolte nella nebbia della distanza, come le preoccupazioni del mondo che qui non hanno più contorni e rilievo per chi viene in cerca di pace. È sempre l'ambiente tipico, ma reso più suggestivo da quei passaggi angusti, da quegli ambula­cri, da quel chiostrino rimesso in evidenza, da quell'orticel­lo, da quel pozzo antico dall'acqua freschissima e miracolosa. È un ambiente che costringendo ad adattarsi e ad abbassarsi continuamente, traduce l'umiltà in pratica esteriore come in­vito a quella interiore.
Lì comincia la sua vita di eremita il chierico Cesare Pisano. Ed è subito un'introduzione armoniosa a grande orche­stra: la povertà, le fatiche materiali, le lunghe ore di preghie­ra formano la collana offerta ogni giorno a Dio in ispirito di sacrificio e di letizia.
Senza esitazione, senza rinvio, senza soste. Manca l'abito esterno, il saio.
Ma non tarderà il rito di vestizione.

LA LEGGENDA DI FRATE AVE MARIA
Don Orione che da due anni ha aperto in Tortona il nuovo Istituto "Dante" per ragionieri e geometri compone una cir­colare che esce a stampa nel maggio 1923, proprio nei gior­ni in cui Cesare Pisano ha varcato la soglia dell'eremo di Sant'Alberto.
Mai come in solari.
Quest'ultima è una libera e un po' audace rielaborazione della leggenda di frate Ave Maria, nota in verità soltanto agli studiosi, ai lettori delle «Glorie di Maria» di Sant'Alfonso e ai più attenti visitatori di Chiaravalle, che la osservano ri­prodotta in un grande quadro a olio appeso ad una parete di sacristia.
La fonte letteraria più antica della leggenda è un'opera di Bonvesin de la Riva, milanese, dell'Ordine degli Umiliati, di poco anteriore a Dante (1240-1314).
Don Orione che, probabilmente, venne a conoscenza di questa leggenda attraverso Sant'Alfonso (ma non è da esclu­dere Bonvesin de la Riva) la ricostruì, v'impresse il segno in­confondibile del suo stile e del suo fervore religioso, la rivestì di fantasia poetica e la distribuì stampata a forma di messag­gio circolare a tutta la Congregazione dedicandola però in modo particolare ai suoi giovani allievi, per eccitare in essi la devozione alla Madonna.
Il frate Ave Maria della leggenda è un rozzo e semplice, ma tanto devoto converso religioso, che dopo essere vissuto di penitenza e di preghiera, che peraltro si riduceva solo alla recita dell'«Ave Maria», perché non sapeva esprimersi al di là del saluto angelico, venne a morire... e sulla sua tomba miracolosamente fiorì un giglio che affondava le radici nel suo cuore incorrotto e portava scritto attorno alla corolla a caratteri d'oro: «Ave, Maria!».
Il cielo, nella notte in cui fu scoperto il prodigio, era tut­to ingemmato di stelle.
Per cominciare don Orione ambientò la leggenda nei tempi moderni: fece del protagonista un ex brillante ufficiale del­l'esercito, tornato dalla prima guerra mondiale cieco e deco­rato, fornito di cognizioni letterarie e musicali, e ritiratosi a far penitenza nell'eremo di Sant'Alberto, distinguendosi per la tenera devozione alla Madonna che egli continuamente sa­lutava: «Ave, Maria!», al coro, lungo il chiostro, al bosco, alla cella, sul poggio: quasi non sapesse dire altro. Anche le sue ultime parole prima di morire furono queste: «Ave, Maria!».
Segni miracolosi accompagnarono i suoi funerali. Il gi­glio fiorì sul tumulo sotto il quale egli giaceva incorrotto «sor­ridente come un angelo». E tra gli alberi del bosco passava un alitare di vento che ripeteva: «Ave, Maria! Ave, Maria!» e andava verso il cielo.
«Giovani, - concludeva don Orione - far sbocciare mol­ti di questi gigli, far risplendere molte di queste stelle», se­gnando ogni giorno ed ogni ora della nostra vita con la preghiera: «Ave, Maria!».
Trascriviamo per intero la poetica e splendida circolare di don Orione.
«Fu volontario di guerra, e poi brillante ufficiale del no­stro esercito, e dalla guerra tornò cieco e decorato.
«La luce di Dio risplendé su la sua anima, che aveva re­spirato la tenebra del secolo; e la mano del Signore lo con­dusse, attraverso le mirabili vie della Provvidenza, sino al nostro Eremo di Sant'Alberto di Butrio, in Val Staffora, ove, tra valli e montagne boscose, è solitudine grande e pace soa­vissima.
«O beata solitudo! O sola beatitudo!
«Quella solitudine, quella semplicità di vita rispondeva­ no mirabilmente ai desideri del suo cuore. Amava le rocce, le messi, i boschi e la freschezza delle fonti, l'aria, il sole, i fiori. Egli scopriva per tutto i rapporti eterni che legano i mi­steri della natura a quelli della fede, e si sentiva trasformato dallo spirito del Signore.
«Diffuso sul volto e su la fronte alta e serena gli splende­va un raggio di divina bellezza e di predestinazione, e viveva infiammato di Gesù come un serafino.
«E chiese e ottenne d'esser eremita della Divina Provvi­denza: di vivere nascosto a tutti, di rendersi negletto e servo di tutti, per l'amore di Cristo benedetto.
«E così visse, da povero fraticello. Visse semplice e pio, d'una pietà lieta, là nell'antico e diruto cenobio che vide pas­sare santi e guerrieri.
«La vita di lui parea si andasse infervorando ogni dì più, tutta amore di Dio e degli uomini, tutti abbracciando, e vin­citori e vinti.
«E, morto al mondo e a se stesso, bruciandogli fortissi­ma la fiamma dell'amore divino, correva frequente ad abbrac­ciare i piedi del Crocifisso e gridava: Perché voi in croce, o mio dolcissimo Signore, e io no?
«Si seppe mai chi fosse quel monaco cieco, che sorrideva a tutti, quel cieco che aveva una parola buona, delicata per tutti.
«Lo vedevano i montanari e i pellegrini, raccolto in pro­fonda meditazione, disteso sul crudo sasso ove l'abate Alberto si fe' santo; lo vedevano dritto con le braccia tese cantare a Dio in ardore di carità:
«"Laudato sii, mi Signore, - per quelli che perdonan per lo tu' amore! - Laudato sii, mi Signore, - per sora nostra morte corporale!".
«Lo vedevano prostrato a l'urna miracolosa del Santo, o all'altare, lapideo, preziosissimo per venerabilità, dove, po­chi anni innanzi il suo morire, che fu nel 1444, Bernardino da Siena, peregrino all'Eremo di S. Alberto di Butrio, volle consacrare il Corpo e il Sangue del Signore, e confortarne i monaci pur con quella sua voce di pace insieme e di mistico fervore, ma anche, e più frequente, di formidabile profeta.
«La natura, lungi dalle agitazioni e dagli inganni della so­cietà, nel silenzio della solitudine, ammaestra di Dio più che non i libri degli uomini.
«E fu tutta una vita nascosta con Cristo in Dio: vita di penitenza, di adorazione, di elevazione sublime dello spiri­to: fu come la voce della preghiera, la vita del nostro eremita cieco.
«Egli sapeva di lettere, sapeva di musica, sapeva di armi, ma venne all'eremo per sapere solo e umilmente di Dio. Va­nitas vanitatum, et omnia vanitas! Vanità delle vanità, e ogni cosa è vanità, fuori che l'amare Dio e il servire a lui solo. «E si fe' stolto, per essere sapiente di Cristo, lasciando le vanità ai vani, muna cosa bramando, fuorché vivere in sem­plice obbedienza, con libertà di spirito e carità grande nella servitù di Dio, grata e gioconda.
«O servitù amabile e desiderabile sempre! O santo stato del religioso servizio, che rende l'uomo pari agli angeli, ter­ribile a' demoni, e a tutti i fedeli onorevole!
«E seguendo Gesù con la croce sua, e lietamente amando Cristo in croce, il nostro valoroso cieco di guerra seppe na­scondersi sì ch'ei fu il minimo di tutti, e ti pareva che solo sapesse dire: Ave, Maria!
«Ave, Maria! al coro; Ave, Maria! lungo il chiostro; Ave, Maria! al bosco; Ave, Maria! alla cella; Ave, Maria! sul pog­gio che mena alla grotta di S. Alberto; sempre: Ave, Maria! «Si chiamava Fratello Avemaria.
«E così, conformando la sua vita a quella di Cristo, compì la sua "giornata innanzi sera".
«Era un tramonto, e venne a morire. Volle essere porta­to nella primitiva chiesetta di S. Maria; volle essere disteso là sulla nuda terra, ai piedi degli affreschi, bellissimi, della Madre di Dio; incrociate le braccia, aprì le labbra a un sorri­so luminoso. Evidentemente era la Vergine, celeste e pia, che dal Paradiso se lo veniva a prendere.
«Frate Avemaria apparve trasfigurato. Egli la chiamò, la salutò ancora; l'ultimo respiro fu: Ave, Maria! "Morte bella parea nel suo bel viso", e rivelava tutta la sua beatitudine. «Dalla torre antica "corse su l'aure l'umil saluto". Quella campana che, fiera, dal Carroccio aveva chiamati i popoli a raccolta contro il despota del Medioevo, Federico Barba­rossa, quella stessa campana che aveva suonato la libertà dei Comuni sui piani lombardi, parve, in quell'ora, che dall'alto della torre venisse mossa dalla mano d'un angelo. Con voce dolcissima si mise a squillare alle valli e ai clivi: Ave, Maria! Ave, Maria!
«Una soave volontà di pianto invase l'animo dei monaci bianco vestiti, e subito una gioia, una pace, un ardore indi­stinto si diffondeva d'intorno; le ultime tinte del tramonto sfumavano nella notte, e scorreva sulle cime delle montagne, per le pendici, e giù, fin su le acque della Staffora, scendeva a valle il murmure dolce: Ave, Maria!
«Si fece il mortorio. Gli eremiti, piangendo, cantarono al fratello i salmi del suffragio e della requie sempiterna. Quan­do tacquero, dalla bara fonda una voce quale di cigno lonta­no s'intese distinta; diceva: Ave, Maria!
«Finite le esequie fu portato al cimitero, a mano, dai fra­telli in lacrime; al cimitero, lì, presso l'eremo; ma dov'ei pas­sava le erbe e sin le pietre fiorivano e gli uccelli cantavano a gloria.
«La bara posò nella fossa, e la terra la ricoperse, e vi fu piantata una croce di legno che egli s'era fatta con le sue ma­ni, già cieco.
«Si nascosero i passerotti al cipresso; ai folti castagni del bosco di Butrio quietarono i cardellini. Era silenzio. Di sot­terra, nella pace della notte, una voce sommessa s'intese; ve­niva verso l'eremo, e si andava perdendo lungo quella stradicciola che conduce alla chiesetta solitaria. Diceva, la voce dolce e sommessa: Ave, Maria!
«Passarono dei giorni, e gli eremiti della Divina Provvi­denza si raccolsero a pregare sulla tomba di Frate Avemaria. Erano venuti anche di lontano, dalla Calabria di S. Bruno
e di Cassiodoro, dalla Sicilia che vide i primi eremiti e fu ter­ra di Santi, e pur dalla Palestina lontana ne vennero, di là dove visse il Signore.
«Vennero, e videro - meraviglia! - sulla tomba del fra­tello, un giglio candidissimo apriva l'odoroso calice; e attor­no alla corolla, in lettere d'oro, recava scritto: Ave Maria! Vollero svellere il fiore per recarlo alla Madonna, ma era forte; scavarono, e videro che aveva poste le radici entro la bocca di Frate Avemaria, e andavano giù giù fino al cuore.
«Piangendo di commozione, "pieni di maraviglia e di pie­tade", caddero i buoni eremiti in ginocchio avanti a Fratello Avemaria, che era là bello come un giacinto, incorrotto, sor­ridente come un angelo, e compresero allora che, ad ogni no­stra Ave, Maria!, fiorisce un giglio in terra, e odora in grazia al cospetto della Madonna.
«Ma ecco, sulle loro teste, un alitare di vento, e passare soave la nota voce che andava al cielo, ripetendo: Ave, Ma­ria! Ave, Maria!
«Ed oh, gioia d'una nuova aurora! L'azzurro si era tutto gemmato di stelle, e le stelle che fiorivano nel cielo erano le molte, le dolci, le care "Ave, Maria!".
«Perché, o giovani miei, dovete sapere che, ad ogni no­stra Ave Maria, si accende una stella in cielo e risplende in omaggio alla Madonna.
«Gigli e stelle le possono essere offerti da noi, o miei ca­ri. Gigli a far tappeto ai suoi passi, a far corona a lei da pres­so; stelle a far diadema alla sua fronte verginale, ad aggiungere luce alla sua aureola.
«Gigli che gli angioli colgono; stelle che gli angioli intes­sono in ghirlanda per lei. Gigli che vanno così innanzi a pre­pararci la strada per la quale noi passeremo un giorno per salire alla Madonna; stelle che illumineranno la nostra via al cielo, come fu già di S. Benedetto, e un po' della loro luce daranno poi a farci corona eternamente.
«Far sbocciare molti di questi gigli, far risplendere molte di queste stelle equivale per noi ad onorare Maria, e ottenere sicuro favore e materno patrocinio per la nostra salvezza.
«A fasci crescano, dunque, su i nostri passi i gigli; a co­stellazioni s'illuminino adunque sul nostro capo le stelle. «E ogni giorno e ogni ora della nostra vita e ogni batta­glia del cuore siano segnati, siano suggellati dalla nostra pre­ghiera: Ave, Maria!
"Taccian le fiere e gli uomini e le cose, "roseo `1 tramonto ne l'azzurro sfumi, "mormorin gli alti vertici ondeggianti: Ave, Maria!"
«O giovani: "Ave, Maria!" sempre! O giovani: "Ave, Maria!" e avanti! «O giovani: "Ave, Maria!" sino al beato Paradiso!».

«NON MI CHIAMO PIU’ CESARE PISANO, MA FRATE AVE MARIA»
Quello che doveva essere solo un'effusione di mistica poe­sia divenne una realtà visibile, palpabile, nella vocazione di Cesare Pisano.
Don Orione intuì in lui l'antico devoto della Madonna inserito nel nostro tempo e lo chiamò, pochi mesi dopo il suo arrivo all'eremo, frate Ave Maria.
Non fu Cesare Pisano l'ispiratore della leggenda di frate Ave Maria: fu questa leggenda a concretarsi in lui temprato d'indomita fierezza e coerenza ligure, esaltata e abbellita nel nuovo proposito di fede, di amore, di consacrazione a Dio nel giardino claustrale.
Per evitare equivoci e confusioni è dunque bene tener pre­sente che siamo davanti a tre frate Ave Maria: il primo è il monaco cistercense della leggenda tramandataci da Bonve­sin de la Riva; il secondo è quello che, nella rielaborazione fantastica e poetica di don Orione, viene inserito, con auda­cia tutta sua, e molta disinvoltura, in questo nostro secolo XX (... un brillante ufficiale della prima guerra mondiale!), per indicare che la devozione alla Madonna non conosce li­miti di tempo né di spazio; il terzo che s'incarna nella realtà di Cesare Pisano dal momento in cui si consacra alla vita ere­mitica.
Hanno in comune la nota della spiritualità, dell'unione con Dio, dell'amore a Maria SS.ma. Segni prodigiosi si ri­scontrano nei primi due. Non possono riguardare il post mor­tem del nostro frate Ave Maria che, quando uscì la circolare di don Orione, aveva appena 23 anni e tanto gli rimaneva da vivere quaggiù.
Il 9 settembre di quello stesso anno 1923, festa di San­t'Alberto, egli mutò l'abito di chierico in quello di eremita.
La devota cerimonia della vestizione fu compiuta, per dele­ga di don Orione, dal sacerdote missionario don Sante Ge­melli, uno degli orfanelli raccolti dal Beato al terremoto di Messina.
Una suggestiva memoria di quel rito ce l'ha lasciata don Orione stesso scrivendo a un amico: «Passo a dirti d'una ce­rimonia piena di misticismo e di sublime olocausto, che m'ha profondamente toccato il cuore: la vestizione cioè di un nuovo eremita della Provvidenza. Un bel giovane, sai, dalla fronte serena, pieno di vitalità, di 24 anni, ma cieco! La bontà di animo di lui traluceva non dallo sguardo, no, poveretto!, ma dal suo sorriso e da tutta la persona assai dignitosa. Un gio­vane che pareva felice della sua cecità, il quale prese il nome di frate Ave Maria, a ricordare un eremita di tal nome, di cui forse avrai udito parlare» (Ibid. p. 51-52).
Per lui, profondamente compreso del significato religio­so del sacro rito, comincia una vita nuova.
Spieghiamo subito: nella vita semplice, lineare, limpida di Cesare Pisano ricorrono parecchie «conversioni». La pri­ma, dalla disperazione alla fede, la seconda dall'abito laicale a quello religioso, (tenendo presente che «abito» equivale a «costume», cosa sulla quale oggi allegramente si ama sorvo­lare) la terza... Eccoci alla terza. Lasciamo che ne parli lui stesso: «Non sono più chierico ma frate. Non mi chiamo più Cesare Pisano ma frate Ave Maria (...). Ho tutte le ragioni di credere che questo antico cenobio sia mia stabile dimora. Il chierico Pisano è morto: Laus et labor il mio programma». Questo da una lettera a suor Teresa.
E a don Orione scrive: «Grazie, venerendo Padre. Al di fuori ho cambiato qualche cosa, ma interiormente vive an­cora purtroppo il vecchio io. A lei lo offro, perché lo immoli ai piedi del Signore e della Madonna».
Don Orione annota: «È con questo asceta che l'Eremo di Sant'Alberto rinasce».
L'abito di frate Ave Maria è bigio con lo scapolare bian­co. È quello portato dagli altri eremiti della Divina Provvi­denza, vedenti. Agli inizi non era cinerino: era come quello dei cappuccini, marron scuro.
Don Orione però all'atto di istituire la famiglia degli ere­miti ciechi aveva pensato ad una divisa propria: il bianco saio doppiamente listato di nero, con alcune crocette disposte in simmetria; dopo aver accantonato l'idea di rappresentarvi al­l'altezza del costato un sole rosso raggiante simbolo del fer­vore eucaristico.
Un nuovo abito speciale verrà adottato più tardi con una cerimonia di vestizione compiuta dallo stesso Fondatore a San­t'Alberto il 10 aprile 1932, seconda domenica di Pasqua, sui primi tre eremiti ciechi, frate Ave Maria, fra Pacomio, fra Giovanni.

LA PRIMA PROVA: EMOTTISI
Il suo fervore di pietà si esprime non soltanto nella pre­ghiera, nelle veglie eucaristiche, in forme di penitenze e di mortificazioni di libera scelta, e con il lieto abbandono alla volontà dei superiori, ma attraverso un'attività pratica che attua il programma di San Benedetto, nella sua integralità: scrivere, prestarsi nei piccoli lavori consentiti alla sua condi­zione, accompagnare all'armonium il canto e le funzioni per ispirare il raccoglimento dei religiosi e dei fedeli. Lo strumento sacro era un dono d'una buona signora, nel 1924.
Sono anni di grande concentrazione spirituale e di eleva­zioni mistiche testimoniate dalla sua nutrita corrispondenza epistolare con suor Teresa e con don Orione. Sono realtà al­trimenti imperseguibili. La sua figura è come circonfusa da un alone di religiosità che si sprigiona dalla sua consacrazio­ne alla lode, al servizio e all'amore di Dìo.
La sua sottomissione umile e lieta alla divina volontà è posta al confronto di due prove che avrebbero potuto incri­narla se fosse stata meno tenace e sincera.
La prima prova è la malattia.
Nel novembre 1924 (tre anni dopo la notte rigida veglia­ta alla Grotta di Bra) cominciò ad avvertire una tosse molto insistente. La sera del 6 mentre si era già coricato sul suo po­vero saccone fu riscosso da un repentino sbocco di sangue. Pensò subito (diremo: con smarrimento?) che quello era il se­gno della sua condanna all'etisia.
Si alzò, corse in cucina, dove trovò don Draghi al quale confidò la sua convinzione di essere sicuramente tisico, invi­tandolo a prendere provvedimenti non tanto a suo riguardo quanto a salvaguardia degli altri; e poi trascorse la notte su di un giaciglio improvvisato accanto alla stufa, assistito dal suo «ottimo superiore».
Al Capodanno del 1925 altro abbondante sbocco di san­gue. «Deo gratias!» ripete.
Ormai (se ci fu sgomento la prima volta) egli ha già sa­puto riprendere la propria posizione rassegnata al volere di Dio.
Al persistere dell'emottisi, si aggiunge un senso di pro­strazione, inappetenza... Ma che fa l'umile eremita? Non po­tendo dormire passa la notte in continua orazione.
Da buon religioso frate Ave Maria ha messo a parte il direttore delle sue condizioni. È tranquillo.
Il medico venuto su da Godiasco gli dà al massimo 20 giorni di vita. Poi, constatato che il lucignolo non si spegne, dice che il malato sopravvive miracolosamente.
È l'Anno Santo 1925. Egli è convinto di poter compiere il proprio olocausto a Dio entro quel termine per coronare la beata speranza di raggiungere presto il Paradiso.
A rendere il suo stato di salute e di spirito bastano queste poche righe frammentarie che riportiamo dalle lettere a suor Teresa:
«Il giorno di San Rocco (16 agosto) mi si è aperta la feri­ta (i suoi polmoni si stanno trasformando in una caverna). Deo Gratias! Pazienza! Lo stato mio è spaventevole. La not­te fra il 26 e il 27 il sangue che versai fu in quantità conso­lante... Laus Deo et Mariae».
Tenta di tener nascosta la gravità della malattia alla mam­ma, ai fratelli, ai parenti, ma questi, informati di tutto, cor­rono all'eremo col timore di non trovarlo più in vita.
Una nota di grande consolazione.
Poche settimane dopo la visita dei parenti, è con lui don Orione il 18 ottobre 1925.
Ma la giornata di don Orione all'eremo esige un cenno di cronaca particolareggiato. Si preparavano grandi cose a Sant'Alberto. Un'urna nuova, costruita dagli allievi ebanisti dell'Istituto Manin di Venezia (maestro Latino Piantoni) con il legno dei boschi dell'antica abbazia, doveva accogliere le ossa del Santo, composte nell'apposito simulacro al natura­ le, confezionato dalle esperte suore del Cottolengo di Tori­no. Col suo trasferimento trionfale all'eremo avrebbe dato l'avvio a una buona ripresa della vita religiosa e dell'antica tradizione monastica.
Il grandioso avvenimento secondo un primo progetto si sarebbe dovuto realizzare durante l'Anno Santo 1925, ma per diversi motivi fu rinviato ai primi giorni di settembre dell'anno successivo. Per la descrizione completa di questa storica vi­cenda tanto cara al cuore di don Orione e di frate Ave Ma­ria, consultare «Una gemma d'Oltrepo» al capitolo: «Una data memorabile».
Intanto don Orione, che preparava l'evento pensando an­che ai minimi particolari, alle ore 13 della domenica 18 ot­tobre 1925, partì da Tortona per Val di Nizza, sulla macchina messa a disposizione e guidata dall'ex campione ciclistico d'I­talia Giovanni Cuniolo, suo antico allievo del primo Orato­rio. C'erano con lui mons. Felice Cribellati, vescovo di Nicotera e Tropea, il suo segretario don Angelo Galluzzi (dia­cono) e il suddiacono Domenico Sparpaglione. Li aspettava il parroco don Giuseppe Rota, primo alunno accolto nel col­legio di San Bernardino nell'ottobre 1893.
Cuniolo ripartì con la sua macchina per Tortona. C'era un grande movimento in canonica, che quella sera avrebbe ospitato per la cena e per il riposo l'intera comitiva. Nipoti e donne di casa erano in faccende.
Secondo il suo solito sbrigativo e riservato, don Orione decise di far a piedi la salita dell'eremo e sceglie don Dome­nico come suo compagno; mentre il vescovo e il suo segreta­rio dovevano raggiungere Sant'Alberto col barroccio di don Rota per aliam viam.
Tutto si svolse secondo il piano stabilito, in un pomerig­gio di splendido azzurro. C'era un grande concorso di fedeli. Dopo la funzione, (con la poderosa predica del vescovo, co­sì esile e tonante), mons. Cribellati ripartiva in barroccio con i suoi due accompagnatori, e don Orione si tratteneva a lun­go con frate Ave Maria e gli altri religiosi, mentre a occiden­te andava smorzandosi il fulgore aureo di un meraviglioso tramonto; e a sera inoltrata, riprese a piedi la via del ritor­no. Ma questa volta i Domenico erano due. Al primo si ag­giungeva don Draghi che, nel buio sempre più fitto sotto lo stellato, li veniva scortando tra i boschi con una lanterna accesa.
In vista della chiesa di Val di Nizza don Draghi spense la sua lanterna e se ne tornò solo soletto all'eremo, mentre invano don Orione insisteva per trattenerlo almeno a cena con tutti gli altri. Le stanze della canonica non videro mai tante e così distinte persone a tavola e al riposo della notte. La mattina dopo, incombeva sulla valle il classico neb­bione autunnale. Su due carrozze, tutti raggiunsero Ponte­nizza, dove presero il trenino di Voghera; il vescovo e il segretario per portarsi a Staghiglione, don Orione e il suo chie­rico per far ritorno a Tortona. Don Orione accusava un in­sistente mal di reni e forti dolori reumatici, eredità della sua vita di garzone selciatore, diceva.
In una sua lettera frate Ave Maria ricorda così l'avve­nimento:
«Ero pronto a morire senza più parlare al mio venerato padre don Orione e invece egli venne ieri mentre qui si fe­steggiava il santo Rosario, con mons. Felice Cribellati vescovo, figlio della Divina Provvidenza, don Rota e due chierici del­la Divina Provvidenza. Che festa! Che predica! Che fuoco!... Anch'io ho potuto parlargli; ma non gli dissi nulla (della grave malattia). (...) Sono troppo debole a reggere le consolazioni. Disse che prima della fine dell'Anno Santo verrà per fare la vestizione di un giovane eremita e in tale occasione mi per­metterà di emettere i santi voti perpetui e il IV voto in via eccezionale, che non si potrebbe fare se non dopo dieci anni di Congregazione. Mi disse di tenermi preparato ... Fiat!». Il nuovo anno 1926 segna una certa ripresa.
La sua croce fisica frate Ave Maria non potrà mai com­piutamente deporla. Ma dal tempo delle celebrazioni del 1926, che aprirono un'era nuova nella storia religiosa del­ l'antica abbazia e cominciarono a richiamare a Sant'Alberto folle di pellegrini, nella giornata del 4 giugno, riservata ai fan­ciulli, i beniamini del Santo, e nella prima domenica di set­tembre, festa patronale, le crisi violente e devastanti potevano dirsi superate.
Gli resteranno i segni caratteristici della malattia: un pal­lore incarnato, l'abbassamento della voce, rauca e straziata, il tossire profondo cavernoso, un frequente ansimare.
Intanto tirerà avanti fino oltre i sessant'anni con meravi­glia di molti.
Fa sorridere la sua vena scherzosa e letiziante. Nell'infor­mare suor Teresa del suo stato di salute: «Sono un po' debo­le - dice - ma sto benissimo!».

LA SECONDA PROVA: IL MARTIRIO DELL'ATTESA SACERDOTALE
Desiderava ardentemente d'essere un giorno ordinato sa­cerdote. Non per accontentare in qualche modo l'amor pro­prio, ma solo per far del bene, dar gloria a Dio, coadiuvarlo efficacemente nella santificazione delle anime. Vi può essere di meglio per chi si consacra al Signore?
Frate Ave Maria aveva rinunciato alla vista. Rassegnarsi all'ineluttabile! Che merito c'è, si domanda il mondo scetti­co e miscredente.
È proprio qui la forza del cristianesimo: nell'indurre ad accettare con propensione la volontà di Dio. È come un im­molarsi. È il cuore in questo caso che agisce. Ed il sentimen­to che ispira la rinuncia, l'accettazione della realtà immutabile, vale più della materia offerta. Mediante la rassegnazione il sacrificio si rinnova, rivive come omaggio spontaneo reso a Dio. In fondo l'essenza della santità è tutta qui: dire di sì al Signore che ha disposto le cose e dal quale vengono tutte le grazie, compresa questa, essenziale, dell'adattamento o ade­guamento alla sua volontà.
Sarà cieco per dar gloria a Dio, in questa situazione da lui voluta permessa tollerata, non importa.
Aveva rinunciato alla famiglia. Quando gli domandano se ha ancora i genitori, fratelli, sorelle, egli risponde: « Sì, mol­ti!». E pensa a quelli di Congregazione. Se vogliono sapere di che paese è, dichiara nel dialetto locale: «A son d' San­t'Albert».
Ama teneramente i suoi congiunti, ma li ha lasciati per amore di Gesù e non desidera con loro altro rapporto che quello della carità attraverso la preghiera.
Ha rinunciato alla salute. Non denota la minima ansietà o preoccupazione per le proprie condizioni fisiche disastro­se, superato il primissimo senso di sgomento per 1'emottisi del 6 novembre 1924.
Salva sempre la volontà del Signore, si rallegra ad ogni sintomo di aggravamento, augurandosi di poter presto - en­tro l'Anno Santo - rivedere la luce in Paradiso.
Ha rinunciato al proprio io, per sottomettersi in tutto al­la volontà del Signore, per affidarsi come un fanciullo alla mano di don Orione sua guida e maestro, ed è lieto di consi­derarsi l'asino di casa, l'ultimo dei confratelli, il più accon­cio all'obbedienza integrale di chiunque lo comandi, lo inviti, lo preghi di un favore, di un lavoro, gli assegni una incom­benza anche la più estemporanea.
«Io sono un povero asinello totalmente ignorante, che non so nemmeno più ragliare» - dice, più avanti, ai sacerdoti piacentini che gli fanno corona per ascoltarlo.
Non c'è più in lui alcuna aspirazione che non rivesta ca­rattere spirituale, mistico, che non tenda a perfezionarsi nel­la santità, nella preghiera, nella sofferenza. Che siano soddisfatte o meno tali aspirazioni, non altera l'orientamen­to della sua volontà che come ago magnetico punta sempre a un solo indirizzo: Dio.
Eppure una brama, una sete ardente, una speranza sem­pre più forte e assillante lo tiene desto e ansioso: diventare sacerdote.
L'idea gli ha scosso il cuore, gli ha esaltato lo spirito fin dal momento in cui don Orione, accogliendolo, gliela fece balenare alla mente.
La coltivava studiando, la confermava a Sant'Alberto, quando alcune persone si rivolgevano a lui - ritenuto sacer­dote - per confessarsi, per comunicarsi.
Egli allora bruciava intimamente di quel desiderio e sen­tiva scatenarsi in cuore una lotta ineffabile tra l'ideale e la realtà.
Che questa santa aspirazione lo tormentasse è documen­tato da un brano d'una sua lettera a suor Teresa, nel 1923, mentre era in attesa della sua vestizione da eremita a San­t'Alberto.
«Le confido il mio martirio. Eccolo: spesse volte mi si pre­sentano delle persone in chiesa o fuori e mi dicono: - Pa­dre, desideriamo confessarci; padre, ci benedica; padre, la santa Messa! Oh, come mi piacerebbe essere quello che non sono per poterle benedire più efficacemente!... per poter es­sere ministro di misericordia!».
La nostalgia di un bene tanto desiderato! La sorpresa della incredibile indifferenza o della colpevole rinuncia di chi è già costituito in uno stato di tanto privilegio e di tanta grazia! Tutto questo fa soffrire il cuore di frate Ave Maria nella lun­ga attesa. «Nei primi anni di comunità nonostante fossi cie­co sperai di poter ugualmente divenire sacerdote!».
È un'ansia di cui non si rendono conto i confratelli reli­giosi, ma che gli macera lo spirito in una continua alternan­za di attese e di speranze non ancora appagate: «Mi addolorano molto alcuni miei compagni che abbandonando, la vocazione, rientrano nel mondo. Questi che possono esse­re sacerdoti rinunciano; io che vorrei non posso...». Davve­ro straziante. «... Una voce spesso mi dice: impossibile che tu sia sacerdote».
Soffocato da un impeto di commozione, mentre sta per assistere alla prima messa di un sacerdote novello, deve usci­re di chiesa poco prima che la funzione abbia inizio «e solo dopo essermi liberamente sfogato (nel pianto?) potei ricupe­rare la calma...».
Ma questi assalti improvvisi di nostalgia sacerdotale si fan­no sempre più frequenti, perché in fondo al cuore vibra, ine­stinguibile, la speranza.
Durante gli Esercizi spirituali svela a don Orione «il suo stato e le sue aspirazioni».
«Mi assicurò e mi benedisse».
In effetti don Orione lavorava per ottenere a frate Ave Maria le necessarie dispense, e averlo tra i suoi sacerdoti, va­lutandone in pieno la virtù e il peso sulla bilancia dei valori spirituali.
La crisi, se possiamo così chiamarla, della lunga attesa sacerdotale toccò il suo acne verso la festa della Immacolata di quell'anno 1923, quando «Cesare Pisano era da poco morto per dar luogo a frate Ave Maria».
Egli la risolvette con un atto di umiltà degno di San Fran­cesco d'Assisi.
Pochi giorni prima aveva scritto a suor Teresa in rappor­to alle sue aspirazioni sacerdotali: «Non sono certo di nien­te; della mia vocazione solo sono certissimo. Io desidero con tutto il cuore, con tutte le mie forze essere un giorno sacer­dote. Ministro di Dio, ma che sono io? Un bambino, ma che bambino! Puer centum annorum!».
Un po' più avanti nella stessa lettera sembra contraddirsi (ed è invece un fior di sincerità nel turbinare dei sentimenti). È una frase rivelatrice della situazione in cui si trova e della risoluzione a cui perviene con un atto eroico: la rinuncia a quanto gli rimane di più caro e desiderabile su questa terra. Scrive: - « Se desidero ancora ascendere al sacerdozio? Le dirò subito che non oso più desiderarlo».
E dopo questa rivelazione ricorda d'aver detto al mite e semplice don Sterpi che gli aveva chiesto quando pensava di cantare la messa: «Quando ciò vorrà l'obbedienza». (Ossia: - Non dipende più dal desiderio, ormai messo a tacere). In vista della festività di Maria Immacolata, a cui accen­nava, don Orione gli raccomanda di prepararsi a emettere i suoi voti religiosi (annuali). Verrà egli stesso all'eremo a ri­ceverli.
E frate Ave Maria così informa suor Teresa: «Il mio pre­paramento è questo: che più ci penso più sono portato a de­siderare ciò che finora ho temuto, affinché il sacrificio sia totale. Morire senza Messa! Morire senza voti! Morire sen­za abito, gettato fuori come un cane ripugnante! In isconto dei miei peccati, secondo le divine intenzioni!».
Sono le parole più drammatiche che frate Ave Maria ab­bia mai pronunciato, o fissato su di una pagina. E svelano intero il suo cuore sanguinante. Effettivamente egli, che nel 1921-`22 a Bra aveva fatto i voti di devozione, potè emettere i tre voti canonici annuali soltanto il 18 marzo degli anni 1944-`45-`46 e quelli perpetui il 18 marzo 1947! E pensare che don Orione il 18 ottobre 1925 gli aveva fatto balenare la speranza dei voti entro l'anno.
Il sacrificio più costoso, la rinuncia al sogno più atteso, si privilegiava attraverso la preghiera, la contemplazione, le mistiche elevazioni.
È un'autentica conversione. La terza, finora, riscontra­bile nella sua preziosa esistenza.
Dunque qualche cosa di più o di diverso di un semplice progresso sulla via del misticismo e della perfezione religio­sa, dell'abbandono integrale al volere di Dio. È infatti una trasformazione radicale quella che si opera in lui. All'ester­no rappresenta un limite, uno sbarramento posto attraverso la sua ascesa di consacrazione a Dio. Ma spiritualmente è la più alta conquista da lui realizzata: l'accantonamento del de­siderio più santo, scevro di qualsiasi infiltrazione passiona­le, di orgoglio, di soddisfazione sensibile: oro finissimo purificato nella mortificazione e nell'amore: l'ideale tanto in­tensamente vagheggiato offerto a Dio in olocausto!
Frate Ave Maria rimarrà per sempre un religioso laico.
Don Orione per molto tempo aveva sinceramente spera­to di portare il suo eremita alla Messa. Le autorità compe­tenti gli avevano fatto credere che, costituita una famiglia religiosa di ciechi a Sant'Alberto, frate Ave Maria, ordinato sacerdote, ne sarebbe potuto divenire il padre abbate. I reli­giosi, sia pure in gruppo esiguo, si costituirono, ma la dispensa dal grave ostacolo della cecità non fu accordata, certamente per una superiore disposizione della Provvidenza che veniva formando l'eremita cieco al più alto grado di virtù, quella che si attua attraverso l'uso per sacrificio dei talenti.
Chi meglio di frate Ave Maria avrebbe saputo dir messa? Eppure questo carisma dovrà trafficarsi non per attuazione, ma per rinuncia.
Frate Ave Maria non patirà crisi di sconforto, non affie­volirà la sua azione di grazia e di amore. Anzi! Svincolato da quest'ultimo desiderio, il più profondamente radicato, mol­tiplicherà il suo zelo, intensificherà la sua preghiera, sarà tutto una cosa sola con la sua missione. E certamente Dio trarrà da lui maggior frutto per la santificazione delle anime.

OTTIMISMO E FERMEZZA DI PRINCIPI
Dalla sua disposizione a far sempre e in tutto la volontà di Dio, gli deriva il facile e sicuro superamento delle difficol­tà, tanto da infondere anche nella comunità di cui fa parte una maggior fiducia e dissipare sul nascere l'umor nero. I Santi sono sempre degli ottimisti, perché guardano lontano. Ce lo dimostra don Orione quando esorta a non essere «di quei catastrofici che credono che il mondo finisca doma­ni», e che in particolare risolvette casi intricatissimi rifugian­dosi nel sentimento più radicale sulla Provvidenza Divina. Nel 1947 i superiori della Congregazione si videro costretti dalla scarsità del personale a ritirare da Sant'Alberto le due suore che vi prestavano servizio di cucina e guardaroba. Il direttore locale, messo in gravi angustie, convocò frate Ave Maria e lo incaricò di scendere a Tortona a perorare la cau­sa nell'interesse della piccola comunità.
Obbedientissimo l'eremita accettò l'incarico e, accompa­gnato da un giovane, si presentò alla Casa madre, dove lo accolse don Giuseppe Zanocchi, vicario generale e direttore spirituale delle suore. La missione peraltro ebbe esito negati­vo. Non era possibile derogare alle disposizioni prese, non solo per Sant'Alberto, ma per diversi istituti di formazione e di educazione funzionanti in Italia e all'estero.
Le condizioni di vita all'eremo destavano preoccupazio­ni, come risulta da una lettera del Nostro a un sacerdote del­la Piccola Opera.
Dopo aver delineato il quadro piuttosto squallido della nuova situazione, (vocazioni messe in crisi, mancanza di or­dine e di pulizia, che induce qualche giovane aspirante a tor­nare nel secolo, e altro ancora) frate Ave Maria si richiama a una frase di don Orione, il cui contenuto é questo: «Penso che il Signore voglia fare di questa casa (l'eremo) qualcosa di grande»; poi soggiunge che lo stesso Nostro Signore si ser­virà magari di lui per compiere questa specie di miracolo. (Ri­feriamo ad sensum, non alla lettera...). Lo dice con quell'accento di pace e di serenità che sa prendere anche for­me di santa giovialità. Dunque che cosa farà lui con l'aiuto del Signore e della Madonna? Imiterà quel Santo che, aven­do con molta fatica accumulato tanto grano da distribuire agli indigenti, un giorno se lo vede tutto investito dalle fiam­me, senza la possibilità di metterne in salvo almeno una par­te. Allora avvicina le mani intirizzite alle vampe per scaldarsi e, calmissimo, dice: - «Anche questo fuoco a qualcosa ser­ve ed ha una sua utilità: sia benedetto il Signore!». Le parole del Santo portano nei cuori più grazia che non sia stato grande il danno da cui avevano origine, - conchiude il nostro eremita.
Siamo in un'atmosfera di pura ascetica. Pensiamo a ciò che disse don Calabria la mattina dopo il bombardamento aereo che distrusse una parte rilevante della Casa del Fan­ciullo di Verona: «Un peccato veniale è un danno maggiore di quello che abbiamo patito noi».
Pensiamo ai «Sette Effe» del nostro beato Fondatore, che diedero occasione al card. La Fontaine di comporvi sopra un giulivo sonetto, che, dopo l'elencazione dei primi cinque: Fede, Fatiche, Fame, Freddo, Fastidi, allude agli ultimi due così: «Se d'esta pianta (la nostra Congregazione) il legno andasse in Fumo, - opra più grande a segnalarvi avrei: - Che al caldo di quel Sole ond'io m'allumo, - voi cantereste: Fiat voluntas Dei!».
Ma a questo riguardo è bene precisare che l'ottimismo di frate Ave Maria di fronte alle difficoltà non significa un faci­le accomodamento delle situazioni per via di compromessi con la coscienza e col mondo. Fermo sui principi fondamen­tali di fede, di carità, di umiltà, egli non demorde mai da essi e ama dire sempre la verità con la schiettezza del suo caratte­re ligure illuminato dalla grazia e forte della buona coscien­za. L'abbiamo avvertito più d'una volta in alcuni spunti delle sue lettere, pur senza fermarci a sottolineare questo concetto. Chi scrive lo ha sperimentato personalmente.
L'avevo a scuola d'italiano e storia, come semplice udi­tore, a Villa Moffa di Bra nell'anno 1921-22, lui il più an­ziano tra i chierici di terza e quarta ginnasiale. Stavo spiegando l'episodio di Renzo che, per avere via libera nel suo secondo ingresso di Milano, durante la peste, fa «volare ai piedi di una guardia di Porta Nuova un mezzo Bucatone» (P.S. - XXXIV). Intesi quel «mezzo Bucatone» come un certificato di sanità. E Cesare Pisano (chierico) osservò: «Permetta, non è così: il Bucatone è una moneta d'argento usata nel `600 a Milano». Schiettezza e sincerità. Abbozzai senza batter ci­glio, ringraziandolo della precisazione.
Anima candida, rifuggiva dall'artificio, da ogni larvata ipocrisia, dalla sudditanza psicologica, dagli atteggiamenti dettati da rispetto umano, onorando la verità, sempre rive­stita di carità, come Dio comanda: «Facere veritatem in cha­ritate».
Un altro esempio mi viene dalla testimonianza di un no­stro eremita che nel 19521o accompagnò dall'eremo di Monte Soratte a quello di Noto in Sicilia. Mi dice fra Carlo che du­rante il viaggio in treno frate Ave Maria, sempre concentra­to nella preghiera mentale, ascoltò una sua conversazione con un signore che sbandava nelle idee in fatto di morale, men­tre egli cercava in qualche modo di spiegare se non di giusti­ficare le sue affermazioni. Quando furono soli frate Ave Maria, che non aveva mai interloquito, raccomandò al gio­vane confratello di mostrarsi più risoluto in avvenire, affer­mando la verità senza paura, ma sempre usando le buone maniere che sono le più persuasive.

LA SUA MISSIONE: PREGARE
È improprio pensare che da quel momento egli «invidia­va» i sacerdoti. Le metàfore possono facilmente riuscire a degli equivoci o non dire le cose nella loro essenza ben definita.
Frate Ave Maria - deposta la speranza di diventare sa­cerdote, compiuta la rinuncia interiore della sua ardente aspi­razione - non si lasciò adombrare per una maggior efficacia della loro opera.
Vibrava nel suo cuore lo stesso zelo di Santa Teresa di Lisieux che meritò d'essere costituita patrona delle Missioni, perché seguiva i banditori della fede e della carità cristiana con le sue mistiche elevazioni, con la penitenza, con il desi­derio di collaborare dal chiostro alla diffusione del Vangelo. Pio XI paragonò le risorse missionarie della Santa all'azione potente dei bacini alpini idroelettrici che nell'apparente im­mobilità alimentano le dinamo per la distribuzione e il fun­zionamento dell'energia ai grandi centri industriali.
Era questa la missione assegnatagli da don Orione. Egli - chiusa la parentesi del sogno sacerdotale - con­tinuò ad esercitarla come prima, ma con maggior merito di prima.
Lassù tra i monti rivestiti di boscaglia, aspri e selvaggi nei botri profondi, che fiancheggiano l'antica abbazia, egli incarnava l'ideale religioso dei santi cenobiti del passato che sembrava riverberare su di lui i suoi splendori.
«Va, - gli aveva detto don Orione - e in quella solitu­dine ti sentirai più facilmente a contatto di Dio e adempirai meglio il compito che ti affido di meditare e di pregare». Ed egli stesso conferma: «Volle da me soltanto una cosa: che pre­gassi, che pregassi molto. Questo è il mio ufficio; non so far altro che stare in ginocchio dinanzi a Gesù e Maria. Parlo a Gesù delle anime o parlo alle anime di Gesù».
Don Orione gli aveva detto di recitare tante, tante a Ave Maria, ricordandosi anche di lui pronunciando le parole "ora pro nobis peccatoribus", e di raccomandare tutte le intenzioni sue e delle molte persone che a lui si rivolgevano raccoman­dandosi alle sue preghiere e invocando conforto ai mali fisici e morali.
Perciò, già avanti negli anni, frate Ave Maria può scrive­re alla madre: "Mamma cara, sono un povero vecchio che non so fare altro che stare in ginocchio, con le mani giunte, davanti al Signore e alla Madonna e pregarli per tutti quelli per cui io devo pregarli e, se sapeste quanto sono numerosi, per quelli per i quali ho strettissimo obbligo di pregare! Mam­ma cara, io mi sento un grandissimo debitore verso tutti ed ognuno. Per fortuna la preghiera è una chiave d'oro...".
"In ginocchio, a mani giunte, davanti al Signore": è lo spet­tacolo che per quarant'anni chi saliva a Sant'Alberto poté am­mirare nella chiesetta dell'eremo, restandone impressionato ed edificato.
Ecco una testimonianza: "Una volta volli, lo confesso a mia vergogna, assicurarmi che proprio fosse preghiera... Ta­cito, immobile anch'io, inavvertito, mi trattenni a lungo in posizione da poterlo osservare lì, nel coretto di Sant'Alber­to, dietro l'altare. Passò il tempo, tanto tempo: egli era sem­pre lì, immobile, tutto assorto, concentrato nella sua preghiera".
Attuò sempre quanto ebbe a dire spesso con forza: "Bi­sogna pregare, pregare, pregare e mandare via dalla testa la pazza idea che vorrebbe farne intendere che il tempo speso pregando sia tempo perduto".

RACCOGLIMENTO E VITA INTERIORE
Tutte le qualità esteriori della preghiera si incontrano con la profondità della vita interiore a formare la sua immagine di asceta inginocchiato, a mani giunte, devoto senza artifi­cio, assorto e immobile nella concentrazione della mente; e rendono la misura di questo mezzo di comunicazione che pra­ticamente fa di lui un sacerdote (un mediatore) tra Dio e il mondo.
È la preghiera semplice e sublime nella forma - il rosa­rio, l'Ufficio divino, l'azione liturgica sviluppata in unione al celebrante - ma che possiede in sé l'intento, l'efficacia, la sostanza della adorazione, della richiesta fiduciosa, della rassegnazione, e si dirama a tutte le destinazioni: per la Chiesa, per la Congregazione, per i vicini, per gli sperduti, per i sa­ni, per i malati, per i fedeli, per i peccatori, per i vivi e per i morti.
E l'intenzione non è generica, ma espressa di volta in volta, dividendosi per settori secondo le diverse finalità: di modo che egli ha presenti tutti quelli che si raccomandano a lui, individui e categorie.
Il contegno esterno non potrebbe durare così continuo, così costante, così naturale, se non fosse la manifestazione d'una pietà intima ed essenziale radicata nel cuore da cui sca­turisce la fede, la carità verso le anime, l'umiltà, la gioia di vivere a contatto del Signore.
Ogni giorno alle 4 del mattino lascia la sua cella e scende per quei gradini sconnessi e labirintici alla chiesa. È l'ultimo ad uscirne dopo le orazioni della sera.
Spesse volte trascorre l'intera notte in cappella - se c'è il permesso del superiore - o in camera davanti al Crocifisso. Quanti rosari! L'Ufficio divino non può concederselo per­ché gli manca il testo, ma recita a memoria e col cuore aper­to alle ispirazioni della fede interi salmi e cantici.
Il suono dell'armonium nelle solennità è per lui altissima preghiera che interpreta gli slanci, le gioia, il raccoglimento, le estasi dell'anima e si comunica agli astanti.
Nessuno forse ai nostri tempi pregò tanto come frate Ave Maria, a prescindere dai rapimenti mistici di padre Pio. Fin 20 rosari interi al giorno.
«Ma non vi stanca - gli chiedono - lo star per delle ore così assorto e inginocchiato? A che attribuite questa vostra resistenza alla preghiera prolungata, senza distrazioni, sen­za soste, senza diversivi?».
«Alla gioia che provo» - risponde. E illuminandosi tut­to in volto di beatitudine, ripete col candore di un bambino: «Sì, sì, sì! » giungendo le mani e agitandole quasi a contenere l'immensa felicità che lo pervade.
«E come fate a ricordarvi di tutti quelli che si raccoman­dano alle vostre preghiere?».
«Per non dimenticare nessuno faccio dei mementi specia­li cumulativi specialmente durante la santa Comunione».

ESTASI E LEVITAZIONI
L'attitudine alla vita interiore era il carisma più prezioso di frate Ave Maria.
Al gruppo (già ricordato) dei sacerdoti piacentini saliti al­l'eremo per una giornata di ritiro spirituale, stretti attorno a lui in un momento di sollievo, diceva: «Pregare è la mia occupazione. Oppure scrivere e parlare. Ma anche questo io credo che sia una preghiera. Il resto mi dà noia. Tutto ciò che non è Dio a me dà noia».
Non che la sua pietà fosse venata d'intolleranza. Egli sa­peva anche prendere parte alle conversazioni estranee alla sua abituale concentrazione ascetica; agiva così in spirito di ca­rità, intendendo condurre anime a Dio da tutti i sentieri, per tutte le vie, oltre quella della fede, il lavoro, l'arte, l'onesto divertimento.
La sua vita è tutto un palpito di luce: prima nel rimpian­to degli occhi perduti, poi nel desiderio del Paradiso, nella visione delle realtà sublimi ed eterne. Egli compensava la ce­cità fisica con una più intensa percezione spirituale.
Ravvivava di splendori nostalgici il suo rosario, vedeva le Avemarie colorarsi di bianco, di azzurro e di viola, di ros­so, di verde, di oro, ai riflessi del mistero che stava meditan­do. Ogni fibra del suo cuore era luce. Non c'era più posto per lo sconforto, per lo sgomento, per i timori: salvo l'unica tristezza che prova il Santo nel vedere che Dio non è amato; ma subito risolta in ardore di carità che opera e soffre per la conversione dei peccatori.
Deliziosamente innamorato della preghiera, partecipava alla vita di Dio e collaborava con Gesù Redentore.
C'è chi parla di fatti straordinari inerenti alla sua vita con­templativa.
Una testimonianza ineccepibile ci viene da don Orione. Ascoltiamolo.
«Potrei giurare - diceva ad un gruppo di benefattori - che ho visto frate Ave Maria, sollevato da terra tanto così, mentre stava leggendo la "Imitazione di Cristo". Ero entrato silenziosamente nella cella dell'eremita, la porta era semia­perta (...) e l'avevo sorpreso in quella posizione (...). Stetti un poco, ammirato del fenomeno straordinario, poi scesi sen­za che frate Ave Maria s'accorgesse di nulla. Non mi mera­viglierei che facesse miracoli». E soggiungeva: «Certo non è meno santo di alcune tra le più note figure viventi».
E c'è chi s'incarica di andare un po' più a fondo con delle domande:
«Si dice che voi siete stato visto in rapimento di estasi, sollevato da terra. Aveva mai avuto l'impressione di essere sollevato da terra da una forza arcana?».
Frate Ave Maria fa con le mani un segno come di qual­cosa che lo investe e quasi lo schiaccia, e racconta: «Ero con don Orione e mentre parlavo ho avuto la sensazione di una grande dolcezza che mi invadeva con violenza».
«Ma circa la levitazione?».
Semplice, del tutto indifferente, dichiara: «No, non ricor­do un simile fatto, non so ...».
Ma bisogna soggiungere che i privilegiati della grazia della contemplazione estatica non avvertono i fenomeni fisici di cui sono l'oggetto.

IL «MIRACOLO DELL'ACQUA» A SANT'ALBERTO
Il «miracolo» tipico di frate Ave Maria rimarrà forse quello dell'acqua del pozzo di Sant'Alberto.
È dell'estate 1928. Lo presentiamo attraverso un raccon­to orale di don Orione ai suoi chierici del "Paterno".
- Quante volte vi ho parlato del fatto strepitoso di Pla­cido e Mauro discepoli di San Benedetto... Noi non abbia­mo bisogno di uscire di casa nostra, se vogliamo veder come Iddio premia l'obbedienza.
- Un anno era già da mesi che andavo magnificando ai chierici di questa casa l'eremo, i suoi boschi di castagno, i frati ciechi e non ciechi, le pitture e gli affreschi di Santi che ci sono a Sant'Alberto; e molti che mi ascoltano ben ricorde­ranno. Ed erano tutti entusiasti di passare là un periodo di vacanza.
- Lassù v'era un sacerdote molto colto
- Quando dunque si doveva partire da Tortona per San­t'Alberto (trenta km. a piedi, attraverso le colline) mi arriva uno mandato da don Draghi (rettore e parroco) a dirmi che non c'era più acqua nel pozzo. Era stato messo in allarme da quel sacerdote colto, il quale mi suggeriva di non manda­re i chierici, perché - mi diceva - se tu mandi cinquanta o sessanta chierici, come faranno a lavarsi, ad aver acqua per la cucina? Ciò sarebbe anche contro l'igiene...
- Guardate che lui era ed è molto igienista. Ma come facevo io a squalificarmi davanti ai miei chierici? Cosa pote­vo dir loro dopo aver tanto decantato e i boschi e gli uccelli e i frati e la quiete dell'eremo? Cosa avrebbero pensato? Avreb­bero potuto dire: - Eh, ne promette tante di cose don Orione...
- Quel sacerdote pestava un po' i piedi; non li pestava don Draghi, perché non è capace di pestare i piedi. Quello poi aveva anche gli orticelli, lassù, e gli premevano... È pro­fessore di agronomia e vegetariano; e anche durante la guer­ra ha seminato tante cipolle e piantato cavoli e cicorie nelle retrovie.
- E allora dissi al giovane che mi avevano inviato: «Tor­nate su, perché non avremo bisogno di andare coi buoi e la botte ad attingere acqua altrove. Direte a frate Ave Maria che vada sulla bocca del pozzo e reciti tre Pater Noster e Dio benedirà l'obbedienza».
Quello va su, arriva e annuncia che i chierici mandati da don Orione erano già per la strada. Figuratevi quel sacerdo­te: - Ma sono matti! Ma cosa fanno!
- Intanto frate Ave Maria, ubbidiente, va alla bocca del pozzo e con grande devozione dice i tre Pater Noster: e poi - così - cala giù il secchio, e tutti lì sono intorno a vede­re... Con meraviglia di tutti, anche di quelli che avevano ca­vato dal pozzo la vita, cioè soltanto fanghiglia di fondo, melma, venne su un bel secchio d'acqua limpida, freschissi­ma, buonissima.
- E allora andarono subito a chiamare quel sacerdote, il quale, per assicurarsi del prodigio e sincerarsene - lui, dif­fidente - fece tirar su ben 26 secchi d'acqua per innaffiare i suoi orticelli, le sue insalatine...
- Ed intanto si udivano già le grida dei probandi e dei chierichetti che cantavano e che arrivavano quasi di corsa, inseguendosi, gruppi a gruppi, fermandosi solo a mangiare more e a dar certe scrollatine alle piante. Arrivarono i chieri­ci e ci fu abbondanza di acqua per tutti, durante il mese che rimasero là; ma il giorno dopo la loro partenza, l'acqua mancò improvvisamente; e questo anche a riprova del prodigio: del prodigio operato dalla obbedienza umile di frate Ave Maria.
Così lo narrava don Orione (La luminosa notte di un cie­co, pp. 149-152).
Da parte sua il pio eremita attribuiva la grazia alla fede di don Orione e alla protezione di Sant'Alberto che amava vedersi attorno tanti futuri sacerdoti, e alla preghiera di tut­to il personale religioso presente all'eremo. Minimizzava, in umiltà sincera e carità fraterna, la propria parte.
E confermava che l'acqua non mancò mai durante la per­manenza dei chierici, che ne usavano molta. «Partiti i chieri­ci il pozzo si asciugò».
Non dimentichiamoci poi di don Draghi, pio e virtuosis­simo anche lui, se proprio vogliamo distribuire il merito tra diverse persone in questo fatto straordinario.
Piace aggiungere qui di seguito altri significativi episodi che riferiamo come sono stati raccolti da attendibili testimo­nianze.
Ai primi di giugno del 1925 un bambinello muto, Fronti Dino di Monticelli (Casalasco), fu accompagnato all'eremo dalla mamma. Mentre le campane suonavano a distesa (e l'in­carico toccava a frate Ave Maria) il fanciullo battendo le mani proruppe in questa frase che colmò i presenti di meraviglia e di gioia «Mamma, mamma, din don din don!».
Era la prima volta che parlava.
La grazia è attribuita a Sant'Alberto protettore dei muto­lini da quando guarì il figlio del marchese Malaspina di Ca­salasco. Ma il nostro eremita ci ha una piccola parte, se non altro come campanaro che trasfonde il suo spirito di fede in ogni operazione che eseguisce in obbedienza ai superiori.
Un suo cugino soldato ad Alessandria nel 1934 andò a trovarlo all'eremo di Sant'Alberto esprimendogli la propria ansietà a causa dell'imminente partenza per la guerra d'E­tiopia.
Il santo eremita lo confortò e lo rassicurò con queste pa­role: «Andrai in Africa, non sentirai il cannone a sparare, ci starai poco e te ne tornerai a casa incolume».
«Io non credevo a quelle parole - confessò - e le presi soltanto come un augurio. Partii il 5 maggio 1935, passai in Cirenaica, e lì non sentii il cannone a sparare, vi rimasi solo cinque mesi e tornai incolume. Allora pensai che quel mio cugino, pur essendo cieco, aveva la vista lunga».
Uno dei probandi che nel 1928 si trovava d'estate a San­t'Alberto, quando si verificò il prodigio del pozzo, racconta che, orfano di padre e con una sorellina malata a morte, si rivolse a frate Ave Maria.
Sapevo - dice - che i probandi erano un po' i suoi be­niamini: caldeggiava, zelava tanto le vocazioni.
Preghi per mia sorella - implorai. E lui prontamente: Sì, sì, pregherò. E voglio chiedere al Signore che mandi a me la sua malattia».
Ebbene: ricevetti lettere da mia madre che la malata era guarita, meravigliando i medici che l'avevano data per spacciata.
L'anno dopo, cioè nel 1929, don Orione ci mandò anco­ra a Sant'Alberto. Mi feci premura di passare da frate Ave Maria e dirgli del buon esito delle preghiere sue e quanto gli eravamo riconoscenti.
«Già lo pensavo che fosse guarita» - rispose. Ma non aggiunse parola.
Ritenni che dovesse aver sofferto tanto, povero caro fra­te Ave Maria! (Ib. 110-111).
Testimonia il nostro confratello don Andrea Alice: «Nel luglio 1949, i Superiori mi incaricarono di dettare gli Esercizi spirituali agli eremiti di S. Alberto e frate Ave Ma­ria era fra questi. Ad esercizi inoltrati, allorché tenni una me­ditazione sulla Madonna, accadde un fatto. Frate Ave Maria era seduto in prima fila ed io potevo osservarlo per bene. Ad un certo punto, mentre parlavo dell'amore materno della Ver­gine, fissando in volto frate Ave Maria, notai che dai suoi occhi scendevano abbondanti lacrime, silenziosamente, sen­za nessun sussulto della sua persona. Ne rimasi impressio­nato ed incuriosito. Terminata la meditazione, ebbi l'ardire di recarmi in camera sua: frate Ave Maria - gli dissi -, ho notato che durante la predica lei piangeva silenziosamente... Il santo confratello rimase confuso e, con una certa timidez­za, rispose: «A volte mi succedono delle cose che io non pos­so frenare! Dobbiamo amare la Madonna specialmente noi religiosi, perché, se non si ama la Madonna, si ameranno al­tre madonne che non sono la Madonna».
L'amore a Gesù ed a Maria era in lui così ignito da meri­targli dallo Spirito Santo il dono delle lacrime come si riscontra nei mistici».

SUL FONDAMENTO DELL'UMILTA’
Il sentimento fondamentale dell'umiltà ispira e sorregge le preghiere di frate Ave Maria. Egli considera se stesso un miserabile, bisognoso di tutto, il più indegno di tutti.
Un sacerdote - che egli non riesce subito a riconoscere dalla voce - lo invita in sagrestia per un breve colloquio e lui docilmente lo segue e recepisce questa domanda che sa quasi d'inquisizione:
«Frate Ave Maria, tanti vengono da voi a chiedere consi­glio, compresi sacerdoti e distinte personalità. La buona gente del popolo si accosta a voi come ad un santo e ritiene la vo­stra parola come ispirata. Un giorno forse voi sarete ricor­dato come un altro Sant'Alberto. Non vi sentite proprio mai, neppure per un istante, tentato di orgoglio e di compiacenza di voi stesso?».
Stette ad ascoltare. L'ansietà andava dipingendosi sul suo volto scarno. Strinse fortemente il capo fra le mani tremanti, poi sbottò in un grido staziante, soffocato: «Dalle unghie dei piedi fino all'estremità dei capelli sento di essere un misera­bilissimo peccatoraccio».
E scoppiò in lagrime e singhiozzi che commossero l'in­terlocutore e lo fecero pentire dell'ardimento avuto nel porre una simile interrogazione.
«Ma, d'un subito, l'eremita si trasformò, presentando un viso tutto sorridente: «Ma lei - disse - è don ...?». Ed avu­tane conferma portò il discorso su altri argomenti di assolu­ta serenità.
Si può affermare che ormai da lunghi anni frate Ave Ma­ria aveva vinto la sua battaglia contro l'amor proprio e la va­nagloria.
Si dice che l'amor proprio scompare da noi solo tre gior­ni dopo la nostra morte, ma frate Ave Maria lo aveva doma­to fin dai primi tempi della sua «conversione».
Don Orione proprio per assicurargli la vittoria su di sé, specialmente agli inizi, lo aveva sottoposto alle prove della umiltà con delle umiliazioni, e il discepolo aveva tratto il mi­glior profitto dalle lezioni e dall'esempio del maestro.
«Tutte le lodi mi fanno pensare al giorno del giudizio di Dio» confessa in una delle sue lettere. La stima degli uomini quasi lo spaventa perché difficilmente coincide in tutto con la realtà nota a Dio solo.
Straordinario! Qui frate Ave Maria s'incontra con un'al­tra anima di grande vita interiore e tutta compresa di umil­tà: don Arturo Perduca, il quale usava tanta delicatezza e tanta amabilità col prossimo «anche nel timore di essere punito al giudizio di Dio se avesse mancato di carità verso gli altri». Sono sue parole.

LA PENITENZA CORROBORA LA PREGHIERA
La pietà religiosa si integra con lo spirito di penitenza. C'era una connessione naturale tra la preghiera liturgica o privata, in cui egli si concentrava per tante ore del giorno e della notte, e le opere di penitenza che egli compiva per ren­derla più efficace e meritoria dinanzi a Dio.
Come se non bastassero la cecità fisica, la tubercolosi che gli incavernava i polmoni, i molti altri acciacchi della sua esi­stenza, ad appesantirgli la croce abbracciata con tanto fer­vore, egli si sentiva spinto e galvanizzato dalla brama della sofferenza, non soltanto attraverso i molti atti di mortifica­zione che compiva ogni giorno adattandosi con gioia alla po­vertà dell'eremo, alla squallida cella, al saccone di paglia o di foglie secche del granoturco come giaciglio, ma privando­si del vino, della carne, del pane, salva l'obbedienza, e tutta­via evitando simili fioretti e atti di rinuncia quando si trovava alla mensa comune.
Si scoprì negli ultimi giorni della sua vita che egli porta­va una specie di cilicio confezionato ruvidamente con del fil di ferro.
La preghiera era «il suo forte», perché corroborata da aspre penitenze e da continue rinunce che libravano il suo spirito in un'atmosfera di sublime contemplazione.
Custodiva in cuore come gemma preziosa il detto scrit­turale: «Jacta cogitatum tuum in Domino» (Immergi il tuo pensiero nel Signore).
La luce di Dio gli inondava l'anima. La cecità divenne per lui un dono provvidenziale e all'amico di infanzia Bartolo­meo, che ne era stato la causa occasionale, scrisse una affet­tuosa lettera, per toglier dal suo animo ogni ombra di rimorso e di amarezza e sollecitarlo a ringraziare con lui il Signore. Con tanto amor di Dio e tanta luce spirituale divenivano desiderabili le stesse sofferenze. Ma la virtù di frate Ave Ma­ria arrivava a trascenderle in una visione superiore di carità, finalità ultima e insostituibile. Ci spieghiamo.
Dormiva in una cella squallida sprovvista di arredamenti indispensabili nell'uso comune. Ma a lui piaceva più di una reggia. Aveva per giaciglio un saccone di paglia triturata or­mai al punto da sembrare segatura, disteso su tre tavole sfor­mate sorrette da due cavalletti.
Una recrudescenza del male, durante i giorni più rigidi dell'inverno 1933, lo costringe a tenere il letto. Vogliono so­stituirgli il saccone con un materasso di lana. Lui protesta con calma e scherzando minaccia di ricorrere a don Orione se insistono. Ma quando il direttore don Draghi sale alla sua stanza e gli dice: «Frate Ave Maria, fate l'obbedienza», egli si rimette alla sua decisione e il letto viene cambiato.
Molti anni dopo la famiglia Piccinini di Berzano (Torto­na) - Aldo, il primogenito, e tre sorelle - devota del pio eremita chiede e ottiene di poter fare qualche cosa per lui e in pochi mesi gli appresta all'eremo un modesto soggiorno, restaurando l'antica cella disagevole, cadente e in parte sbrec­ciata. Egli, com'è suo costume, non muove obiezioni e ob­bedisce al nuovo superiore che ve lo accompagna a prenderne possesso.
È una stanzetta di completo disimpegno dove potrà oc­cuparsi tranquillamente della preghiera, della lettura predi­letta dei testi religiosi, delle lettere da battere a macchina e dei suoi lavoretti ordinari.
Durante i lavori di restauro, diretti dal geom. Moglia (un «miracolato», bambino, da Sant'Alberto), frate Ave Maria era alloggiato alla meglio nel vano ora trasformato in cucina.
La stessa famiglia Piccinini nel giugno 1959 aveva edifi­cato nella vasta tenuta agreste della Magostina una cappella dedicata alla Madonna, con gradinata esterna e altarino per la celebrazione della Messa.
Per l'inaugurazione furono invitati da Milano e da Tor­tona parecchi sacerdoti di don Orione, e il superiore genera­le don Pensa diede l'autorizzazione perché fosse presente anche frate Ave Maria. Fu una giornata di grande gioia per tutti. Per un'ora intera frate Ave Maria rimase devotamente ingi­nocchiato su di un gradino del tempietto a seguire la santa messa e l'omelia, comunicandosi e pregando, senza dar il mi­nimo segno di stanchezza.
A tavola si adattò in tutto all'ambiente e, affabile, fu al centro della conversazione, lieto d'aver onorato la Madonna e contribuito a soddisfare il pio desiderio dei suoi benefattori.
Da allora bottiglie e damigiane di vino squisito partiva­no dalla Magostina per l'eremo e per altre case della Con­gregazione nelle occasioni solenni. Questo è detto a loro onore
e in segno di gratitudine, e nasconderlo sarebbe... ipocrisia. L'adattamento di frate Ave Maria al nuovo soggiorno è un fiore di virtù da segnalare e da ammirare, non un «infor­tunio» da nascondere. Come a tavola egli accettava quello che gli ponevano nel piatto, per un atto di obbedienza e di mortificazione in quanto era un freno al suo desiderio di ri­nunciarvi, così quando si trovò in quella camera pulita, mo­destamente ordinata, al tutto diversa dalla cella abituale, non mosse rimostranze, perché nella sua alta virtù capice che l'ob­bedienza val più del sacrificio personalmente scelto e accet­tare un servizio offerto dalla carità altrui può essere un dovere di gratitudine, mentre il cuore non s'attacca a quel nuovo am­biente e non se ne compiace che per rendere onore al merito di chi glielo procura.
Una penitenza scontrosa, ostinata, disubbidiente: questa sí, sarebbe cosa incompatibile con la vera santità.

AL VERTICE: LA CARITA’
La preghiera come componente della vita interiore si com­pleta e si esalta nella carità.
1,1,11, cieco, diventa raggio di luce allo spirito, consolato­re degli afflitti, consigliere dei dubbiosi e degli inesperti, fa­ro di orientamento degli sperduti in false prospettive di felicità o brancicanti nelle tenebre delle illusioni e degli inganni, de­nunciando la vanità degli idoli mondani: prima mostrando di là della notte tempestosa dell'errore e dei sensi l'alba sere­na della fede, quindi propiziando nel tempo la conquista e il possesso del gaudio riservato alle anime in grazia anche du­rante le prove più ardue, come la malattia, lo sgomento, la persecuzione degli uomini, il senso di nausea provocato dal­lo sfaldamento dei valori morali e tradizionali nella stessa Chiesa di Cristo (quella deteriore ribelle e mondanizzata) la tentazione, il rimorso che ha davanti a sé un'alternativa tre­menda: il pentimento o la disperazione.
La rigenerazione della preghiera ne faceva un esempio vivo di pace e di felicità nelle afflizioni: facile al sorriso, sponta­neo, sorgivo; pronto a tutti gli entusiasmi, conversando, scri­vendo; docile, che, in humilitate et sirnplicitate, seguiva chi lo chiamava, fosse anche solo per una istantanea fotografica o una curiosità da appagare osservandolo, studiandolo, am­rnirandolo: cose di cui egli pareva non rendersi conto tanto era sincera la sua amabilità.
Certo, frate Ave Maria esercitava anche la carità nel sen­so materiale, compatibilmente alle sue condizioni di cieco e di figlio dell'obbedienza.
Per quanto gli era possibile s'interessava dell'ordine este­riore della casa, proponeva mezzi adatti a raccogliere elemo­sine per le missioni e in agibilibus mostrava di possedere doti di iniziativa e praticità.
Era una sua idea costante che i ciechi d'Italia divenissero membri attivi dell'Apostolato della Buona Stampa, già così ben avviato, per suo suggerimento, tra le Suore Sacramenti­ne Adoratrici; che ciascuno di essi si impegnasse nel volgere in Braille (') qualche testo letterario e poetico, ma soprattut­to religioso, finché si stabilì il Movimento Apostolico fra i Ciechi, che gli procurò viva soddisfazione (Ib. 48).
Si adoperava molto nella questua delle vocazioni per la sua piccola famiglia eremitica, interessandosi direttamente perché nuovi postulanti fossero accettati, e non rimase mai estraneo alle varie attività nelle quali vedeva impegnati i con­fratelli dell'eremo e della Congregazione offrendo il suo mo­desto contributo non solo di preghiera ma di assistenza e operosità.
E tutto questo altro non era che emanazione ed estrinse­cazione del suo profondo sentimento.

... CON LA PAROLA E CON LE LETTERE
Frate Ave Maria credette nella carità. La sua anima sem­plice ignorava il male, viveva per il trionfo del bene sotto ogni aspetto, in tutti i cuori. Diventa pleonastico dire che amava il prossimo, che voleva servire il Papa, la Chiesa e per essa offrirsi, dopo che abbiamo scoperto che egli si manteneva co­stantemente a contatto di Dio.
E poi: «devoto di Maria SS.» dice tutto.
Non un sentimento effimero, ma una volontà protesa sem­pre al meglio, un anelito di perfezione, una fede viva e operosa.
All'atto pratico la sua carità si esprimeva, oltre che nella preghiera, attraverso la parola e gli scritti. Egli possedeva lo zelo di un apostolo. Non prediche (sebbene qualche volta te­nesse conferenze a chierici e a sacerdoti, addirittura in chie­sa dalla balaustra) ma conversazioni a tu per tu con delle più o meno numerose comitive che lo avvicinavano in camera, o nel chiostrino, o nella sala dell'eremo, dovunque insomma riuscisse facile poterlo «sequestrare» per consultarlo, inter­rogarlo, ascoltarlo.
Raramente una vita si presenta così «unitaria» come la sua. Nei capolavori si cerca soprattutto l'unità d'ispirazione. A volte per trovarla si ricorre a delle acrobazie di pensiero. Ma nella biografia del nostro eremita il principio unitario, evidentissimo, è la fedeltà alla sua missione di pregare. In­torno ad essa, elemento catalizzatore, si accentra e si pola­rizza la sua attività spirituale e religiosa.
Difatto egli non considera l'apostolato della parola (e degli scritti che la fissano nel tempo) separata, ma solo distinta, dalla preghiera che rimane la missione fondamentale inderogabile a cui si è consacrato per mandato di don Orione e per vocazione del Signore.
Alla luce dell'insegnamento di san Paolo l'«Ora et labo­ra» potrebbe interpretarsi, nel suo caso, [sostituendo alla con­giunzione (et) la copula (è)], in quest'altro modo: «I1 lavoro è preghiera», se compiuto in ispirito di fede e di offerta a Dio di tutto se stesso.
E questo era il pensiero di frate Ave Maria come risulta dal seguente brano che sembra operare l'amalgama perfetto tra i due elementi: «Sono qui in ginocchio, davanti al mio lettuccio, che mi serve da tavolino, quando voglio scrivere: anche questa è preghiera (...) Se sapessi che lo scrivere lette­re non giovasse né all'anima mia, né a quella di chi lo riceve, io cesserei senz'altro ogni genere di corrispondenza» (Ibidem 82-83).
Dal primo anno della sua dimora a Sant'Alberto, perso­ne private d'ogni ceto, età e condizione, cominciarono a pren­dere da lui direzione e conforto nei momenti dubbiosi della vita e sempre ne ripartirono rasserenate nello spirito e rin­saldate nella fede, o quanto meno propense a considerare il problema religioso sotto un'angolazione che escludeva l'or­goglio, la prevenzione, il pregiudizio.
Nei giorni di maggior concorso all'eremo il colloquio di frate Ave Maria con i vari gruppi di visitatori e di devoti co­stituiva un numero di ordinaria amministrazione. Ed egli, do­cile e pronto, a prezzo di tanto strapazzo fisico, non si ritraeva mai da questa forma di apostolato. Oggetto dei colloqui erano le cose di Dio e dell'anima, o anche quelle del mondo, da il­luminare ai raggi delle verità eterne, mai fine a se stesso, al­meno da parte sua.

IL SUO EPISTOLARIO
Le lettere, che egli dapprincipio componeva su carta Fa­briano, o similare, secondo il metodo Braille, ma che presto imparò a battere a macchina, sono incredibilmente numero­se, dirette, per lo più a suor Teresa, alla mamma, a don Orio­ne, ma anche ai confratelli, ai richiedenti, che egli non lasciava mai senza risposta.
Non sono ancora state raccolte in un epistolario vero e proprio, ma l'attento e documentato volume, che ci fa da gui­da, edito nel 1964 dalla nostra Postulazione, ne riporta mol­ti e diffusi squarci.
In esse vibrano due sentimenti fondamentali: quello del­la fede e quello della carità, che si corredano poi delle virtù morali e religiose: l'umiltà, la sete di conquista delle anime all'amor di Dio, il disprezzo delle vanità, il desiderio e il gu­sto della preghiera e della mortificazione, e qua e là sangui­nano della sua umanità prostrata in un Getsemani ignorato dagli altri; in uno stile che non ha nulla di manierato, ma sgorga vivo, spontaneo, senza fronzoli, infiorato di arguzia e di lepidezza, da un cuore tutto immediatezza, sincerità, en­tusiasmo, felicità spirituale, semplicità, rapimento in Dio.
Una nota insistita in queste lettere: la sua sincera e sof­ferta commiserazione per quegli infelici che si affannano dietro le frivolezze del secolo e, di converso, l'invito all'acquisto dei valori della fede e delle virtù cristiane, tesori inestimabili, al­la portata di tutti, ma trascurati e ignorati dalla maggior parte degli uomini.
Ed è l'unico rammarico, l'unica tristezza dalla resa della sua anima cristallina e pura come raggio di luce. Egli per i peccatori e gli increduli, per gli edonisti e i vinti dalle passio­ni del mondo, darebbe la vita ed esprime la più grande fede nella misericordia del Signore da impetrare pregando e sof­frendo.
Era scomparso da pochi mesi (2 gennaio 1960) in circo­stanze tragiche un «pubblico peccatore» protagonista di im­prese leggendarie nel campo sportivo. Un sacerdote suo amico, avvilito per certi giudizi aspri e spietati contro il de­funto, formulati da chi avrebbe dovuto inchinarsi di fronte alla sciagura e pregare, invece di condannare senza appello, informò frate Ave Maria della propria ambascia.
Il santo eremita gli rispose subito mostrando tanta fidu­cia nella bontà di Dio.
Però osservava con finezza: «Cosa facilissima è pregare per la conversione dei peccatori, perché si raccomandano a Colui che più di tutti brama salvarli, ma è difficile parlare della salvezza di un peccatore, perché tra quelli che ascolta­no vi sono quelli ai quali Gesù ancora direbbe con tono di rimprovero: "Non sapete di che spirito siete. Non sono ve­nuto per perdere, ma per salvare"».
E allo stesso sacerdote che era stato criticato e offeso pub­blicamente per aver espresso fiducia nella misericordia di Dio in quella dolorosa evenienza, raccomandava: «Sia amico di tutti i peccatori... tanto da ricordarli tutti nella santa messa e da sperare nel loro ravvedimento, e desiderarlo ardentemen­te, e da esprimere questa sua grande speranza» - (25 marzo 1960).
A scanso di equivoci suggeriva poi di parlare in modo che il peccatore non rimandi la conversione sine die, ma neppu­re abbia a disperare, in punto di morte, ricordando gli am­monimenti severi.
Vero figlio spirituale di don Orione, non voleva si spe­gnesse il lucignolo fumigante, secondo il detto di Isaia.
Nei suoi scritti abbondano i riferimenti personali tanto da costituire una vera e propria trama autobiografica dalla fanciullezza all'estrema età, sia nel suo devolversi esteriore in fasi di tempo successive, come nel rivelarsi sotto l'aspetto psicologico e morale.
Ma al valore autobiografico s'accompagna - e con mag­gior rilievo - quello d'ordine ascetico.
Potrebbero formare un testo adeguato di riflessione e di meditazione per chiunque, e sarebbero consigliabili proprio a coloro che «presumono» di conoscere a fondo i segreti del­la vita spirituale e si perdono in discorsi speculativi ed astratti, in brillanti teorie d'avanguardia, perché li richiamerebbero, con una «costante» che non è mai pura predica, ma sempre ispirazione, ai «problemi» veramente di fondo, al «porro unum est necessarium», tanto trascurato se non irriso, e al­l'essenza della vita cristiana, che non è fatta di «dottrine» (coa­diuvanti della fede) ma di pratica delle virtù.
Riflettono ad ogni passo il Vangelo, l'Imitazione di Cri­sto, le esortazioni di don Orione - importante peculiarità - le sue esperienze personali che non furono né scarse né superficiali, e lo portarono a scavare intimamente il cuore umano e a conoscerne i risvolti più segreti, per poterlo do­minare con sicura consapevolezza.

SEMPRE LIETO NEL SIGNORE
L'esempio della sua inalterabile pace nelle avversità e nelle prove più squassanti, e della gioia spirituale che mai lo ab­bandonava, è forse la ragione più vera della sua attrattiva e l'insegnamento più prezioso che ci ha lasciato.
Perché non si poteva non domandarsi come mai una per­sona divenuta cieca a 12 anni, con la tubercolosi che l'anda­va demolendo senza ucciderla (con meraviglia di tutti quelli che, dandolo spacciato a 23 anni, lo vedevano superare sen­za danno la sessantina) esprimeva dal volto, dal portamen­to, dalle parole, tanta felicità, vivendo nello «squallore» di un eremo «che a molti piace visitare, ma dove pochi amano abitare».
Era pura letizia francescana quella di frate Ave Maria e finiva per convincere de facto che la gioia non è cosa che pro­ceda dall'esterno (onori, denaro, piaceri, divertimenti, fur­fanteria et similia) ma viene dal di dentro, dal cuore in pace con Dio e illuminato dalla fede.
Lezione di valore inestimabile specialmente oggi che tan­ti vanno a dar la testa contro la barriera delle illusioni eretta sui principi materialistici ed edonistici, mentre mai l'umani­tà si è trovata così a disagio, senza giustizia, senza tranquil­lità, senza sanità fisica e morale, con la prospettiva d'un avvenire ancora più spaventoso, se l'esempio dei saggi e dei buoni (che non mancano, anzi sono la maggioranza «silen­ziosa») non la richiamano ai valori evangelici, non deforma­ti, non strumentalizzati ed avviliti, ma autentici e quindi capaci di creare la base d'intesa su cui ricostruire una nuova era cri­stiana.
Noi col Papa, con don Orione, con frate Ave Maria, cre­diamo sempre nella carità e non vogliamo essere «dei cata­strofici che pensano che il mondo finisca domani» (don Orione).
A proposito della giocondità e letizia di frate Ave Maria piace riferire ancora la testimonianza di don Alice, già ri­cordato: «Felice un frate Ave Maria cieco, tubercoloso, ansiman­te, dalla voce cavernosa? Proprio così! Se questo ci stupisce, prepariamoci a rimanere maggiormente stupiti, quando riu­sciremo a scoprire l'origine della sua felicità. Frate Ave Ma­ria fu felice «nonostante» le molteplici sciagure che lo colpirono? Assolutamente no! Quale fu allora il motivo del­la profonda gioia che lo caratterizzò? Eccolo: proprio «a cau­sa» delle sue sventure.
Folgorato dalla potenza dello Spirito Santo, esse sprigio­narono nel suo cuore una grande divina luce, che gli permise di contemplare il Cristo trionfante a motivo della passione dolorosa amorosamente accettata. Rapito dalla visione del Crocifisso, frate Ave Maria comprese ed esultò del privile­gio insigne di essere posto sulla stessa scia del Salvatore. Di conseguenza il grande prodigio: il dolore che genera una fe­licità divina e contagiante, comprensibile soltanto da chi ha fatto l'esperienza del divino!
Non ricordo in quale anno i Superiori mi inviarono a S. Alberto di Butrio, a prestare il mio aiuto in occasione della festa del Santo patrono. La buona educazione mi indusse a recarmi nella camera di frate Ave Maria allo scopo di osse­quiarlo. Dopo i soliti convenevoli, i suoi sentimenti e le sue parole si elevarono ben presto all'ordine superiore della gra­zia resa infuocata dall'esperienza viva del soprannaturale. Non seppe più contenersi e lasciò dilagare l'abbondanza della gioia e della felicità tutta spirituale che lo inondava. lo, stupito e contagiato da così insolito spettacolo, non potei trattenermi dal dire a me stesso: «Ecco un puro di cuore, cui già da que­sto mondo è concesso godere la felicità celeste». Era eviden­te che in frate Ave Maria agivano profondamente quelli che S. Paolo chiama i «frutti dello Spirito», tra i quali si enume­rano appunto la pace e la gioia.
Infervorato io pure dal contatto del santo confratello, gli citai un versetto tratto dall'antica Volgata: «Nox illumina­tio mea in deliciis meis». E gli dissi: «Frate Ave Maria, mi pare che il Signore le faccia gustare la dolcezza di queste pa­role della Sacra Scrittura... Egli volle conoscerne il significa­to ed io gliene feci la traduzione libera: La mia notte ha una luce deliziosa».
All'udire queste parole frate Ave Maria ebbe un sussulto di gioia: saltellò e batté le mani come un fanciullo felice, ed esclamò: Che bello! Che bello! Poi mi pregò di ripetergli quella frase, che lo aveva incantato. La sua esperienza di Dio, cer­tamente provata tante altre volte, gli inondò l'animo e lo sol­levò alle regioni celesti.
Quindi mi chiese di attendere un poco per avere il tempo di prendere carta e punteruolo per scrivere in braille, ripe­tendo: Che bello! Che bello! Scrisse la frase per poterla ri­chiamare spesso alla memoria. Uscii dalla camera di frate Ave Maria con la persuasione: Ho parlato con un santo!
In non so quali vacanze estive, insieme a mons. Garaventa, rettore del seminario minore della diocesi di Tortona, accom­pagnai a S. Alberto un gruppo di seminaristi per un breve ritiro spirituale: alla fine essi desiderarono incontrarsi con frate Ave Maria. Questi annuì di buon grado e scese in cortile. I seminaristi pendevano dalle sue labbra e lo fissavano stupe­fatti e commossi. Io approfittai per interpellare il santo con­fratello. Gli chiesi pubblicamente: frate Ave Maria, lei è felice? Egli, con evidente trasporto, rispose: Tanto, tanto! La mia felicità è essere cieco, la mia felicità è essere povero, la mia felicità è essere ubbidiente!... Non c'è dubbio, a farlo parla­re in quel modo era la perfetta ed allegra conformità al vole­re di Dio, che lo faceva partecipe della passione di Cristo Crocifisso: sbarazzato dalla mentalità umana era rivestito del­la mentalità divina. Non vi pare che frate Ave Maria sia tut­to qui? Da parte mia non ne dubito minimamente».

SCRIVONO DI LUI...
Frate Ave Maria non ebbe certo la popolarità di un pa­dre Pio da Pietrelcina, ma non la cedeva a lui in saggezza di consigli.
Don Orione usava indirizzargli anime spiritualmente an­gustiate, perché ritrovassero al suo contatto la luce della ve­rità e della fede e la fiducia nel bene.
Scrittori e pubblicisti di chiara fama, ammiratori, disce­poli occasionali, rendono testimonianza della sua virtù e del suo zelo apostolico.
Accenniamo ad alcuni.
Il primo posto tra i divulgatori della presenza di frate Ave Maria all'eremo di Sant'Alberto spetta al duca Tomaso Gal­larati Scotti grande amico di don Orione e una delle figure più note del movimento modernistico, agli albori del secolo. Egli era nella scia di Antonio Fogazzaro, di don Brizio Ca­sciola e di altri esponenti che, colpiti dalle censure della Chie­sa, doverose, come no? seppero sottomettersi all'autorità religiosa in spirito di obbedienza.
A ciò non fu estranea l'azione pacificatrice e risanatrice di don Orione, il quale, quando voleva rifare un'anima in cer­ca di pace, suggeriva e propiziava una sosta all'eremo di San­t'Alberto.
Qui trascorre un certo periodo della sua vita anche il du­ca Tomaso proprio all'epoca in cui vi dimorava frate Ave Ma­ria, con il quale si tratteneva in lunghe conversazioni.
«Ebbi un ritiro a Sant'Alberto in un periodo piuttosto dif­ficile per me». Cosi dichiara egli medesimo. Ne riportò tan­ta impressione e soddisfazione spirituale che volle poi ambientare all'eremo la scena madre di un romanzo dal pos­sente respiro religioso, «La confessione di Flavio Dossi». L'at­mosfera spirituale è resa con efficacia. Vi si sente il travaglio interiore risolto in conquista di verità eterne. Gli addentella­ti autobiografici sono palesi, la descrizione dei luoghi è per­fetta e suggestiva. Frate Ave Maria vi è adombrato nella figura di un «fra Giovanni» che vi sostiene una parte di rilievo: «I neri capelli radi, lisci, intonsi gli cadevano sulle spalle magre e curve... Gli occhi erano chiusi. Ma la palpebra sinistra sol­levata un poco non riusciva a nascondere la pupilla trafitta, che dava al volto potentemente scolpito un'espressione tragica».
«I casi dell'infelice re tradito e spodestato (Edoardo Il, di cui all'eremo si indica la tomba primitiva) non commuo­vono e affascinano come la luminosa cecità di frate Ave Ma­ria (...). Divenne cieco in un incidente di caccia, si dice; e come la sua pupilla fu fredda al raggio del sole, gli si accese, entro, la fiamma misteriosa che lo consuma. Chi più re di lui, che possiede un regno interiore così fondo e vasto e com­plesso? Chi più re di lui, che sa condurre per i meandri del­l'Inconoscibile con mano certa e passo sicuro?».
«Come don Orione mi aveva detto, qui ho incontrato per la prima volta frate Ave Maria. Questo monaco nel suo bianco saio simile a quello degli Olivetani, che sembra uscito da una tavola a fondo d'oro dei primitivi, ha nella voce e nel gesto la soavità del nome mariano (...) Ho potuto parlargli a lun­go prima che rientrasse nella sua modesta cella».
Chi scrive così, nel 1934, è Nino Salvaneschi, autore di libri pregiatissimi, lui pure cieco, ma che sa intuire e vedere come pochi la bellezza e i valori della natura e delle anime.
«I miti ed umili eremiti ciechi ci appaiono come una spe­ranza di salvezza e come un segno di perenne vitalità cristia­na che accompagna il tormentato cammino delle generazioni attuali« (Renato Canestrari - 1936).
«Quando ripeteva il nome di don Orione, traspariva da tutta la persona, specie dalle mani diafane e affusolate, che vedevo congiungersi strettamente, quale grata venerazione gli riscaldasse il cuore (...).
«Non ero più solo con lui, ora: un topolino che si era af­facciato più volte, timidamente, forse temendo la voce inso­lita di un visitatore che poteva essere cattivo, s'era poi fatto ardito e girellava a suo piacimento. Lo dissi a frate Ave Ma­ria... «Sa che qui nessuno lo vede e gli può far male...» mi rispose.
«( ,.,) Il tempo era volato via con frate Ave Maria, e pen­savo con mestizia all'addio. Gli chiesi perdono di averlo af­faticato. Non volle, e le parole che disse - ultime - toccarono le più recondite fibre del mio animo, che ne vibrò tutto, come arpa sfiorata da mano d'angelo. La melodia soave che si sprigionò dall'intimo del cuore non s'è ancora spenta né - lo sento - potrà spegnersi più».
Così riferisce il giovane Giuseppe Zambarbieri di anni 22 aspirante religioso nella Congregazione di don Orione.
«Non s'inquieta, non s'irrita mai, sebben non gli manchino i motivi, in un luogo desolato, povero, dove l'inverno dura, senza esagerare, sei mesi e dove gli aiuti di ogni genere sono limitati. È sempre calmo; il sorriso gli è abituale sulle lab­bra. Non solo non si lamenta mai di nulla, ma è incapace di dir male di qualcuno (...). E nella peggiore delle ipotesi ha un sorriso scevro assolutamente da malignità, oppure di­ce una lepidezza di sapore manzoniano (...). Alcuni anni or sono chi scrive era solito leggergli, quasi tutti i giorni, alcuni tratti dei nostri grandi luminari, Ruysbroek, Sant'Agostino, la Beata Angela da Foligno, oppure della vita di alcuni eroi della fede e della carità. Raramente quelle pagine e quelle azio­ni furono così ben comprese sulla terra. La sua faccia si illu­minava, un raggio di gioia usciva dal suo intimo e pervadeva tutto il suo aspetto, che si trasfigurava» (1937).
È don BrI,~io Casciola, anima semplice, pura, generosa che, attraverso periodi di tormento e di crisi, trovò in don Orione il suo fraterno consolatore.
Silvio Negro, corrispondente del Corriere della Sera presso la Città del Vaticano, scrittore affascinante per magistero e limpidezza di stile, che tratta la cronaca religiosa in modo esemplare, per serietà e competenza, dedica a Sant'Alberto un articolo apparso su «La lettura» del dicembre 1938, dal titolo «Un mistero della storia inglese rivelato in Italia?».
Dichiara che la visita all'eremo gli riservò la più profon­da impressione nell'incontro d'una memoria che si riferisce alla presunta tomba di Re Edoardo II, sotto un arcone del­l'antico chiostrino.
Domanda scusa ai «buoni religiosi che vivono in quella solitudine pregando e rinnovando con il lavoro l'antica re­gola benedettina, se di fronte a quella passano in secondo pia­no tutte le belle cose di religione, antiche e recenti».
Non fa il nome di don Orione, ma pubblica due grandi fotografie di frate Ave Maria, una che lo rappresenta da so­lo, l'altra in conversazione con Riccardo Bacchelli, il più gran­de romanziere dei nostri tempi, l'autore de «Il mulino del Po», e sotto quest'ultima pone la didascalia seguente: «Una voca­zione rientrata? Riccardo Bacchelli a colloquio con frate Ave Maria».
Sono entrambi in piedi sullo sfondo degli archi del chio­strino, e lo scrittore, a capo scoperto, fissa il suolo in atteg­giamento meditativo evidenziato dalla mano che stringe il mento.
Dice molte cose questa fotografia sia sul conto dell'ere­mita ancor giovane, nero di barba e di capelli, a mani con­giunte, mentre parla; sia sul conto del romanziere che ascolta così umile e rispettoso.
Molti anni dopo, il 18 febbraio 1958, Riccardo Bacchel­li così scriveva a chi gli aveva rivolto l'invito di ritornare sul tema del re inglese: «Dell'abbazia e della tradizione o, trop­po più verosimilmente, leggenda di Edoardo II, ho vivo ri­cordo. Ma per scriverne dovrei ripetere la visita: e non escludo di farlo un giorno o l'altro. La sua troppo benevola assicura­zione, che farei cosa gradita ai figli spirituali di don Orione, fa più vivo il desiderio di rivedere quel luogo tanto poetico».
«Frate Ave Maria ha trovato nel silenzio una ricchezza spirituale la cui fama ha varcato i confini dell'eremo (...). La sua stanza è squallida; egli dorme su di un pagliericcio, si ci­ba di erbe cotte e prega (...). S'è trascritto il Vangelo e altri sacri testi nella scrittura Braille, e vi passa sopra le notti. E mite, dolce, serafico. Lunghi capelli gli inanellano le spalle ed ha copiosissima e nerissima la barba. La sua età è ferma, perché quando la vita è ridotta, o elevata, come è per lui, il calendario, ch'è poi il cilicio di noi laici, non esiste più» (Giovanni Cenzato 1938).
«Figura di asceta di un pallore spettrale (...). Ma quanto è soave e sicura la sua parola, e sempre ispirata e pregna di tutta la sua inesausta edificazione! Perché frate Ave Maria
è l'uomo più felice del mondo...» (G. N. Filippini 1948).
«Frate Ave Maria leggeva - passando rapido e leggero i polpastrelli della sinistra sulla pagina in scrittura Braille - il suo libro di preghiere (...). Si fece sulla soglia del coretto a fianco dell'altare, nella mite luce dorata della finestrella del­l'abside, e sorrise. Dava, a guardarlo, un senso di mistica ir­realtà, come un'apparizione di tempi lontani e leggendari; e, se ci avesse detto che abitava in quell'eremo sin dalla sua fon­dazione, e che aveva aiutato Sant'Alberto a costruirlo su que­sto sperone diruto, dopo il Mille, non ci saremmo meravigliati: tanto la sua parola infervorava...» (Gino Cor­nali 1948).
Nella «Gemma d'Oltrepò» la figura di frate Ave Maria, genius loci, è così rappresentata: « Il suo aspetto ieratico, re­so ancor più grave dall'onda di capelli che gli ricadeva sul bianco saio, dalla barba incolta e da una malattia che gli sca­vava le guance, gli macerava il corpo, gli arrochiva la voce, mentre ne esaltava il valore spirituale, la sua sorridente e umile bontà, la lunga esperienza meditativa, la saggezza delle sue parole, un'aria di trasognata beatitudine e di dolce rapimen­to ai pensieri di Paradiso, lo splendore del passato che sem­brava riverberarsi su questo esemplare di asceta tornato come per un prodigio a dar lustro all'antico eremo, attiravano su di lui la venerazione di tanti devoti che anelavano d'incon­trarlo per edificarsi alla sua conversazione e trarne conforto e incitamento al bene» (D. SPARPAGLIONE: «Una gemma d'Ol­trepò», o.c.p. 72).
Sono tutte pagine sincere e colmano di poesia e di verità rappresentativa le lacune di questi cenni biografici. Perciò le abbiamo riportate.
Frate Ave Maria ignorava in generale queste testimonianze eccezionali e quelle usuali dei nostri modesti periodici di Con­gregazione, e, se ne veniva a conoscenza, non era certo per compiacersene, turbando il raccoglimento in Dio e nella pre­ghiera. Si faceva leggere l'articolo e lo vagliava a misura e a lume di fede. Dove incontrava la propria lode protestava
intimamente, ma senza perdere il tranquillo equilibrio della santa indifferenza. Era troppo superiore alle tentazioni di va­nità letteraria, allergico agli stimoli dell'amor proprio.
Nella seconda edizione della «Gemma d'Oltrepò» (1962) si accennava all'«imprudenza del suo compagno di giochi Bar­tolomeo Vignola che gli costò l'improvvisa perdita della vi­sta». Frate Ave Maria scrisse, poche settimane dopo, all'autore della monografia: «Non ho ancora avuto la grazia di sentir­mi leggere la «Gemma d'Oltrepò», ma ho trovato chi spon­taneamente mi facesse leggere in Braille ciò che in essa mi riguarda (...). Se queste parole (sulla dinamica dell'inciden­te) capitassero sotto gli occhi del mio caro amico Bartolo­meo aggiungerebbero duolo nuovo al vecchio duolo. Mi sembra più chiaro dire che la Provvidenza per mezzo di un mio caro compagno mi tolse ciò che prima mi aveva dato. Misericordiosamente mi diede e benignissimamente mi tolse.
«Sono contento però che mi abbiate collocato in mezzo ai due strumenti di cui la Provvidenza maggiormente si servì per beneficarmi: una Figlia della Carità che mi raccomanda a don Orione e don Orione che mi parla della "provvida sventura"».
La frase peraltro non fu modificata nelle edizioni succes­sive perché esprime una realtà storica obbiettiva e serve a met­tere in rilievo l'eroico spirito di fede e di carità che animava frate Ave Maria.
Concludiamo questa carrellata di testimonianze aggiun­gendovi quella che il conosciutissimo padre Mariano da To­rino fece nella sua celebre rubrica televisiva il giorno 30 maggio 1967, quindi dopo la morte del nostro.
« In una lettera, scritta, non a me, ma ad una nonna e più di 30 anni fa, ho letto queste curiose parole:
"Vedete, cara nonna, io sono il più ignorante di tutti gli uomini della terra. Tutti sanno mille cose, ed io so una cosa sola: so soltanto essere felice. Tutti posseggono più oggetti. Io invece non posseggo che una cosa: la vera felicità".
Era un eremita cieco che è morto nel 1964, la cui storia è più bella che un bel romanzo. Per questo ve la voglio in breve raccontare. Ascoltate:
Dunque, era il primo di cinque fratelli, di una modesta famiglia di contadini liguri: Cesare Pisano! Era un giovane, buono, generoso ma vivacissimo, ecco: troppo vivace, tanto che si esponeva continuamente a rischi e pericoli; ed un brutto giorno - un bel giorno per lui, ma noi umanamente dicia­mo un brutto giorno - scherzando con un suo coetaneo, che teneva in mano un fucile, il solito maledetto fucile che si cre­de scarico e che invece era carico, gli dice così con tono di sfida: "spara, spara, su spara..."; e l'amico spara. Il colpo parte e gli occhi se ne vanno per sempre! Cesare è cieco! Tra­gedia indescrivibile, incerti i familiari soprattutto per lui... ma pensate, a dodici anni non vederci più! E nel suo cuore di adolescente si alternano crisi di profonda disperazione, di ribellione, di bestemmia, mentre lo ricoverano in un istituto dei ciechi a Genova dove rimarrà per sette anni per ricevervi un'assistenza adeguata e una educazione e istruzione adatta alla sua dolorosa menomazione.
Proprio in quell'Istituto c'è una buona suora, suor Tere­sa, la quale, con materno affetto, sta vicino a questo adole­scente drammaticamente sconvolto per questa tragedia nei primi anni della vita, e riesce, dolcemente, lentamente, gra­datamente a smorzare quell'astio, quel rancore contro la di­sgrazia. Non solo, ma riesce, un giorno, anche a vedere di nuovo il sorriso sul volto di quel ragazzo, e si sente chiedere, con grande sua sorpresa: "... sorella, posso io aspirare a con­sacrarmi un giorno al Signore?...". Ecco, in quel cuore era­no subentrate due realtà, due certezze: una, la rassegnazione cristiana; non soltanto il far di necessità virtù, ma una vera,
piena rassegnazione cristiana a quella che era stata la volon­tà di Dio che aveva permesso quella sua cecità; e contempo­raneamente, e superiore a questa rassegnazione, una gioia, calda, sincera, piena, gioia per aver scoperto in questa stessa disgrazia, una occasione per lui provvidenziale per consacrarsi al Signore. Questa gioia si trasformerà poi in letizia, in feli­cità che, come diceva lui, non tramonterà più per lui, lo ac­compagnerà fino al letto di morte, nonostante che egli abbia dovuto passare attraverso prove innumerevoli, dolori inenar­rabili. La sua stessa salute sempre cagionevole, è stato un ter­ribile cilicio per tutta la sua vita, oltre alla cecità, s'intende. Nonostante questo, quella felicità non l'ha mai abbandonato.
Ecco, decisivo per il suo spirito è stato l'incontro con don Orione; questo grande apostolo della carità, illuminato da Dio, illuminò lo spirito di Cesare facendogli capire quello che la Provvidenza stava preparando per lui. Don Orione è il santo della Provvidenza, e vide benissimo che in quel giovane di ormai vent'anni, i segni erano certi di una vocazione religio­sa e lo accolse benevolmente nella sua fiorente famiglia reli­giosa, tutta dedita ad opere di carità. Erano i primi anni proprio dell'attività di don Orione. E, stando vicino a que­sto giovane, si accorse lentamente che egli aveva una propen­sione accentuata alla ritiratezza, forse dovuta anche al suo male, alla sua cecità, al raccoglimento, al silenzio, alla pre­ghiera, alla contemplazione. Ed allora gli propose, ed egli ac­cettò, e lo aiutò a realizzare un'idea nuova. In poche parole, dopo qualche tempo, il nostro Cesare diventa eremita col no­me di frate Ave Maria. Fra' Ave Maria!
Questo nome potrà sorprendere qualcuno, ma non chi conosca la pietà mariana di don Orione, che faceva tutto nel nome della Madonna, e diceva ai suoi: "...dite tante Ave Ma­ria, perché ogni volta che dite un'Ave Maria si accende una nuova stella in cielo". Caro don Orione! Quanto amava la Madonna! E amava altrettanto anche il giovane Cesare.
Eremita è una parola, e... dove stanno gli eremiti? Oggi purtroppo stanno scomparendo gli eremi, perché sono luo­ghi, è vero, sono e potrebbero essere, e devono essere fortili­zi dello spirito, o se non altro, richiamo ai valori spirituali.
Oggi stanno scomparendo perché sono soffocati da quella che è la tumultuante invadenza dei motori e delle macchine; non c'è più un luogo solitario oggi, grazie alla macchina.
Don Orione però aveva ben tre eremi a disposizione, e in tutti e tre - in due, meno a lungo: meno a lungo in Sici­lia, meno a lungo al Soratte quì nel Lazio - ma più a lungo in quello di S. Alberto di Butrio in Val di Staffora in provin­cia di Pavia. Era un eremo abbandonato da tanto tempo. Don Orione l'aveva preso, l'aveva fatto restaurare e lo - non di­co riempì - ma lo popolò di alcuni eremiti tutti quanti cie­chi con il nostro frate Ave Maria.
Ed era bello vedere i turisti - i turisti amano in modo eccezionale questi luoghi, queste tappe dello spirito, questi silenzi improvvisi nel tumulto della loro vita settimanale -
i turisti si arrampicavano, andavano sovente a cercare di frate Ave Maria nell'eremo.
E sempre che andavano, lo trovavano immerso in pre­ghiera, in qualunque ora del giorno, o in qualche angolo buio della Chiesa, oppure vicino all'urna di S. Alberto eremita, che è appunto il patrono di quella piccola Chiesa.
Il più interessante era quando i visitatori, dopo qualche preghiera, perché non si può non pregare quando si vede qual­cuno che prega sul serio e che gode di pregare; dopo qualche istante si facevano coraggio, rompevano il silenzio, si avvici­navano a lui e lo interrogavano parlando. Ed egli, come se gli avessero fatto il regalo più grande - che anima bella!... sapeva lasciare la dolcezza della sua contemplazione per far del bene a qualcuno - e rispondeva, e li accoglieva con tan­ta benevolenza, e spiegava la storia dell'eremo e li conduce­va all'aperto, si prendeva una boccata d'aria, di sole e anche di acqua del pozzo di cui raccontavano tanti prodigi fatti da lui per l'acqua di quel pozzo, e potevano finalmente vedere alla luce del sole il volto profetico, segnato dal dolore e dalla sofferenza, dalla cecità, dai digiuni, dalle penitenze, ma co­perto da uno splendore di felicità inenarrabile. È testimonian­za universale di tutti quelli che lo hanno avvicinato in quasi quarant'anni di eremitaggio, tutti quanti concludevano così:
"Finalmente abbiamo veduto un uomo felice sulla terra!". Tut­ti dicevano così.
Ma che cosa è che rendeva così felice un uomo sempre infermo e che, umanamente parlando, nulla possedeva? La risposta la dava a tutti il suo sguardo cieco, eppur profetico, sempre rivolto verso l'alto, verso il cielo.
Non che frate Ave Maria trascurasse le cose della terra o i dolori degli uomini. Anche lui, uomo, doveva pensare al­le cose della terra, e la sua preghiera continua era soprattut­to per gli uomini che soffrono; ma le cose della terra e le sofferenze degli uomini le vedeva con le pupille della sua ani­ma, tutte nella luce del cielo. E perciò l'animo suo esultava, ed egli era veramente felice di essere così, privo della vista materiale, ma più disposto a vedere le cose spirituali. Era ge­nuina e profonda la sua felicità. E scendendo dall'eremo i vi­sitatori portavano con sé nel cuore il ricordo e la certezza di aver avvicinato un santo, ma un santo felice!
E questa testimonianza diventò, direi così, esultante e trionfante nel giorno della sua morte, il 21 gennaio del 1964. Oh, allora, da tutte le parti, con tutti i mezzi, accorsero per baciare quella salma, per venerarla e per ringraziare quel­l'uomo così singolare che non aveva fatto nessuna predica, non aveva regalato nessun Buono del Tesoro a quelli che erano andati a trovarlo; ma che aveva ottenuto dal Signore con le sue preghiere tante grazie e tanti prodigi; anche per questa riconoscenza andavano, ma soprattutto perché avevano ri­cevuto da lui, che era un uomo come loro, e più sofferente di molti di loro, il dono di una testimonianza impressionan­te di felicità. Insomma, era stato un infelice, che era invece felice.
Quindi egli non raccontava delle menzogne quando, scri­vendo alla nonna continuava così: «... io, altro desiderio non ho, se non di adempire sempre ed ovunque la santissima vo­lontà di Dio». Questo era stato il fulcro della sua conversio­ne: adagiarsi come una foglia nel letto di un torrente impetuoso, nella volontà di Dio.
«...Questo è il desiderio che mi rende felice, ed io credo che è infelice colui che non ha questo desiderio, di fare la vo­lontà di Dio. Che meraviglie sa fare il Signore e la santa Ma­donna» - sentite la terminologia abituale di don Orione - «Vi sono delle persone che non credono ai miracoli? Ecco, uno stupendo miracolo che compie il Signore, che compie la santissima Madonna ai giorni nostri; un miracolo stragran­de e continuato: un cieco, grande peccatore, perdonato da Dio, in abito di penitente, chiuso fra le quattro mura di un eremo, che è felice; tanto felice da avere grande compassio­ne dei più ricchi, dei più potenti, dei più sapienti di questo mondo, ma che non hanno fede, ma che non hanno amor di Dio. Questo cieco, questo ammalato, questo solitario è fe­lice; di una felicità non egoista, perché piange per la infelici­tà altrui. E prega il suo Dio e la sua Madre Celeste, affinché il numero degli infelici sia ridotto a più pochi che è possibile.
Caro frate Ave Maria, quanto è bella questa conclusio­ne! È il programma di ogni apostolo cristiano: fare sì che il numero degli infelici sia ridotto a più pochi che è possibile. Pace e bene a tutti!».

12 MARZO 1940: MUORE DON ORIONE
Frate Ave Maria venerava don Orione soprattutto per­ché gl'insegnava con l'esempio e con la parola l'amore della croce, del sacrificio, della mortificazione, la via regale che conduce al Cielo. Ed era lieto di essere qualche volta umilia­to, specialmente nei primi tempi, come gli accadde a Villa Moffa, quando in cappella, mentr'egli sedeva all'harmonium, il beato Fondatore rivolse ai chierici una sua esortazione, con­cludendo: «...perché, vedete, non bisogna fare come fanno certi ciechi i quali, perché sanno strimpellare qualche can­zoncina, chissà che cosa si credono di essere!».
Questo del resto rientrava nel suo metodo di formazio­ne, e lo usò anche nei riguardi di altri sacerdoti dell'opera, di don Cremaschi maestro dei novizi, di don Ferretti, di don Zanocchi, tutte anime semplici e salde nella virtù. Ma la sua stima per frate Ave Maria era altissima, come abbiamo più di una volta potuto constatare.
Don Orione fu certamente a Sant'Alberto nel settembre 1934 (per l'ultima volta?). Pochi giorni dopo salpava, col «Conte Grande», per l'Argentina. Rientrò in Italia dopo tre anni di intenso apostolato nell'America del Sud.
Non era più fisicamente quello di prima. Subì due forti attacchi del suo mal di cuore, il 1° aprile 1939 ad Alessan­dria, e il 9 febbraio 1940 a Tortona. I medici gli consigliaro­no il clima mite di Sanremo, dove egli, per puro spirito di obbedienza, soggiornò dal 9 al 12 marzo, quando alle 22,40 rispose santamente alla chiamata del Signore.
Frate Ave Maria, che aveva gioito nel saperlo partito per Sanremo, ascoltò trafitto dal dolore il messaggio telegrafico inviato da don Sterpi agli eremiti, col ferale annuncio.
Si raccolse nella preghiera e poi confidò per iscritto a un confratello i suoi pensieri poggiati su queste due realtà spiri­tuali: la croce di Cristo e il beato Paradiso. Adora in tutto la volontà di Dio, riafferma la sua certezza che don Orione continuerà a vivere nei suoi esempi e nelle opere che ci ha lasciato e sarà sempre per noi una guida sicura. A chi gli ha promesso una reliquia (i capelli del Beato) risponde ringra­ziando, ma soggiunge: «Lasciate che una cosa sola d'ora in­nanzi desideri e domandi di lui al Signore: l'eredità della virtù».
Compendia tutto in questa riflessione: «Gesù Crocifisso da lui predicato e vissuto in terra, è ora contemplato glorio­so. La croce amata, tanto cara, ora ha perduto per lui il mo­mentaneo pungolo del dolore, e da essa già attinge il gaudio promesso».
È questo l'atteggiamento dell'eremita, sempre raccolto in Dio, di fronte alla morte: «Il tempo della mestizia e della fa­ticosa seminagione è passato: ora è nei trípudi santi della mie­titura».
E ricorda: «Don Orione non mi amò di un amore senti­mentale, bensì forte, generoso, crocifisso... al fine di com­piere in me ciò che manca alla passione e alla morte di Gesù» (Ibid. 135).
Incarica il destinatario della lettera di un favore: «Fratel­lo, l'ultimo bacio alla bara del nostro incomparabile Padre, datelo per me, ultimo dei suoi figli, ma pur suo beniamino».
Era lontano dall'idea di poter presenziare al funerale. Ma don Sterpi (il successore), pur congestionato dall'im­mane lavoro e dal peso delle responsabilità, volle che frate Ave Maria scendesse a Tortona per la giornata conclusiva di quella settimana che da Sanremo al santuario della Guar­dia aveva visto folle di fedeli stringersi commossi e fidenti at­torno alla bara di don Orione, già invocato come celeste protettore.
Nessuno come lui provava per il Fondatore tanta ricono­scenza per i doni spirituali di cui aveva arricchito la sua anima.
Ma intanto, da parte di confratelli e di gente del popolo, si verificavano altre scene di devozione, proprio verso di lui, che stagliava la sua figura solenne e pia in mezzo alla folla in cammino, o si prostrava assorto nel raccoglimento della preghiera.
Non dice nulla, quando s'accorge d'essere oggetto di ve­nerazione, ma si vede che soffre.
Durante quei giorni è ospite della Casa Madre e deve adat­tarsi a dar la «Buona notte», nella cappellina, al personale religioso, per tre sere consecutive. Alcuni lo vedono per la prima volta. Tutti egli edifica col suo comportamento e con la sua parola convinta, intrisa di umiltà, accesa di fede e di zelo, spirante devozione, servita però da una voce stanca, un po' cavernosa, a tratti impercettibile.
Passa quasi tutto quel tempo a pregare in chiesa, a segui­re docilmente chiunque lo conduca a un colloquio, a una con­versazione, a un incontro di anime.
Poi, tornato al silenzio dell'eremo, stende sulla carta i suoi pensieri, i suoi sentimenti, rispondendo o scrivendo di pro­pria iniziativa alle persone più familiari. Al centro di queste impressioni, di queste confessioni, di questi propositi, di que­ste aspirazioni, c'è sempre don Orione, sentito e compreso come nessun altro mai avrebbe potuto meglio di lui dal pun­to di vista ascetico.
Eccone un saggio, un fior da fiore: «Chi più di lui (di don Orione), fu strumento visibile della misericordiosissima Di­vina Provvidenza, per trascinarmi sulla buona via? (...) Con l'esempio e con la parola egli mi convinse che la sola via alla vera felicità è la mortificazione cristiana, è la fede negli infi­niti beni da Gesù a noi promessi, e la speranza di raggiun­gerli con l'obbedienza ai suoi precetti, ai suoi consigli divini».
Rifà l'esame della propria vita e sente di dover riparare alla poca buona volontà con cui ha corrisposto finora alla luce che gli inondò l'anima dal momento in cui il beato Fon­datore esercitò su di lui la sua azione spirituale: «O Padre mio amatissimo, ispirate a don Sterpi che cosa volete da me. Eccomi, sono pronto... a seppellirmi vivo... a cambiare il luo­go del mio pellegrinaggio... a mendicare il pane di porta in porta... a ricordare a tutti l'amor di Dio dimenticato, il giu­dizio finale non temuto... Fatemi erede di tutto il vostro spi­rito di fede, di tutto il vostro spirito di carità» (lbid. 138-144).

NELLA BUFERA DELLA II GUERRA MONDIALE
La seconda guerra mondiale, scoppiata l'anno stesso del­la morte di don Orione, lasciò indenne l'eremo di Sant'Al­berto, protetto dalla sua povertà e da un misterioso alone di pace che pareva diffondersi all'intorno, in gran parte dovuto alla «buona fama» della santità di frate Ave Maria, tutto as­sorto nella preghiera e nella partecipazione al dolore univer­sale da offrire a Dio in espiazione dei peccati del mondo sconvolto e forsennato.
Non mancò mai del necessario: ospitò incidentalmente parecchi sbandati, di diversa origine e coloritura politica, dei giovani minacciati, degli ebrei perseguitati, degli armati di passaggio.
Scontri sanguinosi, rappresaglie inqualificabili, sevizie e orrori raccapriccianti si verificarono nelle vicinanze, al Grop­po, a Godiasco, a Pietra Gavina, a Varzi, sulle colline d'Ol­trepò casteggiano e stradellino, ed ebbero una eco sinistra nel cauto conversare delle popolazioni prima di filtrare nelle cro­nache dell'epoca.
Ma Sant'Alberto, malgrado tutto - miracolosamente si direbbe - conservò la sua caratteristica di oasi di pace.
Riportiamo una bella pagina del volume-guida.
«La terribile guerra (1940-`45) raggiunge l'eremo soltan­to con brontolii lontani. Qualche bagliore ne illumina le notti tranquille nei mesi ultimi, quelli della lotta partigiana.
Frate Ave Maria è sempre là che prega. Passano le fazio­ni armate. Qualche minaccia. Ma l'umile eremita e i suoi con­fratelli, con la loro innocente miseria, disarmano più di qualsiasi potente.
Se qualcosa si fa sentire sul serio lassù, è la fame. Ma la Provvidenza non abbandona. E c'è don Sterpi che ci pensa... (il superiore generale succeduto a don Orione). Per frate Ave Maria del resto occorre così poco...
Continua la sua missione consolatrice. Questa, special­mente, sembra la sua ora, perché è l'ora dell'odio, delle la­grime, della distruzione... Ed egli conosce e vorrebbe conoscere solo l'amore.
Le frontiere sono lontane ma insanguinate: giovani e uo­mini vengono richiamati, sui campi della morte, le famiglie si svuotano, trepidano e piangono. Lettere e lettere portano a frate Ave Maria l'eco d'immensi dolori, incertezze sul de­stino di chi non dà notizie, ansie per la sorte dei prigionieri, apprensioni e spaventi per le voci di bombardamenti, di mas­sacri e rappresaglie, apprese da radio clandestine e sussurra­te di bocca in bocca... Chi passa all'eremo per una breve preghiera vuol salutare l'eremita, ed egli deve ascoltare, ascoltare...
Cieco e ignaro di troppe cose, la sua anima si rigonfia di tristezza e di malinconia. Non ha occhi per distrarsi, ve­dere cose belle, per dimenticare ciò che affligge; nello spirito le immagini gli si fissano, diventano realtà sempre presente. Tutto scuote quel povero cuore. La pietà verso i miseri e le vittime della guerra condisce di amarezza il suo misero pane quotidiano. Lo rallegra soltanto la stella che gli brilla nell'anima, la sua fede in Dio, integra e forte: da tanti mali Egli saprà ben trarre tanto bene...» («La luminosa notte...», pp. 153-154).

INTERMEZZI: I - AL SORATTE
In Congregazione parecchi importanti avvenimenti si suc­cedono a brevi intervalli: la morte di don Orione (12 marzo 1940), di don Sterpi (22 novembre 1951), la nomina di don Carlo Pensa a Direttore generale.
Frate Ave Maria in tali circostanze scende dal romitag­gio al santuario di Tortona a pregare sulla tomba dei vene­rati Servi di Dio e a chiedere la loro protezione, per prepararsi degnamente ad incontrarli affrettando quel momento col de­siderio.
Ma l'obbedienza attraversa e modifica quello che poteva essere l'intimo convincimento di conchiudere - senza altre novità - i suoi giorni all'eremo, di cui è divenuto ormai un elemento insostituibile, una specie di istituzione nel pensiero di tutti.
Sentite con quanta trepidezza racconta egli stesso il cor­so degli eventi, inatteso, ma accettato coll'entusiasmo del buon religioso pronto a tutto.
Scrive alla mamma: «La mattina del 23 gennaio (1952) mi svegliai ancora con 999 probabilità su 1000 di finire i miei giorni lassù (a Sant'Alberto) dove avevo trascorso 30 anni in santa pace, e invece alla sera mi trovavo già a Tortona»... per disporsi alla partenza alla volta dell'eremo di monte So­ratte (Roma), dove i superiori lo hanno destinato, perché sia di esempio ai giovani aspiranti alla vita eremitica, e anche perché in un clima più dolce possa ristorare le precarie con­dizioni fisiche.
Si trattiene a Tortona fino al 28. Poi parte per Roma e sosta alla Curia generalizia, passando il tempo quasi sempre in cappella a pregare. La mattina del 30 (gennaio) viene con­dotto a Sant'Oreste, il paese a mezza costa del Soratte, e di lì raggiunge la propria destinazione compiendo a piedi la dura e disagevole salita, in ispirito di penitenza.
Nell'informare di tutto la mamma, indugia nella descri­zione dei luoghi e nella storia più recente (si fa per dire) del­l'eremo.
Le ricorda che tanti anni prima un fulmine colpì la chie­sa dov'erano i monaci a salmodiare e ne uccise una «mezza dozzina». «Che fortuna - commenta - passare dal cantare le lodi del Signore e della Madonna eternamente nel santo Paradiso!».
Sono i quarant'anni esatti della sua cecità.
Muta l'ambiente, giacché al Soratte non c'è tutto il verde di Sant'Alberto, bensì solitudine aspra, rocciosa, ferrigna; ma non cambia il suo tenore di vita, né gli mancano le occasioni di continuare a far del bene alle anime che lo vanno a cerca­re anche tra quei ruderi di antico cenobio, e ai suoi confra­telli di comunità.
Non sempre c'è la possibilità della messa festiva all'ere­mo; e frate Ave Maria per ascoltarla e comunicarsi si sotto­pone alla fatica di discendere per quelle balze petrose fino alla parrocchia di Sant'Oreste, per lui quasi un'ora di cammino.
Una volta si presenta in ricreazione tutto lieto e al diret­tore che gliene chiede il motivo, confida e rivela: «Il Signore mi ha fatto comprendere che la vita è "un lungo Venerdì San­to" che precede la Pasqua».
Sono le «scoperte» dei santi, dei rapiti nella contempla­zione di Dio. Punti di vista, s'intende, in dipendenza dell'i­deale che muove ed eccita il cuore. Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano ordina di suonare a festa le campane quan­do gli riesce di inventare il nome di «Rodomonte» per uno dei personaggi del suo poema cavalleresco. Merita rispetto, ma l'arte in definitiva non vale l'ascetica.

II - A SAN CORRADO DI NOTO
Il Soratte è una parentesi relativamente breve. La salute di frate Ave Maria non sembra giovarsi troppo di quell'am­biente e di quel clima. L'eremo, sul fianco del monte, isolato dominatore delle colline sottostanti, è esposto ai venti. Biso­gna essere di buona tempra per soggiornare lassù. Il Consiglio di congregazione con a capo don Pensa deci­de di trasferire il pio religioso, disponibile a tutto, ad un al­tro romitòrio, quello di Noto, in Sicilia, legato al nome e alla vicenda storica di san Corrado Confalonieri, il guerriero pia­centino divenuto monaco dopo la conversione.
«Ci vado molto volentieri, - dichiara alla mamma - an­che se la Madonna mi dicesse che laggiù sarà la mia tomba». A San Corrado i nostri eremiti si erano stabiliti fin dal 1898. Ma durante la prima guerra mondiale don Orione per difficoltà varie insorte era stato costretto a ritirarli. Nel 1939 il vescovo di Noto mons. Calabretta affidò alla Piccola Ope­ra la parrocchia e insieme riaprì agli eremiti di don Orione il romitòrio di San Corrado dove frate Ave Maria dimorerà dall'ottobre 1954 all'agosto 1957, adattandosi in serenità e letizia spirituale al nuovo ambiente, senza coltivare nostal­gie di sorta per quello antico di Sant'Alberto, dove ha lascia­to una fitta rete di comunicazioni e di abitudini.
Prega, medita, lavora, scrive come prima. Ha con sé al­cuni giovani eremiti, tutti vedenti, da formare alla vita reli­giosa con l'esempio e con la parola e accoglie amorevolmente le persone che vengono a lui, richiamate dalla fama che si è subito diffusa intorno alla sua virtù. Ed è per natura un gran­de ottimista.
«Nelle cose - egli dice - dobbiamo sempre guardare il lato bello» .
Trova interessante venir a sapere che poco lontano c'è una località chiamata «Favara» - lo stesso nome di un villaggio della Valle Arroscia - e conversa amabilmente con la mam­ma, per lettera, su questa coincidenza.
Inoltre la salute si avvantaggia in quel clima di eterna pri­mavera tanto celebrato dai classici e dai moderni. Con l'in­tuito raffinato dei ciechi egli ammira la campagna in fiore, le distese degli agrumeti, l'aria limpida e profumata, il sole sfolgorante, la freschezza delle acque correnti.
I siciliani del luogo vanno a lui, colpiti soprattutto da tanta pace e serenità di spirito, in un cieco, e lo considerano un nuovo san Corrado del quale sono tutti devoti per tradizio­ne di secoli.
Un cieco chiede di parlargli. Non ha più fede ed è indi­spettito contro tutto. Gli confessa che medita il suicidio. «Ma come può lei, essere contento?!» gli domanda.
Amabilmente il frate gli parla... gli scopre la verità... lo commuove. L'uomo che non sapeva rassegnarsi alla cecità, parte piangendo, rasserenato, ricuperato alla Grazia.
C'è un altro, un giovane uomo, in pieno vigore di salute e ben avviato economicamente, ma vive lontano da Dio e dalla pratica cristiana. Va a trovarlo solo per curiosità. Frate Ave Maria, aperta la conversazione, gli denuncia misteriosamente il suo stato di coscienza. Dopo il colloquio, la conversione dell'incredulo è un fatto compiuto, testimoniato dalle lagri­me di pentimento e di consolazione con cui l'uomo si conge­da dal suo pio, inatteso benefattore.
Come non pensare all'incontaminata porpora di Federi­go bagnata dal pianto del convertito Innominato?
Frate Ave Maria si intrattiene spesso con i ragazzi del­l'orfanotrofio annesso alla parrocchia, affezionandoseli tutti. Anche là all'eremo situato fuori mura, a fondo valle, la messa qualche volta non è possibile averla e lui se la deve con­quistare salendo all'istituto, ed è uno spettacolo di edifica­zione per tutti. La strada è pericolosa, ma frate Ave Maria va su da solo tastando con il bastoncello il terreno disugua­le. Spinti da un grande affetto, gli orfanelli si offrono a tur­no a fargli da guida, se appena possono.

IL RITORNO A SANT'ALBERTO E LE VISITE A POGLI
Dopo tre anni di permanenza a Noto è rispedito a San­t'Alberto.
Lui non domanda perché.
Obbedisce e, sul punto di partire, raccomanda ai giovani eremiti che gli si stringono attorno, di mantenersi nella cari­tà fraterna. Non lo dimenticheranno più.
È così staccato dalle cose terrene, da non nutrire in sé il desiderio di un ritorno, ma solo quello di far la volontà del Signore manifesta nelle disposizioni dei superiori. Con la santa indifferenza (che non significa apatìa, veh!), con cui si era prima allontanato, adesso ritorna al suo nido antico. L'im­magine del nido e dell'uccello è suggerita da una sua frase. «Miei cari, - aveva scritto qualche anno prima - vedete dove la Divina Provvidenza m'ha fatto volare? Ero all'estre­mo nord-ovest d'Italia; ora mi trovo all'estremo sud-est (...). Per me la Sicilia è diventata il paradiso terrestre».
Ma ora che ci si era così bene ambientato, rivolerà al nord. Qualunque località, a qualsiasi latitudine e longitudine, è sempre per lui un paradiso terrestre (un esilio illuminato dall'amore di Dio e da un grande inestinguibile desiderio della vera patria).
In concomitanza con questi suoi viaggi di trasferimento da un eremo all'altro, frate Ave Maria potè - sollecitato dal vecchio parroco - ritornare a Pogli, suo paese nativo, due volte.
La prima fu il 30 agosto 1954, dopo che, risalito da Ro­ma, prima di «volare» all'estremo sud d'Italia, ebbe preso parte
alla festa della Madonna della Guardia, con tutti i confratel­li di Congregazione convenuti a Tortona. Era l'Anno Mariano.
A Pogli si trattiene una dozzina di giorni con la mamma e con gli altri congiunti, ai quali parla di cose spirituali, sen­za troppo insistere sugli anni lontani, veduti ora in una pro­spettiva tutta diversa.
Era partito di là con la disperazione nel cuore, 42 anni prima. Vuol tornare su quel sentiero dove si verificò il «prov­videnziale» incidente, accompagnandosi con Bartolomeo Vi­gnola, mai più incontrato in precedenza.
Glielo mandano a chiamare. Frate Ave Maria è a letto per curarsi di un raffreddore. Lo abbraccia affettuosamente e per togliere dal suo animo ogni soggezione ed ombra di ram­marico, avvia subito il discorso sulla bontà del Signore.
Appena rimesso dall'indisposizione, vanno insieme al luo­go convenuto per ringraziare Dio che tutto sa volgere al no­stro profitto spirituale.
A Pogli tornò una seconda volta, nel settembre 1959, in occasione della prima Comunione di una sua nipotina, De­lia. Da due anni si era stabilito definitivamente a Sant'Alberto.
Ci tiene a sottolineare che lo scopo della visita è, sì, quel­lo di «rivedere» la mamma e tutti i suoi cari, ma ancor di più quello di pregare nella chiesetta del suo Battesimo, an­che a riparazione delle troppe dissipazioni giovanili. E rivive nel pensiero l'incanto della sua fiorita e solatia valle d'Arro­scia «tanto cara e tanto bella che soltanto il Signore con un suo comando ha potuto strapparmene».
Sono sentimenti d'amor domestico e d'amor patrio che si inseriscono tanto opportunamente nell'amor di Dio, della Chiesa e delle anime. Se mancassero, la lacuna sarebbe stri­dente e denuncerebbe presuntuosa la ricerca della virtù, fal­sa la spiritualità, dubbia la carità e scadente la vita interiore. Altra cosa è il distacco dalle cose terrene, che non può mai significare ripudio del «natio loco» e dei congiunti, e della natura, dono di Dio, come in un ordine superiore è dono di Dio e carisma preziosissimo la Grazia.
Quest'armonia di sentimenti esalta la personalità asceti­ca di frate Ave Maria.
Per la mamma che compie gli ottanta anni (e che gli so­pravviverà toccando gli 87) ha parole affettuose condite di lepidezza e figliale confidenza: «Coraggio, mammina cara, state sempre lieta nel Signore, pregate per tutti ed anche per questo vostro figlio barbone e, la prima volta che fate il caf­fè, fatene anche una tazza per me e bevetela voi, oppure chia­mate a farvi compagnia qualche buona vecchierella... Mamma cara, piangete o ridete? Guardate che io vi ho scritto queste cose per farvi ridere e non piangere. Eppure dobbiamo esse­re preparati a piangere... Siamo in esilio...».
Con un suo cugino usa espressioni ancor più argute ma sapide delle eterne verità che gli preme di ricordargli. Se do­vesse incontrare qualche sapientone che dice di saperla lun­ga in fatto di religione negandola o disprezzandola, e mostrasse di non credere né in Dio né al paradiso, né all'in­ferno, né all'immortalità dell'anima «abbi, ti prego, una gran­de compassione di lui e nel cuore tuo dì: "che poveu omó! U me cuxin fratte u l'è assae menu orbu de ti!"» (che povero uomo! Il mio cugino frate è assai meno cieco di te).

GIOCONDITA RELIGIOSA ALL'EREMO
Il ritorno di frate Ave Maria a Sant'Alberto riempie l'ani­mo dei suoi estimatori di consolazione. Non sapevano adat­tarsi all'idea di non vederlo più animare di vita e di gaudio celeste l'eremo, e la sua lunga assenza non aveva interrotto i loro rapporti di carità e di fede con lui.
Parve che la vita riprendesse più animosa e serena, lui pre­sente, con più intense e vibranti manifestazioni religiose. La festa patronale di settembre e quella del 4 giugno ri­servata ai bambini richiamavano all'eremo molti fedeli, an­che perché la strada finalmente asfaltata favoriva un maggior concorso.
Un apocalittico temporale, con grandine, scatenatosi sul mezzogiorno del 4 giugno 1960, destò qualche apprensione, più in riferimento alla campagna esposta ai danni che alle per­sone sorprese nel viaggio di ritorno.
E frate Ave Maria, informato di una situazione critica in cui vennero a trovarsi due amici dell'eremo, risolta peraltro in maniera soddisfacente, ci rise sopra con amabile umorismo.
Si allestiva gioiosamente il banco di beneficenza, si orga­nizzavano incontri e conferenze con i Maestri cattolici, gite­pellegrinaggi con i ragazzi delle scuole, presenti i loro inse­gnanti e le maggiori autorità.
Il vescovo di Tortona immancabilmente (Melchiori, Rossi, Canestri, Angeleri) decorava del suo intervento almeno una delle due maggiori festività religiose.
E tutto quel largo movimento sembrava facesse perno sulla figura ascetica dell'eremita cieco sul quale convergeva l'at­tenzione generale, senza che egli nella sua umiltà se ne av­vedesse.
Però si notava in lui un sempre più accentuato affievoli­mento di energie. Non aveva più la resistenza di prima alla fatica, era pallido, stanco, sofferente. Lo spirito era sempre alto, la serena letizia inoffuscabile.
Continuava ad esercitare il suo apostolato di bene con le anime attraverso i colloqui privati e collettivi.
Dalle confidenze da lui fatte al gruppo dei sacerdoti pia­centini, proprio in quegli anni e accuratamente registrate da don Molinari arciprete di Pianello V.T., ci piace riportare questo tratto di umile realismo, proprio dei santi che non si illudono sul bene che fanno: «Ecco quello che mi può capi­tare - disse a un certo punto frate Ave Maria -. Una volta una signora commentò così le mie parole: - Ma quello lì ha perduto la testa! Dice che è contento di star al buio, che è una grazia fattagli dal Signore! Ha perduto la testa! -».

LE NOZZE D'ORO CON LA CECITA
1962. Data giubilare per frate Ave Maria che ci va pen­sando da tempo. È il 50° anniversario della sua cecità. In­tende festeggiarlo. A modo suo. Non con delle esteriorità, ma con un canto di lode e ringraziamento a Dio per la gran­de grazia ricevuta.
La cecità - lo sappiamo - per lui non è più una sventura. Il maestro Luigi Venturello, capo gruppo del Movimen­to Apostolico Ciechi per la diocesi di Asti, raggranella una somma di denaro per dare a lui la soddisfazione di recarsi a Lourdes a chiedere la grazia, e l'eremita declina l'offerta a favore di un cieco che sia veramente «cieco». E un giovane un po' sviato, «veramente» cieco, va a Lourdes al suo posto e ne torna completamente trasformato. Nel suo cuore ora bril­la la luce della fede.
Già nel 25° di cecità (1937) aveva fatto stampare, con l'approvazione dei superiori, una modesta immaginetta­-ricordo, invitando tutti i suoi conosciuti a ringraziare Dio per il «dono» da lui ricevuto.
L'occasione si ripete. Egli vorrebbe passare la data del giu­bileo d'oro, solo pregando in abscondito, come dichiara, ti­moroso d'una pubblicità che lo confonderebbe.
Poi si adegua, sull'esortazione dei superiori, alla celebra­zione esterna della ricorrenza.
Aveva un motto preferito, sintesi di fede e di speranza, e con esso iniziava ogni sua lettera: «In lumine tuo videbi­inus lumen» (nella tua luce vedremo la luce).
Per onorare la conquista della Grande Luce che gli splen­deva nell'anima, compose il seguente testo per l'immagine­ricordo delle sue nozze d'oro con la cecità:
«Deo gratias! Frate Ave Maria, eremita dei Figli della Di­vina Provvidenza (don Orione), nel 50° anno di sua cecità corporale, invita quanti gli vogliono bene ad unirsi spiritual­mente a lui per cantare nell'intimo del cuore, un solenne in­no di ringraziamento a Gesù benedetto che così mirabilmente - per quelli che l'amano - sempre può, sa e vuole volgere ogni cosa in bene. Convertisti in luce le mie tenebre e in gioia la mia tristezza, sicché la mia luce, l'unica mia gioia sei Tu solo, o Gesù Figlio di Dio! O Gesù Dio Mio! O Gesù Figlio di Maria!
Eremo di Sant'Alberto - Ponteniza (Pavia) - Ognissanti 1962».
Ha già scritto a Bartolomeo Vignola invitandolo a ricor­dare la «grande data», perché «tu sei tra i miei cari amici e benefattori» e «non posso dimenticarti in questa occasione. Vedi, caro Bartolomeo, noi due, or fa 50 anni, abbiamo fat­to un'azione indifferente, dalla quale è venuto un apparente gran male, l'Onnipotente ed immensamente Buono trasse fuori per me un reale e durevole bene. Dunque, caro, sbandisci dal tuo cuore ogni antica amarezza e benedici il Signore con me e con tante anime buone».
Nella mistica esaltazione s'intravvede un fondo di dram­matica umanità. Si capisce che l'amico d'infanzia non ha an­cora saputo darsi pace d'aver provocato la tragedia e... riteniamo d'intravvedere anche la lotta interiore di Cesare Pi­sano, prima della conversione, per giungere a una così alta affermazione di amore, che scaccia dal cuore il risentimento e non solo perdona, compatisce e assolve, ma vuol fare am­menda di un lontano passato. Abbiamo riferito in preceden­za quel suo intervento a rettifica della cronaca dell'incidente.
Non si spiega tanta minuziosa delicatezza se non come l'inti­mo bisogno di bandire dall'animo anche l'ombra dei ricordi dolorosi. Riparazione trionfatrice della divina misericordia, operante nei cuori, come affermava in un corso di Esercizi spirituali mons. Pier Carlo Landucci asceta e scienziato di pro­fonde conoscenze.
Il 1 ° novembre 1962 a Sant'Alberto si svolge la festa re­ligiosa in intima semplicità. Tutta la Congregazione si senti unita spiritualmente a frate Ave Maria in quel rendimento di grazie che attingeva la sua ispirazione dal cuore di Gesù crocifisso.
L'umile eremita è idealmente vicino a san Paolo, a san Francesco d'Assisi, a don Orione nell'amare Gesù, et hunc crucifixum!
Anime veramente privilegiate!
Che hanno scoperto il segreto della felicità.

PLACIDAMENTE IN DIO...
Che rimane ormai a frate Ave Maria se non attendere il momento della gioconda entrata in Paradiso?
Ha sofferto, ha lottato, ha amato, ha interceduto grazie per i fratelli, ha acceso tante speranze e apprestato tanta con­solazione nel cuore degli afflitti, ha edificato con il buon esem­pio i suoi confratelli, al mondo ignaro della vera sorgente della felicità ha ripetuto con la vita e con l'apostolato della parola e la preghiera continua, quali sono le vie da percorrere per giungere a una meta non deludente, indirizzando l'esistenza verso Dio principio di ogni bene, ha accumulato un tesoro tanto prezioso di meriti.
Così doveva trovarsi una sera di settembre Sant'Alberto, il fondatore, circondato dai suoi monaci, in procinto di la­sciarli, per breve tempo, soli quaggiù, ed entrare nel regno promesso ai buoni.
Tutto poteva far credere che frate Ave Maria fosse per chiudere, lì all'eremo, il ciclo della sua mirabile vita terrena. La Provvidenza disponeva le cose diversamente.
I raffreddori si fanno sempre più frequenti. Sul finire del 1963 una bronchite con tosse lo affligge, l'asma accentuata lo debilita ulteriormente. E quello che egli chiama il suo «ci­licio invernale», però questa volta le cose cominciano a preoc­cupare, non lui, ma i confratelli dell'eremo e i superiori subito informati.
L'invito a lui rivolto di scendere a Voghera per far visita a don Emilio, il suo direttore, degente all'ospedale, gli pro­cura una certa perplessità. Che s'intenda ricoverare anche lui, per apprestargli cure più convenienti? Vorrebbe, in questo caso, qualche cosa di più di un invito: un ordine.
Si persuade a lasciare l'eremo quando lo assicurano che è lo stesso direttore a desiderare la sua presenza a Voghera. «Là - gli dicono - potrete avere la santa messa, il dottore...».
Farà come sempre la volontà del Signore. Forse avverte che questa a cui si accinge è, da vivo, una partenza senza ri­torno. Sembra sopraffatto da sentimenti di nostalgia e mor­mora, tra il continuo tossire: «Qui c'è il mio Sant'Alberto a cui sono tanto affezionato... A Voghera mi vizierete troppo... Ho vergogna di questo, io non merito niente... Qui veniva don Orione. Che belle ore passavamo! Si parlava delle cose del Signore e della Madonna... Oh, caro don Orione!».
È molto emozionato quando sale sulla macchina, che su­bito s'avvia.
Passando in paese riceve un saluto dalla mamma di Nino Nobile, che guida l'auto. «Arrivederci in Paradiso! » rispon­de con un sorriso di gratitudine. E all'autista dice: «Chissà se torneremo indietro?».
È il pomeriggio del 17 gennaio 1964.
Arriva all'ospedale. Sosta in preghiera nella cappella e chie­de la santa Comunione che a Sant'Alberto non aveva potuto ricevere. Il cappellano, che è già sul posto per la funzione se­rale, lo accontenta. Subito dopo il ringraziamento, va a tro­vare il suo direttore, al quale rivolge parole di augurio per una sollecita guarigione.
Eccolo ora nella cameretta che gli hanno assegnato. Il pri­mario prof. Callerio, lo sottopone a un'accurata visita e gli raccomanda amorevolmente di volersi risparmiare la soffe­renza del cilicio che gli ha scoperto sulle nude carni.
Lui si meraviglia d'essere in un ambiente tiepido, nell'at­mosfera di tanta benevolenza che gli dà un senso di ristoro. E osserva: «A Sant'Alberto l'aria gelida sferza il viso e il ne­vischio turbinando toglie persino il respiro. Qui è pri­mavera... ».
Vuole presso di sé le tre corone che usava portare a cin­tola: «Una me l'ha data don Orione, quest'altra viene da Ro­ma, e la terza me l'hanno portata da Lourdes».
Mentre prega il respiro è affannoso, la stanchezza lo do­mina, e la tosse ogni tanto lo scuote.
Una notte molto sofferta. La mattina di sabato 18 si porta in cappella per la messa e la Comunione, ma quando, al ri­torno in camera, il professore lo vede, gli ordina di non al­zarsi da letto.
E’ una giornata di visite continue, da parte di religiosi, di conoscenti, di devoti: tutti discreti, riguardosi, edificati della sua pietà, delle parole che a stento gli escono dalle labbra riarse: «Com'è bello fare la volontà del Signore!... Il Signore vuole la mia vita... Gliela offro...».
La domenica 19 non può ascoltare la messa, ma riceve la Comunione. Sembrano migliorate le condizioni generali, ma se tenta di rispondere alle sollecitazioni degli astanti che quasi continuamente s'alternano al capezzale, l'immane sforzo è evidente: la tosse gli squassa la persona, e fa pena non po­tergli recare alcun sollievo. Alle preghiere sommesse dei cir­costanti partecipa con segni palesi di approvazione.
La situazione è molto grave la mattina di lunedì 20 gennaio.
Da Roma è giunto il Direttore generale don Zambarbieri che a lui riconosce tanto merito della propria vocazione. Quando gli domanda se è disposto a ricevere i conforti della fede, il santo eremita s'illumina di gioia.
E il momento che rivela la sincerità delle sue parole e dei suoi scritti, la coerenza dell'intera sua vita volta ad un solo ideale: l'aspirazione al Paradiso, condizionata al distacco com­pleto da tutti i beni secondari, dalle cose indifferenti, dagli stessi desideri più santi (il sacerdozio), senza parentesi opa­che, senza remore di superstiti rimpianti, senza veli e infingi­menti di segrete compiacenze, ma nel solo intento di immergersi tutto nella realtà di Dio, e d'immolarsi alla sua volontà. Nessuna radice lo lega alla terra.
Perciò esulta quando gli annunciano che entrerà presto nella casa del Signore.
La santa Unzione gli viene somministrata dallo stesso Su­periore generale, presenti molti confratelli, alcuni sacerdoti diocesani, qualche suora, amici, benefattori, devoti, tutti com­mossi e ammirati.
Terminato il sacro rito dichiara la propria soddisfazio­ne: «Il Signore ha esaudito il mio vivo desiderio di ricevere l'Estrema Unzione con piena conoscenza: ho pregato per que­sto tutta la mia vita».
Sulle labbra smorte fioriscono continue invocazioni alla Madonna, a don Orione, a sant'Agnese la cui festa si celebra il giorno seguente. Domanda ripetutamente perdono a tutti, dichiara di offrire volentieri la vita per i sacerdoti, per i pro­bandi, gli apostolini che a turno lo avvicinano.
A sera la febbre è fortissima, il respiro molto affannoso, le condizioni sempre più gravi... Difficile che sopravviva fi­no all'alba del 21 festa di sant'Agnese.
Mormora: «Ora con gli uomini non ho più nulla a che fare: per me ora c'è solo il Signore».
È una notte molto agitata, e penosissima quella che se­gue. L'asma lo soffoca, non gli concede respiro. Gli si appre­sta l'ossigeno. Trova ancora modo di esprimere la sua riconoscenza verso l'infermiere, il chierico Primo Poggi - oggi sacerdote - che lo assiste.
Ma quelle ore sono pesanti ed egli è consapevole della lenta angosciosa agonia. Gesù lo vuole vicino a sé nella penombra del Getsemani.
Verso l'alba il moribondo sembra acquietarsi: è assopito. Sono le prime ore del martedì 21 gennaio, festa di santa Agnese. Entra la suora per domandare se desidera la Comu­nione. Il chierico, che ha vegliato su di lui tutta la notte, si dispone a preparare l'occorrente.
Ma l'infermo non sembra recepire in sé quell'interroga­zione, quel movimento. Non è in grado di ricevere Gesù Eu­caristico.
Il chierico, rimasto di nuovo solo accanto a lui, lo osser­va: ecco il suo volto si spiana, l'affanno si placa in un lungo sospiro... Che possa riposare un po' dopo una notte di tanta pena!
Ma la pace che si va stendendo su quel volto esanime, mette il chierico in sospetto. Per togliere da sé il dubbio si china su di lui e comprende.
Frate Ave Maria da pochi istanti, senza un gemito, senza un brivido, è entrato nella luce del suo Signore. Sono le 6,40.

L'ARCA DI FRATE AVE MARIA
Tutta Voghera assistette ai suoi funerali celebrati solen­nemente in Duomo la mattina di giovedì 23 gennaio, favori­ta da un tempo. freddo e sereno. Accorsero i confratelli, i fedeli da ogni parte d'Italia, dove il santo eremita era conosciuto. Anche il vescovo di Tortona mons. Francesco Rossi era sta­to a visitare la salma e a confortare i Figli della Piccola Opera.
Mons. Giovanni Biscaldi, venerando di età, celebrò la san­ta messa. La commemorazione fu tenuta dal Direttore gene­rale che ripercorse in bella sintesi la preziosa esistenza di frate Ave Maria interamente consacrata all'amor di Dio.
Poi un corteo numeroso di macchine lo seguì nel viaggio di ritorno alla sede che fu sua e lo sarà nei secoli.
Parve un riflesso di Paradiso anche la luce che inondava le valli e le montagne bianche di neve, quando la sua spoglia composta nella bara risalì a Sant'Alberto per essere tumula­ta nel piccolo cimitero di fronte all'abbazia.
Dall'alto del colle che domina l'eremo si dispiegava un im­menso panorama di serenità. La nebbia raccolta nella pro­fondità del piano, al di là delle ultime colline tortonesi indorate di sole, sfumava lontano in trasparenze azzurrine che confe­rivano alle vette candide delle Alpi, in maestosa corona, un'i­nattesa favolosa sublimità.
Mai l'eremo si circondò di tanta poesia e religiosità come in quel pomeriggio del 23 gennaio.
Era il trionfo, non il funerale di frate Ave Maria. E i pre­senti compresero, che si trattava solo di un preludio.
Ma il vuoto da lui lasciato rimane incolmabile. Chi po­trà darci la sensazione di entusiasmo religioso che si comu­nicava ai cuori quando dalla tastiera da lui toccata con agili dita, si sprigionava sorprendente, di là dell'altare, che lo na­scondeva ai fedeli, una musica d'introduzione alla messa so­lenne di Sant'Alberto e pareva la sublimazione in arte della sua preghiera soffusa di letizia celestiale?
Basterà il ricordo a rinnovare quelle comunicazioni? Oltre il sentimento, rimane però qualche cosa di più im­portante.
Da Sant'Alberto risuona con la squilla d'argento delle cam­pane, il suo messaggio semplice essenziale: ricordare che in Cielo c'è un Padre che ci ama, sollevare la mente a lui con la preghiera, promuovere in umiltà e sacrificio la sua carità tra i fratelli.
L'età nostra ha bisogno più che del pane di questo invito alla spiritualità.
L'arcivescovo di Milano G.B. Montini, nei giorni della grande missione del 1957 rivolgeva una speciale parola alle diverse categorie della diletta popolazione.
Ai giovani diceva: - Se l'uomo non è che un animale gli basta una civiltà di cemento e di piaceri... I giovani devono comprendere che il dono della fede in Dio Padre è come al­l'occhio la luce, della quale tutto si illumina.
Ai malati: - Cristo chiama a sé tutti quelli che sono af­flitti e tribolati... La volontà di Dio ha due piani: quello na­turale governato dalle leggi fisiche e biochimiche, da cui Dio non ci vuole ordinariamente sottrarre, e quello soprannatu­rale governato da una libera e urgente effusione di carità di­vina, a cui Dio ci invita.
Tutti voleva raccogliere nella consolante visione della mi­sericordiosa bontà del Padre che sta nei cieli, per risolvere gli assillanti problemi d'ogni genere che tormentano l'umanità.
L'augusta parola che oggi ha timbro e risonanza ecume­nica, è come condensata nel messaggio che ci lascia frate Ave Maria. Non s'improvvisa lo spirito di preghiera e costerà un certo sforzo di volontà. Ma poi... tutto s'illumina.
Chi prega, «chi ama Dio, gode». Lo ha scritto il nostro venerabile padre don Luigi Orione.
Ne è un esempio edificante la vita di frate Ave Maria.
Dal settembre 1967 la salma del pio eremita riposa in un'urna di pietra al fondo di una stretta cappella ricavata di fianco al muro occidentale dell'eremo.
L'iscrizione è semplicissima: frate Ave Maria Eremita dei Figli della Divina Provvidenza, 1900-1964.
Il 21 gennaio 1982 con la domanda formale rivolta al ve­scovo di Tortona mons. Luigi Bongianino ha avuto inizio la procedura, prevista dalle leggi della Chiesa, per il processo di beatificazione e canonizzazione del pio eremita di Sant'Al­berto di Butrio.
Un processo richiesto da molti, non solo suoi confratelli, ma anche suoi devoti e ammiratori.
Il processo vero e proprio si è aperto, presso la Commis­sione d'inchiesta di Tortona il giorno 30 agosto 1983. Nei due mesi seguenti si procedette alla scelta dei testi­moni, amici, parenti e conoscenti di frate Ave Maria che avrebbero dovuto - e quanto volentieri lo fecero! - espor­re le loro convinzioni sulle virtù e sulla santità del pio eremi­ta. I testimoni ascoltati furono complessivamente trenta. Le deposizioni di tali testi si protrassero fino al giugno del 1986, quando in solenne seduta, il 3 giugno, il vescovo di Tortona mons. Bongianino dichiarò chiuso il lavoro dio­cesano riguardante il processo di beatificazione di frate Ave Maria, aggiungendo parole di vivo compiacimento. Subito gli atti vennero inviati a Roma alla Congregazio­ne per le cause dei Santi, della quale ora si attende il giudi­zio, per la seconda tappa del processo stesso.
Nel medesimo tempo si procedeva alla raccolta e trascri­zione degli scritti del Servo di Dio - circa 1400 lettere - che occupano complessivamente 2544 fogli dattiloscritti. An­che questi sono sottoposti al giudizio della santa Chiesa.
Sono moltissimi ad augurarsi di vedere frate Ave Maria decorato dell'onore degli altari.
Si segnalano grazie speciali e miracoli ottenuti mediante la sua intercessione.

IL "MIRACOLO" DI FRATE AVE MARIA
Rievocazione pronunciata a Sant'Alberto di Butrio da don Andrea Gemma nel maggio 1983
È frate Ave Maria stesso che si definisce un miracolo. Scrisse: «Vedete, io sono il più ignorante di tutti gli uomini della terra. Tutti sanno molte cose, ed io so una cosa sola: so soltanto essere felice! Tutti posseggono più oggetti; io in­vece non posseggo che una cosa: la vera felicità (...). Vi so­no delle persone che non credono ai miracoli? Ecco uno stupendo miracolo che compie il Signore. Un miracolo stra­grande e continuato!
Un cieco, grande peccatore, perdonato da Dio, in abito di penitente, chiuso tra le quattro mura d'un eremo, ch'è fe­lice; tanto felice d'aver grande compassione dei più ricchi, dei più potenti, dei più sapienti di questo mondo, ma che non han fede, ma che non hanno amor di Dio. Questo cieco, que­sto ammalato, questo solitario è felice d'una felicità non egoi­stica; perché piange per l'infelicità altrui e prega il suo Dio e la sua Madre celeste, affinché il numero degli infelici sia ridotto a più pochi ch'è possibile...».
Conviene penetrare un po' questo "miracolo", il miraco­lo di frate Ave Maria. In che cosa consiste?
Nel buio della carne...
Bisogna partire dalla "disgrazia" (qui le virgolette sono d'obbligo!) della cecità che colpi Cesare Pisano - il nome anagrafico di frate Ave Maria - quando aveva dodici anni, per un banale incidente di ragazzi.
Perdere irrimediabilmente la luce degli occhi - bellissi­mi! - a quella età: chi non si sarebbe disperato? E tale mi­naccia fu avvertita dal nostro, per un non breve periodo - frate Ave Maria lo chiamerà il periodo del suo traviamento, del suo vero buio! - ma, pensiamo, nel disegno di Dio do­veva essere proprio questo buio a far risaltare la luce suc­cessiva...
La grazia di Dio - che si servì tra l'altro di un'umile suo­ra e di don Orione - trionfò in maniera superlativa di que­sta oscura minaccia. Ed ecco il miracolo: la "disgrazia" fu vista, e avvertita e amata come una inestimabile fortuna, co­me una folgorazione interiore di luce vivissima che trasfigu­rerà tutta la vita dell'umile religioso e diverrà irraggiamento e fascino indiscutibile su quanti l'accosteranno assetati della medesima luce, della medesima felicità. È il fascino che con­tinua a sprigionarsi dall'arca di frate Ave Maria, vegliata dai pii eremiti suoi confratelli e suoi emuli nello stesso cammino di preghiera, di lavoro, di solitudine popolata di alti pensieri.
La vicenda di frate Ave Maria - dalla cecità materiale, alla luce interiore della fede, attraverso la scoperta della vo­cazione religiosa, corrisposta in maniera eccezionale, a un ir­raggiamento di grazia su quanti lo accostarono - è una delle più belle documentazioni dell'effato biblico: - Per chi ama Dio tutto coopera al bene (Rom. 8,28).
Naturalmente, nemmeno per lui la scoperta fu facile: l'i­tinerario della fede - è un'altra lezione che egli continua ad impartirci - è sempre faticoso e impegnativo. L una con­quista dura.
E questa conquista, in Cesare Pisano, passò attraverso la tentazione della disperazione e della chiusura, dell'oblio di Dio e della ribellione. Fu una lotta di diversi anni. Ma alla fine la luce trionfò.
... Ha vissuto nella luce di Dio
Don Orione, quando comprese - misteriose intuizioni dei santi! - la stoffa che aveva davanti in quel giovane avvi­lito e disperato, chiuso e insoddisfatto, lo abbordò con que­ste parole, che Cesare stampò bene in mente per riferirle poi: "Oh, stordito, tu desideri beni che poi dovresti abbandona­re; di quello che avresti nelle tue mani, forse, te ne serviresti per diventare colpevole. Tu devi vedere la luce, per non cor­rere il pericolo di andarti a fracassare; tu devi avere la sa­pienza dell'uomo giusto, e sta certo che non ti annoierai". Tu devi vedere la luce...
Era segnato il programma di frate Ave Maria. Era anti­cipatamente riassunta tutta la sua stupenda avventura, il suo miracolo appunto.
In quella luce che cominciò a inondarlo Cesare Pisano fu portato a reinterpretare la sua "disgrazia". La vide non solo come un fatto provvidenziale, ma addirittura come la chiave di volta di tutta la sua esistenza: "Frate Ave Maria - così fece scrivere su un'immaginetta ricordo delle sue nozze d'oro con la cecità corporale - invita tutti quanti gli vogliono be­ne ad unirsi spiritualmente a lui per cantare nell'intimo del cuore un solenne inno di ringraziamento a Gesù benedetto che così mirabilmente - per quelli che lo amano - sempre può, sa e vuole volgere ogni cosa in bene".
Nella stessa luce, poi, si appressò a Dio gustandone, con infinita dolcezza, la vicinanza. Di qui quella miracolosa se­renità, anzi la incontenibile felicità che gli traspariva da tut­ta la vita. Fu un'anima inondata di luce superiore. Fu un "veggente" nel pieno senso della parola, un mistico autenti­co. In una parola, fu una di quelle anime che lasciano tra­sparire Dio da tutto il loro essere, dalle loro espressioni, anche più semplici, dai loro gesti, dalla loro vita...
Doni straordinari - a comune testimonianza - facilita­rono questa immersione nel divino.
Ciò che documentava all'esterno questa situazione spiri­tuale era la fame e la sete di preghiera del pio eremita. Con­tinuava a dire, quasi ironizzando su se stesso, su questo suo incessante dedicarsi alla orazione: - Io non so far altro che pregare...
La sua menomazione fisica gli permetteva di estraniarsi completamente dall'esterno e permetteva agli estranei di po­terlo contemplare senza disturbare la sua concentrazione e la sua umiltà. Fu così che, per tanti anni, lo spettacolo prefe­rito a cui potevano assistere i visitatori dell'antico eremo di Sant'Alberto era quello di frate Ave Maria in preghiera. Da questa preghiera egli attingeva quella mirabile saggezza soprannaturale che gli si riconosceva, che resta a noi nei suoi scritti e che a schiere andavano a cercare da lui chiedendogli consigli e incoraggiamenti. Chi fu a contatto con questa so­prannaturale illuminazione ne benedice ancor oggi il Signore...
...Per essere anche adesso luce agli uomini
Frate Ave Maria fu un mirabile diffusore di luce. Si rin­novò in lui il prodigio di tanti santi del passato che, avendo cercato avidamente la solitudine e l'isolamento per basso sen­tire di sé e per gustare esclusivamente le cose di Dio, furono letteralmente gettati tra le folle assetate di condividere il ban­chetto di luce e di grazia a cui apparivano così doviziosamente ammessi.
Quanti son saliti a Sant'Alberto per vedere lui, per ascol­tare lui, per raccomandarsi alla sua preghiera! A quanti egli ridonò la fiducia e la serenità! Alcune testimonianze autore­voli restano, ma la più parte dovrebbero essere raccolte. Ma forse è impossibile, perché fanno parte del segreto di Dio. In questo dono di luce e di grazia, attraverso l'umilissi­ma azione del fraticello laico e indotto, s'è realizzato uno dei più ardenti desideri di Cesare Pisano: essere sacerdote.
Se sacerdote vuol dire intermediario tra Dio e gli uomini, se sacerdote significa impegno per servire e salvare, se sacer­dote è chi trascina i fratelli sulle vie di Dio per arricchirli dei suoi doni di grazia, bisognerà dire che frate Ave Maria fu sacerdote nel senso profondo del termine. Non certo attra­verso l'azione sacerdotale, ma sì attraverso la sua parola, la sua preghiera, la sua semplice testimonianza egli fu un me­diatore, un salvatore, un apostolo. Lo riconoscono quanti sono stati raggiunti dalla sua indefessa opera.
C'è da aggiungere che questa continua tuttora, anzi in ma­niera più profonda e misteriosa - è il miracolo di frate Ave Maria che continua -. Lo testimoniano, tra l'altro, quei sem­plici messaggi vergati con mano trepida e che stazionano in continuazione sulla sua tomba. Lo testimoniano i pellegri­naggi alla sua arca semplicissima di fredda pietra disadorna. Lo testimonia il gaudio di moltissimi, espresso in occasione dell'inizio del processo per la sua beatificazione. Lo testimo­nia anche la nostra presenza oggi qui nel luogo che fu suo e che ora è colmo del suo spirito che continua a parlare più forte che mai.
Ascoltiamone docili il messaggio.
"Fa risplendere su di noi la luce del tuo volto" (Sal. 4)
Frate Ave Maria ci invita a percorrere il suo stesso cam­mino di luce, alla scoperta del Sole divino che dà ragione di tutto. Quante volte - è un suo pensiero rimarcato spesso - vedenti negli occhi del corpo, siamo ciechi nell'anima, per­ché non vediamo il bene, non riconosciamo la strada di Dio, non sappiamo compiere le scelte utili alla nostra vera gioia!
Quante volte il dolore, la prova ci oscura lo spirito: e Dio resta il lontanissimo, l'accusato, chiamato in causa come ca­gione dei nostri mali. E siamo tentati di rifiutarlo, ribelli e superbi!
Quante volte, viceversa, tronfi dei nostri successi, fieri di quanto doviziosamente ci propina la nostra civiltà progredi­ta, camminiamo come se Dio non esistesse - ciechi dello spi­rito, immersi totalmente nella terra e nell'unica dimensione orizzontale, dimentichi e ignari, salvo poi a prendercela con Dio la prima volta che qualcosa ci va male!
Occorre luce, la luce vera, quella che viene dalla fede, so­stenuta dalla parola di Dio e conservata con la preghiera. Fin­ché non ritroveremo un giusto equilibrio tra azione e contemplazione, tra vita esteriore e vita interiore, tra attivi­smo e preghiera, saremo sempre delle personalità disarmo­niche, incomplete, insoddisfatte.
Frate Ave Maria ci offre la ricetta della felicità, della "sua" felicità: la ricerca coraggiosa della luce di Dio anche a costo di diventare ciechi su altri fronti. Forse è proprio questa la preghiera che dovremmo avere il coraggio di fare: che ci sia tolta un po' di luce terrena e ci sia abbondantemente riversa­ta in cuore la luce celeste.
Alcuni voti da affidare a frate Ave Maria
Siamo, infine, sicuri che la intercessione del caro nostro fratello può molto presso il Signore. Allora gli affidiamo con semplicità alcuni voti che ci stanno sommamente a cuore. Eccoli:
1 - che riusciamo, come lui, a vedere nella luce del Signo­re, la vera luce: "in lumine tuo, Domine, videmus et videbi­mus lucem";
2 - che frate Ave Maria, più conosciuto e amato - lo me­rita - si faccia maestro di molti in questo itinerario verso la luce e che perciò da Sant'Alberto - il "suo" luogo bene­detto - il richiamo della sua santità, delle sue virtù, il suo messaggio semplice e sublime, sempre più attuale, si diffon­da nel mondo come un richiamo di speranza, come un ap­prodo di anime desiderose di vita e di gioia;
3 - che i suoi eredi, gli eremiti della Piccola Opera della Divina Provvidenza - qui a Sant'Alberto e altrove - emu­lando le imprese e le virtù del loro antesignano - ne ripro­ducano il fascino e questo diventi voce possente a chiamare tanti tanti altri a seguire le sue orme, la sua stessa vocazione di solitudine, di preghiera, di lavoro, di silenzioso efficacis­simo apostolato;
4 - che i figli di don Orione, eredi fortunati di santi, ri­trovino, in quest'ora della storia del mondo e della Chiesa, segnata per tanti rispetti di incertezza, di titubanze, di infe­deltà, di interiori smarrimenti, la strada del sacrificio accet­tato e cercato, della contemplazione assidua, del dono totale di sé alla causa di Dio e della salvezza dei fratelli.
Tanto ci ottenga da Dio e dal beato Fondatore il nostro santo e carissimo fratello.




APPENDICE
PENSIERI DI FRATE AVE MARIA
a cura di: Don ANDREA GEMMA
Don GIULIO FLORIAN
La raccolta degli scritti di frate Ave Maria é appena ini­ziata. La piccola antologia che qui offriamo non può quin­di avere nessuna pretesa critica. Vuole soltanto offrire un necessario complemento alla biografia, per una più pro­fonda penetrazione dell'animo del biografato. Buona par­te dei testi sono tolti dalla più volte menzionata biografia «La luminosa notte di un cieco (sigla: L. N.), gli altri da let­tere tuttora inedite. Manteniamo generalmente - salvo evi­dente errore - la grafia e la punteggiatura dell'Autore, anche per quanto riguarda l'abbondante uso delle maiuscole.

IO NON SONO CIECO
Vedete, dicono che sono cieco. Ma io affermo, con tanta compassione per gli altri: "Io non sono veramente cieco; i veri ciechi sono quelli che guidano alla perdizione le ani­me; i veri ciechi sono quelli che non vedono Gesù, e Gesù si vede con la luce della fede. Chi è che non vede Gesù? Chi non crede che in Gesù è la luce del mondo, la luce che guida le anime alla salvezza. La luce di Dio è la luce della verità. Così un cieco che vede Gesù, non è più cie­co, è un grande sapiente, uno che vede lontano, tanto lon­tano... Chi, al contrario, non vede Gesù, è un povero cieco, che non vede niente!
La Divina Provvidenza per mezzo di don Orione mi con­dusse nel nascondimento per farmi disperare di me stes­so, di tutto, affine di poter sperare più pienamente d'Iddio. E don Orione mi diceva: "Umiliarci, sì! Ma scoraggiarci, no! Umiliarci, sempre, sempre più! Ma avvilirci, demora­lizzarci, mai! mai!". Eppure, essendo cieco, quanta luce! Eppure, essendo sordo, quanta armonia! Eppure, avendo una mente sì ristretta, una sì piccola anima, un sì piccolo cuore, che pensiero luminoso di verità! Che desiderio ar­dente di Cielo! Che amore di vero bene per tutti! Eppure, avendo una voce rauca, con la quale mi faccio a stento intendere dai miei simili, che gioia parlare di tutti al Crea­tore, implorando per tutti la sua misericordia e disperata­mente sperando in essa!
Ah, come è bello, santo, per chi non ha da fare tantis­sime cose, perfette cose, per chi, come me, non sa fare altro, vivere nella solitudine, ubbidendo al Divino Coman­damento: "Ama Iddio con tutte le forze e il prossimo co­me te stesso!". Come è bello pregare per la perseveranza dei buoni e per il ravvedimento dei cattivi! Come è bello pregare con Gesù per i suoi crocifissori di ogni tempo: "Pa­dre, perdonali! Non sanno quello che si fanno!". E prega­re in modo da prepararci noi pure a morire con Gesù, come Gesù sulla nostra Croce, pregando per quelli per cui il Si­gnore ce l'ha presentata.
Mamma, sapete che io non sono più cieco? Sapete per­ché non sono più cieco? Lo sapete? Perché io chiamo cie­chi soltanto quelli che non hanno fede. Dunque, abbiamo fede, tanta fede da restare persuasi, convinti che l'essere ciechi non è affatto una disgrazia. Anzi, quella che non im­pedisce di andare in Cielo, non si dovrebbe neppure chia­mare cecità; la vera disgrazia, la vera cecità è quella che non ci lascia andare nel santo Paradiso: è l'essere senza fede, senza amore di Dio e del prossimo... Solo di luce e di forza noi abbiamo bisogno per essere felici: luce di ce­leste sapienza e forza di buona volontà per fare sempre quello che è da farsi e fuggire quello che è da fuggirsi. Lu­ce, per aver sempre presente che siamo in esilio; e forza, per non stancarci mai di correre verso la Patria. Luce, per riconoscere che l'unico male è il peccato; forza, per non stancarci mai di fuggirlo...
Oh mamma, come sarebbe meno brutto il mondo, me­no triste questo esilio, se le creature cercassero la loro pa­ce, la loro gioia dove la promette il Signore! Mamma cara, questo mondo è un mondo d'infelici, perché, o assai o po­co, tutti disobbediamo alla volontà del Signore, cerchia­mo il nostro bene dalla parte opposta di dove vuole farci correre il buon Dio... Preghiamo che il Signore doni un po' di buon senso a tutti che ne sono scarsi e che abbia mise­ricordia di tutti... La maggior parte delle creature di que­sto mondo credono che la vera felicità consista nell'essere molto ricchi, nell'essere sani e robusti, nell'essere cono­sciuti e rispettati da molti. Ma essi si ingannano, perché vi sono molti, ricchi ed onorati da tutti e pieni di salute, ep­pure non sono affatto felici. Al contrario vi sono dei pove­ri, infermi e quasi da tutti sconosciuti, che godono grande pace e serenità, perché amano tanto il Signore e sanno di essere cari a Dio...
Che valgono le buone parole, quando non sono accom­pagnate da una vita sinceramente crocifissa per amor di Dio e di tutte le anime ancora suscettibili di salvezza? Che vale il mio consigliare gli affamati ad avere pazienza per amore di Gesù e per meritare un bel posto nel regno dei cieli, se io sono satollo? Che vale il mio consigliare gli in­felici a ricevere amorosamente ogni tribolazione dalle mani di Dio senza incolparne il prossimo, se io, anziché inflig­germi volontariamente tanta penitenza, sono sempre pre­parato ad incolpare gli altri per le pene che già mi affliggono?! Oh, almeno mi sia concesso di vivere la veri­tà, giacché non ho abbastanza eloquenza di predicarla! Ma quand'anche sapessi predicare con lingua angelica la verità, qual gloria ne darei a Dio? Quale beneficio ne ri­sulterebbe all'anima mia od altrui, se non pensassi a vive­re la verità? Le mie buone parole sarebbero troppo simili a quelle che certi nemici di Gesù gli rivolsero nel tempo della santa sua Passione. Dunque, la verità, primieramente viverla! Secondariamente viverla! In terzo luogo viverla an­cora! Poi, se mi avanzerà tempo, dovrò predicarla; però, senza mai cessare di viverla intensamente. (Lettera alla sua mamma)

UMILE CONFFESSIONE
... Se, oltre la Divina Provvidenza, si volesse lodare qual­cuno, penso che dovrebbero essere quelli che, nelle mani della Divina Provvidenza, furono docili strumenti per far sì che quest'essere meschino, qual io sono, si umiliasse ognor più, ma uscisse una buona volta dallo stato danno­so dell'avvilimento in cui si trovava: una Figlia della Cari­tà e un Sacerdote.
Quanto a me, sono sempre quello che ero, perché il bene, che ora godo, non lo ricevo da Dio per mercede, ma per elemosina. È bene che mi viene dal Datore d'ogni be­ne e deve in me fruttare gratitudine verso il Donatore. Il mio debito è grande e mi spinge a non lasciar passare oc­casione alcuna, senza chiedere la carità di chiunque può aiutarmi. Ma a me conviene più parlare col Dio del mio cuo­re, che coi compagni di viaggio verso la Casa del Padre comune.
Se parlo coi miei simili, presto li annoio, perché non faccio che ripetere lo stesso concetto con le stesse paro­le; ma il nostro Padre celeste non si annoia mai di sentirsi dire che lo si ama, sia pure dalla più inutile delle creature, quella che glielo dice e ripete, perché il Signore non guar­da l'arte con cui gli si dice che l'amiamo, ma la umiltà, ma la sincerità del nostro cuore, anzi, mi correggo, del nostro amore. Gesù non si stanca di darci udienza; anzi, ha tan­to più care le nostre visite, quanto più vede che con gusto viviamo alla sua divina presenza.
Così, questo poveretto, che si pensò infelicissimo solo perché non possessore delle vili ricchezze, e non vedente la luce del sole, e incapace di fare acquisto dell'umana sa­pienza, fu da don Orione spinto alla conquista delle ric­chezze eterne, della vera luce, della sapienza divina, che lasciandolo disperato - graziosa disperazione -, gli riempì il cuore di gioconda e luminosa speranza e certezza nella possibilità e facilità di conseguire anche lui la vera felicità nella vera vita immortale, a cui ogni cuore umano aspira e si sente attratto. Così, quella che sino allora giudicavo, e mi affliggeva, come una minorazione umiliante, incomin­ciai a stimare come un grandissimo privilegio concessomi gratuitamente dall'Altissimo; incominciare in questo esi­lio a non avere altra occupazione che quella che gli eletti hanno in cielo; adorare, amare, ringraziare eternamente Iddio, nella luce rivelatrice che Iddio ci ama, e vuole esse­re da noi amato, e che tutto ciò che ne comanda non è che efficacissimo rimedio a tutti i nostri veri mali, che ci impediscono di compiere perfettamente ciò che il Signore vuole da noi, come cooperatori alla sua divina e umana redenzione: divina, perché operata da Lui; umana, perché fu compiuta a salvezza dell'umanità.

IL MIO FORTE È PREGARE
... II mio forte è pregare e non parlare e non scrivere, perché pregando bastano poche parole ripetute sentita­mente; invece, se si dicono e si scrivono le stesse cose, si finisce con l'annoiare la gente... Dunque, io prego tanto e prego non soltanto per quelli che sono vicini al Signore e sentono il bisogno del divino aiuto; ma prego pure per quelli che sono lontani dalla Verità, tanto lontani che si cre­dono dalla parte della ragione e sono dalla parte del torto; tanto lontani che si credono saggi e invece sono sciocchi; tanto lontani da non capire più quanto le loro idee siano storte. Anch'io ho delle idee storte e non so raddrizzarle; ma il Signore mi compatisce e mi perdona, perché umil­mente gli chiedo perdono per me e per tutti i bisognosi del suo Perdono Divino. E veramente, ogni idea che mi fa scor­dare la Vita Eterna, che m'impedisce di meditare sui do­lori sofferti da Gesù per l'umana Redenzione, che mi fa rallentare il passo sulla via del Cielo, è veramente un'idea storta che mi fa dire e ripetere per me e per quanti come me ne hanno bisogno: "Padre Eterno, perdonaci! Gesù buono, perdonaci, perché quando bramiamo altro che il Cielo, quando ci affatichiamo per altro che per il Cielo, quando non corriamo verso il Cielo, non sappiamo vera­mente quello che pensiamo, né quello che bramiamo, né quello di cui ragioniamo, né dove andiamo...".
Questa preghiera, più la ripeto al Signore, più faccio il mio dovere da povero frate, da povero figliuolo di Iddio, ed a me riesce dolce, consolante il ripeterla, perché sono certo che il Signore non si annoia mai di sentirla, anzi, de­sidera ch'io gliela ripeta ininterrottamente, sino a sembrare un pazzerello per quelli che non hanno fede. Spesso me la sento nelle orecchie, questa parola: "Oh, se in questo momento ti vedesse il tale! Che cosa direbbe! Direbbe che sei un pazzo!". Ed un'altra voce subitamente soggiunge:
"Prega, prega anche per lui, perché, se non si risolve a cambiar sentimenti, se non si decide a mettere giudizio, arrischia di essere tra quelli che un giorno confesseran­no, ma troppo tardi, che gli insensati sono stati loro".
Anche a me che non so fare niente, il Signore ha tro­vato ottimo impiego. Pregare è la migliore opera che crea­tura possa fare! Eppure, anche uno che non sappia far altro, posso, devo e voglio, più che molti altri, essere uo­mo d'orazione, facendo mia gioia il trattenermi in dolci col­loqui con l'Altissimo Iddio, che parla al cuore e che ci legge nel cuore, vincendo le nostre tenebre con la sua luce, fu­gando ogni nostra malinconia con la sua gioia, scioglien­do il ghiaccio d'ogni nostra freddezza col dolcissimo fuoco della sua divina carità...
Quanto a ciò che mi dite intorno al mio pregare, rispon­do che io non so far altro e, almeno quanto so fare, lo do­vrei fare perfettamente; invece sono molto imperfetto. Tuttavia, pregando si impara a pregare ed io, per esem­pio, quando prego la Madonna, non la prego pensandola in Paradiso, ma me la penso, me la sento spiritualmente presente come Mamma amorosissima, sì, ma pure come Madre d'Iddio, che da Gesù suo Figlio può ottenere tutto quello che è meglio per me. Per me la Santa Madonna è la grande rivelazione della Divina Tenerezza, non soltan­to verso di me ma verso tutti i redenti, ed è per questo che, pregando Maria, mi sento portato a chiedere grazie per tutti, perché tutti abbiamo pace, perché tutti arrivino alla Mèta eternamente beata per cui fummo tutti creati. Perciò, quan­do prego, io non curo affatto la espressione della voce, ben­sì soltanto la posizione, la compostezza dell'anima, della mente. Cerco di non dimenticare i corporalmente presen­ti, mi studio di non scordarmi degli spiritualmente presen­ti, ma soprattutto m'ingegno di parlare a Maria, non come ad un'assente, ma come a presente in atto di dispensatri­ce dei divini tesori...
Il Signore mi fa sempre più intendere che sono chia­mato a pregare Lui e non a predicare agli uomini, perché, a pregare Lui basta la buona volontà di fare ciò che a Lui piace, ma, per parlare di Dio agli uomini, bisogna saperlo fare, e non a tutti è ciò concesso...

ESTASI
Quanto al cinquantesimo di mia corporale sorella ce­cità, sarebbe troppo angusto il posto, accordato in un pe­riodico, per narrare come la Divina Provvidenza servendosi di don Orione riuscì a persuadermi, a convincermi, che non erano le ricchezze, la luce, la sapienza di quaggiù, i beni che mi avrebbero potuto fare veramente felice e che, an­zi, l'avermi recisamente negati questi beni, fu un segno di benevolenza squisita, per niun verso da me meritata, ma dalla Divina Provvidenza dimostratami. Difatti, io so­no, naturalmente, superficiale; che, se fossi stato ricco dei beni di quaggiù, non avrei cercato altro bene; se avessi potuto godere la luce del sole, non avrei cercato altra luce e, se fossi riuscito ad essere sapiente, della sapienza mon­dana, della sapienza degli uomini, non avrei cercato altra sapienza, la vera sapienza, la sapienza d'Iddio. Nel mio gran cervellaccio avrei pigiate tante vane notizie ed avrei espulse le notizie vere di felicità. Invece, la Divina Provvi­denza, col farmi disperare dei beni passeggeri e col farmi incontrare con l'Uomo, col Sacerdote provvidenziale, mi indusse clementissimamente a disperare dei falsi beni e a sperare nei veri beni, di modo che, nella mia minuscola mente, regnasse la fulgida idea di Dio e, nel minuscolo mio cuore, ardesse il salvifico amor di Dio, e la minuscola ani­ma mia vivamente sperasse nelle delizie eterne, da Gesù promesse e meritate ai suoi redenti, così da pregustarne un saggio, anche lungo la via di questo esilio terreno.
D'altra parte, la Divina Sapienza annacqua il Suo vino secondo le mie capacità, ed io sento in esso ogni squisi­tezza; ma non dice a me di distribuirlo ai miei fratelli; ben­sì dice: pregami per i tuoi fratelli, perché vadano dietro a ciò che è veramente bello, buono, durevole. Un tempo, con profonda umiltà che talora sfociava nello scoraggiamen­to, dicevo a me stesso: non sai fare altro che pregare; al presente, e ancora frequentemente, dico: non sai far altro che pregare; poi, pensando chi fui, chi sono io che prego, chi è Colui ch'io prego, la mia piccola mente è piena di luminosa meraviglia, il mio cuore è pieno di dolcissima te­nerezza.
Oh Signore, che è questo ch'io godo? è estasi? è rapi­mento? È l'amoroso abbracciamento dell'infinitamente grande con l'infinitamente piccolo...

GESÙ
Quando era ad Albenga a fare la IV elementare, pas­savo, ogni volta che mi recavo a scuola, davanti all'epi­scopio e, sullo stemma posto sulla porta, leggevo sempre senza intendere: "Christus vere scit...". Quando seppi che quelle parole volevano dire: "Cristo veramente sa" ero già cieco, e furono la mia luce. Gesù è veramente il Maestro di Verità, di quella verità che resta in eterno... Lasciamoci illuminare, confortare, consolare da questa verissima ed importantissima verità. Anche noi veniamo da Dio e dob­biamo ritornare a Dio; e allora sarà dolce la presente vita, e ci sarà pur dolce la morte perché la sapremo riguardare come porta della Vita eterna.
La nostra vera salvezza è Gesù, Gesù imitato, Gesù ascoltato, Gesù seguito, Gesù vissuto. Ascoltiamo Gesù e lo conosceremo, lo ameremo, lo imiteremo e lo seguire­mo e di lui vivremo e non saremo più ciechi, ma vedremo la vera luce che è la verità; e non saremo più schiavi, ma godremo la vera libertà anche chiusi in una cella, anche tra le mani dei nemici di Dio, e non saremo più morti am­bulanti, ma vivremo la vera vita che è il trionfo dello spirito sulla materia. Gesù, nostro Dio, nostra vita, nostra verità, nostra luce, a tutti, ma soprattutto a noi, dice: "Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se medesimo, prenda la sua croce e mi segua".
Non occultiamo Gesù sotto la nostra immagine da ca­ricatura; ma rivestiamoci della divina immagine di Gesù Salvatore; ma lasciamoci penetrare, muovere, dominare dallo spirito redentore di Gesù Crocifisso! Scomparisca lo strumento sotto la mano di Gesù che divinamente lo vuo­le adoperare...
Gesù è il buon Pastore disceso dal Cielo in terra per rintracciare la pecorella smarrita, la povera umanità. Ge­sù vuol tutti salvi e felici. Gesù tutti troverà, eccetto quelli che non vogliono lasciarsi da Lui trovare, e si mantengo­no in tale cattiva volontà ostinati sino alla fine...
Chi si lamenta di Dio si può paragonare ad un cieco irrequieto, precipitato in un burrone per non avere ascol­tata la sua guida saggia e pietosa; questa poi la raggiun­ge nel precipizio per trarnelo fuori; ma la strada è angusta e spinosa, e la clementissima guida sceglie per sé la par­te più disagevole, affinché il povero cieco ponga i suoi piedi dove le spine sono più rare e men pungenti. Ma il cieco sente solo le spine che lo pungono e non vede le spine da cui si fa pungere la sua guida, e perciò la rimprovera quale persona crudele, senza cuore. Questo cieco si la­gna, così, ingiustamente della sua pietosissima guida.
Se talora ci sentiamo pungere dalle inevitabili spine di cui è disseminata la nostra vita, per la quale la Divina Prov­videnza ci vuole guidare alla radiosa meta anche a noi fis­sata - al convegno eterno e senza fine beato, al santo Paradiso -, ricordiamoci con grandissima gratitudine delle assai più numerose e ben più pungenti spine sopportate da Gesù, nostra vera guida, per amor nostro ed invoglia­moci ognor più ad accettare le nostre per amore suo... I Santi assicurano che è cosa senza confronto migliore il sof­frire con Gesù e per amore di Gesù, che il godere tutte le delizie del mondo vivendo in disgrazia di Dio, nemici di Gesù. Vivendo accanto a Gesù, amici di Gesù, facendo la santa volontà di Gesù, quanta gioia godremo, scono­sciuta agli empi; quante pene, che continuamente straziano l'animo dei malvagi, ci saranno per sempre ignote! Stia­mocene sempre vicini a Gesù, tanto nelle ore gaie, quan­to nelle ore meste; da Gesù, il quale dalla sua Croce ebbe compassione di tutti, anche di quelli che sembrano i più felici del mondo, perché davanti a Gesù siamo tutti pove­retti, tutti bisognosi d'essere da Lui guardati con uno sguar­do tutto di compassione; tutti abbiamo bisogno del suo grande perdono, delle sue grazie, del suo aiuto; perché senza di Gesù nessuno può essere veramente e stabilmen­te felice...

LA VERA LUCE
In alto i cuori, o carissimi, sempre in alto: per distin­guere, tra molte luci apparenti, la vera luce che illumina l'umana intelligenza rendendola non più carnale ma spiri­tuale! In alto, per ravvivare, tra mille effimere bellezze, quel­la che è il vero fonte d'ogni bellezza e di cui ogni creatura è chiamata a rivestirsi! In alto, per scorgere ed eleggere la vera ricchezza, la vera gloria, la vera pace, la vera feli­cità, per cui ogni creatura viene posta da Dio in questo ter­reno vestibolo della vera vita, della vita eterna!
Oh, fratellini miei, ringraziamo sempre il Signore per averci donato la vita! Amiamolo tanto, questo gran dono di Dio, ma non amiamolo troppo. Noi lo ameremo troppo, se il timore della morte ci farà indietreggiare di fronte al dovere da compiere. Noi non lo ameremo abbastanza e disprezzeremo colpevolmente, questo prezioso dono di Dio, se la previsione delle difficoltà da superare, dei dolori da sopportare, ci farà desiderare la morte contrariamente al­la divina volontà. Non l'amiamo troppo la vita, dunque, né sia scarso il nostro amore per essa: amiamola tanto quan­to merita. Un sì gran bene da Dio non ci viene tolto se non per mutarcelo in un bene maggiore e più durevole. La vita di un giovinetto, che si immola nel compimento del pro­prio dovere, è una giovinezza che si eterna. La lunga esi­stenza, invece, trascorsa tutta nelle delizie, è un istante di velenosa dolcezza, che precede uno spasimo senza fi­ne. Pensiamo spesso ai beni e ai mali futuri, é diverremo forti per resistere alle lusinghe del mondo e sostenere ogni fatica, ogni dolore presente.
La vera pace e libertà non solo non le godono, ma nem­meno le conoscono i superbi che, con forza e con astu­zia, riescono ad imporre agli altri la propria volontà, mentre essi sono schiavi dei loro vizi e del loro stolto modo di pen­sare. La pace e la libertà non le godono gli avari che le cercano affannandosi miseramente nell'inutile sforzo di estinguere la loro sete di oro. Pace e libertà non godran­no gli impuri sinché le cercheranno dove Dio non le pro­mette. Pace e libertà non avranno gli iracondi e golosi sinché si lasceranno vincere dall'iracondia e dalla gola. Pa­ce e libertà non gusteranno i rosi dall'invidia, invischiati nell'ozio.
Ricordiamoci che nel vero amore - quaggiù - non si può vivere senza dolore. Così nell'amor di Dio come nel­l'amor patrio, la pietra di paragone per distinguere l'oro puro dall'orpello è la croce, sicché non sa amare chi non sa soffrire, e chi più sa soffrire, è quegli che più ama. È meglio vivere una giornata sola, ma nell'amore fiorito di sacrificio, che cento anni da gaudenti. Chi si sacrifica per amore, giova santamente a se stesso ed edifica il prossi­mo; il gaudiente, al contrario, danneggia se medesimo ed è l'inciampo per molti deboli o poco illuminati.
Oh, carissimi, amiamo! amiamo! amiamo! Amiamo la nostra famiglia, amiamo la nostra patria, che è una fami­glia più grande... Amiamo tutta l'umanità. Amiamo la Santa Madre Chiesa, amiamo il Santo Padre, amiamo Maria no­stra Madre celeste, amiamo Gesù nostro Dio Salvatore! Amiamo tutto ciò che è bene, tutto ciò che è bello, tutto ciò che è prezioso! Amiamo tutto ciò che è grande, che è giusto, che è buono! Amiamo tanto da non temere più la fatica, il sacrificio, la morte.
Allora godremo una imperturbabile pace, godremo la libertà dei figli di Dio ed ogni cosa il Signore per noi volge­rà in bene e l'aspettazione nostra sarà sempre lieta! E tut­ti quelli verso cui abbiamo obbligazioni otterranno da noi più soddisfazione che non desiderino, poiché sarà più dolce a noi il dare che a loro il ricevere, mossi sempre da quella buona volontà che, per essere leale, non può che confor­marsi alla divina. Dio solo è libero, e chi fa la volontà di Dio, chi elegge per propria la divina volontà è partecipe alla divina libertà, è libero quanto Dio!
Ciò che Dio comanda è per i suoi amici via di scampo verso la felicità. Solo gli amici di Dio conoscono questa con­solante verità e perciò liberamente vogliono quello che Dio vuole!
Vogliamo anche noi così, buoni fratelli!

IL VERO BENE
Noi non sempre conosciamo il nostro vero bene; noi spesso desideriamo e chiediamo per bene ciò che invece sarebbe un male per noi; ma Gesù e Maria sanno ciò che ci abbisogna, ci danno talora ciò che ci amareggia per un istante il cuore, perché sanno che quella momentanea ama­rezza frutterà per noi e per i nostri cari una dolcezza im­mensa ed eterna...
II diavolo e gli amici del diavolo fanno proseliti promet­tendo la cuccagna in questa vita. Cristo e i suoi Apostoli e i suoi Martiri, con l'esempio di tutta la loro vita e con le parole, ci hanno convinti che il Paradiso vero ed eterno, e d'immenso gaudio, è dopo questa vita passeggera; ma per raggiungerlo, occorrono umiliazioni e amore disinte­ressato, che tutt'insieme formano la nostra croce, la cro­ce benedetta di cui Gesù ci vuole far dono, ed è dono preziosissimo, dopo che, se è amato e tenuto caro, è quag­giù l'unica sorgente d'ogni vera consolazione. Perché la croce di Gesù amata da noi, ed amata col farla nostra, è unica fonte di giocondissima e verace speranza...
Se noi saremo scansafatiche, se a noi dispiacerà spor­care le mani nel lavoro, se a noi piacerà avere le scarpe sempre lucide e il vestito elegante, se noi useremo i pro­fumi, se noi ci facessimo sentire profumati di sigarette, se noi saremo amanti di buoni bicchieri e buoni bocconcini, se noi perderemo il tempo davanti alla radio, se noi spre­cheremo la benzina coi soldi dati a noi per dar da mangia­re agli affamati, adoperandola per fare viaggi inutili, per andare ad assistere a gare sportive, per fare gite di piace­re, se noi leggeremo più volentieri i giornali che la vita dei Santi, se noi vorremo convertire il mondo coi partiti politi­ci, anziché col dare al mondo esempi sinceri di vita morti­ficata, di vita crocifissa, queste sì che sono cause da togliere per non dare motivo di credere che, sotto la pale­se rilassatezza, vi sia qualche cosa di peggio...

LA FEDE
Come è bella, sublime, benefica, redentrice la fede che ci fa venire persuasi, convinti, che quaggiù è cosa miglio­re essere buoni e soccombere, fare il bene ed avere dei male, che essere cattivi e trionfare, fare del male ed ave­re molti beni, di questi che sì prestissimamente passano!...
Questa fede è la materia prima che scarseggia in questo misero mondo ed è questa la causa, e non altre, per cui vi è tanta infelicità, per cui il mondo va tanto male, perché disperatamente si godono i miserabili beni di quaggiù e si è invece insofferenti di quei mali momentanei e leggeri, coi quali Iddio vuole dare ad ogni sua creature il diritto di sperare i veri ed eterni beni..
Giusta, santa, bella, divina è la nostra Religione; è l'u­nica vera, che insegna ad amare Dio come padre e tutti gli uomini come fratelli! Insegna essere un'ombra la vita presente, paragonata alla Vita Futura che ne attende! Oh, quanto è bella anche la vita terrena, se si guarda nella lu­ce di questa verità! Come divien sopportabile anche il do­lore, quando si pensa che ci sarà rimunerato con una eterna gioia! Come dolce, desiderabile anche l'ora della morte, quando si è convinti della convinzione dei Santi, che, cioé, sorella nostra morte corporale altro non è, per i buo­ni, che un felice passaggio alla vera Vita, beatissima, eter­na, dove ritroveremo tutti quelli che ne precedettero, dove raggiungeremo tutti queli che seguimmo nella via della vera pace, della giustizia, della misericordia, della verità, della carità.
... In questa vita terrena ogni giornata lieta ha la sua se­ra. Anche le giornate dolorose hanno la loro sera; ma, sic­come noi vogliamo sempre godere e mai soffrire, perciò le giornate gioconde sembrano sempre troppo brevi, men­tre le giornate meste a noi pare siano interminabili. Noi non ci stanchiamo mai di godere e, in quanto al dolore, vor­remmo stesse ognora lontano da casa nostra. Eppure è impossibile in questa terra d'esilio vivere sempre felici. Ma quand'anche potessimo essere ognora contenti, sarebbe una grande disgrazia. Perché arriveremmo alla morte sen­za alcun merito per il Cielo... II patire quaggiù per amore di Gesù e di Maria è grande fortuna, è vera fortuna; ma il godere lontano da Gesù e da Maria è grande sciagura, è vera sciagura, è la maggiore sventura che possa tocca­re ad un mortale. Nuotando nei falsi e non durevoli beni di quaggiù, di essi talmente si sazia, da non saper più pen­sare che ve ne siano altri, da deridere quelli che altri beni sperano; e sono questi a cui Gesù disse: "Guai a voi, sa­tolli... Guai a voi, ricchi... Guai a voi, che ora ridete...".
Convinciamoci che un grande ignorante, se ubbidisce alla fede, vive sapientemente; mentre un gran sapiente che disubbidisca alla fede, vive da grande ignorante...

LA VIA DELLA SANTA CROCE
La via del santo Paradiso è la via della santa croce, è la via delle sofferenze da noi serenamente accettate per amore di Dio e di tutto ciò che in Dio dobbiamo amare. Sof­ferenze però, non scelte da noi, ma a noi donate da Dio direttamente o per mezzo dei suoi amici ed anche dei suoi nemici, ma sempre dolcissimi servi suoi, o con loro gran­de merito, o con grande loro demerito...
...Abbracciamo, dunque, volonterosamente questa be­nefica croce, e quantunque talora ne sembri alquanto pe­sante, non scrolliamola dalle nostra spalle; non lamentiamoci mai col Signore dicendogli che ce l'ha data troppo gravosa; ma benediciamo con essa il buon Dio che ce l'ha donata, non perché ci vuol male, bensì per trattare noi pure, come tratta con le anime a lui più care...
Se però in noi è quella luce di verità che Gesù bene­detto venne dal Cielo a portare sopra la terra, dobbiamo essere sempre persuasi e convinti che a noi torna più conto soffrire che godere, quaggiù, perché se godiamo ci ren­diamo sempre più debitori al Signore; ma se soffriamo per amore di Gesù, è Gesù che si rende debitore verso di noi... Gesù visse e morì povero, perseguitato e perdonando ai suoi persecutori e chiamò beati i poveri, i perseguitati ed i misericordiosi; e minacciò guai a quelli che ora ridono, ai ricchi, ai satolli, a quelli che al presente trionfano con la prepotenza e con la ingiustizia...
II mio dovere è di fare penitenza, e quanto più ne fac­cio, tanto più adempio al mio dovere. Per premio tutta la vita sul Calvario, ma per castigo né tutta la vita e nemme­no un solo istante sul Tabor.
Dite a quel bravo ragazzo che se vuole stare sempre in piedi non deve aggravare il suo corpo con soverchio ci­bo e bevanda. Vi sono dei vecchi che mangiano e bevono più che la loro gola chiede, e poi si sentono tentati come quando erano giovani ed anche più, e vanno dicendo: "Se io che sono vecchio sono così tentato, chissà i giovani!".
Preghiamo ed affatichiamoci assai, e nutriamo il nostro corpo con vivande poco sostanziose, poco ghiotte, e con­sigliamo di fare così tutti quelli che con le armi dello spiri­to vogliono soggiogare la propria carne. Cooperiamo con Cristo alla salvezza del mondo, usando le stesse armi usate da Cristo...

IL PAPA
Carissimi, il Papa è un sacrificato da Dio al nostro ser­vizio. Noi abbiamo bisogno di essere guidati ai pascoli della verità e guardati dai lupi; il Papa è il Successore di Pietro, è il Vicario di Cristo. Anche al Papa, come a San Pietro, Gesù dice: "Pasci i miei agnelli". E Gesù, come agli Apo­stoli, a noi pure dice: "Ecco, vi mando come pecore in mez­zo ai lupi". I lupi sono i seguaci dell'errore, i quali, non potranno giammai divorarci, se avremo buona volontà, pur essendo essi armati di voracissimi denti e noi apparente­mente disarmati, indifesi, improtetti. Dobbiamo, però, es­sere sempre forti nella fede in Gesù... Egli ognora ne incoraggia a non temere coloro che uccidono il corpo e non possono fare altro, ma a temere solo il peccato, perché è l'offesa d'Iddio, ed essa soltanto, che può mandarci in perdizione e anima e corpo.
Ah, preghiamo, preghiamo sempre secondo le inten­zioni del Santo Padre, il quale ha sempre gli occhi rivolti al Cielo dove vuole giungere, dove vuole farci giungere, dove vuole far giungere, anche aiutato dalle nostre pre­ghiere, quelli che ancora corrono per opposta via! Che è la via della superbia, dell'ingordigia, della dissolutezza, del­l'errore, dell'empietà, dell'eterna rovina...
Non diffidiamo mai degli insegnamenti di santa Madre Chiesa, perché essi sono i soli degni di tutta la nostra fe­de. Essi soli ascoltiamo e avremo vita e pace...

LA VOCAZIONE AL SACERDOZIO
lo dico, a quelli chiamati alla vocazione, che la più bel­la gioia che posso ricevere da uno di loro è di sentire che ha detto la Messa, è arrivato al sacerdozio, o che è chia­mato tra poco tra i promossi al sacerdozio.
Ecco: se uno di voi vuol darmi questa consolazione - e io la desidero tanto volentieri - sarà quando sentirò di­re: il tale ha ricevuto la santa Messa, l'Ordine sacerdota­le. Quanta gioia proverò! Perché anch'io tanto desiderai d'essere sacerdote, ma erano velleità, perché, per il Si­gnore, non basta sentire il desiderio, bisogna avere tutte le qualità necessarie. II Signore mi fece capire che io pos­so aiutare i sacerdoti e anche quelli chiamati alla vita reli­giosa e sacerdotale, pregando per loro.
E quest'oggi appunto, giacché è l'assistente vostro che ha fatto i santi Voti, ecco, è lui che m'ha dato una grande consolazione; è la Madonna che quest'oggi mi ha dato que­sta grande consolazione, perché, il suo, è un passo verso la vita religiosa, verso il sacerdozio... La mia consolazio­ne, di fronte a un sacerdote novello, è questa: poter ba­ciargli la mano; pensare che poco tempo fa era un ragazzetto come tutti gli altri, e ora è sacerdote, ed è un sacerdote che fa tanto bene alle anime, come don Orione voleva: Anime e Anime!
Vedete, questo è il grido di ogni sacerdote di Dio. Anzi è il grido di Dio. È Gesù Cristo che grida: Anime e Anime! Dalla croce Egli grida: - Ho sete. Gesù disse: ho sete di anime, e anche don Orione disse: Anime e Anime!, per­ché don Orione ricevette la fede di Gesù, capì che cuore ardente era quello di Gesù. Anime, anime da salvare! Que­sta è la vera felicità! Vedete, don Orione voleva la beatitu­dine ed era già beato in terra - sì, era già beato in terra -, perché era sulla via della beatitudine, della beatitudi­ne propria e della beatitudine per gli altri; aveva scelto la via migliore, più potente, più saggia: far sentire che salva­re le anime vuol dire fare il maggior bene possibile, e non c'è felicità se non in questo: salvare le anime. Come non c'è maggior disgrazia, maggiore infelicità, che dannare le anime, che perdere le anime, che guidare le anime alla perdizione.
Voi siete chiamati a guidare le anime a Dio. lo, di qui, pregherò per voi! Don Orione mi diede questa consolazio­ne... Don Orione mi fece capire che, dicendo Ave Maria, posso fare tutto per tutti, posso parlare persino ai chieri­ci... E la dirò anche per voi I'Ave Maria, perché la Madon­na vi guidi sulla via della pace, sulla via dell'ubbidienza, e, ubbidendo voi ai superiori, vi conduca a far del bene, ad essere felici.
lo pregherò per voi; e voi scusatemi, se chiedo qual­che cosa: ricordatevi d'aver coraggio, coraggio e avanti! Ave Maria e avanti! E poi non soli in Paradiso, ma con tante anime, che voi avrete salvate col vostro ministero, con la predicazione, col vostro buon esempio sacerdotale! Ave Maria!...

IL MINISTERO DELLA PREDICAZIONE
Che bellezza, che bellezza saper predicare! poter pre­dicare! dire tutto ciò che è bene, spingere verso il bello, verso il buono, verso il vero, verso la via diritta! Attirare alla Confessione e alla Comunione.
Le prediche devono essere ben preparate. Non si de­ve dire: Tanto son contadini che ascoltano! Perché i con­tadini hanno buon gusto, come le persone istruite: le parole ben dette piacciono anche a loro.
Una volta passò di qui un confratello nostro, buon pre­dicatore. Alla predica era presente uno che non veniva mai in chiesa. Andando poi a casa, si rivolge alla maestra e le dice: - Se fosse sempre qui quel predicatore, non è che io verrei sempre in chiesa, ma verrei tutte le volte che lui parla!...
Bisogna rendere desiderabile la parola di Dio. È diffi­cile, ma l'impegno del Sacerdote ci sia! Rendere amabile la parola di Dio, perché la fede viene dall'udito.
Che bellezza saper predicare, poter predicare!... lo, in­vece, non posso predicare! Prima avevo paura anche a scri­vere, perché temevo sempre di sbagliare. Ma ora non ho più paura. Anche se scrivo qualche sproposito, il senso lo capiscono lo stesso! Scrivo, mettendoci il tempo che ci vuo­le; poi rileggo, aggiungo quello che non ho detto... Ma, par­lare è un'altra cosa!
Cerco, comunque, di dire qualche cosa, in privato, a quelli che vengono. Ed ecco quello che mi può capitare. Una volta, una signora, fece il commento alle mie parole così: - Ma quello lì ha perduto un po' la testa! Dice che è contento di stare al buio, che è una grazia fattagli dal Signore! Ha perduto la testa!...

SI PUÒ ESSERE FELICI
Prendo la forza a parlare dall'obbedienza, perché non bisogna essere solamente obbedienti ai superiori, ma - in ciò che non è male, in ciò che può essere bene - si deve anche essere obbedienti agli eguali. Ecco: io però non sono eguale a voi, che mi ascoltate, perché io in voi non voglio vedere altro che i futuri ministri del Signore, e perciò il minore, in questo momento, non parlerà ai mag­giori, se non perché i maggiori lo desiderano.
E non sa dire altro che promettere di fare il suo dove­re. È il dovere di un fratellino minore, sebbene vecchio di anni, che deve soddisfare verso i fratelli maggiori. Questo fratellino ha il dovere di pregare, ed ha una cosa uguale a voi, che è questa: di stare nel posto dove la Provvidenza vuole, e di sforzarsi di capire che questo posto è il miglio­re per lui.
lo dunque in questa sera, e domani, pregherò insieme a voi, qui in questa Casa ricca di tanti ricordi; e domani, se Dio mi concederà, ritornerò a essere spiritualmente in­sieme con voi, unito a voi, nell'obbedienza, nel dovere. Per voi ora il dovere è di studiare, di prepararvi a pre­dicare ai fratelli la buona parola evangelica. Ed io, direi qua­si nel nascondimento, pregherò Dio che mandi la pioggia sul vostro seme. II "vostro" ho detto: ma per essere seme di Dio non deve essere vostro, non deve venire da voi: ma è parola di Dio, che è potente, parola che voi dovete con­correre a rendere onnipotente con la preghiera. Voi siete canali della parola di Dio, che è potente, parola che voi dovete concorrere a rendere onnipotente con la preghie­ra. Voi siete canali della parola di Dio, e voi avete il dove­re di rendere pieno questo canale, perché possa partire da voi e darsi agli altri. Voi dovete santificare voi stessi, perché la parola di Dio non sia frustrata.
E la vostra parola, la parola che uscirà da voi, sarà quel­la della grande pace, che si può godere in questa vita. Per­ché in questa vita, si può essere felici. Ricordate chi vi dice questa verità: in questa vita si può essere felici! È un cie­co da ventotto anni, e un tubercolotico da 17 anni, che vi dice di essere felice! E chi ve lo dice sarebbe un bugiar­do, se non lo avesse provato. Perché non si può afferma­re, se non ciò che si è provato.
E la più bella pace, la più bella felicità, in questo mon­do, è quella che si trova nel fare il proprio dovere, anche se sotto la Croce del Signore, specialmente sotto la Cro­ce, unicamente sotto la Croce: perché la vera santità è sotto la Croce del Signore. Fuori della Croce siamo nella carne, e non nello spirito! Per essere nello spirito bisogna essere tali, che non resti qualche cosa alla carne. E, se non altro, la carne è la nostra volontà: la nostra volontà è carne.
E, quando voi sarete preparati, e quando vi presente­rete al popolo crocifissi, allora le vostre parole saranno ascoltate. Voi riceverete grandi frutti, quando vi presente­rete al popolo crocifissi! Perché, guardate, io sono un po­veretto - forse dirò un'eresia, e non vale dirla - ma quello che dico è questo: se una devozione non ha in sé lo spiri­to di Gesù Crocifisso, è falsa, è diabolica e inganno del diavolo: la vita di passione è la vera devozione. La predi­ca di Gesù, la novella che ha portato al mondo, è appunto la vita crocifissa, nella pace del Presepe, povero, e sul Calvario.
Ed io vi auguro questo: e l'augurio è piccola cosa, e vano, se non è unito alla preghiera. E questo vi prometto: di pregare per questo fine, perché siate santi successori dello spirito di don Orione, amici di Gesú Crocifisso, pre­dicatori di Gesù Crocifisso, eredi dello spirito di don Orio­ne, altrettanti don Orione, predicatori di Gesù Crocifisso, imitatori di Gesù Crocifisso.
lo pregherò per voi, come è mio dovere: ma voi, per carità, ricordatevi di me: di questo povero fratello, ultimo di tutti, ma che, nella sua bassezza, è felice, perché mi pare finora di stare nella volontà di Dio. E voi sarete felici, quando farete la volontà di Dio. La volontà di Dio autenti­ca si ha, quando ascoltiamo i superiori: la volontà di Dio è quando parlano i superiori.
La Madonna Santissima ci benedica e renda fecondo quel poco grano che io ho seminato! Sia lodato Gesù Cristo!

IN ALTO I CUORI!
...Coraggio, anime buone, sursum corda, in alto, in al­to, sempre più in alto dove ogni mestizia naufraga in un mare di gioia, in un mare di luce, in un mare di giocondis­simo amore, in un mare di purezza in uno sconfinato ocea­no di Vita, d'Immortalità. Siamo in esilio. Siamo nella valle del pianto; ma ogni nostra lagrima è di breve momento ed è seme di gioia senza fine.
Ecco la scienza che ne venne ad insegnare Gesù. Ec­co la scienza a tutti necessaria per non essere miserabil­mente ciechi, per non ignorare il più importante. Gesù, lasciandosi vincere dai suoi nemici ha vinto anche per noi; Gesù lasciandosi spogliare ci ha rivestiti di gloria e fatti pa­droni di un incalcolabile tesoro. Oh, accostiamoci a Gesù! Lasciamoci abbagliare dalla luce di Gesù e in questo ocea­no di luce e di gioia svaniranno le nostre pene, le nostre tristezze, le nostre malinconie e pregusteremo la celeste pace e nuoteremo nel gaudio Santo e ci sentiremo vicinis­simi a Lui, d'una vicinanza che ne fonderà nella calma, nella serenità, in una Divina Allegrezza già da questo cor­ridoio oscuro nel quale nulla di buono si trova se non il fi­ne, ossia, la meta radiosa che vuole essere da noi sempre fissata onde non ci smarriamo né ci scoraggiamo, né vol­tiamo ad essa il dorso, unica sciagura che potrebbe capi­tarne e che sarebbe irreparabile.
Ma guardando la meta, anche il buio diventa lumino­so, anche la tristezza diviene gioconda, anche I'inquetu­dine si muta in confidenza in Dio che genera grande pace e serenità...

SONO POVERO E PECCATORE
... Vi scrivo dalla vecchia cella di Sant'Alberto, ventino­venne testimone della mia vita tiepida e dissipata, dalla quale la Divina Provvidenza benignissi mamente mi allon­tanò onde più efficacemente aiutarmi ad incominciare una vita più conforme al Santo Vangelo di Gesù benedetto ed a ciò che don Orione si attendeva dei suoi Eremiti; ma pur­troppo l'albero è invecchiato e senza un miracolo di San­t'Alberto è impossibile togliermi le invecchiate cattive pieghe. Speriamo e preghiamo in questo miracolo.
Quanto a me cercherò di non accontentarmi più di so­le parole; ma di incominciare a sforzarmi per essere qua­le il Signore da tanti anni attende invano ch'io sia. Pregate voi pure per me onde cessi d'esser cattivo, perché il Si­gnore non ascolta le preghiere dei cattivi e se io che non so fare altro di buono al mondo che pregare, sono tale da non essere esaudito che ci sto a fare al mondo?! In che modo posso addimostrarvi la mia riconoscenza?!
Ma io so come devo fare? Imiterò il regolo (ufficiale re­gio) del Santo Vangelo e dirò a Gesù: "Signore, io non sono degno d'essere ascoltato; ma tu hai detto che senza di Te non possiamo far niente, dunque, fammi degno!...
... lo sono un povero peccatore che prega tanto per voi e per essere più facilmente esaudito mi sforzo di essere sempre meno peccatore, eppoi, anche per voi come per molti, domando al Signore e alla Madre del Signore tante consolazioni anche per questa vita che sì velocemente cor­re a suo termine.
Tutte le volte che invoco consolazioni per voi e per tut­ti i vostri cari pare che Gesù mi dica in modo come voles­se canzonarmi: "Come? Disgraziato cieco qual sei che neppure sai distinguere il giorno dalla notte, prigioniero in questa stanza che d'inverno a molti sembra orribile, che devi mangiare non quello che piace a te ma quello che pia­ce agli altri, che devi fare non quello che a te piace ma quello che piace agli altri, che devi essere sempre pronto a partire quando agli altri piace che tu parta, non hai pro­prio nulla da chiedermi proprio per te o tanto poco da pre­ferirgli queste piccole bagatelle degli altri?". Ma io allora gli rispondo: "Signore, ti chiederei il perdono di tutti i miei peccati, se non fossi certo che la tua infinita misericordia me li ha perdonati, perciò, per tutto ringraziamento ti di­co: Signore, colei (') che tu ami è inferma e Tu pietoso guariscila, confortala e la consola!...

L'AMICIZIA CON GESÙ
...Questa notte, prostrato dinanzi a Gesù eucaristico, gli ho promesso a nome mio e a nome vostro, eterna ami­cizia. Che grande fortuna di un'anima, quella di poter es­sere stretta con Gesù dai gloriosi vincoli d'una sincera amicizia! Gesù è l'unico amico sincero! Tuttavia pochi sin­ceri amici Ei trova tra quelli che hanno estrema necessità di Lui.
Gesù è morto per salvare dalla morte eterna ogni pec­catore, e il peccatore sa esporre la sua vita al pericolo, la sa pure sacrificare per un bene passeggero, per una cau­sa ingiusta, la sa pure ciecamente abbandonare nelle mani di falsi amici incapaci di fare il minimo sacrificio per Lui, e di Gesù diffida, e per Gesù non sa nemmeno alzare un piede da terra per un istante.
Oh, preghiamo, preghiamo che Gesù benignamente si degni togliere lo spirito di stupidità dal cuore della mag­gior parte degli uomini sicché incomincino una buona vol­ta a tesoreggiare non più per la terra, ma per il cielo soltanto...

VICINO AL TABERNACOLO
... Tu dici: "Venite a me, tutti..."? Se non lo dicessi Tu, o Signore, chi crederebbe che fosse vero? E se Tu non lo comandassi, chi si attenderebbe di accostarsi a Te?
Noè, uomo giusto, lavorò cento anni nella fabbricazio­ne dell'arca per salvarsi con poche persone. Ed io, in che modo mi potrò apparecchiare (in un'ora) a riceverti degna­mente, o Creatore del mondo? Mosè, Tuo gran servo e spe­ciale amico, fece l'arca di legno incorruttibile e la vestì d'oro purissimo, per riporvi le Tavole della Legge. Ed io, corrot­ta creatura, avrò ardire di riceverti con tanta facilità, Tu da­tore della vita?... Salomone, il sapientissimo re d'Israele, impegnò sette anni nell'edificare - a gloria del Tuo nome - un magnifico Tempio, e per otto giorni celebrò la festa della sua dedicazione, offerse in sacrificio mille ostie pa­cifiche e pure, e pose l'arca del Testamento in luogo ap­positamente preparato, con suoni di trombe e con giubili e canti solenni... Ed io, uomo infelice e poverissimo..., in che modo Ti introdurrò nella mia casa, io che appena so spendere divotamente una mezz'ora (e fosse pure, qual­che volta, anche più di mezz'ora? ... ).
O Signore Iddio mio, quanto si studiarono di fare quel­li per poterTi piacere! Ma ahimè..., quanto è poco quello che io fò, e quanto poco tempo occupo, quando mi dispon­go alla Comunione!... Rare volte sono tutto raccolto, raris­sime, senza qualche distrazione. Eppure, dinanzi alla Tua presenza, non mi dovrebbe venire nessun pensiero scon­veniente, e niuna creatura mi dovrebbe occupare, perché io debbo dare albergo al Signore degli Angeli. È ben grande la differeza fra l'Arca d'Iddio, con le sue reliquie, e il mon­dissimo Corpo di Lui, con le Sue ineffabili Virtù, fra i sacri­fici della Legge, che figuravano le cose future, ed il Sacrificio dei Tuo glorioso Corpo, compimento di tutti i sa­crifici antichi!
Oh! perché non mi accendo io tutto alla Tua adorabile presenza... e perché non mi apparecchio io con maggiore sollecitudine a ricevere tanto Sacramento, quando questi antichi santi Patriarchi e Profeti, Re e Principi - in pre­senza di tutto il popolo - mostrarono tanto affetto di de­vozione verso il culto divino?
Il divotissimo re Davide danzò a tutto suo potere, di­nanzi all'arca del Signore, rammentando i benefici già con­cessi ai suoi maggiori, fece diversi strumenti di musica, compose salmi e ordinò che si cantassero con allegrezza. Egli stesso di frequente sulla cetra, cantò ispirato dalla gra­zia dello Spirito Santo, ed ammaestrò il popolo d'Israele a lodare Iddio con tutto il cuore, e con voci accorate a be­nedirlo ed a ringraziarlo ogni giorno. Se dinanzi all'Arca del Testamento si ebbe allora tanta divozione e s'innalza­rono sì vive lodi al Signore, quanta riverenza e divozione non dovrà ora essere in me e in tutto il popolo cristiano, alla presenza del Sacramento e nel ricevere I'augustissi­mo Corpo di Gesù Cristo!
Corrono molti, in vari paesi, per visitare le reliquie dei Santi: e stupiscono nell'udirne le gesta, ammirano i mae­stosi edifici dei loro Santuari, e baciano (ravvolte in panni di seta e d'oro) le loro sacre ossa. Ed ecco che Tu sei qui, presente sull'Altare, vicino a me: Tu Dio mio, Santo dei Santi, Creatore degli uomini e Signore degli Angeli. Spes­so, in tali visite c'entra la curiosità degli uomini, la novità degli oggetti da vedere, e si ricava poco frutto di emenda­zione, massime quando (senza essere mossi da vera con­trizione) queste cose si fanno con troppa leggerezza.
Ma qui, nel Sacramento dell'Altare, sei Tu: tutto pre­sente, Dio mio e Uomo, Gesù Cristo! Qui, sempre, si rac­coglie copioso frutto di eterna salute, quando sei ricevuto degnamente e con divozione. A questo Sacramento, non ci attira leggerezza alcuna, né curiosità, né compiacenza di sensi: ma ferma Fede, divota Speranza e sincera Carità...

BEATITUDINE DELL'EREMO
...Eccoci, o dilettissimi fratelli, non per la prima volta a voi tutto rivolto, per comunicarvi, piacesse al Signore con­cedermi questa consolazione unica che ancora desidero e che ancora mi manca, tutte o almeno una parte delle con­solazioni che per pura grazia del Signore e della Madon­na, e nonostante i miei grandi demeriti, a me è dato ancora gustare in questa triste terra d'esilio. A questa beata soli­tudine dove l'Abate Alberto si fece santo e molti altri furo­no dai di lui esempi e consigli santificati, a quest'eremo silenzioso dove sì fortemente e soavemente Dio parla al­l'anima divota e l'anima parla al suo Dio; a questa oasi spi­rituale in cui il buon Dio ama ogni giorno farsi dall'anima divorare per renderla ogni dì di Lui più famelica; a questo asilo di pace in cui la santità, l'arte, la scienza, la poten­za, la ricchezza gareggiarono nel far opere ammirabili a lode perpetua della gran Vergine Maria; a questo posto si­curo, dico, giunge purtroppo, di tanto in tanto, il lontano e confuso rumore del mondo: voce di dolore e di pianto, strida di disperati, funebri, sataniche; clamori d'ira, d'odio, d'invidia, grida e canti di pazzi, voganti su mar tempesto­so, stoltamente affidati alla falsa e momentanea luce di stel­le filanti. Quale cecità scambiare le lucciole per stelle! Quale pazzia fuggire tanto lontano dal sole da abbisognar della lucerna! Eppure questa fu, è, e sarà sempre, la ceci­tà, la pazzia del mondo che si perde...».

GESÙ È QUI VICINO
...E la vostra devozione a Maria vi dia sempre più Ge­sù. E il sacerdote d'Iddio che offre il divin Sacrificio vi dia sacramentalmente Gesù. E il ministro della divina Miseri­cordia vi dia spiritualmente Gesù. Ed ogni passo che fate su questa terra sia grandemente meritorio per ascendere tra i primi posti nei Cieli.
Gesù compia queste e molte altre cose in vostro eter­no vantaggio. Gesù invogli tutti gli amatori del correre qua e là senza saper dove, ai pii pellegrinaggi che hanno per meta il Cielo, per via la Pace, per stella polare Maria, per missile modernissimo l'antichissima Croce di Gesù: sic­ché, presto, tutti quelli che corrono, corrano verso la Veri­tà, la Carità, la Ricchezza, la Salvezza, l'Immortalità, la Felicità. E qualcuno arrivi anche a Sant'Alberto, ma non per ritornare indietro, bensì per avanzare ancora, per ascendere..., finché vita avanzi, per vivere di Fede e d'A­more adorando il divin Prigioniero anche per quelli che Fe­de non hanno..., e preparandosi a dire "ti amo..." anche a chi li metterà in croce.
E il vero dire "ti amo..." è di amare sempre, ripeten­dolo rarissimamente, pronunciandolo lentissimamente, quasi sottovoce piuttosto che gridare, più sentito che detto.
Se fossi soltanto cieco, mi sarebbe quasi impossibile lo star fermo dove Iddio mi vuole. Ma Gesù mi favorì con alcuni speciali privilegi, sicché corazzò la mia debolezza di Sua santissima ed amabilissima Volontà. Uno di questi privilegi è una forte asma.
Se io dicessi: "Gesù, dispensami da questi privilegi per una settimana, affinché io possa (assieme con i miei fra­telli d'ombra) pellegrinare alla Casa da Te abitata", sarebbe come se Giovanni, invece di dire a Gesù: "Dove vuoi che prepariamo per mangiare la Pasqua?" avesse detto: "Mae­stro, il tempo di cui sul Tabor hai parlato con Mosè ed Elia è vicino, deh, concedimi licenza di recarmi a trascorrerlo su quella santa montagna su cui Tu ce ne parlasti".
A me è più giovevole godermi il Gesù fattosi Pane per essere (anche per me) quotidianamente sacrificato e da me adorato e divorato, che invidiare la sorte dei Magi e dei pastori e del santo vecchio Simeone e della profetes­sa Anna che se Lo strinsero tra le braccia, che desiderare di recarmi nella sacra Casa di Loreto, dove visse il Verbo, dove fu annunciato da Gabriele a Maria, e dove la sacra Famiglia visse in terra vita celestiale... Vadano tutti quelli che non sanno star fermi... Vadano fino a stancarsi, fino a cader sfiniti ai piedi della Madonna di Loreto, di Fatima o di Lourdes, o di Siracusa, o della Misericordia di Savo­na; e ai piedi della Madonna dicano: "Qui vivrò tutti i gior­ni della mia vita, amando il Signore allegramente".

GESÙ NOSTRO GRANDE MAESTRO
...Cosa infinitamente meritoria è visitare la Regina dei Cielo in una terrestre Sua sede, per dirle: "Noi crediamo all'infinito e onnipotente Amore materno che Gesù bene­detto pose in Te per noi".
O Maria, Tu sei la meraviglosa e provvidenziale inven­zione del divino Amore e della divina Misericordia per ar­rivare a tutti i cuori, a tutti i cuori ancora suscettibili di Amore e di Misericordia, di Luce e di Salvezza. O Maria, noi ci rifugiamo sotto il Tuo manto, come pulcini sotto le piume della chioccia. È per mezzo Tuo che dobbiamo ritornare a Colui che è l'Eterno, a Colui che è pure nostra origine e vuole pur essere nostro eterno fine beato.
Perché visitare un misero mortale, tanto misero che ai suoi fratelli nulla di buono ha da offrire di suo, nemmeno parole..., ma solo la serena e fiduciosa e lieta e amorosa accettazione di ciò che a Dio più piace e che all'uomo più ripugna...?
Oh, quanto è scoraggiante, per l'umano intelletto il ri­conoscersi buono a nulla! Eppure, tra il massimo ed il mi­nimo degli umani è sì corto spazio che la gloria del superbo (a chi ben pensa) è motivo di grande compassione, anzi­ché d'invidia.
Oh, quanto rettamente bramava (`aquila d'Avita", la serafica Teresa di Gesù, quando disse che avrebbe pre­ferito essere un verme per volontà d'Iddio piuttosto che un Angelo per volontà propria! Come questa Santa sapeva be­ne usare il verbo preferire! E quanto invece, per la mag­gior parte dei mortali, è facile usarlo a sproposito!
Questo povero cieco non sa far altro che pregare. E la sua preghiera è molto eloquente: ma non all'orecchio delle creature, bensì al Cuore del Creatore, che dall'eter­nità legge nell'intimo, e distingue le disposizioni del fari­seo superbo da quelle del pubblicano pentito ed umiliato. Com'è consolante pregare per quelli che già in Dio credo­no e sperano! Ma com'è pure cosa grande e confortata di sovrumana Speranza il pregare per tutti quelli che ancora non credono, né sperano, né sanno ancora pensare all'e­sistenza di Cosa infinitamente maggiore e più preziosa e più nobile della materia (nota pure ai grilli ed alle farfalle, agli orsi ed alle scimmie...), pregare per tutti, anche per quelli che si vergognano di farsi vedere inginocchiati con le mani giunte sul petto davanti ad un Altare luminoso di Verità vitale, luminoso di Luce, invisibile soltanto ad oc­chio accecato di sciocca superbia, e di inconsapevole cras­sa ignoranza e superstizione!...
L'uomo-Dio nacque a Betlemme (casa del pane) per essere il Pane di Betlemme. Per essere Gesù, il Pane del­la vita, Gesù, il vivo Pane del Cielo, disceso in terra per tutti salvare, tutti invitando a divorarlo con Fede e Amore; Gesù, Maestro divino dal Ciel disceso per invogliarne del­le cose del Cielo, per elevarne la mente ed il cuore al Pa­dre celeste, ed a pregarlo umilmente adorando la Sua immensa Maestà, per scongiurare la Sua infinita clemen­za, per invocare la Sua inesauribile Provvidenza che vo­lentieri dona anche a chi non prega, ma tanto brama d'esser pregata perché ciò tanta Luce e tanto conforto pro­cura ai Suoi figli...!
Gesù vero Maestro, Gesù Maestro divino, Gesù unico Maestro, ne insegna a pregare il Padre suo, ne invita ed invoglia a pregare non con ostentazione (come i farisei), non con molte parole (come i gentili), non in fretta (come quelli che non pensano a ciò che dicono), non sbadiglian­do (come fanno gli annoiati), non sonnecchiando (come fanno gli svogliati): perché questa sarebbe davvero un'a­zione indegna d'un essere ragionevole, quasi come lo è il non pregare Iddio. Ma pregare come il figlio che parla con l'amatissimo Padre suo, come amico al migliore degli amici, l'unico da cui possa sperare soccorso, come infer­mo al suo pietosissimo medico, il solo che possa guarire tutte le sue piaghe...
Impariamo da Gesù a pregare! Come Gesù, ritiriamo­ci dalla turba scioperata, da Gesù lasciamoci condurre nel silenzio e nel nascondimento. Gesù, allora, parlerà al no­stro cuore, si rivelerà alla nostra mente, diverrà la Gioia dell'anima nostra. Allora, avremo trovato quello che più gio­va per la nostra Pace: Gesù! Gesù crocifisso a Gerusalem­me e poi eternamente glorioso!
Gesù, in questo esilio, si presenta in atto di offrire il Suo giogo: pare che voglia spaventare quelli che vogliono se­guirlo, nascondendosi nella Sua Croce, nel Suo martirio. Ma chi ha Fede in Gesù, chi ama Gesù con tutta sincerità, nel giogo da Gesù offerto scopre uno scrigno niente affat­to vistoso, ma che contiene la vera Libertà, e nella Croce da Gesù suggerita la vera Felicità. Chi veramente cono­sce Gesù non può fare a meno di amarlo: e chi ama sin­ceramente Gesù brama dargliene continuamente prova.
Gesù è la grande manifestazione della Verità: conosce­re Gesù è conoscere la Verità, è essere nella Verità, nella Luce vera. La Verita discese dal Cielo per esser crocifissa in terra ed essere rimedio alla cecità degli stessi Suoi cro­cifissori...

VIENI, O MARIA!
Vieni, o Maria, vieni in questo nulla che ti brama! Dove sei Tu è luce, dove Tu sei è virtù, o Maria. Prega il tuo Dio per questo niente, che t'ama e che ti brama, che null'altro chiede che d'essere tutto trasfigura­to, tramutato tutto in Te.
Discendi in questa polvere ad ordinarvi il tuo regno; di­struggimi, sento che io sono deforme.
Fammi rinascere, e che, questa volta seconda, io na­sca da Te, o Vergine Immacolata, Madre dell'Uomo Dio e degli uomini puri. Fammi frutto benedetto del tuo vergi­ne seno. Generami tutto incorrotto e incorruttibile, come ogni nato da Te.
Vieni in me. Accoglimi in Te.
Fa che io vegga con gli occhi tuoi. Fa che io tutto oda con le tue caste orecchie. Concedimi che, d'ora in poi, so­lamente con l'umile tua bocca io possa rivolgermi a Dio e agli uomini. Soltanto con le tue pure mani fa che io sem­pre operi. Che le tue piante ovunque mi portino. Così non guarderò mai oggetto, né ascolterò né pronuncierò paro­la né correrò ad operare azione indegna di Te, indegna di Dio.
Madre, eccoti il mio piccolo, freddo cuore. Eccoti l'ani­ma mia imperfetta e incostante. Eccoti la mia mente, così ristretta e così poco illuminata. Eccoti tutte le mie mem­bra estremamente impotenti fiacche e vili. Ohimè qual mi­serabile dono è mai il maggior dono ch'io possa presentare! O Maria, dammi la tua persona, la mente, l'anima tua! O Maria, donami il tuo cuore, perché io possa amarti, per­ché io possa amare Iddio, Padre e Figlio e Sposo Tuo, per­ché io possa amarlo quanto io devo amare i miei fratelli e figli tuoi con tutto quell'amore, sì fecondo di bene, con cui li amasti Tu.
O Maria, insegnami ad essere umile, insegnami quel che sono io e quello che è Dio.
Partorisci, dentro di me, il Sole d'ogni giustizia e di ogni verità e fa che Esso in me sempre risplenda, e rendi puro questo mio frale, trasparente come purissimo cristallo, per­ché la verità rifulga davanti agli occhi d'ogni mortale, in tal maniera che tutti finiscano con l'amarla e seguirla fe­delmente. L'umiltà è frutto della verità. Fin che la verità abiterà dentro di me, l'umiltà sincera e profonda precede­rà e accompagnerà e seguirà ciascuno dei miei pensieri, ogni mia parola ed opera.
O Maria, mia celeste Madre, deh fammi ricco col divi­no tesoro della umiltà. Dove è questo bene v'è pure la so­vrabbondanza di ogni altro vero bene. Disadorno di tale virtù, come potrò ardire d'avvicinarmi a Te, o delle donne la più umile e la più esaltata? Deh ottienimi, o Maria, quel­la luce che ti svelò quel che Tu eri e quel che era Dio, on­de, con mio grande merito, null'altro mai abbia sotto lo sguardo mio, tranne l'estrema mia fiacchezza e totale nul­lità e gli insondabili tesori della divina bontà e longanimità e benignità e compassione.
Pace e gioia godrà inalterabilmente il mio cuore, quan­do sarà ben fondato sull'umiltà. E nel centro di questa pa­ce e di questa gioia, come re dal proprio trono, regnerà Gesù. Su tanta intima letizia e tranquillità passeranno an­cora ondate di pia tristezza, di salutare timore e, poscia, di maggiore gaudio santo; ma, passate che saranno, an­che esteriormente vedremo ristabilire la calma, la sereni­tà, il giubilo, e noi ci sentiremo fatti più capaci di goderne.
Oh come è dolce cosa, o Maria, conoscerti ed amarti! Chi ti conosce, o Maria, non può fare a meno d'amarti, e chi davvero t'ama fa sua delizia il pensare a Te, il parlare con Te, il ragionare di Te, il lavorare, il soffrire, il vivere per Te, o Maria.
Quanto meglio ti conoscerò, tanto più il mio cuore ar­derà d'amore per Te, perché Tu sei sovranamente ador­na d'ogni vera bellezza. La tua venustà è tutta intima; tuttavia mirabilmente traluce da tutto il tuo sembiante, o Vergine divinamente amabile ed amante.
Non ti chieggo il dono delle visioni, bensì ti chieggo di implorarmi da Gesù benedetto un accrescimento di fede. A Gesù, tuo Figlio, dimanda per me non quel granello di fede che mi renderebbe soltanto capace, con un sempli­ce detto, a trasportare i monti da un luogo all'altro, bensì quel tanto di fede che basti a mutare ogni mio atto, anche il più insignificante, in opera meravigliosa dinanzi a Dio, di gran lunga maggiore di quelle giudicate tali dagli uomi­ni mondani.
Maria, voglio rallegrarti, facendo sì che Tu possa ve­der ognora il mio cuore ardente. Amore per Te! Trascor­rerò il restante di mia vita meditando sulle tue eccelse virtù e adoperandomi, a tutto potere, affine di ricopiarle fedel­mente in me.
O Maria, Vergine Immacolata, siimi propizia. Fammi sempre sentire posato sopra di me il materno tuo sguardo. Oh qual dolce cosa è mai sentirsi amati da Te! Tu bel­la, Tu pura, Tu santa! Tu ardente d'amore per ogni giu­sto, ancora pellegrino su questa terra, Tu altresì tutta compassionevole verso i poveri peccatori!
Deh chiamami a partecipare il più possibile alla bellez­za, alla purezza, alla santità della tua dilezione e della tua misericordia.
Vivere di questa vita è pregustare le delizie del Para­diso e fare che queste delizie siano da tutti gustate...

AVE MARIA
Ave, Maria! sempre! Ave, Maria! e avanti! Ave, Maria! e sempre più in alto! Ave, Maria! con sempre più grazia! Ave, Maria! con sempre più pace! Ave, Maria! con sempre più luce di vivida fede! Ave, Maria! con sempre più giocondità di speranza! Ave, Maria! con sempre maggior ardore di carità!
Quando ci vediamo nelle tenebre, apriamo i veri occhi, gli occhi dello spirito alla vera luce, dicendo: Ave, Maria!
Quando ci sentiamo sconfortati e attendiamo verace ed abbondante conforto, andiamo dicendo: Ave, Maria!
Quando ci vediamo debitori verso Iddio e verso gli uo­mini, per pagare ogni nostro debito diciamo e ripetiamo instancabilmente: Ave, Maria!
Quando il diavolo o un mortale o la nostra superbia ci glorierà per le nostre buone opere, mai ascoltiamo queste voci lusinghiere ma umiliamoci e diamo gloria a Dio dicen­do, senza mai stancarci, Ave, Maria!
Ave, Maria! sino alla morte!
Ave, Maria! per non precipitare all'inferno, quando ne sembra d'essere sull'orlo!
Ave, Maria! per spiccare il volo verso il Paradiso! Ave, Maria! sino al Cuore di Maria!
Ave, Maria! sino al Cuore di Gesù!