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giovedì 31 gennaio 2013

sceneggiatura del film una Vita di Gesù

 sceneggiatura del film una Vita di Gesù
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A Maurice Cloche - Parigi

Don Lorenzo Milani aveva visto, di questo regista francese, il film Monsieur Vincent, dedicato alla vita di san Vincenzo de' Paoli. Allora gli scrisse proponendogli di realizzare una Vita di Gesù. Il regista gli chiese. di preparargli la sceneggiatura del film.

San Donato a Calenzano, 15.2.1952

Caro signor Cloche,
la sua lettera mi ha molto rallegrato. Quasi non speravo in una risposta. Temo tuttavia di essermi espresso male. Non avevo alcuna intenzione di scrivere un film. Io le suggerivo di scriverlo lei stesso oppure di. incaricare qualcuno che ne sia capace.
La mia preparazione è esclusivamente ecclesiastica (rurale!) e non ho la più elementare nozione d'arte o di cinema. Tutto quello che potrei fare è di studiare uno schema generale (indicando i caratteri essenziali della vita di Gesù) dal punto di vista catechistico e dell'apostolato.

Ma ciò non può bastare: una sceneggiatura di questo genere non può essere che il frutto della collaborazione di molti specialisti (ambiente ebraico, testo evangelico, lingue orientali, teologia, ecc.). Per commentare il Vangelo non c'è poesia più alta che la scrupolosa ricerca scientifica del vero significato di ogni parola e atto del Signore. La scienza in altri casi così fredda è qui calore di vita, la sola capace di rianimare pagine morte, scritte in lingue morte, vissute in un mondo geograficamente storicamente e spiritualmente lontano.
Faccia dunque, la prego, un film che abbia l'austerità di un documentario scientifico, fonte d'informazione utile per lo specialista e nello stesso tempo appassionante testimonianza per l'analfabeta. Il ricco e il povero (di cultura) hanno lo stesso diritto di conoscere il loro Maestro com'era, «senza glosse ».

Guardi la crocifissione! I quattro evangelisti ci dedicano un mezzo versetto appena. Non una parola d'indignazione, d'amore, di pietà, di fede. E ciò nonostante, è la loro fredda cronaca che da duemila anni incendia il mondo.
Ed ecco alcune idee provvisorie (io non ho avuto evidentemente il tempo di pensarci seriamente). Lo scopo del film deve essere, secondo me, catechistico. La massa ha oggigiorno una conoscenza della vita di Gesù:
1) ricevuta nell'infanzia = infantile
2) ricevuta irregolarmente = episodica
3) ricevuta da maestri o libri non scientifici, sentimentali ecc. non concreta, idealizzata, divinizzata, fiabesca.

Il film dovrà dunque:
1) Considerare gli spettatori come adulti. Far loro capire che la storia che hanno sentito nella loro infanzia non era che un riassunto ad usum Delphini d'un fatto rigorosamente storico. Ergo: fedeltà assoluta al testo evangelico, al suo spirito, alla mentalità dell'epoca e dell'ambiente, alle notizie geografiche e storiche e archeologiche, agli ultimi studi di cronologia e d’interpretazione...

2) Affinché la vita di Gesù non sembri che un seguito di episodi staccati: vedere p. es. lo studio magistrale del padre Lebreton su ciò che chiama (se non mi sbaglio) « la paziente pedagogia di Gesù» (‘Histoire du dogme de la Trinité’, vol. I, e ‘Vie de Jésus’).
Gesù non ha dato il suo insegnamento tutto d'un colpo. Ha giorno per giorno studiato i suoi ascoltatori e dosato le sue parole sulla loro capacità progressiva di riceverlo. Questa lotta quotidiana contro l'indifferenza, il dubbio, l'incomprensione, la durezza di cuore e di testa dei suoi ascoltatori è il filo conduttore della sua vita. Seguendolo si assicura al racconto una appassionante unità. Basta mettere gli spettatori nei panni di Gesù, far loro studiare attentamente le reazioni degli ebrei (folla, farisei, apostoli, Giuda ecc.). Entreranno così, pur non vedendo mai il Cristo, nel centro stesso della sua anima. Vivranno con Lui ansie, gioie, dolori... E sarà la più profonda conoscenza di Lui che essi potranno avere.

Le do alcuni esempi:
Al principio Gesù non giudicò di poter predicare diversamente dal Battista (penitenza). Dopo salì uno scalino (ma sempre nel campo della preparazione dei cuori a ricevere i grandi insegnamenti): Discorso della Montagna.
Durante questo tempo ha nominato il Regno. Dovette presto constatare che era stato frainteso. La parola aveva troppo infiammato le speranze temporali dei giovani. Allora Gesù dovette diminuire il loro entusiasmo precisando che cosa il Regno era. nella sua intenzione (Giornata delle parabole del Regno).
Ma, ciò nonostante, l'entusiasmo delle folle sempre più numerose crebbe ancora. È sul punto di concretizzarsi nell'elezione di Gesù Re.
Allora Gesù fu forzato a dare il primo colpo dogmatico (Discorso del Pane di Vita). Sapeva bene di perdere così le masse, ma il suo dovere era di insegnare.

L'entusiasmo delle folle che era arrivato al culmine si spezza di colpo. L'apostolato in Galilea è finito.
Possiamo misurare il dolore del Signore sui visi indecisi dei dodici restati. Non gli resta che un anno di vita. Decide .di concentrare tutti i suoi sforzi sulla formazione dei dodici che dovranno dopo la sua morte riprendere l'opera interrotta (Viaggi all'estero). Anche con loro la pedagogia di Gesù è pazientemente progressiva. Un colpo alla botte, un colpo al cerchio! Li ubriaca d'entusiasmo descrivendo loro la potenza della Chiesa (Banias) e immediatamente dopo li immerge nella delusione dolorosa della profezia della Passione (Mt. 16.21).

Sei giorni dopo lo stesso gioco: dalla gloria della sua divinità (Trasfigurazione) alla mortificazione della croce (Mc 9.10: «e si domandavano gli uni e gli altri quello che voleva dire... »; 9.32: «non capivano questi discorsi e temevano d'interrogarlo »; Mt 11.23: «e furono molto rattristati »). Era duro, .ma facendo così li conduceva per mano all'intuizione del mistero dell'Incarnazione.
L'ultimo capitolo è l'apostolato in Giudea. Anche là il grande scandalo (durante la Festa della Consacrazione, Giov 10.22).
(Nel mio catechismo ne fo un episodio centrale. Raggiungo questo fine conducendo i ragazzi a cogliere l'enormità della bestemmia di Gesù come se fossero dei farisei. Se si drammatizza bene il tentativo di lapidazione e la conseguente fuga in Perea l'importanza della dichiarazione dogmatica si imprime nella memoria in modo incancellabile).


Gli apostoli non dimenticheranno così presto la paura che ebbero quella sera. Non vivono a loro agio che lontano da Gerusalemme. Non hanno capito che Gesù non è fuggito per sottrarsi alla morte, ma per poter morire la sera di Pasqua. Non vorrebbero correre rischi nemmeno quando si tratta di salvare l'amico Lazzaro.
Qualche settimana dopo si incammina per l'ultima volta verso Gerusalemme. Gli apostoli sono combattuti tra la paura e il coraggio (Mc 10.32). Ma via via che constatano il crescente entusiasmo popolare (causato dalla resurrezione di Lazzaro, Giov 12.18) la paura fa posto a una euforia infantile.
A Gerico la folla è così grande che Zaccheo deve arrampicarsi su un albero, il cieco grida la sua fede messianica.

L'entusiasmo degli apostoli è tale che non si accorgono del dramma interno del loro Maestro. È una donna la sola che capisce che il festeggiato va alla morte (Giov 12.1).
L'entusiasmo delle Palme si spenge nel recinto del Tempio, fortezza degli avversari.
Solamente i ragazzi non avendo questa malizia continuano l'osanna.
Nel silenzio prudente della folla il «grano di frumento» (Giov 12.24) dovrebbe strappare le lacrime.
Il resto della Settimana Santa procede più o meno come ognuno sa, ma il film potrebbe attardarsi a studiare la genesi psicologica del « crucifige »: il buono preso alla sprovvista, l'indifferente trascinato, il cattivo che si sforza di dimostrare a se stesso che ha ragione.

Quando vedremo sul Calvario deserto l'ombra della Croce, l'indifferenza dei passanti sarà più tragica che mai perché dal momento che Egli è morto hanno la prova materiale che non era il Cristo.

3) È strano, ma oggi è più facile che si creda Gesù Dio che Gesù uomo. Il film dovrà far capire a fondo che cosa significa in concreto « la Parola si è fatta carne ».
Immagini di Palestina (paesaggi, case, strade, mercati, lavori, visi, occupazioni domestiche, miseria, sporcizia, ecc.) daranno un'idea più precisa che molte parole. Andare a fotografare dal vero la fame che tormenta oggi la Palestina ci darà il più giusto sfondo alla Vita del Signore. Un popolo di schiavi, folle senza. pane, bambini rachitici, sofferenze di tutti i generi (il vostro Monsieur Vincent!), ecco il mondo che Gesù ha abbracciato.
Il disoccupato e l'operaio d'oggi dovranno uscire dal cinema con la certezza che Gesù è vissuto in un mondo triste come il loro, che ha come loro sentito che l'ingiustizia sociale è una bestemmia, come loro ha lottato per un mondo migliore.

Tocca a lei decidere se sarà meglio fare tutto il film in prima persona (Gesù nell'obbiettivo) o se si potrà fare delle eccezioni. Nel secondo caso suggerisco per es. le scene seguenti:
Gesù ragazzo a scuola.
Dieci o venti ragazzi sono seduti per terra. Lo spettatore sa che uno di loro è Lui, ma non sa quale.
La stessa scena sul Giordano.
Il Battista punta il dito verso la folla: «Ecce agnus Dei... ». Tutti gli occhi si girano da questa parte per vedere il Cristo, il Re tanto atteso. Infine anche l'obbiettivo inquadra quel punto: nove o dieci visi di giovani pellegrini sorpresi.

Quale sarà Lui? Non si sa, uno qualunque di loro, non ha importanza, ciò che ci interessa è che nel gruppo indicato dal Battista non si vede nulla di speciale. Gesù è là, ma è talmente uomo che non si può riconoscerlo fra gli altri.

Stessa scena all'arresto.
L'obbiettivo inquadra i dodici visi. Se Giuda non avesse promesso di indicare Gesù non si sarebbe potuto riconoscerlo (Mt 26.48). Ma quando Giuda si muove l'obbiettivo è già su di lui, scava nei suoi occhi (Gesù è di nuovo soggetto che soffre cercando invano sul viso del suo infelice amico un segno di ravvedimento ).
Queste tre scene o altre di questo genere potrebbero impedire che il film dia l'impressione che questo invisibile Gesù. abbia una carne diversa da quella degli altri personaggi. Ma forse non saranno necessarie e basterà vedere convergere gli occhi su Gesù-obbiettivo per avere la percezione esatta. della sua localizzazione e quindi l'evidenza che ha un corpo.
Al contrario si potrebbe forse presentare in scena Maria. Qualche episodio della sua vita di orfanella a Nazareth potrebbe introdurci nell'ambiente ebraico l'attesa del Cristo, la religiosità profonda che pervade tutta la vita di questo piccolo popolo d'altra parte casi infelice, forse volgare, primitivo, urtante, brutale per un'anima come Maria. Ma nello stesso tempo la tristezza dei peccatori senza speranza di perdono, dei paralitici senza speranza di paradiso, qualche invocazione o forse imprecazione al Cristo che non viene, faranno capire allo spettatore quanto l'ora fosse matura, urgente la necessità della Sua venuta (legga per es. l'Ecclesiaste!!!).

A proposito, sarebbe bene conoscere uno di quegli infelici fin dall'infanzia. Seguire in lui la nascita della fede. Affinché quando il miracolo spunterà non sia un episodio qualunque staccato dal contesto, ma qualcosa di vivo (di nostro), d'atteso, quasi di necessario.
Si potrebbe anche studiare la possibilità di inserire (molto discretamente e di rado) la nostra preghiera nel racconto. È un ardimento usato qualche rara volta anche dal padre Lagrange (e da qualche pittore del Rinascimento e nel Passio di Bach, se non mi sbaglio).

Mi permetto di consigliare la lettura di qualche libro francese. Ma forse lei li conosce già:
1) Lagrange o.p., ‘L'Evangile de Jésus Christ’ (con una preziosa Sinossi dei 4 Vangeli) (secondo me questi due libri dovrebbero essere la guida fondamentale del film);
2) Lebreton, ‘Vie de Jésus’;
3) L. de Grandmaison, ‘Jésus Christ’;
4) Prat, ‘Jésus Christ: sa vie, sa doctrine, son œuvre’ (molto meno ispirata degli altri, ma in pratica molto utile).
Conosce la rivista «Fetes et saisons»? Ci si vede alle volte delle foto della Palestina (numeri. 58, 50, 37 ecc.). Le cerchi, ne vale la pena. E un film sarebbe tanto di più che una foto!

Se al contrario non fosse possibile fare il film in Palestina si potrebbe tentare un fìlm tutto differente: abiti moderni, visi europei. L'esattezza scientifica solamente nello studio psicologico.
(Conosce il quadro moderno francese ‘Jésus et la samaritaine’ [in un bar!]? Non mi ricordo l'autore, ma l'ho visto su ‘Le Christ dans l'art français’ del padre Doncoeur. Lo cerchi, la prego).

Spero che lei abbia avuto la pazienza di leggere questa lunga lettera. Ripeto che nulla di quanto ci ha trovato deve essere preso per definitivo o sufficientemente meditato. Ho scritto in fretta, il mio solo scopo era di incitarla a fare veramente il film. Lei potrebbe fare tanto bene!
Riprendo il mio catechismo; se crede di potere in futuro servirsi della mia collaborazione ne sarò felice. Se al contrario preferirà servirsi di altri preti, lo faccia senza riguardi. Queste poche idee appartengono a lei, ne può fare quello che vuole.
Con affetto suo


Lorenzo Milani

Il quaderno verde



                         Il quaderno verde                  
                                   ***                                               

Che mi importano le controversie, e le sottigliezze dei dottori. - In nome della scienza essi possono ben negare i miracoli; in nome della filosofia, la dottrina, in nome della storia, i fatti. - Possono ben mettere in dubbio l'esistenza stessa di Lui, e attraverso la critica filosofica sospettare l'autenticità dei testi. - Provo persino piacere che vi riescano, poiché la mia fede non dipende per nulla da tutto ciò.
Tengo tra le mani questo piccolo libro e nessuna polemica lo sopprime né me lo toglie; lo tengo fermamente e posso leggervi quando voglio. - Dovunque l'apra esso risplende in un modo veramente divino; e tutto ciò che gli si può opporre non potrà nulla contro di ciò. - Ecco come il Cristo sfugge e non certo con l'astuzia o con la forza a quelli stessi che vengono per arrestarlo; e come quelli, di ritorno presso i Pontefici, quando i Pontefici e i Farisei domandarono loro: Perché non ce l’avete condotto? - Quare non adduxistis illum? - rispondono: Numquam sic locutus est homo. - Mai uomo ha parlato così - sicut hic homo - mai ha parlato come parla quest'uomo. (Giovanni,VII, 46).
Leggo, nella prefazione ai Vangeli della mia Volgata, che se «invece di considerare gli apostoli testimoni che riferiscono quanto hanno visto e inteso, si volesse ritenerli, come lo suppongono i razionalisti, scrittori che inventano quanto dicono, sarebbe il caso di dire con Rousseau, essere l'inventore allora molto più sorprendente dell'eroe stesso ».
Non sapevo che Rousseau avesse detto ciò, ma anch'io lo penso, come penso pure che non si tratta di credere alle parole del Cristo perché il Cristo è Figlio di Dio - quanto di comprendere che egli è figlio di Dio perché la sua parola è divina e infinitamente più alta di tutto ciò che l'arte e la saggezza degli uomini possano proporci.
Questa divinità mi basta. - Il mio spirito e il mio cuore restano appagati da questa prova. - Ciò che in più vogliate aggiungervi l'oscura.
Perché il Cristo è figlio di Dio, hanno detto, per questo dobbiamo credere alle sue parole. - E altri ne son venuti che non hanno più tenuto conto delle sue parole perché non hanno ammesso che Gesù fosse il figlio di Dio.
Signore, non perché mi sia stato detto che voi eravate il figlio di Dio, ascolto la vostra parola; ma la vostra parola è bella al di sopra di ogni parola umana, e da questo io riconosco che voi siete il figlio di Dio. Per quale assurda modestia, quale umiltà, quale vergogna, ho io fino ad oggi differito di scrivere ciò che da tanti anni urge in me.
Aspettavo sempre più saggezza, più cultura, più conoscenza, come se la saggezza degli uomini non fosse follia dinanzi a Dio.

Signore, io vengo a voi come un fanciullo; come il fanciullo che voi volete che io divenga, come il fanciullo che diviene chi si abbandona a voi. - Ripudio tutto ciò che costituiva il mio orgoglio e che dinanzi a voi farebbe la mia vergogna. - Ascolto soltanto e vi sottometto il mio cuore.

Il Vangelo è un piccolo libro molto semplice, che bisogna leggere in tutta semplicità. - Non si tratta di spiegarlo, ma di ammetterlo. Esso non ha bisogno di commenti e ogni sforzo umano per chiarirlo, l'oscura. - Non ai sapienti si rivolge; la scienza impedisce di potervi nulla capire. - Vi si accede con la povertà di spirito. 

 GIDE ANDRÉ (1869-1951) Il quaderno verde

ci sia concesso di diventare Tuoi contemporanei

 ci sia concesso di diventare Tuoi contemporanei
***
Son diciotto secoli da quando Gesù Cristo camminava quaggiù; ma quest'avvenimento non è come gli altri che, una volta passati, entrano nella storia e che, trascorso gran tempo, cadono nell'oblio. No, la sua presenza quaggiù non diventerà mai un fatto passato, né, di conseguenza, un fatto sempre più passato, se la fede esiste ancora sulla terra; ove e non appena manchi, la vita terrena di Cristo diventerebbe un fatto remotissimo. Ma fintantoché esiste un credente, bisogna che, per esser divenuto tale, egli sia stato, e che, come credente, sia contemporaneo alla presenza del Cristo né piu ne meno della generazione a lui contemporanea; contemporaneità che è condizione della fede, o meglio, è la fede stessa. Signore Gesù, ci sia concesso di diventare Tuoi contemporanei, vederTi come e dove realmente passasti sulla terra, e non nella deformazione di un ricordo vuoto, frutto di un'esaltazione priva di pensiero o nutrita delle ciance della storia, giacché questo non è l'aspetto dell'umiltà in cui Ti vede il credente e nemmeno potrebbe essere quello della gloria in cui nessuno ancora Ti ha visto. VederTi qual sei, fosti e sarai fino al Tuo ritorno in gloria, segno di scandalo e oggetto di fede, uomo umile eppure salvatore e redentore dell'umanità, venuto sulla terra per amore a cercarvi gli smarriti, a soffrire e a morire, eppure ansioso, - ahimè - a ogni passo e ogni volta che chiamavi uno smarrito, a ogni gesto della mano levata a far segni e miracoli, e ogni volta che senza levarla pativi indifeso l'ostilità degli uomini, ansioso di ripetere sempre: « Beato colui che non si sarà scandalizzato in me! ». Concedi a noi di vederTi così e di non scandalizzarci di Te.
Colui che invita
Colui che invita è dunque Gesù Cristo nella sua umiliazione; è lui che ha pronunciato quelle parole d'invito. Non le pronuncia dall'altezza della sua gloria. Se così fosse, il cristianesimo sarebbe paganesimo, e Cristo sarebbe un mito; quindi non è vero che sia così. Ma se fosse vero che colui il . quale siede in gloria pronunciò quelle parole: « Venite...'», quale meraviglia allora che tutta una folla corresse a gettarsi a capofitto nelle braccia della gloria? Ma quelli che corrono così sono degli stolti che credono di sapere chi è Cristo. Nessuno lo sa; e per credere in lui bisogna cominciare a vederlo nella sua umiliazione.
Colui che invita, colui che dice quelle parole, colui quindi le cui parole sono quelle parole - mentre le stesse, in bocca a un altro, sono un errore storico - è il Gesù Cristo dell'umiliazione, l'umile nato da un'umile vergine; suo padre è un falegname, imparentato con al-tra umile gente della più povera classe sociale; è l'umile che, inoltre, ha detto di essere Dio, versando così dell'olio sul fuoco.
E il Gesù Cristo dell'umiliazione che ha proferito quelle parole. E tu non hai il diritto di appropriarti di una parola di Cristo, nemmeno di una sola; tu non hai la minima parte in lui, né la più lontana relazione personale con lui se non sei divenuto suo contemporaneo nella sua umiliazione in tal maniera da esserti indispensabile, proprio come agli uomini del suo tempo, di diventare attento alla sua esortazione: « Beato colui per cui io non sono occasione di scandalo! ». Tu non hai il diritto di impadronirti delle parole di Cristo e di sopprimerlo falsandole; non hai il diritto di impadronirtene e di fare di lui non so quale personaggio fantastico a opera delle chiacchiere della storia che, quando parla di lui, non sa assolutamente di che va cianciando.
E' il Gesù Cristo dell'umiliazione che parla; è storicamente vero che egli ha proferito quelle parole; ma è falso che esse siano state dette da lui,se si cambia la sua realtà storica.
Si tratta dunque dell'uomo umile e povero accompagnato da dodici discepoli miserabili della più bassa condizione sociale, per un certo tempo oggetto di curiosità, più tardi senz'altra compagnia che quella dei peccatori, dei pubblicani, dei lebbrosi, dei pazzi; giacché al solo accettare il suo soccorso ne sarebbe andato di mezzo l'onore, gli averi, la vita, incorrendo comunque nell'espulsione dalla sinagoga, castigo, come sappiamo, appositamente stabilito per quel caso. Venite, adesso, voi tutti che siete affaticati e oppressi! Oh, amico mio, se tu fossi sordo, cieco, storpio, lebbroso, colpitoda un altro male; se, cosa che non si è mai né vista né sentita, tu riunissi nella tua miseria tutte le miserie umane, e se egli volesse soccorrerti con un miracolo, potrebbe allora darsi (tale è la nostra natura che, più di tutte quelle sofferenze, tu temessi il castigo in cui si incorre accettando il suo soccorso, il castigo d'essere bandito dalla societa', d'essere schernito, insultato giorno per giorno, di perdere forse la vita. Sarebbe umano (perché tale è la nostra natura) che tu pensassi: no, grazie, preferisco restar sordo, cieco ecc..., piuttosto che ricevere un simile soccorso.
« Venite, voi tutti che siete affaticati e oppressi; venite, egli vi invita, apre le braccia! » Quando un bell'uomo in seriche vesti lancia quelle parole con voce gradevole e sonora la cui eco armoniosa rimbomba sotto la maestà delle volte, un fantoccio che ci si onora e ci si vanta di ascoltare, quando un re in mantello di porpora e di velluto le proferisce davanti all'albero di Natale da cui pendono tutti i magnifici doni che egli sta per distribuire, allora c'è del senso in queste parole, nevvero? Ma qualunque sia la tua opinione, una cosa almeno è certa: questo non è cristianesimo ma esattamente il contrario, e non potrebbe essere più contrario di così: perciò bada alla persona che invita!
E ricorda tu stesso perché ne hai il diritto; al contrario non abbiamo quello, di cui così spesso ci serviamo, di ingannare noi stessi. Che un uomo di tale aspetto, la cui compagnia è fuggita da tutti coloro che hanno ancora un briciolo di buon senso nel cervello e un po' di considerazione da perdere in questo mondo, che tal uomo (veramente, c'è niente di più assurdo e di più folle? Non si sa se riderne o piangerne!) che tal uomo (veramente, è l'ultima parola che ci aspetteremmo da parte sua; perché si comprenderebbe meglio che egli avesse detto venite ad aiutarmi; oppure: lasciatemi in pace; oppure: risparmiatemi; oppure, pieno d'orgoglio: io vi disprezzo tutti), che tal uomo dica: « venite a me! ». L'invito sembra veramente incoraggiante! E continua: « Voi tutti che siete affaticati e oppressi », come se costoro non avessero già un sufficiente fardello da trascinarsi dietro, per esporsi ancora, per soprammercato, a tutte le conseguenze di essersi messi dalla sua parte! E infine: « io vi darò il riposo ». Non mancava che questo; egli vuole soccorrerli! Fra i suoi contemporanei, anche il più benevolo dei beffeggiatori, direi, avrebbe gridato: « ecco l'ultima cosa di cui dovrebbe curarsi: soccorrere gli altri quando egli stesso è in tale imbarazzo! Come se un mendicante si lamentasse presso la polizia d'essere stato derubato. Infatti c'è contraddizione nel lamentarsi d'essere derubato quando non si possiede nulla, non si è mai posseduto nulla; e, ugualmente, pretendere di soccorrere gli altri quando abbiamo noi stessi il più gran bisogno di soccorso ». Per la ragione umana, la folle contraddizione è di sentire colui il quale non ha letteralmente un posto dove posare il capo, colui del quale è stato detto con tanta verità umana: « Ecco l'uomo! » gridare: « Venite a me, voi tutti che soffrite, io vi consolerò ».
Prova te stesso ora - poiché ne hai il diritto, ma non il diritto di lasciarti convincere dagli « altri », senza studiare te stesso, o convincerti da te stesso che sei cristiano - prova dunque te stesso ora, immagina di vivere come suo contemporaneo! Senza dubbio, lui, oh! lui, lui ha detto di essere Dio! Più di un pazzo si è dato per tale, e tutta la sua generazione ha giudicato:
« costui bestemmia ». Si, per questo motivo si andava incontro a un castigo accettando il suo soccorso; l'ordine costituito e l'opinione pubblica davano prova di una pia sollecitudine per le anime nel vigilare a che nessuno si lasciasse traviare: si perseguitava per amor di Dio. Prima dunque di risolversi ad accettare il soccorso, bisogna considerare che ci si espone non solo all'opposizione degli uomini, ma considerare anche, quanto più si è capaci di sopportare tutte le conseguenze di questo passo, che il castigo umano rappresenta in questo caso lo stesso castigo divino che colpisce colui che bestemmia, colui che invita!
Venite, ora, voi tutti che siete affaticati e oppressi!
Non c'è motivo di affrettarsi: facciamo una breve sosta che servirà per svoltare in una strada vicina. E se, qualora tu fosti contemporaneo, non vuoi svignartela per un'altra strada, o se, nella cristianità, non ti esimi dall'essere cristiano, fai allora una lunga sosta, condizione necessaria alla fede: tu sei fermo alla possibilità dello scandalo.
Tuttavia, per rendere ben chiaro e attuale che la sosta sta nella persona stessa di colui che invita, che sosta egli stesso e che rende l'accoglimento dell'invito una cosa non del tutto facile e naturale, ma speciale (in quanto non si può accogliere quest invito senza accogliere anche colui che invita) prenderò a esaminare la sua vita sotto due aspetti apparentemente diversi, ma posti entrambi, essenzialmente, sotto la categoria dell'umiliazione. Perché, trattandosi di Dio, è sempre un 'umiliazione essere uomo, foss'anche il Cesare dei Cesari, ed egli non è, essenzialmente, più umiliato per essere un uomo umile e povero e, come aggiunge la Scrittura, coperto di insulti e di sputi.

 KIERKEGAARD SÒREN (1813-1855) Invocazione

lunedì 28 gennaio 2013

Il desiderio
                                      ***                                             

Il desiderio mi brucia
il desiderio di cose belle
che ho viste e non vissute.
Il desiderio mi brucia
ed impera ardente e solo
nel mio cuore e nel mio cervello.

Desidero tante cose
che ho viste in trasparenza
di musica fiori e profumi.
Di luci e di brusii strani
che avvicinami l'anima alla poesia.


Che è questa voce?
E' il mio violino che canta
[strano. Eppure io non ci sono!]
E questa vertigine insolita?

E' quello che provo quando La vedo.
Tutto pare uno strano capogiro di febbre
pieno di tanti frantumi di cristallo
che scintillano e tintinnano
tintinnano, tintinnano e scintillano
ed in questa vertiginosa ridda
ancora la vedo, bella e quasi assente
immensamente bella
ma lontana
lontana
lontana
come la musica
come l'inebriante profumo
come le luci che ora sono
nel silenzio spente.


CESARE PAVESE

domenica 27 gennaio 2013

IL CUORE

IL CUORE
 ***
Ognuno di noi, nel profondo della sua anima, sa bene cosa è giusto e cosa è sbagliato, è come se tutti avessimo una bussola dentro, una bussola segreta che indica a ognuno di noi la stessa direzione. E' questa la Legge Morale.

Anna Frank
Ognuno di noi, nel profondo della sua anima, sa bene cosa è giusto e cosa è sbagliato, è come se tutti avessimo una bussola dentro, una bussola segreta che indica a ognuno di noi la stessa direzione. E' questa la Legge Morale.

Anna Frank

Odio coloro che mi tolgono la solitudine senza farmi compagnia

***
 
Odio coloro che mi tolgono
la solitudine senza farmi compagnia

Nietzsche

LA MIA BELLISSIMA SIENA ALLA RICERCA DELLA SUA ANIMA

LA MIA BELLISSIMA SIENA ALLA RICERCA DELLA SUA ANIMA


27 gennaio 2013 / In News

Scivolare sulla finanza derivata. Tragicomico destino quello del Monte dei Paschi, l’unica banca – che io sappia – che sia stata celebrata in un’opera letteraria: i “Cantos” di Ezra Pound.
Celebrata dal poeta americano perché nei suoi Statuti seicenteschi scoprì una banca per il popolo che si fondava sulla fertilità della terra e sul lavoro, al contrario del modello della Banca d’Inghilterra.
Siena per Pound era il simbolo della lotta allo strapotere della finanza e dell’usura.
Non so se ora Siena perderà la “sua” banca. Mi addolora molto di più che – da tempo – abbia perso la sua anima. “Che vale all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?”.
Fra l’altro è proprio l’anima cristiana della città (oggi dimenticata) che è storicamente alle origini delle sue fortune (anche economiche) e della sua gloria.
Lo sanno gli attuali padroni di Siena e i suoi cittadini?
Sta scritto perfino nel simbolo più antico della sua ricchezza, la moneta della Repubblica di Siena, che riportava la formula: “Sena vetus Civitas Virginis”. Città della Vergine. Non era un’espressione celebrativa, ma giuridica e politica.
A tutte le mire dei conquistatori che, nei secoli, si affacciavano all’orizzonte, Siena opponeva la sovranità della sua Regina, la Madonna, garante della libertà e dell’indipendenza della città.
E’ a lei, l’ “Advocata senensium”, che sempre la città si è affidata, perfino con atto notarile, nei momenti di pericolo (dalla battaglia di Montaperti alla “peste nera” del XIV secolo, dai terremoti fino alla Seconda guerra mondiale).
Anche il famoso ciclo di affreschi politici, detti del Buongoverno e del cattivo governo, realizzato da Ambrogio Lorenzetti nel palazzo pubblico, in filigrana, celebra proprio la regalità di Maria su Siena.
Non a caso a Siena tutto parla di lei e canta la più “umile e alta” delle creature.
Dal campanone della Torre del Mangia (si chiama “Sunto” in onore della Madonna Assunta) alla Cattedrale che è un poema di marmo, un trattato di teologia della storia incentrato su Maria; dal Palio (sia quello di luglio che quello di agosto sono feste della Vergine) allo stesso simbolo della città, quella Balzana (lo scudo bianco e nero) che rimanda al bianco e nero della Cattedrale.
Secondo il Gigli, ripreso dal Vannini, la balzana senese sarebbe la “realizzazione araldica dell’aretologia mariana (castità e umiltà) o addirittura (si potrebbe aggiungere) delle Sue ossimoriche attribuzioni (umile e alta, vergine e madre) o del mistero della Sua maternità (Verbum caro)”.
Alla Madonna è dedicato anche l’Ospedale che sorge ai piedi della cattedrale, fondato nel X secolo dai canonici del Duomo per i bambini esposti e i pellegrini. E’ uno dei più antichi e gloriosi ospedali del mondo.
L’immagine della Madonna a Siena si trova dovunque, da tutti i palii alle antiche biccherne (le tavole dei libri contabili), dalle porte della città all’altar maggiore della Cattedrale (dov’era posta la Maestà di Duccio), dalla sala del palazzo pubblico, dove si trova la Maestà di Simone Martini, ai crocicchi delle strade.
La stessa della piazza del Campo ha la forma del mantello della Madonna della misericordia, l’icona dove tutta la città si raccoglie sotto la protezione della Madre di Dio.
Dicevamo della moneta con la scritta mariana.
Perduta la “Civitas Virginis” (cioè la fede che era il vero tesoro della città), oggi si perde anche la “moneta”, ovvero la banca e la prosperità.
E’ inevitabile, perché quella prosperità germogliò e fruttificò su un terreno spirituale, di forti valori cristiani.
Il Monte dei Paschi – la più antica banca del mondo – nasce infatti come monte di pietà. I monti di pietà sono quelle istituzioni finanziarie senza scopo di lucro pensate dai francescani, e fondate alla fine del XV secolo, per aiutare la crescita economica dei ceti più disagiati e sottrarli da una parte alla miseria, dall’altra all’usura.
C’è soprattutto un santo francescano di Siena, san Bernardino (sulla scia del francescano Giovanni Olivi), alle origini della teoria dell’utilità soggettiva in economia. Luigino Bruni e Alessandra Smerilli hanno dimostrato nel libro “Benedetta economia” che proprio i francescani (e prima i benedettini) hanno posto le basi del sano pensiero economico e della prosperità dei nostri popoli (Rothbard lamentava che gli economisti si fossero poi allontanati dai pensatori cattolici).
E’ quella che Stefano Zamagni ha chiamato “l’invenzione dell’economia di mercato civile”.
Ma la Siena di oggi neanche ricorda che san Bernardino – una grande figura – è un santo di questa città. Così come santa Caterina, che è patrona d’Italia, compatrona d’Europa e dottore della Chiesa, ma il cui santuario, a Siena, è pressoché sempre deserto e dimenticato.
Piccolo emblema di questo smarrimento dell’identità e della memoria è stato – tre anni fa – il palio dove attorno al volto della Madonna sono stati disegnati alcuni versetti del Corano, la sura 19. La banale Sinistra del politically correct lasciava il segno di un superficiale sincretismo.
E’ sempre stato problematico per una classe politica non raffinatissima come quella del Pci (poi Pds, Ds e Pd), amministrare una città così carica di storia, di cultura, dove tutto parla della sua antica fede cristiana.
Agli inizi del Novecento Siena era una città in parte ancora cattolica e laica. Un po’ isolata e asfittica come appare nei romanzi di Federico Tozzi.
Dal 1945, con l’urbanizzazione di molti nuclei familiari dalle campagne, il Pci conquista la maggioranza e negli enti locali assume il potere, tenuto pressoché senza interruzione fino ad oggi (sono 67 anni).
Ma la borghesia senese, un po’ laica, un po’ cattolica, ha governato istituzioni importanti come l’Ospedale, il Monte dei paschi e l’Università (anch’essa fondata, nel 1240, in pieno medioevo cristiano).
Con i decenni il potere della Sinistra si è allargato sempre più. Vent’anni fa solo il Monte, governato da Dc e socialisti, faceva eccezione. Ma da allora, dalla nascita delle Fondazioni, gli enti locali rossi hanno preso il sopravvento. E la Sinistra a Siena domina senza rivali e senza alcuna opposizione.
Esprime però una classe politica che sembra del tutto estranea alla grande storia della città. Ricordo che negli anni Ottanta il Pci tirò fuori un manifesto per le elezioni che raffigurava la Piazza del Campo. Volevano così celebrare il loro buon governo.
Come se quella piazza di sogno l’avessero fatta loro. Ahimé il Pci a Siena ha saputo fare solo una quartiere satellite, San Miniato, che, nella sua triste bruttezza, ricorda le grigie periferie dei regimi dell’Est. E’ il perfetto simbolo dell’epoca rossa.
Sono rarissimi (uno o al massimo due) i dirigenti comunisti che abbiano saputo sintonizzarsi con la spiritualità e la storia di Siena. Ma va anche detto che tutti sono stati mandati al potere per decenni dal voto degli attuali senesi.
Siamo un popolo attaccato alle sue antiche tradizioni, ma immemore delle sue origini cristiane. Questa è una città che, grazie al Monte, è vissuta per decenni al di sopra delle sue possibilità e il dorato benessere ha addormentato gli spiriti e annichilito le energie migliori.
Oggi un’eredità immensa (e immeritata) sembra sia stata dilapidata. E la città, bella addormentata, si sveglia in un deserto, senza più un tessuto economico, un’identità e un futuro.
Si ripresenteranno, per il governo del Comune di Siena (e tutto il resto), i soliti che da anni sono sulla scena politica, oltretutto senza alcuna idea del futuro?
Eppure a Sinistra c’è chi riconosce lealmente che “non siamo stati all’altezza”. Possibile che non si sentano in dovere di cambiare tutto?
L’unica speranza per questa bella città è la discontinuità: che facciano tutti un passo indietro, emergano nuove energie, nuove idee e nuovi volti.
Questo cataclisma potrebbe portare una rinascita. Ma prima che la sua banca, Siena deve ritrovare un’anima.

Antonio Socci
Da “Libero”, 27 gennaio 2013
Vedi Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”

Dio getta in noi un piccolo seme

 
Dio getta in noi un piccolo seme
***
 Se acconsentiamo, 
Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. 
Da quel momento Dio non ha più niente da fare 
e nemmeno noi, 
se non attendere. 
Dobbiamo soltanto non pentirci 
del consenso accordato, 
"del sì nuziale". 
Ciò non è facile come sembra, 
poiché la crescita del seme in noi 
è dolorosa. 

Simone Weil.
Se acconsentiamo,
Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va.
Da quel momento Dio non ha più niente da fare
e nemmeno noi,
se non attendere.
Dobbiamo soltanto non pentirci
del consenso accordato,
"del sì nuziale".
Ciò non è facile come sembra,
poiché la crescita del seme in noi
è dolorosa.

Simone Weil.

L’Italia dei cattolici era il centro del mondo, l’Italia dei massoni vale meno di niente.Dostoevskij

L’Italia dei cattolici era il centro del mondo, l’Italia dei massoni vale meno di niente.Dostoevskij dixit

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Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1881), ritratto con le onorificenze massoniche
Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), ritratto con le onorificenze massoniche.
«Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale.
I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale.
Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour?
È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, [...] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine.
Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!»
(Fëdor Michajlovic’ Dostoevskij, “Diario di uno scrittore”, ed. it. a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, Firenze 1981, 1877, Maggio-Giugno, capitolo secondo, pp. 925-926.

sabato 26 gennaio 2013

“Io sono cristiano e cattolico romano”: la vita di John Ronald Tolkien

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di p. Angelomaria Lozzer FI, pubblicato sul “Settimanale di P. Pio”

John Ronald Tolkien nacque a Città del Capo da Arthur Tolkien e Mabiel Suffield, ambedue di fede anglicana, il 3 gennaio del 1892.
Arthur Tolkien si era trasferito in Sud Africa da pochi anni per motivi di lavoro. La ditta di pianoforti del padre, infatti, era fallita e per Arthur si era presentata l’occasione di un lavoro presso la Bank of Africa. Mabel Suffield lo aveva poi raggiunto l’anno seguente e si era unita a lui in matrimonio il 14 aprile del 1891.
Dal loro matrimonio venne alla luce, oltre il nostro scrittore John Ronald Tolkien, un altro maschietto a cui fu dato il nome di Hilary.
L’infanzia del piccolo John Ronald si presentò travagliata fin dai primi anni di vita, a motivo delle continue febbri e della salute malferma, di cui larga parte ne era responsabile il clima. Questo fu evidentemente motivo di preoccupazione per i giovani coniugi che decisero, infine, di mandare nella loro terra natale Ronald per esservi curato. Per questo motivo, nell’aprile del 1895, Mabel con i suoi due figli, salpò per l’Inghilterra raggiungendo la casa paterna. Il padre nel frattempo, a motivo del lavoro, dovette restare in Sud Africa, con la speranza di raggiungerli al più presto. Purtroppo però le cose non andarono come previsto: il giovane padre da lì a poco si ammalò gravemente e morì. Mabel avrebbe voluto raggiungerlo al più presto per stargli vicino e curarlo, ma tutto si rivelò inutile, giacché la tragica notizia della morte del marito la sopraggiunse proprio alla vigilia della partenza.
Riavutasi dal dispiacere, la giovane vedova si diede subito alla ricerca di un’abitazione propria, onde poter lasciare la casa paterna e poter vivere così indipendentemente con i suoi figli. La trovò in campagna, nei pressi di Birmingham, dove il piccolo Ronald poté con il fratello passare molto tempo indisturbato in giochi e divertimenti. Questo ambiente idilliaco si impresse così profondamente nell’animo di Tolkien da lasciargli un ricordo perenne, ma nello stesso tempo anche un profondo dolore quando più in là negli anni, lo troverà completamente cambiato nel grigiore delle nuove costruzioni. Dolore questo, che esprimerà anche nelle sue fiabe.
È inutile dire che quell’ambiente agreste si presentò come l’ideale per la crescita dei due piccoli, che felici e sani progredirono in età e sapienza alla scuola della madre. Mabel conosceva infatti bene il latino, il francese e il tedesco, sapeva dipingere e suonare e per questo si rivelò per i due figli anche un’ottima insegnante. Ronald si mostrò subito attratto dalle lingue (specie il latino), verso le quali rivelò presto una dote non comune.
In questi anni felici, che seguirono alla tragica morte del padre, Mabel ebbe l’occasione anche di avvicinarsi molto alla fede, attraverso lo studio e la riflessione. Il cristianesimo andò così prendendo terreno nel cuore e nella vita della famiglia Tolkien, che ogni domenica si riuniva nella chiesa anglicana del paese.
Dopo lunga riflessione, nella primavera del 1900, Mabel con la sorella May decise di frequentare assiduamente il catechismo che si teneva nella chiesa cattolica di Sant’Anna e nel giugno dello stesso anno ne abbracciò la fede. L’ingresso alla Chiesa di Roma non fu però senza conseguenze per la giovane madre che venne bandita dalla famiglia paterna con la scomunica. Il proprio padre infatti, educato alla scuola metodista, al tempo militava tra i più ferventi unitariani. Anche i famigliari del marito defunto non furono da meno. Fu così che Mabel si trovò senza quegli aiuti finanziari di cui beneficiava prima e che le erano tanto necessari per portare avanti la famiglia. Riuscì soltanto ad ottenere da uno zio un po’ più mite la retta scolastica per Ronald, a cui però non venne risparmiato il tragitto a piedi da casa a scuola: la tassa del tram o del treno, infatti, non rientrava nelle possibilità finanziarie della famiglia. Fu per questo che la giovane vedova si vide costretta a trasferirsi dalla casa serena e silenziosa della campagna al tumulto della città. In cambio però, ebbe la fortuna di scoprire il Birmingham Oratory, una grande chiesa nel sobborgo di Edgbaston fondata dal Cardinale Newman, dove il Beato vi aveva trascorso gli ultimi quarant’anni della sua vita. Lì, lo spirito del santo fondatore viveva ancora in molti che lo avevano conosciuto e che da lui erano stati formati, tra i quali Francis Xavier Morgan che tanto ebbe parte nella formazione del nostro Ronald. E se guardiamo attentamente i suoi scritti, possiamo infatti scorgervi in quel continuo riferimento al soprannaturale, lo spirito di lotta al cinismo e al materialismo che tanto caratterizzò la vita del Santo Cardinale.
Alla chiesa suddetta era annessa anche una scuola cattolica, dove Mabel volle iscrivere i propri ragazzi.
I dolori, le preoccupazioni e i pesi accumulatisi negli anni sulla giovane madre gli causarono ben presto tragiche conseguenze sulla sua salute. Nell’aprile del 1904, infatti, fu costretta al ricovero in ospedale. P. Morgan, confessore e direttore spirituale di Mabel, le cercò subito un luogo più salubre dove poter stare con i ragazzi. Tutto però si rivelò inutile, perché la giovane madre di lì a poco entrò in coma diabetico e morì.
Tolkien ricordò in una lettera: la mia cara madre è stata veramente una martire; non a tutti Dio concede di percorrere una strada così facile, per arrivare ai suoi grandi doni, come ha concesso a Hilary e a me, dandoci una madre che si uccise con la fatica e le preoccupazioni per assicurarsi che noi crescessimo nella fede”.
La fede dei suoi due figli, difatti, fu per la sofferente madre la preoccupazione più grande. Vicina alla morte, temendo che i suoi figli affidati alla casa paterna venissero ricondotti all’anglicanesimo, espresse nel suo testamento il volere chiaro che, come tutore dei suoi figli, fosse designato P. Morgan. Il timore della madre non si mostrò infondato, perché i parenti tentarono effettivamente di impugnare il testamento e di inviare i due ragazzi in un collegio protestante, ma senza riuscirvi. Fu così, che P. Morgan sistemò temporaneamente i due giovani presso una zia acquisita (senza particolari convinzioni religiose), che viveva vicino all’oratorio. Al mattino presto i due fanciulli correvano all’Oratorio per servire la Santa Messa, e dopo la colazione si recavano nella scuola King Edward’s, dove nel frattempo avevano trasferito i loro studi.
P. Morgan aggiungeva di proprio mano, alla modesta somma lasciata dalla madre, quanto era necessario ai due piccoli. Il padre oratoriano divenne così per loro come un secondo padre. Più tardi Tolkien confiderà a un figlio: Da lui ho imparato soprattutto la carità e la capacità di perdonare; e con questi insegnamenti ho superato persino l’oscurità “liberale” da cui provenivo, conoscendo molto meglio il Bloody Mary che la Madre di Gesù”.  Alla scuola di P. Francis imparò infatti a crescere nell’amore alla Madonna, al punto da confidare più tardi: “[su di Lei] si basa tutta la mia piccola percezione di bellezza sia come maestà che come semplicità”.
Durante le vacanze P. Francis Morgan, conduceva i due ragazzi con sé, spendendo con loro più tempo di quanto le occupazioni giornaliere glielo consentivano durante l’anno, parlando e intrattenendosi amichevolmente con loro.
Ronald a scuola si distinse sempre più per il suo amore alle parole, al loro aspetto, al loro suono: amore che risaliva alle sue prime lezioni di latino con la madre. Questo lo spinse pian piano a maturare il desiderio di comporre un linguaggio personale. Cercò una lingua base da cui partire, e la trovò nello spagnolo, lingua natale di P. Morgan, da cui prese in prestito alcuni libri, finché non si imbatté in un libro in lingua gotica che lo conquistò interamente.
Nel frattempo P. Morgan maturò l’intenzione di trasferire i ragazzi dallo scialbo alloggio della zia in un quartiere non lontano dall’oratorio, dove affittò una stanza per loro. Qui i due giovani ebbero modo di incontrare un’altra ragazza anch’essa orfana, che strinse subito con i due e in modo particolare con Ronald una profonda amicizia. Si tratta di Edith Bratt, futura moglie del nostro scrittore. Quando però P. Morgan si accorse che tra i due intercorreva questo legame affettivo, temendo per lui e per i suoi studi gli impose di non incontrarla più. Ciò fu motivo di grande dolore per il giovane Ronald, che pregava di poterla incontrare provvidenzialmente senza contravvenire alla volontà del suo tutore. Quando infine apprese dalla stessa Edith che lei aveva deciso di trasferirsi, si rassegnò. Vide in questo evento la soluzione migliore per ambedue e nel suo diario annotava: “Grazie a Dio”. Questi tre anni di separazione prima del fidanzamento ufficiale e quindi del matrimonio, divennero così per Tolkien una prova con cui poter dimostrare la sua fedeltà. L’amore fedele, infatti, nel nostro mondo segnato dal peccato, non può che passare attraverso la rinuncia, come ben spiegherà anni dopo lo stesso Ronald al figlio Michael: “Nessun uomo che si sia sposato giovane, per quanto sinceramente innamorato di sua moglie, le è mai stato fedele per tutta la vita con la mente e con il corpo senza un deliberato e consapevole uso della sua volontà o senza negazione di sé”; “la fede nel matrimonio cristiano implica questo: grande mortificazione”. “Questo mondo è immorale” e “il duro spirito della concupiscenza ha percorso ogni strada e siede sogghignando in ogni casa, da quando Adamo è caduto… Il diavolo è infinitamente ingegnoso e il sesso è la sua arma preferita. È abilissimo nel catturarti usando mezzi generosi, romantici o teneri, tanto quanto mezzi più bassi e animali”. Per questo, “in questo mondo corrotto l’amicizia, che dovrebbe essere possibile fra tutti gli esseri umani, è virtualmente impossibile tra uomo e donna”, perché uno dei due “deluderà l’altro (o l’altra) innamorandosi”. Solo “più avanti nella vita, quando gli impulsi sessuali si calmano, forse è possibile. Può instaurarsi tra i santi”.
Questi tre anni di completa impossibilità di vedere Edith o di scriverle, si trasformarono così per Tolkien in una palestra di fedeltà che avrebbe garantito la riuscita del loro futuro matrimonio.
Non mancarono anche a Tolkien, in questi anni giovanili, amicizie importanti e costruttive (in cui le donne erano escluse). Fu proprio in quegli anni, infatti, che dette vita con altri studenti ad un gruppo di amici chiamato “TCBS” (sigla che conteneva le iniziali delle precedenti denominazioni: “Tea Club”, e “Barrovian Society” dal nome del luogo dove si radunavano). In questi ritrovi studenteschi extrascolastici, Ronald ebbe modo di esprimere e coltivare il suo amore per le lingue nordiche, intrattenendo gli amici con la lettura di qualche brano tratto da sagre e racconti antichi.
Raggiunta la maggiore età, Ronald cercò nuovamente Edith. Non aveva infatti dimenticato la sua promessa fattali anni addietro, ma anzi si era rafforzata nel silenzio, come il seme chiamato a morire prima di crescere. Le rinnovò, ora che poteva, il suo amore per lei, imponendole l’unica condizione inderogabile per il loro fidanzamento: convertirsi dalla fede anglicana, che definiva “un patetico e confuso miscuglio di tradizioni ricordate a metà e di credenze mutilate”, alla fede cattolica. Lei però indugiò, perché in quegli anni si era resa molto attiva nella sua parrocchia anglicana. Là era amata e stimata mentre in quella cattolica non conosceva nessuno. Ronald allora con fermezza le scrisse: “Credo intimamente che nessuna mancanza di coraggio e nessun timore mondano debbano distoglierci dal seguire con dirittura la luce”. Così, nel gennaio del 1914 Edith venne accolta nella Chiesa Cattolica Romana e subito dopolei e Ronald vennero dichiarati in Chiesa  ufficialmente fidanzati da padre Murphy. Edith fece quindi anche la sua prima confessione e comunione che descrisse poi come “una grande e meravigliosa felicità”. Dio divenne così il punto fermo su cui costruire come su roccia salda e sicura il loro amore. Non mancarono nei loro incontri le visite in Chiesa per partecipare insieme alla Benedizione Eucaristica o ad altre funzioni.
Nel 1913 Ronald superò le Honour Moderations con la valutazione di “Second Class”, e si iscrisse ai corsi di lingua e letteratura alla Honours School. Nel 1915 superò con il massimo dei voti l’esame conclusivo e si arruolò nei Fucilieri del Lancashire. Prima di partire per il fronte, in comune accordo con Edith si sposò il 22 marzo 1916 nella chiesa cattolica di Warwich nelle mani di padre Murphy. Anni dopo Tolkien confidò al figlio: Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori: nel senso che quasi certamente […] entrambi i partner avrebbero potuto trovare compagni molto più adatti. Ma la vera anima gemella è quella che hai sposato. Di solito tu scegli ben poco: lo fanno la vita e le circostanze (benché, se c’è un Dio, queste non sono che i Suoi strumenti o la Sua manifestazione)”.
Nel giugno del 1916 Tolkien venne mandato in Francia a combattere la Battaglia delle Somme, dove i suoi tre migliori amici perdettero la vita. Gli orrori e la tensione della guerra scossero così profondamente il suo fisico che cadde in preda della “febbre da trincea”, passando l’anno successivo convalescente a Great Haywood. Qui dette inizio alla stesura dei primi abbozzi de Il Silmarillion. Lo scopo era quello di dare un corpo alle lingue che aveva creato, una storia in cui trovare qualche popolo disposto a parlarle e che gli consentisse al tempo stesso di esprimere il suo profondo amore alla poesia. Voleva poi soprattutto dedicare alla sua patria, l’Inghilterra, “un corpo di leggende più o meno legate che spaziasse dalla vastità di una cosmogonia alla piccola fiaba romantica”. Tali storie avrebbero poi dovuto riflettere la sua visione morale dell’universo, le sue convinzioni e in un certo modo anche la sua fede: “una fugace apparizione sotto la quale si nasconde la verità”.
In primavera, rimessosi in salute, venne destinato nello Yorkshire, dove però poco tempo dopo tornò ad ammalarsi. A novembre nacque il suo primogenito, John Francis Reuel (Francis in onore di P. Francis Morgan che venne da Birmingham per battezzarlo) e che in seguito abbracciò la vita ecclesiastica come sacerdote e parroco.
Nel 1918 Tolkien tornò ad Oxford ed entrò a far parte della redazione del New English Dictionary. L’anno seguente cominciò il lavoro di tutor universitario, mentre nel 1920 venne alla luce il suo secondogenito Michael e ricevette la carica di lettore di Lingua inglese all’Università di Leeds.  Nel 1924 nacque il suo terzogenito Christopher. Nel 1925 Ronald passò al Pembroke College di Oxford come professore di filologia anglosassone. Nel 1929 nacque l’ultimogenita della famiglia Tolkien che venne battezzata con il nome di Priscilla.
La sua giornata iniziava al mattino presto con la Santa Messa. Nonostante l’opposizione della moglie, che non condivideva questo suo portare sempre i bambini a Messa, non cedette mai in questa pratica, conservandola con amore e dedizione[1]. I sentimenti avversi della moglie erano nati soprattutto a motivo della continua insistenza di Tolkien nello spingere alla confessione frequente e che lei dal canto suo non sopportava. Tolkien difatti ci teneva molto alla confessione assidua e se non riusciva a farla prima della Messa si privava dalla Comunione. La trasmissione della fede rimase sempre per lui qualcosa di fondamentale: Quando penso alla morte di mia madre… stremata dalle persecuzioni, dalla povertà e dalle conseguenti malattie, nello sforzo di trasmettere a noi ragazzi la fede, e quando ricordo la minuscola camera da letto che dividevamo, affittata nella casa di un postino a Renal, dove lei morì tutto sola, troppo malata per ricevere l’estrema unzione, trovo molto duro e amaro il fatto che i miei figli si allontanino (dalla Chiesa)”. Quando non poteva partecipare alla Santa Messa quotidiana, ne recitava mentalmente il canone in latino a memoria. Questo lo apprendiamo da una lettera che scrisse al figlio mentre si trovava alle armi durante la seconda guerra mondiale: “Se già non lo fai, prendi l’abitudine di pregare. Io prego molto (in latino): il Gloria Patri, il Gloria in Excelsis, il laudate Dominum; il laudate Pueri Dominum (a cui sono particolarmente affezionato), uno dei salmi domenicali; e il Magnificat; anche la Litania di Loreto (con la preghiera del Sub tuum presidium). Se nel cuore hai queste preghiere non avrai mai bisogno di altre parole di conforto. È anche bene, una cosa ammirevole, sapere a memoria il Canone della Messa, perché la puoi recitare sottovoce se qualche circostanza avversa di impedisse di assistervi”.
Non amava le mode del tempo nel vestire che considerava poco virili e ambigue, anzi all’origine dei traviamenti, ma amava il vestire modesto e semplice, senza ricercatezze. Si conservava in poche parole in quella che è stata definita da H. Carpenter la linea dell’ascetica cristiana. Quanto al carattere si mostrava affabile, scherzoso e particolarmente emotivo, al punto che amore, entusiasmo intellettuale, avversione, rabbia, dubbio, colpa, riso in lui si esprimevano alla massima potenza. Si caratterizzava poi per la sua profonda umiltà, che senza sconfessare i propri talenti, era intrisa della consapevolezza della propria fragilità. Rimase addolorato quando, dopo il successo dei suoi scritti, si formò quello che lui definì un “deplorevole culto” alla sua persona. Tolkien era anche un “uomo di destra”, per il fatto che onorava il suo re e la sua patria e non credeva nella capacità di governo del popolo; criticava la democrazia perché era convinto che gli uomini non ne avrebbero tratto nessun beneficio, “non fosse altro perché l’umiltà e l’uguaglianza sono principi spirituali corrotti dal tentativo di renderli meccanici e formali, con il risultato che non abbiamo una coscienza dei nostri limiti e un’umiltà universali, ma un orgoglio e una presunzione universali”.
Negli anni di insegnamento ad Oxford, Tolkien strinse una profonda amicizia con C.S. Lewis, autore tra l’altro delle Cronache di Narnia, e insieme, intorno agli anni 30, fondò il circolo degli Inklings, qualcosa di simile a quanto era avvenuto anni prima con la TCBS. Le amicizie maschili furono difatti sempre per Tolkien qualcosa di importante, niente a che fare chiaramente con l’omosessualità. Si trattava piuttosto di amicizie destinate ad arricchire e far crescere, di cui il lettore può farsene un’idea leggendo Il Signore degli anelli. Lewis nel necrologio di Tolkien lo definì “il migliore nella piccola cerchia di amici intimi il cui tono era allo stesso tempo bohemien, letterario e cristiano”.
Durante i primi anni della loro amicizia, Tolkien e Lewis, trascorsero ore intere insieme, con la pipa in bocca, a discutere su vari temi. Lewis contestava e discuteva, ma iniziava ad ammettere che in materia di fede Tolkien aveva ragione. Si tenga conto che Lewis era cresciuto in ambito protestante, nell’adolescenza era passato all’agnosticismo, anche se poco prima di incontrare Tolkien era già riemersa in lui una certa ricerca di Dio. Ciò che è certo, non sopportava il “papismo cattolico”. Una sera comunque aveva esposto a Tolkien la sua perplessità intorno ad alcuni temi di fede. Non riusciva a capire soprattutto la funzione di Cristo: la sua morte, crocifissione e risurrezione e come potesse in qualche modo quest’evento di duemila anni fa incidere in qualche modo sugli uomini del nostro tempo. Poteva ammettere solo che Gesù restava un esempio valido per tutti, ma niente di più. Tolkien gli aveva allora risposto di pensare ai grandi miti e, come accettava in un racconto mitologico il sacrificio di un dio e la sua risurrezione, così doveva accettare senza porre domande la realtà di Cristo trasferendola alla realtà. Tolkien, infatti, aveva avuto l’intuizione che la storia reale potesse essere vista come il frutto della fantasia razionale e perfetta di Dio Creatore, una sorta di grande fiaba che pensata da Dio era stata posta anche in essere dalla sua volontà onnipotente e libera. In quest’ottica nel suo saggio Sulle Fiabe così scriveva: I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe. I Vangeli contengono molte meraviglie, di un’artisticità particolare, “belle e commoventi: “mitiche” nel loro significato perfetto, in sé conchiuso: e tra le meraviglie c’è l’eucatastrofe[2] massima e più completa che si possa concepire. Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l’anelito alla subcreazione sono stati elevati al compimento della Creazione. La nascita del Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo; la Resurrezione, l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa vicenda si inizia e si conclude in gioia, e mostra in maniera inequivocabile la “intima consistenza della realtà”. Non c’è racconto mai narrato che gli uomini possano trovare più vero di questo, e nessun racconto che tanti scettici abbiano accettato come vero per i suoi meriti. Ché l’Arte di esso ha il tono, supremamente convincente dell’Arte Primaria, vale a dire della Creazione. E rifiutarla porta o alla tristezza o all’iracondia. Qui per fiaba e favola Tolkien non intese, come si pensa nel gergo comune, esprimere “qualcosa di falso”, quanto piuttosto il concetto che Qualcuno con la “Q” maiuscola ha pensato e creato la storia, e che con la sua provvidenza continua a guidarla dall’alto con somma liberalità, secondo i suoi imperscrutabili disegni, fino al suo compimento finale nel Regno dei Cieli. In questo senso la Creazione con la sua Storia poteva essere detta appunto la più vera e grande Fiaba, frutto della “fantasia” e dell’intelligenza più eccelsa. Per questo Tolkien definì le nostre fiabe sub-creazioni, per dire al tempo stesso che sono si veramente frutto di un essere a “immagine e somiglianza di Dio”, ma che d’altra parte non raggiungono il mondo primario (cioè quello reale), perché la Creazione è solo una, quella di Dio, di cui le nostre storie non sono che un lontano eco e richiamo. “Veniamo da Dio e, inevitabilmente, i miti da noi tessuti, pur contenendo errori, rifletteranno anche una scintilla della luce vera: la verità eterna che è con Dio. Infatti, solo creando miti, solo diventando un sub-creatore di storie, l’uomo può aspirare a tornare allo stato di perfezione che conobbe prima della caduta. I nostri miti possono essere male indirizzati, ma anche se vacillano fanno rotta verso il porto, mentre il “progresso” materialista conduce solo a un abisso spalancato e alla Corona di Ferro del potere del male”.
Lewis, alla fine del discorso, concluse: “Tu vuoi dire che la storia di Cristo è solo un mito che va nella stessa direzione degli altri, ma che è realmente accaduto? In questo caso comincio a capire”. Quella sera rimasero fino alle tre del mattino a parlare. Pochi giorni dopo Lewis scrisse all’amico Arthur Greeves: “Da poco sono passato dal credere in Dio al credere in maniera definitiva in Cristo, nel cristianesimo… La mia lunga chiacchierata con Dyson e Tolkien ha avuto una grossa parte in questo”. Questa amicizia però purtroppo andò diminuendo lungo gli anni. La prima causa fu legata all’influenza che Charles Williams esercitò in modo sempre più preponderante verso Lewis e al suo mancato passo verso la Chiesa cattolica. La seconda causa fu originata dal matrimonio illegittimo di Lewis con Joy Davidman, donna sposata e divorziata, che Tolkien da buon cattolico non accettò in nessun modo.
Gli anni ’20 e ’30 furono per Tolkien anni prolissi di racconti fanciulleschi. Questi erano nati allo scopo di intrattenere i figli con qualche storia divertente e, soprattutto, aiutare il figlio John, che soffriva di insonnia, ad addormentarsi. Tra questi racconti divertenti alcuni vennero in seguito pubblicati dall’autore, come Roverandom, Tom Bombadil, il Cacciatore di draghi e infine l’opera che lo lanciò al pubblico: Lo Hobbit. Non furono però questi i racconti che veramente lo interessavano. La sua mente protendeva verso i temi più ampi, sia in prosa che in versi, del suo mondo immaginario: il Simarillion, che durante gli anni era diventato sempre più il suo “unico vero desiderio”. Quando il successo inaspettato e strabiliante del Lo Hobbit, pertanto, spinse la casa editrice Stanley Unwin a sollecitarne un proseguo, Tolkien fu istintivamente portato a inserirlo nel grande mondo mitologico del Simarillion, trasformandolo nella sua naturale continuazione. Tanto è vero, che, se le varie difficoltà tipografiche e personali nel portare a termine varie parti del Simarillion, glielo avessero concesso, avrebbe voluto pubblicarli assieme in un unico volume. Non si trattava più quindi di uno scritto per bambini, ma di un’opera per un pubblico più adulto, secondo quanto aveva maturato negli anni ed esposto nel suo saggio Sulle Fiabe[3].
Nel guardare ora a questa opera colossale del mondo immaginario tolkeniano, saremmo portati a considerarla semplicemente come una attività artistica o un hobby proprio di un uomo di grande cultura e fantasia. Chi ebbe modo di conoscere l’autore, però, sa che dietro tutto questo vi si nascondeva qualcosa di più di una semplice evasione dal tram tram quotidiano e stressante di una città come Oxford. Creare storie e mondi, infatti, fu per Tolkien non solo un passatempo, ma in un certo senso una vocazione, un mettere in atto un’opera eminentemente Cristiana: “Il cristiano può rendersi conto che le sue inclinazioni e facoltà hanno uno scopo, che può essere redento. Così grande è la generosità di cui è stato fatto oggetto, che ora può forse permettersi a ragion veduta di ritenere che con la Fantasia può assistere effettivamente al dispiegarsi e al molteplice arricchimento della creazione[4]. Capì che la fantasia poteva ri-appropriarsi della realtà, liberandola “dalla tediosa opacità del banale o del famigliare, dalla possessività”, permettendo quel riflesso di bellezza  e quello stupore che è alla base della filosofia, della sapienza e quindi del pensiero umano. Senza immaginazione il mondo avrebbe perso gran parte della realtà, che non può rimanere confinata nel solo mondo del percettibile. La fantasia si offriva in tal modo come un mezzo capace di “mostrare”, in un certo senso “far vedere”, quasi in barlume, in modo fugace e intuitivo, verità di fede, visioni religiose sul mondo, sull’uomo e sulla sua dimensione etica e spirituale: Io penso che le storie fantastiche abbiano un modo di rispecchiare la verità, diverso dall’allegoria, o dalla satira (quand’è elevata), o dal «realismo», e per alcuni versi più potente[5]. “Io pretenderei, se non pensassi che fosse presuntuoso da parte di una persona così mal istruita, di avere come obbiettivo quello di dimostrare la verità e di incoraggiare i buoni principi morali in questo nostro mondo, attraverso l’antico espediente di esemplificarli attraverso personificazioni diverse, che alla fine tendono a farli capire”. “Il mito e la fiaba devono, come tutte le forme artistiche, riflettere e contenere fusi insieme elementi di verità morale e religiosa (o di errore), ma non esplicitamente, non nella forma conosciuta del mondo “reale” primario”. Con la creazione di miti Tolkien sapeva di poter accendere nella mente e nel cuore del lettore quella scintilla che gli avrebbe consentito di riflettere e di elevarsi, attraverso un continuo “trasporto” dal mondo fantastico a quello reale e da quello reale a quello fantastico, convinto che “allegoria e storia convergono, fondendosi da qualche parte nella Verità”. “Il bene e il male – aveva fatto dire Tolkien ad Aragorn ne “Il Signore degli Anelli” – sono rimasti immutati da sempre, e il loro significato è il medesimo per gli Elfi, per i Nani e per gli Uomini. Tocca ad ognuno discernerli, tanto nel Bosco d’Oro quanto nella propria dimora”, ossia tanto nel mondo delle fiabe che nel mondo reale in cui viviamo. Non a caso Tolkien concluse il suo romanzo più riuscito Il Signore degli Anelli proprio con la battuta di Sam: “sono tornato”, quasi a dire “sono tornato dal mondo della fantasia al mondo reale e quotidiano”, ma sono tornato anche cambiato e cresciuto, come Sam dopo il suo lungo viaggio.
P. Murray, che sapeva che gli scritti di Tolkien non erano solo dei semplici hobby, gli scrisse compiaciuto che il libro Il Signore degli Anelli gli aveva lasciato una forte sensazione di “una positiva compatibilità con la dottrina della Grazia”, e che paragonava la figura di Galadriel a quella della Vergine Maria, ma che allo stesso tempo dubitava che i critici avrebbero compreso il libro: “non troveranno una nicchia opportunamente etichettata”. Tolkien gli rispose: “temo che sia così probabile da essere vero: quello che dici circa i critici e il pubblico. Temo il momento della pubblicazione, perché mi sarà impossibile non dar peso a quello che dicono. Ho rivelato il mio cuore perché lo prendessero a fucilate”.
Purtroppo le previsioni di Tolkien si avverarono, al punto che ci fu anche chi finì per giudicarlo un cripto esoterico. Alcuni ambienti filo-massonici poi lo pubblicizzarono, distorcendone gli scritti con commenti e interpretazioni completamente avulse dallo spirito che lo aveva animato. Il motivo è che, come rivelò la figlia Priscilla in una lettera inedita a Padre Guglielmo in Assisi, “è stata data troppo poca attenzione, anche da parte di coloro che avevano un serio interesse nei lavori di mio padre” ai suoi scritti autobiografici e in modo speciale alla sua vita di pietà. Tolkien stesso ebbe a lamentarsi: “l’unica critica che mi ha seccato è che “non ha religione”; mentre “nel Signore degli Anelli il conflitto fondamentale non riguarda la libertà, che tuttavia è compresa. Riguarda Dio, e il diritto che Lui solo ha di ricevere onori divini”.
Così scrisse, infatti, al P. Murray: Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la “religione”… Perché  l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo. Tuttavia detto così suona molto grossolano e più presuntuoso di quanto non sia in realtà. Perché a dir la verità, io consciamente ho programmato ben poco; e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so. Accanto alle critiche non mancò quindi a Tolkien anche la consolazione di trovare la sua storia molto più ricca e profonda di quanto egli stesso avesse progettato. A un signore che gli aveva scritto: “ha creato un mondo che sembra pervaso da una fede che non proviene da alcuna fonte visibile, come se una luce splendesse ma senza che si veda la lampada”, Tolkien gli aveva risposto umilmente: “della sua saggezza nessun uomo può essere giudice. Se la santità pervade il suo lavoro o lo illumina come una luce non viene da lui, ma attraverso di lui”.
Giunse così alla conclusione, che in un certo senso il libro poteva dirsi non solo suo, ma anche di Colui che è all’origine di ogni arte e bellezza: “una conclusione allarmante per un vecchio filologo nei confronti di una cosa che aveva scritto per il proprio godimento. Ma anche una conclusione tale da non inorgoglire chiunque si renda conto dell’imperfezione degli “strumenti predestinati” e da quella che a volte sembra una deprecabile inidoneità per gli scopi prefissati”.
Dal 1945 fino al ritiro dall’attività didattica avvenuto nel 1959, Tolkien occupò la cattedra di lingua inglese e letteratura medioevale del Merton College.
Le numerose ore di insegnamento per cinquant’anni, il lavoro prolifico come scrittore e gli incontri frequenti con gli amici non distolsero mai Tolkien dai doveri famigliari di padre e di marito. Durante i terribili anni del grande conflitto mondiale tenne una folta corrispondenza epistolare con i figli Michael e Christopher, impegnati sul fronte francese, allo scopo di sostenerli, incoraggiarli e dirigerli verso la via del bene. Capiva anche che “il legame tra padre e figlio non è costituito solo dalla consanguineità: ci deve essere un po’ di aeternitas. Esiste un posto chiamato “paradiso” dove le opere buone iniziate qui possono venire portate a termine; e dove le storie non scritte e le speranze incompiute possono trovare un seguito”. In una lettera al figlio Christopher così si espresse: “è probabile che sotto l’ala del Signore noi ci rincontreremo, “vivi e uniti”, fra non molto tempo, carissimo, ed è certo che abbiamo un legame speciale che durerà al di là della nostra vita – sempre soggetto, naturalmente, al mistero del libero arbitrio, con il quale ognuno di noi può rigettare la propria “salvezza”. Nel qual caso Dio sistemerà le cose in modo diverso!”.
Lontano dai figli amati, nel pieno della guerra mondiale, non perse mai la sua visione cristiana della storia, che tanto prese parte nei suoi racconti fantastici: “A volte mi spavento al pensiero della quantità di miseria umana che esiste in tutto il mondo in questo momento… Se l’angoscia si potesse vedere, quasi tutto questo mondo ottenebrato sarebbe avvolto in una nuvola densa di vapore scuro… E i risultati di tutto questo saranno per lo più malefici, considerandoli da un punto di vista storico. Ma il punto di vista storico, naturalmente, non è l’unico… Nessun uomo può giudicare quello che sta veramente succedendo al momento attuale sub specie aeternitatis. Tutto quello che sappiamo, e anche questo in larga parte per diretta esperienza, è che il male agisce con grande potenza e successi continui – inutilmente: preparando sempre e solamente il terreno perché il bene, inaspettatamente, germogli. Così accade in generale, e così accade nelle nostre vite”.
Tolkien, conclusi gli anni di insegnamento accademico, non smise di mettere mano alla sua opera Il Simarillion. Tuttavia i vari trasferimenti, la larga corrispondenza degli ammiratori, giornalisti e la malattia della moglie non gli permisero di portarne a compimento l’opera, che venne pubblicata invece a cura del figlio Christopher dopo la morte del padre.
Negli ultimi anni di vita, Tolkien si trovò spettatore della riforma liturgica introdotta dal Concilio Vaticano II. Rimase profondamente addolorato soprattutto nel vedere accantonato il suo amato latino per essere sostituito dalle lingue nazionali. Non condivise poi quelle idee tanto in voga a quel tempo in certi ambienti ecclesiastici che parlavano di un ritorno alla semplicità della chiesa delle origini. Così espresse la sua idea al figlio: “i saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero. Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via… Ma faranno certamente dei danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal male”, perché gli abusi non mancarono neanche nella Chiesa primitiva e “le restrizioni di S. Paolo a proposito dell’Eucaristia valgono a dimostrarlo”.
Ciò non toglie che Tolkien si dichiarò sempre figlio obbediente della Chiesa e del Papa: “io sono cristiano e cattolico romano”. Nessuno scandalo sarebbe valso a fargli cambiare idea in proposito: “Ho sofferto dolorosamente nella mia vita a causa di preti stupidi, stanchi, ignoranti o persino cattivi; ma ora mi conosco abbastanza bene da sapere che non lascerò la Chiesa (che per me significherebbe lasciare l’alleanza con Nostro Signore) per una qualsiasi di queste ragioni… Negherei i Santi Sacramenti, cioè: definirei il Nostro Signore un imbroglio”. “La fede è un atto di volontà, ispirato dall’amore. Il nostro amore può raffreddarsi e la nostra volontà può essere indebolita dallo spettacolo dei difetti, della follia e persino dei peccati della Chiesa e dei suoi ministri, ma non penso che chi una volta ha avuto fede la perda per questi motivi (meno che mai uno che possieda una conoscenza storica). Lo scandalo al massimo è occasione di tentazione – come l’indecenza lo è della brama, non la crea dal nulla, ma la fa manifestare. È comodo perché distoglie gli occhi da noi stessi e dalle nostre colpe e ci fornisce un capro espiatorio. Ma l’atto di volontà della fede non è l’unico memento di una decisione finale: è un atto permanente che si ripete, una situazione che deve durare – così noi preghiamo per la perseveranza conclusiva. La tentazione di non credere (che in realtà significa il rifiuto di Nostro Signore e delle Sue richieste) è sempre dentro di noi. Una parte di noi anela a trovare una scusa fuori di noi per mollare”.
Anche nella chiesa moderna e squallida, dove, disturbato dal coro dei bambini e dalla confusione, ormai pensionato soleva andare, al momento della comunione provava un grande stato di tranquillità e felicità al quale non perveniva in nessun altro modo. Era convinto che nella Chiesa di Roma, che lui chiamava Alma Mater Ecclesia, si trovava il dono più grande: l’Eucaristia, Gesù stesso, quel Gesù che scendeva sulla terra indipendentemente dalla dignità del sacerdote o dell’ambiente. Così scrisse al figlio: “Scegli un sacerdote che borbotta e tira su col naso oppure un frate orgoglioso e volgare; e una chiesa piena della solita folla borghese, bambini maleducati – da quelli che gridano a quei prodotti delle scuole cattoliche che nel momento in cui il tabernacolo viene aperto si siedono e sbadigliano – giovani sporchi e con le camicie sbottonate, donne in pantaloni e spesso con i capelli arruffati e senza velo. Vai a fare la Comunione insieme a loro (e prega per loro). Sarà la stessa cosa (o anche meglio) che assistere ad una messa detta splendidamente da un sant’uomo e ascoltata da poca gente devota e decorosa.
Per Tolkien l’Eucaristia restava l’unica grande fonte capace di dissetare il cuore umano. Ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: - scrisse al figlio - i Santi Sacramenti [...] qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la morte”.
Incitava i figli alla comunione frequente: l’unico rimedio contro il vacillare e l’indebolirsi della fede è la Comunione. Benché sia sempre lo stesso, perfetto e completo e inviolato, il Santo Sacramento non agisce completamente e una volta per tutte in ognuno di noi. Come l’atto di Fede deve essere ripetuto e così cresce la sua efficacia. La frequenza garantisce il massimo effetto. Sette volte alla settimana è più efficace che sette volte dopo lunghi intervalli”. Portava quindi, il suo esempio: “mi sono innamorato dei santi sacramenti fin dall’inizio – e grazie a Dio non me ne sono mai allontanato: ma, ahimè!, non ho vissuto sempre alla loro altezza. Vi ho allevato male e vi ho parlato troppo poco. Per cattiveria e per pigrizia ho quasi smesso di praticare la mia religione – specialmente a Leeds, e al 22 di Northmoor Road. Non per me l’Abisso dei Cieli, ma la voce silenziosa del Tabernacolo e quella sensazione di fame implacabile. Mi rammarico amaramente di quei giorni (e ne soffro); soprattutto perché ho fallito come padre. Ora prego per voi tutti, senza soste, che il Salvatore mi guarisca dei miei difetti e che nessuno di voi debba mai smettere di invocare Benedictus qui venit in nomine Domini”.
Tolkien sapeva quale grande dono era la fede e quanto fosse costata a sua madre. Voleva che questo dono non si spegnesse mai nel cuore dei figli che tanto amava: “io sto sempre in ansia per i miei figli: che in questo mondo più duro, più crudele e più beffardo di quello in cui io ho vissuto, devono subire più attacchi di me. Ma io sono stato di quelli che è fuggito dall’Egitto e prego Dio che nessuno della mia stirpe debba ritornare là”.
Nel 1971 morì Edith, verso la quale erano andate gran parte delle energie e delle premure di Tolkien negli ultimi anni della sua vita.
Nel 1972 tornò ad Oxford dove ottenne il dottorato Honoris Causa. Venne anche insignito del C. B. E. da parte della Regina d’Inghilterra. Nella fine di agosto del 1973 si recò da alcuni amici, dove si ammalò e nel giro di pochi giorni morì. Era il 2 settembre del 1973. Il suo corpo sepolto nel cimitero cattolico venne posto accanto a quello della moglie.
A una giovane ragazza che una volta lo aveva interrogato su un compito in classe dal titolo Qual è lo scopo della vita, Tolkien le aveva risposto: “lo scopo principale della nostra vita, per ciascuno di noi, è quello di aumentare, in base alla nostra capacità, la nostra conoscenza di Dio con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione e grazie a questa conoscenza esprimere lodi e ringraziamenti. Fare come diciamo nel Gloria in Excelsis: Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te, gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam. Ora vogliamo pensare che questa attività non è venuta meno in Tolkien, ma che continua nel Regno dei Cieli, dove “vi è più dei ricordi”.




[1] La sua fedeltà a questa pratica la si deduce anche da questi stralci di lettera: “mi ero alzato alle cinque per andare alla messa del Corpus Domini”; “Domenica Prisca e io abbiamo pedalato sotto la pioggia  e nel vento fino a St Gregory. Prisca stava combattendo contro un raffreddore e altri malanni, e questo non le ha fatto molto bene, anche se adesso sta meglio; ma abbiamo avuto uno dei migliori (e più lunghi) sermoni di padre C.

[2] Termine coniato da Tolkien per descrivere il miracoloso capovolgimento di una situazione, la rottura della catena causa ed effetto per un intervento imprevisto e inaspettato, “l’improvviso lieto fine di una storia che ti trafigge con una gioia tale da farti venire le lacrime agli occhi”.

[3] Il figlio Christopher così scrisse nella prefazione al Simarillion: “le vecchie leggende (“vecchie” non soltanto perché risalivano alla Prima Era, ma anche nell’ottica della vita di mio padre) sono divenute il veicolo e il deposito delle sue più profonde meditazioni. Nei suoi ultimi scritti, mitologia e poesia hanno così ceduto il posto a interessi di ordine teologico e filosofico”.

[4] L’uomo è chiamato a cooperare con Dio nella Creazione, attraverso la generazione naturale con la continuazione della specie e attraverso la generazione dell’intelletto e delle abilita fisiche con le invenzioni, il lavoro, le opere d’arte…

[5] Riguardo all’allegoria Tolkien così si esprime: “Personalmente, da quando sono sufficientemente adulto da riconoscerla, detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue manifestazioni. Preferisco molto di più la storia, vera o immaginaria, con i suoi diversi gradi di applicabilità al pensiero e all’esperienza dei lettori. Penso che molti confondono “applicabilità” con “allegoria”, ma l’una consiste nella libertà del lettore, l’altra nel voluto dominio dell’autore”. Ancora: “non mi piace l’allegoria (cosiddetta: la maggior parte dei lettori sembra confonderla con il significato o con la possibilità interpretativa) ma questa è una faccenda troppo lunga perché io la tratti qui”.