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venerdì 31 gennaio 2014

L'amicizia

  L'amicizia
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"Chi vede questi ragazzi ammiri la forza trascinante e commovente dell'amicizia. Se c'è da cercare una speranza tra le pieghe della vita, questa è nell'amicizia [...] L'amicizia è l'unica possibilità di serenità per la persona, è il luogo del riposo. Il valore sorgivo e indistruttibile delle nostre comunità è l'esperienza dell'amore, quell'essere voluto che ciascuno vive. La comunità è vivere con qualcuno che ti va sentire accolto. Ciò che sconfigge ogni sottile filo di rassegnazione, delusione o di inutilità è l'essere voluto"
Silvio Cattarina, da Torniamo a casa

amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili

amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili
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Non esiste investimento sicuro: amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessu­no, nemmeno a un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello scri­gno - al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto - esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile impenetrabile, irredimibile.
L’alternativa al rischio di una tragedia è la dannazione. L’unico posto, oltre al cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e i turbamenti dell’amore è l’inferno.


C.s:Lewis, da I quattro amo

la sete di "infinito"

la sete di "infinito"
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«Cosa dunque ci gridano questa avidità e questa impotenza, se non che un tempo ci fu nell’uomo una vera felicità, di cui ora gli restano soltanto il segno e la traccia del tutto vuota, che egli tenta invano di riempire con tutto quanto lo circonda, chiedendo alle cose assenti quanto non ottiene dalle presenti? Aiuto di cui sono tutte incapaci, perché questo abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito».


Pascal, da Pensieri

giovedì 30 gennaio 2014

Lizzie, la storia esemplare della ‘donna più brutta del mondo’

Lizzie, la storia esemplare della ‘donna più brutta del mondo’

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Definita sin da bambina come ‘mostro’, fino ad essere etichettata come la ‘donna più brutta del mondo’, Lizzie Velasquez in realtà è semplicemente una ragazza affetta da una malattia rara. Ma a prezzo di grandi fatiche, è riuscita a prendersi una grande rivincita sulle offese subite e mosse da cattiveria banale e gratuita, laureandosi, diventando una scrittrice e una speaker motivazionale. 

Ieri, navigando sulla rete, mi sono imbattuta in questo video
, e ho pianto per la tristezza e la forza che mi ha contemporaneamente trasmesso e per la commovente carica di emotività che emerge da un’ironia e da un coraggio conquistati con fatica da questa donna così minuta eppure così immensa nel suo essere. Lizzie è l’esempio di chi ha dovuto superare ostacoli più grandi del solo dolore fisico, oltrepassando la crudeltà, l’indifferenza, la paura, la consapevolezza di non potersi mai uniformare del tutto agli altri.

Chiunque possegga il social network facebook avrà visto comparire almeno una volta la foto di Lizzie sulla propria home, associata a frasi crudelmente ironiche sulla sua bruttezza. E non deve essere la scoperta della sua malattia a scatenare finti sensi di colpa e sguardi intrisi di misera vergogna, ma la bassezza dell’offesa mirata a colpire chi non è stato dotato dei requisiti estetici che secondo milioni di ignoranti dovrebbero garantire il rispetto della massa, sempre pronta a ferire senza scrupoli e mai a chiedere scusa.
lizzieLizzie Velasquez è una giovane di Austin, Texas, affetta da una malattia rarissima conosciuta come sindrome di De Barsy, una patologia genetica che non le permette di accumulare peso, o conservare il grasso nel suo corpo, e che proprio per la sua rarità non conosce ancora diagnosi certe.
Poco più che 20enne, Lizzie non ha mai pesato più di 29 chili in tutta la sua vita e per cibarsi deve fare pasti piccolissimi, uno ogni 15 minuti per rimanere in vita, per un totale di 60 pasti al giorno. Purtroppo ha perso completamente la vista di un occhio e nell’altro la visione è limitata. I medici non sanno cosa potrà accaderle in futuro in quanto vi sono solo altri due casi simili nel mondo.
Ma sono state proprio queste difficoltà estreme a renderla quella che è, una donna che non ha timore di mostrarsi, di rivelarsi, di raccontare la propria storia, e che anzi la espone con fierezza per essere d’aiuto a chi vive situazioni di malessere che non gli permettono di reagire.
Nel video, Lizzie descrive la sua patologia con un umorismo disarmante, ringraziando i suoi genitori per non averla mai abbandonata e per averle assicurato una vita quasi normale, incitandola a non perdere mai la fiducia in se stessa, anche quando si è dovuta imbattere nei primi rapporti sociali e nelle conseguenti discriminazioni legate al suo aspetto.
lizzieUn lungo travaglio, iniziato il primo giorno d’asilo, quando una bambina scappò impaurita al suo arrivo, e continuato ogni volta che le persone reagivano con disgusto alla sua presenza, senza che potesse capirne i reali motivi. Alle medie arrivò implacabile la realizzazione della propria diversità e il desiderio di poter spazzare via la sua malattia, accompagnato da ripetute e costanti delusioni. Delusioni esplose alla vista, quando aveva soli 16 anni, di un video con 4milioni di visualizzazioni su youtube che la ritraeva, intitolato: “la donna più brutta del mondo”. Tra i vari commenti crudeli che lo accompagnavano uno più di altri l’aveva ferita: “Lizzie, ti prego, fai un favore al mondo, puntati una pistola alla tempia e ucciditi.”
Parole dure come poche, che la amareggiarono così tanto da spingerla quasi al suicidio, ma accantonò presto questa idea, realizzando che la sua vita non era nelle bocche di chi la giudicava, ma unicamente nelle proprie mani, così come quella di ognuno di noi. Sarebbe stata lei sola da quel momento a decidere che strada far prendere ai suoi passi, ai suoi pensieri, alla sua serenità. Lascerò che coloro che mi chiamano mostro e che mi hanno detto di uccidermi definiscano ciò che sono? No, lascerò che siano il mio successo, i miei risultati, le mie gioie e soddisfazioni a definire ciò che sono, non il mio fisico, non la mia cecità parziale, non la mia sindrome […]”Lizzie ha saputo così riciclare le cattiverie subìte in scalini su cui puntare all’ascesa per la felicità e al raggiungimento di tutti gli obiettivi che si era proposta.
lizzie“Ho usato la loro negatività per alimentare il mio fuoco, per continuare ad andare avanti. Usate quella negatività nelle vostre vite per migliorarvi, perché vi garantisco che ne uscirete vincitori. Voglio che uscendo da qui vi chiediate cosa vi definisce. Il coraggio inizia qui.”

Lizzie ha dimostrato di aver avuto il coraggio di non lasciarsi ‘definire’ da agenti esterni, di trovare in se stessa la spinta a combattere, a non cedere all’autocommiserazione, a non permettere alle malvagità di scalfire la sua sensibilità, continuando ad essere grata alla vita per quello che le dava e non per quello che inspiegabilmente le aveva tolto. Una lezione di umiltà e di tenacia per tutti



da:

Zerottonove

mercoledì 29 gennaio 2014

Grossman e l’identità tra comunismo e nazismo

Grossman e l’identità tra comunismo e nazismo: «Tutto comincia con la sostituzione della realtà con l’ideologia»

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gennaio 29, 2014 Francesco Amicone
Per il grande scrittore russo emarginato dal regime sovietico dopo “Vita e destino” la dinamica totalitaria non è isolata nella storia del Novecento ma riguarda ogni uomo. Ne ha parlato Pietro Tosco, esperto della sua opera
medium_Grossman3«I totalitarismi sono due – comunismo e nazismo – e sono fratelli». Con queste parole il direttore esecutivo dello Study Center Vasilij Grossman, Pietro Tosco, ha spiegato cosa intendesse dire il grande autore russo nel suo capolavoro Vita e destino. «La tesi eretica, esplosiva di Grossman», contenuta nel libro che lo condannò all’emarginazione e alla povertà, ha spiegato Tosco durante una conferenza a Carate Brianza organizzata dall’Istituto Don Carlo Gnocchi, «è il pensiero che i due totalitarismi, nazismo e comunismo, sono l’uno lo specchio dell’altro», e che anzi sono «identici, perché identico è il loro principio ideologico».
COMUNISMO COME IL NAZISMO. La tesi appartiene a uno dei più grandi scrittori russi, nonché brillante corrispondente dal fronte del giornale dell’Armata rossa, e ha fatto indignare molti apologeti del comunismo sovietico. Grossman non aveva il problema di districarsi fra giustificazioni e distinzioni fra i due totalitarismi. Faceva parte dell’élite intellettuale del regime ed era uno dei giornalisti sovietici più celebri in tempo di guerra, il primo a mettere il piede in un campo di concentramento nazista, a Treblinka. Nonostante la sua posizione privilegiata, non si è tirato indietro davanti all’evidenza. Subito dopo la guerra «Grossman si rende conto che i due grandi totalitarismi, i due grandi eserciti che a Stalingrado si erano fronteggiati come due grandi nemici, in realtà hanno qualcosa in comune».
comunismo-guardian-jpg-crop_displayI TOTALITARISMI. Dell’uguaglianza fra i due totalitarismi, che ha origine nel mezzo dei combattimenti, «Grossman si accorge all’indomani della guerra mondiale», ha affermato Tosco. «La guerra è stata vinta da ciascun singolo soldato dell’Armata rossa ma viene impugnata dal partito sul banco dei vincitori per giustificare il passato». Per lo scrittore russo, Stalin, che con Hitler aveva sottoscritto il patto di non aggressione Molotov-Ribbentropp (con annessa spartizione della Polonia), «non è l’elemento negativo di un processo cominciato in positivo, ma la conseguenza necessaria che in Russia è cominciata con il padre della rivoluzione, Lenin». Dunque per Grossman, ha proseguito Tosco, «è il comunismo e non lo stalinismo a essere totalitario».
LO STATO DI PARTITO. «Per lo scrittore, russo i due totalitarismi non hanno un’analogia soltanto nella violenza», ha proseguito Tosco. Grossman può tracciare la simmetria dei due regimi sulla base di un principio di identità che viene ancora prima della violenza: lo «Stato di partito». Cioè, ha ha spiegato Tosco, «una realtà che dipende dalla volontà del partito, dove l’ideologia viene eretta a principio assoluto e sostituita alla realtà stessa». Questo terreno comune fra nazismo e comunismo, Grossman lo descrive narrativamente in Vita e destino nel dialogo notturno fra il gerarca nazista Liss e il rivoluzionario bolscevico Mostovskoj. Nella conversazione il nazista Liss pone il comunista Mostovskoj di fronte a una deduzione elementare: «Noi siamo le forme differenti di un unico essere, lo Stato partitico». Grossman non si ferma qui, e fa dire a Liss: «Quando ci guardiamo in faccia l’un l’altro, noi guardiamo uno specchio», per questo «non riesco a spiegarmi il motivo della nostra inimicizia».
Stalin_lg_zlx1KULAKI ED EBREI. Dove ha inizio l’ideologia? Nelle parole. Quando il loro significato viene sostituito e «la realtà diventa quello che di essa si debba dire». Secondo Tosco, lo aveva bene in mente Grossman, che in Tutto scorre, con una riflessione sui “kulaki”, gli agricoltori “benestanti” sterminati da Stalin, scrive: «Per ucciderli, si è dovuto spiegare che i kulaki non erano uomini. Sì, come quando i tedeschi dicevano: i giudei non sono uomini. Allo stesso modo Lenin e Stalin: i kulaki non sono uomini». «Dunque entrambi i regimi, per Grossman, introducono una barriera tra l’uomo e la realtà, la cui origine ha a che fare con la menzogna, con la parola», ha proseguito Tosco. «La violenza prima di essere fisica è linguistica». Così, ha affermato l’esperto dell’opera grossmaniana, «come nella Germania nazista non si parlava di sterminio di ebrei ma di “soluzione finale” così in Unione Sovietica non si diceva fucilazioni di massa ma “misura di profilassi sociale”». Come gli ebrei furono considerati nemici di fatto del nazismo e della razza ariana, «in Unione Sovietica si arrivò al principio assurdo del “nemico oggettivo”, che è tale perché esiste e non per quello che fa».
TUTTI POSSONO ESSERE IDEOLOGICI. «La forza di Grossman sta nell’individuare la dinamica ideologica non come isolata nella storia del Novecento, ma come una dinamica umana», ha continuato Tosco. «Ciascun uomo può essere ideologico» è un’affermazione che il narratore russo, ha puntualizzato l’esperto, «sosteneva sulla base della tradizione ebraica, che aveva riscoperto durante la guerra». Evidente in questo senso è «il richiamo dell’ideologia alla forza dinamica dell’idolo, di cui parlano i salmi». Come l’ideologia, l’idolo, ha spiegato Tosco, è ciò che «dice di essere qualcosa che non è, promettendo qualcosa che non può mantenere». «Alla gabbia dell’ideologia, Grossman contrapponeva non un’altra ideologia», ha concluso Tosco, «bensì ciò che nella tradizione ebraica è definito “cuore”, qualcosa che tutti gli esseri umani hanno in comune e che niente può ingabbiare, che la tradizione occidentale ha chiamato libertà».

lunedì 27 gennaio 2014

Il rabbino che si arrese a Cristo e che fece smettere di “protestare” alcuni protestanti

 

Il rabbino che si arrese a Cristo e che fece smettere di “protestare” alcuni protestanti

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Eugenio Pio Zolli, nato Israel Anton Zoller (1881–1956)
Eugenio Pio Zolli, nato Israel Anton Zoller (1881–1956)
Il rabbino capo di Roma durante la Seconda Guerra Mondiale, Israel Zolli, si convertì al cattolicesimo. Scelse di farsi battezzare, nel 1945, col nome di Eugenio Pio, in onore di Pio XII (al secolo Eugenio Pacelli), come segno di gratitudine per tutto quello che il Papa aveva fatto per il popolo ebraico durante la persecuzione nazista. Anche la moglie Emma e la figlia Myriam si convertirono.
Zolli divenne un importante studioso della Sacra Scrittura. Si concentrava soprattutto sullo studio delle profezie anticotestamentarie compiutesi nella persona di Gesù Cristo. Sperava che tutto il suo popolo d’origine avrebbe riconosciuto, finalmente, in Gesù Cristo il messia promesso dal Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Verso i primi anni Cinquanta del secolo scorso – quando i suoi studi divennero famosi in tutto il mondo, ma soprattutto furono osteggiati nel novello stato israeliano –  fu contattato da alcuni pastori protestanti, i quali gli chiesero un incontro privato. Zolli era un po’ perplesso, ma accettò.
I “buoni pastori” protestanti offrirono a Zolli ingenti somme di denaro affinché, con i suoi studi sulla Sacra Scrittura, trovasse le “prove” della falsità del primato di Pietro. Zolli rifiutò con sdegno e indicò loro la porta. I pastori, prima di lasciare la stanza, gli chiesero perché avesse “scelto” la Chiesa cattolica e non una di quelle protestanti.
Il prof. Zolli, sorridendo, rispose: «Non voglio mettere in imbarazzo nessuno chiedendo: “Perché avete aspettato millecinquecento anni prima di protestare?”. La Chiesa cattolica fu riconosciuta nel mondo cristiano come la vera Chiesa di Cristo per quindici secoli consecutivi. E nessuno può fermarsi alla fine di questi 1500 anni e dire, solo allora, che la Chiesa cattolica non è la Chiesa di Cristo, senza mettersi in un serio imbarazzo. Posso ammettere l’autenticità di una sola Chiesa, quella annunciata a tutte le creature dai miei stessi antenati, i dodici apostoli che, come me, sono usciti dalla Sinagoga».
BIBLIOGRAFIA
“Il Rabbino che si arrese a Cristo”, di Judith Cabaud  (San Paolo, 2002).

Hannah Arendt, l’ebrea che scandalizzò il mondo mostrando la “banalità” dello sterminio nazista

Hannah Arendt, l’ebrea che scandalizzò il mondo mostrando la “banalità” dello sterminio nazista 

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gennaio 27, 2014 Luigi Amicone

Nel film magistrale di Margarethe Von Trotta i quattro anni in cui la filosofa perse gli amici e la reputazione raccontando il processo Eichmann e la “burocrazia” della Shoah. Proiezione straordinaria per i lettori di Tempi



hannah-arendt-film-locandina

Non abbiamo capito nulla se pensiamo che il “Giorno della Memoria” sia un momento di esorcismo collettivo, utile a suscitare tutt’al più una 24 ore di emotività, compassione e simpatia per gli ebrei. Una volta, quando i palestinesi iniziarono a disonorare le loro bandiere lanciando ragazzi imbottiti di esplosivo contro altri ragazzi colpevoli soltanto di essere israeliani, aprendo così una nuova era di empietà totalitaria (a cui qualcuno ha offerto giustificazione e finanche ammirazione), Alain Finkielkraut scrisse che in Occidente il peggiore antisemitismo non si manifesta nei rozzi “naziskin”. Ma in quanti, soprattutto a sinistra, sono pronti a sciogliersi nella commiserazione per gli ebrei morti, ma non per gli ebrei vivi. D’altra parte, per fare vera “memoria” uno deve chiedersi: ma da che pianeta è venuta quella genìa di belve che pianificò ed eseguì materialmente l’Olocausto? Erano marziani? Mostri? O cos’altro erano? Diavoli? Niente di tutto ciò (e nemmeno naziskin), risponde l’ebrea Hannah Arendt raccontata nel film di Margarethe Von Trotta.
Gli spietati esecutori dello sterminio di sei milioni di ebrei appartenevano a questa terra. E non erano belve. Né mostri. Né diavoli. In effetti, ci rammentano i dialoghi e le immagini storiche e di repertorio del processo Eichmann visto con gli occhi di Hannah Arendt (che lo ha seguito in presa diretta a Gerusalemme nel biennio 1961-1962), i volenterosi carnefici degli ebrei erano dei «signor nessuno». «Perfette nullità». «Mediocrità». «Funzionari». «Burocrati». Erano l’omino inquadrato dalle telecamere di tutto il mondo e che riemerge da spezzoni di un documentario in bianco e nero, ripreso mentre sconcertato, incerto, tremolante, risponde alle domande del Procuratore generale «… ma la legge è legge… Ho solo eseguito ordini… Mi state rosolando come una bistecca sulla griglia».
«Avrei ucciso mio padre»
Ecco, per capire e tramandare una memoria veramente viva e veramente efficace della Shoah, sostiene la Arendt che ci viene magistralmente narrata da una grande regista e dalla strepitosa sceneggiatura di Pam Katz, bisogna ricordare e tenere sempre bene a mente questa terribile verità: per la prima volta nella storia, milioni e milioni di esseri umani inermi furono trucidati, gasati, arsi nei forni, resi polvere al vento, non per lo scatenamento di un odio irrefrenabile e apocalittico divenuto follia di massa. Ma per una grigia teoria che ha cominciato col marchiare un certo gruppo religioso e sociale, impedendogli di fare cose che fanno tutti (lavorare, salire su un autobus, scrivere, insegnare, educare secondo la propria coscienza, identità e cultura). A un certo punto, la teoria ha finito per tirare le conseguenze e ha spalancato le porte all’inferno come normalità impiegatizia. Le uccisioni di massa diventano un affare di normale procedura e organizzazione di Stato (nel caso, con tipica determinazione teutonica). Massimo impiego di poteri impersonali, straordinaria perizia logistica e immenso dispiegamento di mezzi e uomini.

adolf-eichmann-processoPossiamo immaginare cosa c’è dietro la possenza di una macchina statale impiegata nella deportazione, uccisione e cancellazione delle tracce di sei milioni di persone? Sì, se ascoltiamo Eichmann a Gersualemme: «Sì, avrei ucciso mio padre, l’avrei fatto se mi avessero dato l’ordine di farlo». In effetti, l’1 settembre 1939, Hitler ordina di ottemperare immediatamente al decreto legge che, nell’agosto dello stesso anno e con tutti i crismi medico-legali e pareri delle eminenti Corti tedesche deputate al caso, autorizzava gli organi dello Stato, medici e funzionari della sanità, a dare “la morte per grazia” ai malati mentali e incurabili. A quel punto si era trovata la “soluzione” anche per gli ebrei (in precedenza si era pensato di imbarcarli e spedirli in Madagascar).
Un’impresa “industriale”
I russi entrano a Treblinka nel luglio 1944. Verosimilmente, è la data degli ultimi “carichi”, ultimi “trasporti”, ultima fase dello sterminio di un popolo. Dunque, occorsero meno di cinque anni per trasportare, uccidere, incenerire, occultare sei milioni di persone. Facendo i conti a spanne, si è trattato di una colossale impresa “industriale” realizzata all’incredibile media di oltre un milione di uccisioni l’anno, centomila al mese, più di tremila al giorno, centocinquanta all’ora. Quasi tre persone uccise ogni minuto. Per cinque anni. E mentre caricavano treni e facevano sparire gli ebrei, i tedeschi dovevano affrontare la vita quotidiana, la guerra, l’offensiva su tutti i fronti delle potenze alleate; dovevano far sparire gli ebrei e nel contempo combattere al fronte, fare la spesa e caricare i treni, vestire i bambini e avere gli incubi per il bambino ebreo della porta accanto che loro stessi avevano denunciato alla Gestapo.

hannah-arendt-film-3Anche solo riandare alla situazione della Germania di fine anni Trenta del secolo scorso e alla tempistica dell’Olocausto fa rabbrividire. Eppure dice Eichmann: «Non ho torto un capello a un ebreo, smaltivo carichi in via amministrativa». Questo è il brand del male per il quale un’ebrea, filosofa e storica tedesca rifugiata in America, conia il termine “totalitarismo”. Qualcosa che non si era mai visto prima. Qualcosa che si sarebbe rivisto nel comunismo di Lenin, Pol Pot, Mao Tze Tung e oggi in Corea del Nord. Qualcosa – nazismo e comunismo – di cui ha scritto il romanzo definitivo Vasilij Grossman.
Non basta. C’è una seconda parte della storia della Shoah riletta da Hannah Arendt. Ed è, tutto sommato, la parte meno interessante, anche se nel film viene rappresentata in maniera drammaticamente e storicamente impeccabile. Certo, si capisce che anche l’intelligente socialista Margarethe Von Trotta è lì lì per commettere il grande e imperdonabile peccato della modernità. Il peccato degli uomini medi diffidenti e furbi, sorta di intellettuali e caricature di filosofi che dubitano e che per alimentare i loro dubbi, la loro pseudo ricerca, la loro pensosità stupida, hanno bramosia d’informazione come di zucchero (anche questa è un’idea messa nero su bianco al tempo in cui non esisteva ancora wikipedia dalla migliore amica di Hannah Arendt, quella Mary McCarthy splendidamente interpretata nel film da Janet McTeer). Però, siccome Von Trotta è veramente intelligente e, dunque, ha accettato il dialogo con Pam Katz («con lui siamo riuscite a scrivere la sceneggiatura grazie a una sorta di “ping-pong”, per cui discutevamo il lavoro per mail, al telefono e di persona, a New York, Parigi e in Germania»), ha capito che se voleva raccontare Hannah non poteva pensare né allo zucchero, né a wikileaks, né ergersi a tribunale e avvocato dei tedeschi. E magari avrà pure riflettuto sul fatto che, in fondo, la moderna retorica sulla “totale trasparenza” e sul “diritto all’informazione” come diritto a sapere tutto di tutti, si riduce a questo: vogliono farti sapere che qualcuno ti ha tradito e sentirti rispondere “sono indignato, li denuncio, in galera”.
hannah-arendt-film-2Tutto il mondo contro
Nel caso di Hannah la questione è più seria e complicata. Voleva capire. E in più, aveva anche un motivo molto personale per approfondire la comprensione di certi fatti. Forse a guidare la cocciutaggine di Hannah (o “arroganza”, come ripetono nella pellicola i suoi detrattori) fu il pensiero del doppiopesismo con cui da una parte venne unanimemente condannato il suo “re nascosto e segreto” (l’amato Martin Heidegger) per la sua adesione al nazismo. Dall’altra era scesa una spessa coltre di silenzio sulle responsabilità di certi capi dell’ebraismo nella collaborazione con gli aguzzini degli ebrei. Argomento che durante il processo a Gerusalemme, a parere di Hannah, venne «deliberatamente e inspiegabilmente evitato». Dopo di che, ebbe certamente le sue ragioni Kurt Blumenfeld, definitivamente perduto come amico: «Hannah, questa volta hai esagerato».

Ed eccoci dunque al secondo corno spinoso del film di Von Trotta: nelle sue corrispondenze da Gerusalemme e da altre ricerche che Arendt aveva svolto in Europa (poi rifluite nel libro La banalità del male), erano emersi fatti che dimostravano l’avvenuta collaborazione all’Olocausto di alcuni capi di agenzie e consigli ebraici. Oltre che nei dialoghi, nel film questa tragedia è evocata dall’immagine di repertorio in cui si vede uno spettatore al processo che interrompe con urla e invettive la deposizione di un rabbino ungherese.
L’amico e teologo Gershom Scholem scriverà in proposito ad Hannah: «Ho ammesso che il problema è abbastanza reale. Perché, allora, il tuo libro dovrebbe comunicare una sensazione di amarezza e di vergogna così forte che non riguarda il contenuto, bensì l’autore?». Ecco, prosegue Scholem le cui parole nel film vengono messe sulla bocca di Kurt, «nella tradizione ebraica c’è un concetto, difficile da definire e tuttavia abbastanza concreto, che conosciamo come Ahabath Israel: “L’amore per il popolo ebraico”. In te, cara Hannah, non ne trovo traccia».
hannah-arendt-film-1A quei tempi equivoci e strumentalizzazioni potevano annidarsi ovunque. I due anni della Arendt a Gerusalemme sono infatti anche gli anni più terribili della Guerra fredda. Tra il 1961 e il 1962 il mondo rischia di sprofondare nell’apocalisse per la “crisi di Cuba”. In quello stesso biennio di massima contrapposizione Usa-Urss, papa Giovanni XXIII indice il Concilio del “dialogo” e invita a Roma le autorità ortodosse di Mosca. Il 1961 è anche l’anno in cui la Repubblica Democratica Tedesca sovietizzata erige il Muro di Berlino e i comunisti preparano “la leggenda nera su Pio XII” (Paolo Mieli), la “calunnia sanguinosa” (David Jaeger) – a cui anche la Arendt sembrò prestare ascolto – della “complicità” di Pio XII nello sterminio degli ebrei. Tant’è, il solo dettaglio errato nella ricostruzione della Von Trotta è la supposta “copertura” offerta dal Vaticano alla fuga di Eichmann.
Comunque sia, questo è il clima che fa da cornice al viaggio di Hannah a Gerusalemme e alle sue corrispondenze e riflessioni sulla Shoah. In definitiva, è un vero peccato che la proiezione in Italia di questo film distribuito da Nexo Digital e Ripley’s Film sia prevista solo nei giorni 27 e 28 gennaio. Dovrebbero poterla ascoltare e vedere tutti la storia di una donna che ebbe contro il mondo perché il mondo pensava che lei, famosa e brillante ebrea in carriera, sarebbe andata a Gerusalemme per scrivere ciò che il mondo si aspettava che lei scrivesse. Spettacolo dell’orrore, indignazione per il mostro, compassione per gli ebrei. Hannah fece molto di più. Guardò in faccia gli autori del male e mostrò che non è difficile essere come loro.

domenica 26 gennaio 2014

La società del divertimento distrae dalla felicità



Al cuore di Leopardi 10. La società del divertimento distrae dalla felicità  E-mail

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Il divertimento e l'assopimento sono modi di evadere la vera ricerca della felicità. È il tema che emerge nell'operetta morale di Leopardi Dialogo di Malambruno e Farfarello. Mai idea è stata più attuale nella nostra società.
Nell’operetta morale «Dialogo di Malambruno e Farfarello», dopo aver chiesto la felicità al demone e aver ottenuto una risposta negativa, Malambruno desidererebbe almeno togliere l’infelicità. Farfarello risponde che ciò è impossibile a meno che non smetta di volersi bene. Se ciò che ci procura  tristezza è la domanda che sembra non trovare appagamento, è sufficiente smorzare la tensione del desiderio per stare, solo apparentemente, meglio.  Ecco perché un assopimento dell’animo è, in generale, piacevole, perché consiste in uno stordimento della ragione, in un annebbiamento delle domande del cuore: «Il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie di travaglio abituale dell’anima. Quindi [... ] un assopimento dell’anima è piacevole. I turchi se lo procurano coll’oppio, ed è grato all’anima perché in quei momenti non è affannata dal desiderio, perché è come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n’avvede» (Zibaldone).
Nell’operetta morale «Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare» il protagonista  nella sua solitudine del convento / manicomio di Sant’Anna chiede allora quali siano i rimedi contro la noia, contro questo pungolo che non ci fa stare tranquilli, ma ci fa sospirare di desiderio. La risposta è «il sonno, l’oppio, il dolore». La società contemporanea sembra essere una fabbrica di assopimento dell’animo. L’oppio di cui parla Leopardi è la droga diffusa in tutte le sue forme nel mondo giovanile e anche in quello più adulto, le forme di felicità chimica, ovvero di stordimento e di distruzione graduale della ragione umana e del fisico. La droga sembra diventare abitudinaria accompagnatrice delle serate di chi vuole divertirsi, trattata come amica. A quale stordimento giunge spesso l’uomo! L’assopimento è, spesso, procacciato attraverso l’alcool, attraverso l’ebbrezza che toglie ogni inibizione e che, nel contempo, stordisce. Il genio familiare cita, però, anche un altro espediente, il sonno, che si può intendere nel senso letterale del termine o in quello metaforico di fuga dalla realtà, costruzione di una campana di vetro all’interno della quale ripararsi e non vivere. Quante forme di sonno esistono, quante forme di annichilimento della coscienza vengono sovente adottate! Il sonno è, però, senza che ricorriamo ad una lettura metaforica, la via immediata cui molti ricorrono per stare meno male. Non a caso chi si sente depresso  si rifugia spesso nel dormire.


Eppure, l’animo spesso predilige forme di assopimento più vitali. Quest’ultima può sembrare un’espressione ossimorica e paradossale, ma non lo è: infatti,  l’uomo, volendosi illudere di vivere e pensando che l’intensità della vita dipenda dalla quantità di attività, si riempie  le giornate di occupazioni, satura ogni spazio vuoto, eliminando le occasioni per pensare e per porsi domande. «La vita continuamente occupata» scrive Leopardi nello Zibaldone, «è la più felice, quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L’animo occupato è distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro, il provvedere ai suoi bisogni ordinari, ec. ec. ec.) giacché li considera allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l’anima desidera), e conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose e la speranza di quei piccoli fini […] bastano a riempirlo, e a trattenerlo nel tempo del suo riposo». Leopardi è, però, ben cosciente dell’inganno del divertimento e dell’occupazione continua della propria giornata con mille attività. Scrive, infatti, nello Zibaldone: «Né la occupazione né il divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l’uomo occupato o divertito comunque, è manco (meno)  infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione alcuna… Occupata o divertita (sottointeso la vita), ella si sente e si conosce meno, e passa, in apparenza più presto, e perciò solo, gli uomini occupati o divertiti, non avendo alcun bene né piacere più degli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non divertiti, sono più infelici, non perché abbiano minori beni, ma per maggioranza di male, cioè maggior sentimento, conoscimento, e diuturnità (apparente) della vita».
La frenetica vita di oggi sembra la paradigmatica rappresentazione di una risposta che la società contemporanea ha dato alla questione della felicità, risposta pilotata dal potere che induce falsi bisogni e li pone come esigenze fondamentali dell’io. Siamo bombardati da messaggi che ci inducono a pensare in positivo per la moltitudine dei beni di consumo che l’uomo può ottenere, siamo immersi nella civiltà che ci gestisce il tempo libero ora per ora, come nei villaggi turistici dove il nostro divertimento è sentirci dire cosa fare e come occupare le nostre giornate. Riempire il vuoto, mettere a tacere l’horror vacui, che provoca un senso di vertigine, è la parola d’ordine attuale. I più, nella propria dimenticanza, non si avvedono neppure di non essere liberi in questo modo di agire, presuppongono di stare bene, semplicemente perché non sentono più la domanda. Paradossalmente una montagna di piaceri sommerge il vero desiderio.
Nei Pensieri Pascal definisce questo atteggiamento umano di distrazione con il termine divertissement. L’espressione  nel suo significato etimologico (dal latino divertere cioè «volgere qua e là, lontano dalla strada principale, dal solco tracciato») ben designa il tentativo, coscientemente o incoscientemente perpetrato, di strapparci dal nostro cuore originario, sede delle domande più autentiche sul significato e sul senso delle cose, attraverso distrazioni, palliativi, piaceri surrogati della felicità che hanno come conseguenza quella di alienarci, di allontanarci da noi stessi, di renderci estranei a noi stessi, di essere sempre fuori da noi così che «la nostra casa risulta disabitata». Per questo Pascal scrive: «Nulla è tanto insopportabile per l’uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l’affanno, il dispetto, la disperazione». L’uomo passa, così, da un piacere all’altro senza sosta, rimanendo deluso in continuazione, ma sopperendo a questo disinganno con l’immensa varietà dei piaceri. Spesso, non ha tempo di stancarsi dei piaceri, poiché vi si sofferma troppo poco e non ha lo spazio per riflettere sull’incapacità di essi a felicitarci. Ecco perché sovente, invece di approfondire i rapporti, si preferisce passare da un’amicizia all’altra, da un rapporto sentimentale all’altro nella paura che si possa altrimenti cogliere l’inganno di chi affida la felicità ad un bene (come idolo) oppure già nel puro cinismo che fa di ogni cosa un nulla, privo di significato e quindi bene interscambiabile. L’idolatria è l’altra faccia della medaglia su cui è rappresentata la cinica violenza di distruzione dei beni in una spietata iconoclastia: l’idolatria produce la stessa distruzione dell’idolo, quando l’uomo verifica la sua inadeguatezza e, quindi, lo distrugge e lo cambia in un altro idolo. Come si passa da un bene all’altro, così si passa anche da un luogo all’altro, come i ragazzi al sabato sera, in modo da riempire quelle lunghe ore della notte che si vorrebbero interminabili, ma che non si sa come trascorrere.
Potremmo essere tentati di autoescluderci da questi tentativi di assopire l’animo, pensando che droghe, alcool, moltitudini di piaceri riguardino forse altri, non noi. Forse non siamo, però, immuni dalla più comune delle smemoratezze, da quella borghesizzazione della vita, da quel desiderio di una «vita tranquilla» che ci lascia pensare che noi abbiamo già compiuto il nostro dovere, perché abbiamo lavorato ed è, quindi, giusta e meritata la serata di pura dimenticanza, come la vacanza del dolce far niente dopo un anno in cui le giornate sono state saturate dal lavoro e dall’iperattività. È la condizione del gregge, descritta  da Leopardi nel «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia», un gregge che può oziare senza sentire il pungolo della noia, senza avvertire che siamo nati per Altro, per una felicità piena. Il gregge siamo tutti noi quando soffochiamo le domande sulla vita, quando preferiamo il quieto vivere, quando pensiamo nell’intimo del nostro cuore (senza magari osare confessarlo) che tanto la felicità vera non esiste e che convenga, quindi, godersi la tranquillità senza chiedere di più dalla vita, dagli amici, dal rapporto con la moglie o la fidanzata. Il monito dei Dante è, però, severo e risuona nelle nostre orecchie attraverso la voce di Ulisse: «Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza».
 (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 17-11-2013)

La politica non può salvare l'uomo

L'AVVENTURA DEL VIAGGIO 6 - La politica non può salvare l'uomo PDF Stampa E-mail

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Dopo la questione dell’educazione affettiva Dante affronta subito anche quella dell’impegno politico. Potremmo anche dire che il poeta ha fin da subito sottolineato gli ambiti e i problemi fondamentali dell’umana esistenza: la «decisione per l’esistenza» (primi tre canti), la vocazione/affettività (canto V), il vivere associato (canto VI).
Nel canto VI dell’Inferno viene descritto il III cerchio, «de la piova/ etterna, maladetta, fredda e greve». A custodia delle anime si trova Cerbero, che nel Medioevo rappresenta sia l’ingordigia che le discordie civili. «Fiera crudele e diversa», provvista di tre teste, dagli occhi vermigli, dalla barba unta e atra, il mostro, mutuato dall’Eneide virgiliana, «graffia li spirti ed iscoia ed isquatra». Sono le anime dei golosi. Dante incontra qui Ciacco, soprannome che significa «porco» a designare il peccato per cui è condannato all’Inferno. Questi si presenta dichiarandosi appartenente alla città di Firenze, «ch'è piena/ d'invidia sì che già trabocca il sacco […]». Il poeta fiorentino non rivela particolare affetto per il conterraneo. Anzi, quanto è il trasporto affettivo nei confronti di Paolo e Francesca, emerso nel canto precedente, altrettanto è il distacco che trapela per Ciacco. Solo apparente è, infatti, il dolore che prova per il goloso («il tuo affanno/
mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita»), perché subito lo incalza con tre domande: a che punto arriveranno i fiorentini con le loro discordie, c’è qualche giusto, quali sono le ragioni che hanno disseminato l’odio nella città? Ciacco risponde con precisione e grande sintesi. Il futuro di Firenze vedrà prima la supremazia dei Guelfi bianchi, poi prenderanno il potere i neri grazie all’appoggio del Papa Bonifacio VIII. «Giusti son due, e non vi sono intesi;/ superbia, invidia e avarizia sono/ le tre faville c'hanno i cuori accesi». I tre gravi peccati che non permettono agli uomini di vivere in pace, nel rispetto reciproco e nella prospettiva di realizzare il bene comune, sono l’«amor excellentiae» (come san Tommaso definisce il desiderio di primeggiare non riconoscendo il valore altrui), l’invidia ovvero il «guardare male, con ostilità qualcuno» e la brama di denaro.


A questo punto Dante sottopone a Ciacco una quarta domanda: dove sono coloro «ch'a ben far puoser li 'ngegni» come Farinata, Arrigo, Mosca? Dante offre qui una bellissima definizione del politico: colui che ha usato la sua intelligenza e i suoi talenti per compiere il bene comune. Celebre è la definizione che Aristotele diede dell’uomo come «animale sociale», ovvero essere che per natura tende ad aggregarsi e a vivere associato, consapevole dei vantaggi e delle convenienze di quello che il filosofo J. J. Rousseau avrebbe poi chiamato il «patto sociale». L’affermazione di Aristotele sottolinea la naturalezza dell’impegno politico, nel senso ampio del termine. L’uomo è per natura portato a giocarsi nella rete di rapporti con i propri simili per affrontare i problemi non da un punto di vista individualistico, ma comunitario.

Con la laconicità che lo contraddistingue Ciacco risponde che Dante potrà vedere quei politici di cui vuole avere notizie se scenderà più in basso nell’Inferno, perché essi sono collocati nella parte più bassa. La risposta di Ciacco non vuole senz’altro significare che l’attività politica schiuda di per sé le porte dell’Inferno, ma ribadisce come non basti il «ben far» per salvarsi, cioè non è sufficiente dedicare il proprio tempo al vivere associato, occorre che la propria dedizione sia illuminata, occorre una sorta di purificazione dell’agire politico. La politica non salva l’uomo, né tantomeno un grande personaggio politico, come ad esempio Farinata (di cui si accenna qui e che troveremo nel canto X dell’Inferno tra gli eretici).
«Essendo la politica un’attività dell’uomo, ha bisogno di purificazione. Deve continuamente essere liberata dall’«ideologia». Infatti la libertà umana non è solo limitata perché sempre storicamente situata, ma è anche ferita dal peccato» (Angelo Scola). Che cosa può purificare l’agire politico? «L’incontro con Gesù Cristo, attraverso la fede nella comunità ecclesiale, si propone all’uomo come strada e forza per questa purificazione anche sociale. Di  purificazione non ha bisogno solo l’amore interpersonale (eros-agape), ma anche quello sociale (giustizia-carità)» (A. Scola).
In un’epoca come la nostra in cui sembra concretizzarsi il disinteresse per la politica profetizzato dall’intellettuale francese Alexis de Tocqueville (1805-1859), in cui si è persa la consapevolezza che l’impegno politico è per il bene comune, giova ricordare la lezione di Dante, quale emerge dalla sua azione indefessa e imparziale all’interno del comune fiorentino prima dell’esilio e come si chiarisce nell’opera principale che dedicò all’attività politica, ovvero il De monarchia. All’epoca della sua diffusione il trattato venne considerato anacronistico, perché rilanciava le due istituzioni tipicamente medioevali, Impero e Chiesa, ormai pienamente in crisi nei primi decenni del Trecento. Venne addirittura posto all’indice per secoli. Da altri venne interpretato e utilizzato strumentalmente a fini politici. Ora, gioverà riflettere su alcune considerazioni del trattato per giudicare più correttamente e senza pregiudizi il valore della posizione di Dante. La necessità dell’Impero è giustificata dal fatto che l’unità imperiale permette la pace che è, a sua volta, la condizione indispensabile perché ciascun uomo possa perseguire il fine della vita umana, la felicità. In pratica l’Impero (oggi noi potremmo dire lo Stato) appare come strumento dell’uomo e della persona, non certo il fine.  Dante insiste sul fatto che due sono i fini della vita umana, la felicità di questa terra e la beatitudine nell’altro mondo, ovvero la felicità per sempre. In questo contesto Dante sottolinea l’importanza della presenza di un’autorità morale e religiosa cui far riferimento, da lui identificata nel papato. Quindi, unità territoriale in una realtà politica unica e riferimento morale appaiono come la possibilità di garanzia di una condizione che permetta la crescita dell’uomo.
A distanza di settecento anni la storia dell’Europa, segnata ininterrottamente da guerre, insegna che l’unificazione economico-politica europea ha comportato sessanta anni di pace. Nel contempo, questi ultimi decenni sottolineano, però, come in Europa ci siano più volti ed anime, non si sappia a chi far riferimento nelle scelte importanti e sia necessaria un’autorità morale. Ora più che mai è evidente che non è possibile realizzare un’unità territoriale su basi economiche e politiche laddove non vi siano dei riferimenti ideali comuni e condivisi. La teoria dei due soli, giudicata così frettolosamente come anacronistica, illumina invece il passato dell’Europa come il presente. Non si deve credere che Dante volesse proporre una realtà politica su basi teocratiche. Dante ha sempre voluto evidenziare la divisione tra potere temporale e potere spirituale, il primo gestito dall’autorità imperiale, il secondo affidato alla Chiesa. Ai suoi tempi, venne addirittura additato come acceso oppositore della tesi teocratica assai diffusa tra fine del Duecento e inizio del Trecento.
La posizione di Dante è chiaramente espressa nel canto centrale di tutta la Commedia, il XVI del Purgatorio, in cui Marco Lombardo così si esprime:  «Soleva Roma, che 'l buon mondo feo,/due soli aver, che l'una e l'altra strada/facean vedere, e del mondo e di Deo./L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada/col pasturale, e l'un con l'altro insieme/per viva forza mal convien che vada;/però che, giunti, l'un l'altro non teme». Ovvero, Roma aveva due soli, due riferimenti, l’uno mondano e politico, l’altro religioso. Quando i poteri temporale e religioso sono affidati ad una sola figura non procedono bene. Ma stiamo attenti ad interpretare correttamente le parole di Dante. Ai nostri giorni Dante criticherebbe certamente con toni aspri la posizione laicista odierna secondo la quale le riflessioni religiose possano essere espresse solo in uno spazio privato, mentre in ambito pubblico non si possa esporre la propria convinzione di fede. Per Dante, infatti, l’uomo è sempre integrale, mai disunito, e porta sempre con sé in ogni ambito il proprio credo, le proprie convinzioni, i propri ideali. Non esiste una settorializzazione degli ambiti, ma l’unità della persona investe ogni aspetto della vita, dalla cultura alla politica alla letteratura. La coerenza dell’agire, non l’infallibilità, proviene da questo convergere dello sguardo sempre e solo al bene di sé e dell’altro. Nella visione dantesca, potremmo asserire con espressione sintetica, che la politica è eteronoma, non autonoma, non è un ambito separato dagli altri, ma afferisce agli altri ambiti, alla cultura, all’etica, alla religione, all’antropologia. Oggi, invece, sembra dominare gli scenari nazionali e internazionali l’insegnamento di Machiavelli. Il codice di comportamento e di riferimento etico sembra, infatti, mutare in relazione al fatto che ci si trovi in una dimensione privata o sociale o politica. Convinzioni religiose e ideali possono aver valore solo nella dimensione privata.  In una dimensione più ampia, quella dei rapporti sociali, si possono condividere valori etici o si possono assumere atteggiamenti diplomatici di tolleranza e di correttezza. Nella sfera politica, infine, sembra vigere un codice deontologico differente, unico, permesso, tollerato. Machiavelli docet, è l’ipse dixit sottaciuto, di cui si misconosce magari il valore, ma che invece si applica in ogni ambito. L’uomo politico, il principe, può essere simulatore e dissimulatore, fingere e, nel contempo, fingere di non aver finto. Le azioni da lui compiute saranno sempre giustificate se buone per lo Stato. Il principe dovrà, invece, guardarsi dal compiere azioni che possano ledere in qualche modo la grandezza dello Stato, mentre potrà compiere o meno quelle azioni, anche immorali, che sono insignificanti per lo Stato. In poche parole la legge dell’agire è la ragion di Stato, cioè il suo mantenimento o ingrandimento, ovvero il fine giustifica i mezzi nell’ambito politico, cioè qualsiasi azione è consentita per conservare il potere o per ottenerlo.
Nella prospettiva di Dante, l’uomo non è mezzo e strumento finalizzato all’Impero, bensì quest’ultimo ha come fine garantire la libertà della persona e permettere che il singolo possa ricercare la felicità. La politica contemporanea sembra aver dimenticato questa funzione dello Stato sorto dopo l’uomo, dopo la persona e fondata dalle persone per favorire la garanzia dei diritti inalienabili dell’uomo. I diritti e il valore della persona non sono certo per questo fondati sullo Stato, ma sono connaturati all’uomo.  I politici non si possono dimenticare che «il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica» (Scola). In questo senso non può esistere pace senza giustizia. «Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli stati se non delle grandi bande di ladri?» afferma sant’Agostino. La constatazione che lo Stato debba garantire un giusto ordine non significa certo che esso si debba sostituire al popolo, alle sue iniziative, alle sue opere e al servizio della carità.

Ci si può educare ad amare?

L'AVVENTURA DEL VIAGGIO 5.  
 


                      Ci si può educare ad amare?                  
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Nell’immortale canto V dell’Inferno viene descritto il secondo cerchio che comprende le anime dei lussuriosi, definiti come coloro che la «ragione sottomettono al talento». Sentimento e attrazione («talento») per l’altro sono importanti, ma non possono sopraffare la ragione, ovvero l’apertura alla realtà secondo la totalità dei fattori in gioco. Voler bene all’altro significa voler il bene dell’altro, la sua realizzazione e il suo compimento. Come può essere considerato un amore vero un rapporto che non realizza e non compie, che non guarda al destino e alla strada del compagno? Trascinati da una bufera che mai non ha sosta, a somiglianza del vento delle passioni che non seppero controllare in vita, i lussuriosi sono più volte paragonati ad uccelli che volano in un’aria cupa e di colore «perso» (cioè scuro). Dapprima l’intero gruppo di anime è paragonato agli stornelli che sono trascinati «a schiera larga e piena […] di qua, di là, di giù, di sù». Poi, in mezzo a loro Dante vede una lunga teoria di anime simili a «gru», che sono i lussuriosi che hanno concluso la loro vita con una morte violenta.
Tra questi vi sono Semiramide, Elena, Didone, Cleopatra, Achille, Paride, Tristano. Che siano personaggi storici e leggendari, sono tutti accomunati dal fatto di essere stati immortalati dalla grande letteratura. Qui, è proprio lei, la grande letteratura, ad essere messa sul banco degli imputati. Forse, proprio quella letteratura che ha posto come tema primario l’amore in realtà ha ingannato il suo pubblico, perché spesso non ha creduto nell’amore vero, che dura nel tempo, ma ha confidato nel fascino dell’amore impossibile o della storia breve e tragica. Questa letteratura  ha fin troppo inciso sulla mentalità comune con la sua teorizzazione dell’amore impossibile finendo, spesso, per complottare contro l’istituto familiare. Il rapporto amoroso che porta alla prole, vissuto nella quotidianità, nel dolore, nella sofferenza, sembra stancare per la sua monotonia  e ripetitività.


In mezzo a queste anime Dante
vorrebbe parlare con «due che 'nsieme vanno,/ e paion sì al vento esser leggeri». Sono Paolo Malatesta di Rimini e Francesca da Polenta di Ravenna, due cognati. L’aneddotica racconta che Paolo venne inviato come procuratore del matrimonio tra il brutto fratello Gianciotto e la bella e affascinante Francesca. In quell’incontro probabilmente la donna si ingannò credendo che Paolo sarebbe stato il suo sposo. Chissà quale delusione e quale risentimento provò quando si rese conto che avrebbe sposato il fratello zoppo. Il matrimonio, che avrebbe sancito la definitiva conclusione delle guerre e dei contrasti tra Ravenna e Rimini, venne comunque celebrato. Francesca non dimenticò, però, Paolo. I due si amarono finché non vennero colti di sorpresa da Gianciotto e uccisi. Di tutta questa storia Dante non racconta la parte iniziale. Dei due innamorati abbracciati a perpetuare la perenne memoria della giovinezza, dell’amore, della bellezza strappati via violentemente parla soltanto lei, la donna raffinata, bella, affabile, che ha eleganza e toni cortesi, quasi stilnovistici. Francesca è in tutto e per tutto simile a Beatrice, se non che Beatrice accompagnerà nel tempo e con pazienza Dante in Paradiso, mentre la Ravennate ha portato l’amato direttamente e speditamente all’Inferno. Sentiamo l’eleganza con cui si presenta: «O animal grazïoso e benigno/ che visitando vai per l'aere perso/ noi che tignemmo il mondo di sanguigno,/ se fosse amico il re de l'universo,/ noi pregheremmo lui de la tua pace,/ poi c'hai pietà del nostro mal perverso». Colta e ispirata a toni poetici, Francesca è cosciente che l’amore può risiedere solo in un cuore «gentile» , cioè buono («Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende»), e che all’amore si dovrebbe rispondere con l’amore («Amor, ch'a nullo amato amar perdona»), anche se poi questo non accade, nella maggior parte dei casi. Fu la bellezza del corpo ad accendere la fiamma tra loro.

Dante allora vuole sapere come sia possibile che un sentimento così nobile, così alto, così bello come quello amoroso possa tradursi in peccato. Qual è stato il punto, il momento in cui i due cognati hanno svelato i loro reciprochi sentimenti? Alla domanda di Dante «A che e come concedette amore che voi conosceste i dubbiosi disiri», Francesca ricorda dapprima che non c’è dolore più grande che ricordarsi dei tempi felici quando si è infelici. Poi aggiunge: «Noi leggiavamo un giorno per diletto/ di Lancialotto come amor lo strinse;/soli eravamo e sanza alcun sospetto./[…] ma solo un punto fu quel che ci vinse./ Quando leggemmo il disiato riso/esser basciato da cotanto amante,/ questi, che mai da me non fia diviso,/la bocca mi basciò tutto tremante./ Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse».
In un istante si gioca la libertà della persona. Un istante può valere una vita, la salvezza o la dannazione. È segno di maggiore libertà vivere l’istante per l’istante («carpe diem»), cioè scegliere nell’istante in nome del proprio piacere e della propria soddisfazione, oppure decidere tenendo conto della propria strada, del destino, di tutte le componenti e i fattori? Ai miei studenti cerco di chiarire questa domanda con un altro quesito. È più libero un padre di famiglia che si lascia andare all’istinto del momento e tradisce la moglie (e, quindi, i figli, come disse una mia studentessa) rompendo così la fedeltà alla consorte e sfasciando magari il nucleo familiare oppure un padre che, memore dell’amore che prova e della promessa fatta, sceglie per il bene proprio e dei suoi cari?
Fatto salvo che la responsabilità del peccato è personale, perché ogni uomo è libero, ancora una volta, in conclusione del canto V, Dante chiama sul banco degli imputati la letteratura e, quindi, gli scrittori. La storia di Lancillotto e Ginevra, scritta tra gli altri dal grande Chrétien de Troyes (che è anche l’autore del Perceval) e letta da Paolo e Francesca, è di soave delicatezza e dai toni cortesi e galanti. Eppure, Dante riconosce che un testo letterario può avere un peso determinante nelle vicende di chi legge. Lo scrittore ha una responsabilità incredibile. Per questo dico sempre ai miei studenti e ai loro genitori: «Di solito a scuola si spronano i ragazzi a leggere, a vedere film, a frequentare coetanei (socializzare). Invece, dovete pensare a cosa leggete, a cosa vedete, a chi frequentate. Lettura, amicizie, film e programmi TV ci formano ed educano».
Si conclude, così, il canto V dell’Inferno con lo svenimento di Dante, escamotage narrativo utilizzato dal poeta nei primi cerchi per evitare di dover descrivere il passaggio da un cerchio all’altro.  Veniamo allora ad alcune brevi riflessioni cui ci invita la lettura dei versi oggi, nel 2013. Quante volte si sente dire che due persone si amano anche se poi non si aiutano a volersi davvero bene, ma soddisfano semplicemente un narcisistico compiacimento sensuale! Come è, invece, importante imparare a guardare la compagna, la fidanzata, la moglie con il distacco che permette di vedere l’altro per quello che è, diverso da noi, dalle nostre pretese e soprattutto con una strada, un destino! La cultura odierna tende a presentare la sessualità come uno dei piaceri da soddisfare, equiparabile agli altri piaceri o ad altri aspetti ludici dell’esistenza o ai bisogni primari dell’uomo. Questa considerazione affonda le sue radici in una visione dell’uomo esclusivamente materialista per cui noi siamo considerati alla stregua degli animali. Tutta la cultura di ascendenza positivista, scientista e darwiniana opera ormai da un secolo e mezzo, soprattutto nelle scuole, per trasmettere il messaggio che tra noi e le scimmie non esiste in realtà alcuna differenza se non per il fatto che noi siamo semplicemente più avanti nella linea evolutiva.
Sarebbe lungo ripercorrere le tappe del graduale e subdolo affermarsi di un presupposto che annienta qualsiasi affermazione che l’uomo sia in realtà qualcosa di più che un grumo di cellule. Se l’uomo è un aggregato di cellule, un insieme di nervi, di impulsi, di bisogni e nulla di più, è necessario, oltre che giusto, soddisfare qualsiasi necessità che insorga. L’amore appare solo come un’idealizzazione di queste reazioni ormonali e chimiche e di pulsioni fisiche. L’uomo nella sua complessità è, così, ridotto esclusivamente ad una componente fisica. Per addentrarci meglio nel sentimento che unisce un uomo e una donna dobbiamo cercare di capire meglio il mistero dell’essere umano, una complessità così grande da non poter essere circoscritta alla sfera fisica. Nella tradizione cristiana l’uomo è anima e corpo, componenti non separate, ma unite in una reciproca relazione. Non si può, perciò, parlare completamente di sessualità e di affettività delimitando l’ambito alla sfera fisica ed escludendo così l’ambito delle aspettative, dei desideri, delle domande, della realizzazione e del compimento della persona, ovvero dello spirito. In poche parole anche nell’ambito dell’affettività, come del resto in tutte le sfere dell’umana natura, non emerge solo la componente dell’istintività e dell’impulso.
Un rapporto affettivo può essere vissuto solo in tutte le componenti in quest’apertura che salvaguarda e rispetta tutti gli aspetti dell’uomo. Questa apertura a tutti i fattori della realtà viene chiamata ragione. La mano che strappa il fiore per possederlo lo costringe al rapido inaridimento. Colui che fa un passo indietro può osservare il fiore e sorprendersi stupito per la sua bellezza. Chi capirà meglio il fiore: chi l’ha reciso o chi l’ha ammirato? Chi amerà meglio la propria ragazza, chi saprà aspettare e si meraviglierà per un amore che cresce e sa manifestarsi in diverse forme di affettività o chi pretenderà di possedere l’altro prima ancora di essersi promesso, di aver fatto sacrifici per l’altro? Sarà amore l’egoistica e narcisistica soddisfazione del proprio desiderio sessuale o l’atteggiamento di chi non soddisfa subito il desiderio per salvaguardare sé e l’altro?
Qualsiasi educazione all’affettività presuppone in realtà una particolare visione dell’uomo. Spesso i fautori e i promotori di questa educazione nelle scuole si presentano come innocui portavoci  di un insegnamento asettico, mentre sono troppo spesso messaggeri di una cultura cinica, scettica, materialista, in cui anche l’amore è ridotto all’unica sfera fisiologica. Prima di chiedersi che cosa sia l’affettività è indispensabile chiedersi davvero chi sia l’uomo.

(pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 7-7-2013)