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sabato 29 agosto 2015

Domande senza risposta

  Domande senza risposta
 21  ottobre  1928,  

«Perché  io  sono  proprio  io?  che  cosa  sono  davvero? chi  sono?  Perché  esisto?  da  dove  arrivo?  Qual  è  il mio  fine?  cosa  sarà  di  me?  Sono  queste  le  domande che  l’umanità  si  pone  da  sempre.  L’uomo  si  sente  aggredito  da  una  forza  superiore,  da  tutto  un  mondo,  dal suo  stesso  io;  allora  comincia  a  indagare,  a  cercare,  ad arrovellarsi  e  procede  di  scoperta  in  scoperta,  sentendosi  sempre  più  inquieto.  di  fronte  a  se  stesso  viene colto  da  una  grande  paura.  Per  la  prima  volta  è  toccato dalla  miseria  dell’essere  umano  e  il  cuore  si  contrae nella  consapevolezza  della  sua  mancanza  di  libertà.  a questo  punto  reclama  una  cosa  soltanto:  la  liberazione dal  demone  dell’io  e  dal  suo  dominio:  la  redenzione. come  posso  salvare  il  mio  io?  come  posso  diventare libero?  come  posso  dare  una  forma  a  ciò  che  non  ne ha  e  organizzare  ciò  che  è  privo  di  coerenza?  come posso dominare il caos? chi  non  ha  sentito  la  sua  anima  infiammata  da  questi interrogativi  o  l’ha  fatta  tacere  con  la  forza  dell’abitudine  non  può  comprendere  il  senso  della  religione  e che cosa questa possa offrire. in  ogni  tempio  greco  antico  erano  riportate  queste  parole:  «conosci  te  stesso!».  Solo  in  questo  modo  diventerai  padrone  del  tuo  io.  È  un’esperienza  che  può fare  ognuno  di  noi:  anche  se  nessuno  riesce  realmente a  conoscersi  nel  corso  della  propria  vita.  Siamo  e  rimaniamo  ignoti  a  noi  stessi,  soltanto  dio  è  in  grado  di vedere  davvero  dentro  di  noi.  Se  ci  lambicchiamo  il cervello  ci  procuriamo  soltanto  grandi  tormenti:  sappiamo  bene  che  questo  atteggiamento  conduce  alla  disperazione,  e  non  al  sollievo.  Quindi  è  necessario  percorrere  un’altra  via:  non  tanto  quella  della  conoscenza di  sé,  quanto  quella  del  dominio  e  della  formazione  di sé  attraverso la volontà»

La debolezza
Perché  il  problema  della  debolezza  è  così  importante? hai  mai  visto  nel  mondo  un  mistero  più  grande  dei  poveri,  dei  vecchi,  dei  malati  –  uomini  che  non  ce  la  fanno da  soli,  ma  che  dipendono  dall’aiuto,  dall’amore  e  dalla cura  degli  altri?  hai  mai  pensato  a  come  appare  la  vita  a uno  storpio,  a  un  infermo  senza  speranza,  a  una  persona sfruttata,  a  un  nero  in  un  ambiente  di  bianchi,  a  un  intoccabile?  Se  lo  hai  fatto,  riesci  a  sentire  che  in  quei  casi  l’esistenza  ha  un  significato  completamente  diverso  da  quello che  le  attribuisci  tu?  comprendi  che  anche  tu,  comunque, appartieni  indissolubilmente  alla  categoria  degli  sfortunati, perché  anche tu sei  un essere  umano come loro, perché sei forte  e  non  debole,  perché  in  tutti  i  tuoi  pensieri  avvertirai la  loro  fragilità?  non  ci  siamo  resi  conto  che  non  potremo mai  essere  felici  finché  questo  universo  della  debolezza, da  cui  forse  finora  siamo  stati  risparmiati  –  ma  chissà  per quanto  tempo ancora? – ci rimane  estraneo  e  sconosciuto,distante,  finché  lo  teniamo  lontano  dalla  nostra  portata, in modo consapevole o inconsapevole? che  cosa  significa  debolezza  nel  nostro  mondo?  Sappiamo  che  fin  dai  primi  tempi  fu  rimproverato  al  cristianesimo  di  rivolgere  il  suo  messaggio  ai  deboli:  era  considerato  la  religione  degli  schiavi,  di  quelli  che  soffrono di  complessi  di  inferiorità;  si  diceva  che  dovesse  il  suo successo  alla  massa  di  disperati  dei  quali  ha  esaltato  la condizione  di  miseria.  È  stato  proprio  l’atteggiamento  nei confronti  del  problema  del  male  nel  mondo che ha attirato simpatie  oppure  odio  per  questa  confessione.  ha  sempre prodotto  l’opposizione  forte  e  sdegnata  di  una  filosofia aristocratica  che esaltava  la forza e il potere, in contrapposizione  con  i  nuovi  valori  di  rifiuto  della  violenza  ed esaltazione dell’umiltà. anche  nella  nostra  epoca  siamo  testimoni  di  questa lotta.  il  cristianesimo  resiste  o  fallisce  con  la  sua  protesta  rivoluzionaria  contro  l’arbitrio  e  la  superbia  del  potente,  con  la  sua  difesa  del  povero.  credo  che  i  cristiani facciano  troppo  poco,  e  non  troppo,  per  rendere  chiaro questo  concetto.  Si  sono  adattati  troppo  facilmente  al culto  del  più  forte.  dovrebbero  dare  molto  più  scandalo, scioccare  molto  più  di  quanto  facciano  ora;  dovrebbero schierarsi  in  modo  molto  più  deciso  dalla  parte  dei  deboli,  anziché  dimostrare  riguardo  per  l’eventuale  diritto morale dei forti.
1934


Stanchi e oppressi

«Venite  a  me,  voi  tutti  che  siete  stanchi  e  oppressi» (Matteo  11,  28).  chi  sono  gli  stanchi  e  gli  oppressi?  il senso  di  questa  frase  non  vuole  essere  limitativo.  È  stanco e  oppresso  chi  si  sente  tale,  ma  in  realtà  anche  chi  non  si percepisce percepisce  così,  perché  non  vuole  farlo.  Stanchi  e  oppressi sono  sicuramente  gli  uomini,  le  donne  e  i  bambini  che vivono  una  dolorosa  condizione  e  che,  potremmo  quasi dire,  sono  stati  immersi  a  forza  nell’oscurità  di  questa  vita, nella  schiavitù  e  nella  miseria  esteriore  e  morale.  raramente  ho avuto l’impressione  di  stare  tra  persone  stanche e  oppresse  come in  quella  città  di  minatori  nel  nord  della francia  in  cui  sono  stato  in  vacanza.  una  vita  infelice, provata,  umiliata  e  offesa,  oltraggiata,  che  si  trasmette  e si genera di padre in figlio e arriva fino ai figli dei figli. gli  stanchi  e  gli  oppressi  dimorano  dove  il  lavoro  è vissuto  come  una  maledizione  di  dio  nei  confronti  degli uomini. troppo  facilmente,  però,  corriamo  il  pericolo  di  ritenere  che  chi  sperimenta  questa  situazione  siano  soltanto quelli  che  si  trovano  in  uno  stato  di  indigenza.  al  contrario,  gesù  ha  cercato  e  incontrato  i  più  stanchi  e  i  più  oppressi  tra  i  cosiddetti  benestanti.  Pensate  al  giovane  ricco che  egli  amava e a come si allontanò triste  da  Lui,  perché era  troppo debole  per  seguirlo  (Matteo  19, 16-26).  esteriormente,  quel  ragazzo  aveva  tutto  ciò  che  desiderava, ma malgrado tutto interiormente  rimaneva  profondamente vuoto  e  superficiale;  tutto  il  suo  patrimonio  non  gli  permetteva  di  acquistare  le  cose  più  importanti  di  questa  vita terrena:  la  pace  interiore,  la  gioia  spirituale,  l’amore  nel matrimonio  e nella  famiglia.  Quanta  indicibile  sofferenza, quanta  oppressione  derivante  da  colpe  che  la  ricchezza porta  sempre  con  sé  è  presente  nelle  case  delle  persone apparentemente felici. no,  gli  stanchi  e  gli  oppressi  non  appaiono  soltanto come  li  dipinge  rembrandt  nella  Stampa  dei  cento  fiorini:  poveri,  miseri,  malati,  lebbrosi,  cenciosi,  con  i  visi scavati.  ci  sono  stanchi  e  oppressi  sotto  le  spoglie  di  individui  felici  che  hanno  un’esistenza  brillante,  di  successo:  uomini  che  si  sentono  completamente  abbandonati  anche  in  mezzo  a  una  compagnia  numerosa,  a  cui tutto  appare  insipido  e  senza  senso,  che  provano  disgusto  per  la  vita  perché  avvertono  che  la  loro  anima,  immersa  in  tutto  questo,  imputridisce  e  muore.  nessuno  è più solo di chi è felice.
Fine settembre 1934

Paura dell’infinito

Paura dell’infinito
· A settanta anni dalla morte di Dietrich Bonhoeffer ·

08 aprile 2015


Scritti inediti di Dietrich Bonhoeffer, ucciso nel campo di concentramento di Flossenbürg il 9 aprile 1945, sono appena apparsi nel volume dal titolo La fragilità del male (Milano, Piemme, 2015, pagine 176, euro 17,50). Pubblichiamo uno stralcio dal primo capitolo.


La paura è in un certo qual modo il nostro principale nemico. Essa si annida nel cuore dell’uomo e lo mina interiormente finché egli crolla improvvisamente, senza opporre resistenza e privo di forza. Corrode e rosicchia di nascosto tutti i fili che ci uniscono al Signore e al prossimo. Quando l’essere umano in pericolo tenta di aggrapparsi alle corde, queste si spezzano, ed egli, indifeso e disperato, si lascia cadere tra le risate dell’inferno.
Allora la paura lo guarda sogghignando e gli dice: ora siamo soli, tu e io, e ora ti mostro il mio vero volto. Chi ha conosciuto e si è abbandonato a questo sentimento in un’orribile solitudine — la paura di fronte a una grave decisione, la paura di un destino avverso, la preoccupazione per il lavoro, la paura di un vizio a cui non si può più opporre resistenza e che rende schiavi, la paura della vergogna, la paura di un’altra persona, la paura di morire — sa che è soltanto una maschera del male, una forma in cui il mondo ostile a Dio cerca di ghermirlo. Non c’è nulla nella nostra vita che ci renda evidente la realtà di queste forze ostili al Creatore come questa solitudine, questa fragilità, questa nebbia che si diffonde su ogni cosa, questa mancanza di vie di uscita e questa folle agitazione che ci assale quando vogliamo uscire da questa terribile disperazione. Avete mai visto qualcuno assalito dalla paura? Il suo viso è orribile quando è bambino e continua a essere spaventoso anche da adulto: quella fissità dello sguardo, quel tremore animalesco, quella difesa supplichevole. La paura fa perdere all’uomo la sua umanità. Non sembra più una creatura di Dio, ma del diavolo; diventa un essere devastato, sottomesso.

Abbiamo paura della quiete. Siamo così abituati all’agitazione e al rumore, che il silenzio ci appare minaccioso e lo rifuggiamo. Sarebbe terribile doverlo guardare negli occhi e doversi giustificare. Dal nostro volto potrebbe scomparire per sempre il sorriso. Potrebbe, per una volta, accadere qualcosa di molto serio a cui non siamo più abituati.

Questa paura è una caratteristica della nostra epoca. Viviamo con l’ansia di essere improvvisamente avvolti e manovrati dall’infinito. Allora preferiamo vivere in società, andare al cinema o a teatro per poi essere portati al cimitero, piuttosto che rimanere un minuto di fronte al Signore.

Il cristianesimo ha sempre prodotto l’opposizione forte e sdegnata di una filosofia aristocratica che esaltava la forza e il potere, in contrapposizione con i nuovi valori di rifiuto della violenza ed esaltazione dell’umiltà. Anche nella nostra epoca siamo testimoni di questa lotta. Il cristianesimo resiste o fallisce con la sua protesta rivoluzionaria contro l’arbitrio e la superbia del potente, con la sua difesa del povero. Credo che i cristiani facciano troppo poco, e non troppo, per rendere chiaro questo concetto. Si sono adattati troppo facilmente al culto del più forte. Dovrebbero dare molto più scandalo, scioccare molto più di quanto facciano ora.

di Dietrich Bonhoeffer

 Paura di Dio
 nell’Apocalisse  di  san  giovanni  leggiamo:  «temete dio  e  dategli  gloria,  perché  è  giunta  l’ora  del  suo  giudizio» (14, 7). «temete  dio»,  invece  delle  cose  che  vi  fanno  paura. non  temete  il  futuro,  non  temete  gli  altri  uomini.  non  temete  la  violenza  e  la  forza,  anche  se  possono  privarvi  dei vostri  beni  e  della  vostra  vita.  non  temete  i  potenti  di  questo  mondo.  non  temete  nemmeno  voi  stessi.  non  temete i  peccati.  morirete  a  causa  di  tutti  questi  timori.  Liberatevi  da  queste  paure,  ma  temete dio  e  soltanto  Lui,  che  ha autorità  su  tutti  i  poteri  terreni.  davanti  a  Lui  deve  provare  timore  tutta  la  terra.  Può  darci  la  vita  o  privarcene. tutto  il  resto  non  ha  importanza,  solo  il  Signore  conta. temetelo sul  serio  e  adoratelo, dategli gli  onori  degni  di chi  ha  creato  ogni  cosa  e  di  chi  ha  portato  la  pace  con  gli uomini  tramite  cristo.  onorate  Lui  e  la  sua  santa  parola, perché  è  arrivato  il  momento  in  cui  ci  giudicherà.  L’eterno Vangelo è giudice di tutti gli uomini. che  cosa  ci  chiederà  il  Padre  nell’ultimo  giorno?  Soltanto  una  cosa:  «avete  creduto  al  Vangelo  e  gli  avete  ubbidito?».  non  domanderà  se  eravamo  tedeschi  o  ebrei, se  eravamo  nazisti  oppure  no,  e  nemmeno  se  facevamoparte  della  chiesa  confessante,  se  eravamo  persone  influenti  e  di  successo,  se  possiamo  vantarci  di  grandi  opere, se  eravamo  rispettati  oppure  malvagi,  insignificanti,  inutili e sconosciuti. il nostro unico giudice sarà il  Vangelo. 
24 novembre 1935 

venerdì 28 agosto 2015

Il mio casto etero matrimonio greco

Il mio casto etero matrimonio greco



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Novembre 5, 2012 Valerio Pece
Così il giovane filologo Francesco Colafemmina ribalta a colpi di Plutarco, Platone e Aristofane tutti i luoghi comuni sulla gaya sessualità ellenica. Spesso rabberciati da studiosi troppo “coinvolti” e distorti dalla nostra mania di erotizzare ogni cosa.
«È incredibile quanto sia diventato difficile spiegare che il matrimonio non è una creazione del cristianesimo, e che quindi quando la Chiesa lo difende non difende qualcosa di suo. E quanto sia faticoso chiarire che l’etica sessuale degli antichi greci non è la stessa del marchese de Sade o di un Cecchi Paone qualsiasi». Così parla a Tempi Francesco Colafemmina, filologo e grecista, autore del saggio Il matrimonio nella Grecia classica. Il libro – «formidabile, ricco di citazioni sorprendenti e di brillante scrittura» secondo lo scrittore e giornalista Antonio Socci – fa a pezzi la vulgata tradizionale inneggiante a una Grecia classica libera e gaia, la cui felicità sarebbe stata soffocata dall’avvento della buia morale cristiana. Ha contro non pochi accademici, Francesco Colafemmina, ma dalla sua ha una documentazione che grida vendetta, e citazioni schiaccianti dei suoi amati autori greci. «Per cui – dice – se il fine recondito di certa propaganda era quello di sovvertire l’ordine fondato sul matrimonio tra uomo e donna, è arrivato il momento di un surplus di efficacia, chiarezza e coraggio».
Colafemmina, studiosi di fama come Michel Foucault (Storia della sessualità, Feltrinelli), il celebrato professore oxoniense Kenneth Dover (L’omosessualità nella Grecia antica, Harvard University Press), fino a Eva Cantarella (Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Rizzoli) hanno scritto libri con tesi chiarissime fin dai loro titoli. La conseguenza è che negli y cinquant’anni tutto il sistema accademico – tanti giovani in primis – è stato bombardato da questa teoria: le donne greche avevano mariti perlopiù bisessuali e/o pedofili. Quanto c’è di vero?Più che una teoria questo oramai è un “dogma di fede”. Si può rispondere almeno in due modi: c’è una “via biografica”, alquanto rivelatrice ma che nel saggio non ho percorso, e c’è una via basata invece sugli scritti autentici, direi sui virgolettati degli autori greci.
Se è rivelatrice e inedita, inizi senz’altro dalla “via biografica”.Be’, sarà un caso che molti degli accademici che hanno messo in giro queste idee siano omosessuali? Il filosofo Michel Foucault, professore al Collège de France, la più prestigiosa istituzione culturale francese, morì di Aids nel 1984. Anche John Boswell, docente all’Università di Yale e attivista gay (a Yale organizzò il Centro di studi lesbici e gay), colui che per tutta la vita tentò di far convivere morale cattolica e condotte gay (vedi il suo Cristianesimo, tolleranza, omosessualità. La Chiesa e gli omosessuali dalle origini al XIV secolo), morì di Aids a 47 anni, alla vigilia del Natale del 1994. E l’elenco degli studiosi con biografie “interessate” sarebbe ancora lungo. Per la cronaca, Boswell è l’autore a cui si rifà Umberto Galimberti (senza ovviamente citarlo, com’è suo costume) per affermare che sant’Anselmo d’Aosta, canonizzato nel 1494 e proclamato Dottore della Chiesa nel 1720, fosse omosessuale. Galimberti lo scrive in una risposta a un lettore apparsa su D, il magazine femminile di Repubblica, il 28 luglio scorso. Purtroppo siamo a questo punto.
A grattare queste biografie si materializza il verso che Dante dedica a Semiramide, colei che «libido fé licito in sua legge». Ma veniamo ai testi. Cosa scrivono, davvero, gli autori greci sull’omosessualità?In effetti è quello il punto nodale. È fondamentale però fare prima un passo indietro. Secondo il dogma ormai imperante, nell’antica Grecia la pedofilia (o efebofilia) sarebbe stata al centro di un vero e proprio rito di iniziazione: l’uomo adulto, l’erastés, aveva rapporti sessuali con l’adolescente, l’eròmenos, e così facendo lo formava anche spiritualmente. Capiamo bene che nella prospettiva di una formazione spirituale dell’adolescente avere rapporti pedofili diventava un merito! Di qui si è poi passati a definire il dogma dell’assenza di una “morale sessuale” nell’antichità classica attraverso la proclamazione dell’omosessualità come qualcosa di naturale.
Scusi Colafemmina, è un caso che l’oncologo Umberto Veronesi tempo fa affermò che gli omosessuali, a differenza degli eterosessuali, vivono un “amore puro” perché non volto alla procreazione, quindi un amore spirituale?Non è affatto un caso, è esattamente la stessa folle visione. Attenzione però: quello dell’amore puro e spirituale non è altro che ciò che anche i gay del tempo affermavano per giustificare le loro pratiche, in un contesto sociale che invece le condannava risolutamente. L’errore madornale è che chi ripete oggi queste tesi non fa altro che ripetere ciò che dicevano gli autori omosessuali della Grecia classica. Oppure non fa altro che ridire ciò che Platone fa dichiarare ad alcuni suoi personaggi già noti come omosessuali nell’antichità (come Pausania nel Simposio) per arrivare però a smontare le loro tesi e a sostenere l’esatto contrario. È qui che è caduto Galimberti nell’articolo citato, scambiando Pausania, voce che Platone fa parlare ma non approva, per Platone.
Come dire che Manzoni la pensa come don Rodrigo… Ci spiega allora come mai nell’immaginario collettivo Platone passa per un autentico guru dell’omosessualità?
La promiscuità sessuale è tipica di taluni ambienti aristocratici ateniesi e Platone ci racconta anche questo. Eppure più che il soddisfacimento delle nostre pruderie storiche dovrebbe interessarci ciò che Platone ha davvero scritto sull’omosessualità: quattrocento anni prima di Cristo e duemilaquattrocento anni prima del Catechismo della Chiesa cattolica, Platone scrive che l’omosessualità è «contro natura». Nelle Leggi (636, c), ad esempio, si legge testualmente: «Il piacere di uomini con uomini e donne con donne è contro natura e tale atto temerario nasce dall’incapacità di dominare il piacere». Più chiaro di così! La verità è che nella Grecia classica l’omosessualità non era affatto così diffusa come si crede, e soprattutto, cosa che conta ancora di più, non era istituzionalizzata. Eschine, politico e oratore ateniese del IV secolo avanti Cristo, nell’orazione Contro Timarco scrive che ad Atene era vietato aprire scuole e palestre col buio affinché i ragazzi fossero sempre sorvegliati; e che, anche se col consenso del familiare, era vietato dare un giovane a un amante omosessuale per ottenerne in cambio denaro o altri benefici. Eschine scrive che era addirittura vietato agli adulti essere apertamente omosessuali praticanti. È interessante notare che gli omosessuali erano chiamati con un appellativo decisamente forte: cinedi (kinaidos al singolare), etimologicamente “colui che smuove la vergogna” o, per altri, e in un senso ancor più realistico, “le vergogne”.
Vuole dire che nella Grecia del IV e V secolo a.C. a uno come Cassano nessuno avrebbe intimato di scusarsi in ginocchio sui ceci?Guardi, basterebbe leggere Aristofane per fare di Cassano un chierichetto. Celebre è il repertorio, che oggi si direbbe omofobico, che il commediografo greco dedica ad gay del suo tempo. Parliamo di epiteti come lakkoproktos, katapygon, euryproktos, parole assolutamente intraducibili. Altro che cassanate.
Gentilmente, traduca. Gli accademici potrebbero rimproverarla di non essere un filologo rigoroso.
Confidando nella libertà di tono di questo giornale posso dire che euryproktos, per esempio, può tranquillamente tradursi con “culaperto”. Espressione tipica della sospensione delle regole operata dalla commedia, ma certamente poco gay-friendly. L’omosessuale era un tipo comico e se volessimo seguire la teoria di Henri Bergson potremmo affermare che il riso della commedia è un cementante sociale.
Ma allora dove nasce il mito dell’ordinaria omosessualità del mondo greco?I molti che erano in malafede (spesso perché gay) ci hanno marciato, e lo abbiamo detto; chi era in buona fede, invece, ha commesso lo sbaglio tipico della nostra epoca di “sessualizzare” tutto e troppo. I “ti amo” trovati nelle lettere di Leopardi a Ranieri o in quelle di Frontone a Marc’Aurelio, l’amicizia di Patroclo e Achille o di Eurialo e Niso, sono diventati immediatamente “chiari indici di omosessualità”. Semplicemente leggiamo quegli scambi di amichevole e profonda affettuosità con gli occhi malati di oggi, interpretando male amicizie autentiche, sane e purissime. È un errore e, insieme, una grande perdita. Non è un caso che oggi sviliamo l’amicizia e il suo valore a una richiesta di un contatto su Facebook.
Che ci dice invece della figura della donna nella Grecia classica? Davvero il suo ruolo era nettamente inferiore a quello di una donna contemporanea o anche qui c’è qualche mito da sfatare?Segregata, la donna, non direi proprio. Pensiamo solo alle feste religiose dell’Atene del V e VI secolo: si è calcolato che fossero addirittura 150 l’anno, se solo i tribunali pubblici restavano chiusi per le feste religiose per 54 giorni. Tra queste e un po’ di shopping, alle ragazze ateniesi non mancava certo la possibilità di adocchiare e sorridere a potenziali pretendenti. E poi avevano stratagemmi privati anche per contribuire alla scelta del marito.
Si riferisce al “caffè della consolazione” raccontato nel suo saggio?
Sì, per esempio. È stata una tradizione viva fino a qualche decennio fa in Grecia. Il pretendente, il gambròs, si recava nella casa della ragazza per incontrare il padre e magari concordare i termini della dote. La particolarità era tutta nel salotto in cui il giovane veniva accolto (nel museo di Kastorià, nel nord della Grecia, se ne conserva uno bellissimo). Nascosto da un quadro, un buco sulla parete permetteva alla figlia di osservare chi era arrivato fin lì per chiedere la sua mano. Se il giovane non le andava a genio veniva servito un caffè molto zuccherato, il caffè della consolazione, appunto. Il giovane non avrebbe avuto la mano della ragazza ma sarebbe tornato a casa con la bocca dolce.
Eppure si insiste sull’idea che la donna non fosse pari all’uomo.Era l’ordine della società tradizionale, non si può e non si deve parlare di arretratezza, di discriminazione. È ridicolo guardare con cipiglio femminista e postmoderno alla condizione della donna nell’antica Grecia: quel ruolo e quell’ordine familiare sono il fondamento della società che ci ha trasmesso le opere di genio più importanti della storia. Di più: sono il fondamento della società che ha fondato la civiltà occidentale. La categoria di emancipazione è anacronistica e noi non abbiamo alcun diritto di giudicare. Tra l’altro quella società e quel ruolo della donna non sono che quelli della nostra società contadina fino al secondo dopoguerra, da cui noi discendiamo direttamente. Solo oggi molte ex femministe, specie negli Stati Uniti, dove sul tema c’è una pubblicistica molto interessante ancora poco nota in Italia, cominciano a rendersi conto di come il movimento femminista sia stato un’arma utile al capitalismo per asservire la donna, più che per offrirle una piena realizzazione.
Quali sono le assonanze tra matrimonio cristiano e matrimonio greco?Sono fortissime. Guardi, possiamo essere precisi perché in questo ci aiuta molto l’Economico di Senofonte. Come per il cattolicesimo, anche per la Grecia classica il fine principale del matrimonio era la procreazione. L’ateniese del IV secolo avanti Cristo considerava i figli “una grazia di Dio”. Sempre da Senofonte sappiamo che l’altro fine del matrimonio era l’educazione della prole. Per cui quanto a scopi principali siamo perfettamente in linea con quanto insegna la dottrina cattolica nella Gaudium et Spes. Non solo, nel matrimonio greco c’è anche la meta della castità coniugale. Oltre che in Senofonte, la sophrosyne, un concetto assolutamente analogo a quello di castità, lo troviamo in Plutarco e in autori come Carìtone d’Afrodisia.
Dov’è allora la differenza?Per certi versi si può trovare nell’indissolubilità, elemento che il cristianesimo ha portato a pienezza e purificato. Le nozze per gli antichi greci non erano legalmente indissolubili come per i cristiani. Eppure anche su questo tema quello che solitamente non si legge è che il rapporto monogamico è in qualche modo insito nella cultura greca. Basterebbe leggere l’Andromaca (vv. 11-179), in cui Euripide si lancia in un nobilissimo elogio della fedeltà monogamica, come del resto fa anche nell’Alcesti. È però forse di Plutarco la più bella celebrazione del vincolo sacro: nell’Amatorius (767 D-E) si arriva ad affermare che l’affetto per le proprie mogli è «simile alla partecipazione ai grandi riti sacri».
Infatti leggendo Plutarco di Cheronea sembra di avere davanti un autore cristiano, non siamo lontani dallo zelo e dal pathos delle lettere paoline. I Precetti coniugali – opera plutarchea che lei riporta integralmente in appendice al saggio – possono essere considerati una sintesi della visione che la Grecia classica aveva dell’etica matrimoniale?I Precetti coniugali (Gamikà Paranghélmata) sono in effetti una lettura strabiliante se pensiamo che provengono da una fonte pagana. Furono composti da Plutarco in occasione del matrimonio di due suoi allievi, Polliano ed Euridice, nel I secolo dopo Cristo. È un’opera agile e godibilissima, un trattatello sulla vita coniugale ricco di massime, amorevoli consigli pratici e racconti esemplari, quasi un libro sapienziale se non fosse per l’allegria che lo pervade. Un’opera che personalmente farei leggere nei corsi prematrimoniali, spesso così scialbi. Di certo i Precetti coniugali rappresentano bene quella che era l’etica matrimoniale per gli antichi greci, nutrita da valori saldi, da rapporti fondamentalmente monogamici propri di una solida civiltà contadina, valori poi trasferitisi nella società cristiana e nobilitati dalla sua etica. Non è certo un caso se l’opera plutarchea sarà poi ripresa da autori cristiani come Ugo da San Vittore (De amore sponsi ad sponsam) e san Girolamo (Adversus Iovinianum).
Colafemmina, qual è lo scopo ultimo del suo saggio?In realtà è un augurio. Che una sintesi alta tra una ritrovata morale ellenica e l’etica cattolica possa offrire uno specchio in cui riflettere l’eredità inestimabile che abbiamo ricevuto dal mondo classico. E in cui vedere anche il rischio che comporta l’incamminarsi a passo svelto nella direzione opposta, quella del baratro.


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La gente si smarrisce dietro ai mille piccoli dettagli

La gente si smarrisce dietro ai mille piccoli dettagli
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 La gente si smarrisce dietro ai mille piccoli dettagli che qui ti vengono continuamente addosso, e in questi dettagli si perde e annega. Così, non tiene più d’occhio le grandi linee, smarrisce la rotta e trova assurda la vita. Le poche cose grandi che contano devono esser tenute d’occhio, il resto si può tranquillamente lasciar cadere. E quelle poche cose grandi si trovano dappertutto, dobbiamo riscoprirle ogni volta in noi stessi per poterci rinnovare alla loro sorgente. E malgrado tutto si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur buona … Questa è la mia convinzione, anche ora, anche se sarò spedita in Polonia con tutta la famiglia. HILESIUM ETTY (Lettere 1942-1943, Adelphi)

I have a dream di Martin Luter King



I have a dream
di Martin Luter King

Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.

Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.

Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un "pagherò" del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo "pagherò" permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.

È ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo "pagherò" per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: "fondi insufficienti". Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.

Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.

Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.

Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.

Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.

Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.

Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.

E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: "Quando vi riterrete soddisfatti?" Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:"Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.

Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.

Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.

Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.

Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

Ma non soltanto.

Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: "Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".

mercoledì 26 agosto 2015

avrai negli occhi un rapido sospiro


La meravigliosa poesia di Giuseppe Ungaretti alla madre: “avrai negli occhi un rapido sospiro”

E il cuore quando d’un ultimo battito 
avrà fatto cadere il muro d’ombra 
per condurmi, Madre, sino al Signore, 
come una volta mi darai la mano. 
In ginocchio, decisa, 
Sarai una statua davanti all’eterno, 
come già ti vedeva 
quando eri ancora in vita. 

Alzerai tremante le vecchie braccia, 
come quando spirasti 
dicendo: Mio Dio, eccomi. 

E solo quando m’avrà perdonato, 
ti verrà desiderio di guardarmi. 

Ricorderai d’avermi atteso tanto, 
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
Tacere di sè è UMILTÀ
tacere i difetti altrui è CARITÀ
tacere parole inutili è PENITENZA
tacere a tempo e a luogo è PRUDENZA:
tacere nel dolore è EROISMO.

Saper parlare è un vanto di molti
Saper tacere è una SAGGEZZA di pochi
saper ascoltare é una GENEROSITÀ di pochissimi


(S. Giovanni della Croce)

Distruggere la finestra di Overton

Distruggere la finestra di Overton
***
Come promesso in un precedente articolo, vorrei
scrivere qualche riga sulla Overton Window, la
«finestra di Overton». Ritengo la conoscenza di tale
meccanismo una necessità stringente. Se non altro perché mi pare che il
suo utilizzo abbia ora raggiunto vette assolute, sia su un piano nazionale
che mondiale.
La finestra di Overton è niente più che una tecnologia di persuasione
delle masse, che fa ricadere – e fa evolvere – idee in un semplice
«quadro di possibilità politiche» dentro al quale si muove l’opinione
pubblica e il legislatore. L’oggetto di questa tecnica di manipolazione
politica, sia ben chiaro, siamo noi.
Mai come negli ultimi anni appaiono evidenti gli effetti
dell’adulterazione della realtà e della legge naturale. L’ingegneria
sociale, tramite il potere di chi fa le leggi e l’amplificazione di chi
controlla i media, è un fatto compiuto, visibile ad occhio nudo ogni
giorno.

La Russia reagisce
Sotto il dogma dell’evoluzione della società (il cui riflesso teologico è
l’evoluzione sociale del dogma: basta leggere i fondi di Mancuso su
Repubblica per capire che la cosa è spacciata in modo massivo)
l’umanità può accettare qualsiasi pensiero, anche il più anti-umano,
nocivo, folle, suicida. Il lettore di EFFEDIEFFE avrà con buona
probabilità già decine di esempi per la mente. Gli Stati Uniti d’America,
la Superpotenza atomica e finanziaria più grande che il pianeta abbia
mai conosciuto, hanno dichiarato guerra alla realtà: ecco l’ultima
offensiva intrapresa dalla democrazia sanguinaria. I suoi politici, i suoi
giornalisti, artisti, e valanghe di povere masse dipendenti dalla TV o da
Facebook applaudono – e attuano – la perversione e l’aberrazione, e
tutto questo, fino a pochi anni fa, non era nemmeno vagamente
concepibile
. Ne abbiamo parlato di recente, cercando di analizzare le
standing ovation ricevute da Bruce Jenner, il ricco olimpionico
divenuto, a sessant’anni suonati e con un discreto numero di mogli e
figli, un transessuale pubblico. Tuttavia, vi è un’altra nazione (pure
dotata di migliaia di testate atomiche, deo gratias) che pare non voler
giocare a questo gioco distruttivo.
«Possiamo vedere come i Paesi euro-atlantici stanno ripudiando le loro
radici – disse Vladimir Vladimirovič Putin nel leggendario discorso di
Valdaj 2013 – persino le radici cristiane che costituiscono la base della
civiltà occidentale. Essi rinnegano i principi morali e tutte le identità
tradizionali: nazionali, culturali, religiose e financo sessuali. Stanno
applicando direttive che parificano le famiglie a convivenze di partners
dello stesso sesso, la fede in Dio con la credenza in Satana. La
“political correctness” ha raggiunto tali eccessi, che ci sono persone
che discutono seriamente di registrare partiti politici che promuovono
la pedofilia. In molti Paesi europei la gente ha ritegno o ha paura di
manifestare la sua religione. Le festività sono abolite o chiamate con
altri nomi; la loro essenza (religiosa) viene nascosta, così come il loro
fondamento morale. Sono convinto che questo apre una strada diretta
verso il degrado e il regresso, che sbocca in una profondissima crisi
demografica e morale».

E proprio dalla Russia pare venire oggi l’interesse per la finestra di
Overton.
Ad aprire le danze fu il premiato regista Nikita Sergeevič Mikhalkov,
che dedicò al tema la 71a puntata del suo videoblog Besogon.tv, dando
un titolo piuttosto diretto: «Kak sdelat’ iz čeloveka “nečeloveka”. Okno
Overtona –– amerikanskaja tekhnologija manipuljatsii massovym
soznanijem i priucheniya ljudej k neprijemlemomu», che tradotto
significa: «Come creare uomini “non umani”. La finestra Overton ––
una tecnologia americana per manipolare la coscienza delle masse e per
abituare la gente all’inaccettabile» (1).


Overton e la manipolazione del sentire politico
Mikhalkov non è uno qualsiasi: l’intera sua famiglia appartiene alla
parte più elitaria dell’establishment culturale russo da più di un secolo.
Il padre è il poeta che scrisse l’inno sovietico per poi riscriverlo per la
“nuova Russia”. Il fratello Andrej Končalovskij (che assunse il nome
della madre per sfuggire al senso di nepotismo della famiglia) è regista
acclamato di film para-hollywodiani e di opere liriche. Il nipote Yegor è
il maestro dei poliziotteschi moscoviti (film come Antikiller sono
blockbuser in patria); tramite la madre Natalja Petrovna
Konchalovskaja Nikita è imparentato con dinastie di pittori. Ha vinto un
leone d’oro a Venezia (con il film Urga - territorio d’amore) e pure, nel
1995, un Oscar per il miglior film straniero (Il Sole ingannatore).
Insomma, Mikhalkov parla da uno scranno che immaginiamo piuttosto
contiguo al potere moscovita.
Credo vi sia un senso – politico e geopolitico, e metafisico – se dalle
eleganti rifiniture del suo studio il cineasta sviscera questo schema di
condizionamento sociale studiato da Joseph P. Overton.
Joseph Overton, già Senior Vice-President del
Mackinac Center for Public Policy, un think
tank del Michigan che si occupa di politiche
liberiste e che è percepito come «conservatore»,
definì la sua teoria a metà degli anni Novanta.
Morì piuttosto giovane (nacque nel 1960) in un
incidente aero: si schiantò con un ultraleggero,
dicono le cronache. La teoria che lo rese
famoso, quindi, uscì postuma. Overton, a cui i
suoi colleghi ancora si riferiscono con un misto
di simpatia e deferenza, voleva semplicemente studiare gli effetti sulla
popolazione dei think tank e delle centrali di influenza del processo
politico.

Secondo lo schema che formulò, ogni idea concepibile in politica (ma
non solo) ricade giocoforza in un intervallo di possibilità che la rende
più o meno recepibile dalla società. L’uomo politico lo sa, e a meno che
non voglia effettuare un suicidio passando per estremista, si attiene alle
idee che la Finestra di Overton ritiene accettabili.
Seguendo lo schema, ogni idea evolve secondo sei diversi stadi:

(«impensabile», cioè inaccettabile, vietato); Radical
(«radicale», cioè ancora vietato ma con delle eccezioni); Acceptable
(«accettabile», cioè non in dissonanza cognitiva totale con il pensiero
del soggetto); Sensible («sensata», cioè razionale, dotata di
spiegazioni); Popular («popolare», «diffusa», cioè accettata da larga
parte della società, rinforzata dai media); Policy («legislazione»,
«legalizzata», cioè l’idea è divenuta parte concreta della politica
statale).
Conoscendo questo diagramma di evoluzione del sentire politico, si
rende facile la comprensione di come qualsiasi tabù possa essere
infranto e «liberato» nella società grazie alla tecnica di graduale
cambiamento (la vecchia tecnica della rana bollita, se alzi la
temperatura di colpo salta fuori dalla pentola, se aumenti di un grado
alla volta resta immobile sino a farsi lessare), utilizzando magari anche
tecniche di shock: all’apparire degli estremisti (coloro che vorrebbero
qualcosa che dapprima ci pare «impensabile»), una soluzione di
compromesso pare sempre più accettabile, sensata, pronta per essere
diffusa e quindi legalizzata.
Si avanza per gradi. Dalla terra incognita di quanto la società può
trovare disgustoso e deplorevole, piano piano verso ciò che è da
ritenersi giusto, anzi più che giusto: da proteggersi con le leggi dello
Stato. Saltano alla mente, ovviamente, gli esempi della sodomia ora

resa fatto naturale, e del relativo matrimonio per i sodomiti invocato ora
a gran voce dall’Occidente, ovvero ciò era totalmente fuori dallo spettro
del possibile per la società di solo pochi anni fa. Poi, gradualmente,
ecco che l’omosessualità – che era malattia per l’OMS sino al 1990 e
reato in molti Paesi occidentali – si è fatta largo sino al cuore dello
Stato.
Riflettiamoci: la stessa parola «omosessuale», termine pseudoscientifico,
è stata introdotta nella fase in cui l’idea da impensabile e
radicale doveva divenire accettabile, sensata. La razionalizzazione
Distruggere la finestra di Overton http://www.effedieffe.com/index.php?view=article&catid=83:free&id...
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della sodomia, lo sappiamo, passò attraverso l’occupazione materiale
dei Convegni delle Associazioni Psichiatriche (come l’American
Psichiatric Association) da parte degli attivisti LGBT, con successiva
cancellazione dell’omofilia dalla lista delle malattie sessuali del
Manuale Diagnostico-Statistico dei disordini mentali (1973).
Tuttavia, l’uranismo è oramai penetrato come «possibilità» anche nella
mente del più bigotto conservatore (vuoi essere più cattolico del Papa?
Chi sei tu per giudicare) per cui non si tratta dell’esempio adeguato.
Mikhalkov prova a simulare una finestra di Overton per aberrazione
dalla quale ora, in teoria, la società dovrebbe essere immune. Le cose,
come vedremo, non stanno esattamente cosìAllo stato attuale, il tema del cannibalismo pertiene al regno
dell’impensabile è nella fase «totalmente inaccettabile», non è
discutibile sulla stampa e non si ammette in alcun modo tra gli esseri
umani. Apparizioni mediatiche del fenomeno – come nel caso del
ribelle anti-Assad che divorava il cuore del suo nemico o gli innumeri
episodi di «cannibalismo militare» nei conflitti africani – sono mostrati
con terrore e disgusto, a volte perfino – per opportunità politica – celati
al grande pubblico.
Radical
L’idea passa dunque da totalmente inaccettabile alla fase «vietato, ma
con deroghe». Diviene insomma una realtà pur radicalmente lontana,
tuttavia esistente. Entrano qui in gioco la tendenza, tutta illuminista, a
dichiarare che i tabù vanno discussi, analizzati. È in questo fase che
fanno solitamente la loro comparsa “gli scienziati”: nel nostro caso,
saranno gli antropologi, gli psicologi, perfino i nutrizionisti. Si
organizza un bel convegno sul tema, poi un secondo, poi un terzo. Si
parla delle tribù della Papuasia. In TV a notte fonda e nei Cineclub
cominciano a riprogrammare capisaldi del genere come pellicole trash
tipo Cannibal Holocaust o il più elegante Il Profumo della Signora in

nero. In questo momento della finestra, assieme al dibattito
«scientifico», emergono immediatamente gruppi oltranzisti, chiassosi
estremisti le cui posizioni stanno in fondo allo spettro: immaginate una
«Associazione di Liberi Cannibali» che chiede di poter mangiare chi
vuole senza essere giudicata dalla morale e dalla legge. Nonostante
l’idea pare essere ancora lontana dalla società, questa fase permette la
sua penetrazione nella membrana del pensiero collettivo. Non esistono
tabù, e questo fenomeno, per quanto tremendo, esiste – lo dice la
scienza! –, e bisogna farsene una ragione. L’emersione di gruppi di
cannibali dichiarati ci fa capire che – elemento importante, conosciuto
da sempre dal potere che alleva i suoi estremismi domestici – l’idea ha
delle sue sfumature, si può scegliere comodamente un’opzione
“moderata”.
Acceptable
Nella fase successiva, il concetto del cannibalismo passa da «vietato ma
con eccezioni» alla dimensione dell’«accettabile». La scienza continua
a spingere, e al fenomeno viene fatto un rebranding: non si parla più di
cannibalismo, si usa la parola scientifica «antropofagia». Anche questa
parola, tuttavia, nel corso di questo momento della finestra, è
suscettibile di essere cambiata nuovamente: ecco a voi introdotta la
parola «antropofilia» –– pensate al sodomismo, ad un certo punto
studiato come «omofilia» (termine che è però troppo contiguo a
«parafilia», cioè perversione) e divenuto quindi «omosessualità», un
termine scientifico che è di per sé una contradictio in adiecto, in quanto
il sexus è etimologicamente «ciò che fabbrica, che tesse» (Dizionario
Pianigiani) oppure «ciò che separa, ciò che distingue l’uomo dalla
donna» (così la pensavano gli etimologi Benfrey, Corrsen, Pott). Il
sesso, quindi non può essere omos, cioè «lo stesso». Eppure, la parola
oramai è entrata nel vocabolario comune, come fosse sempre esistita
(nel citato dizionario etimologico di Ottorino Pianigiani, del 1907,
proprio non esiste), e ogni altra parola è ritenuta offensiva: provate a
dire, come si poteva fare neanche trenta anni fa, «invertito»,
«sodomita», «pederasta».
Queste parole scientifiche, inoltre, hanno la possibilità di creare infiniti
derivati: omosessualità diviene «omosessuale», «gli omosessuali»,
«l’omosessualismo», «omosex», fino alla contrazione «omo» (o
all’inglese «homo»). In fondo, il significato «che si accoppia con lo
stesso» non suona male, non vi sono echi di punizioni bibliche, di dark
room o di virus HIV, è un puro concetto.
Così anche gli antropofili non evocano, con questo bel nome, il
sacrificio umano, la carne squarciata, le interiora consumate
avidamente: no, è etimologicamente la «passione per gli umani» a
definirli. L’aberrazione viene qui disincarnata, concettualizzata,
neutralizzata nel suo disgusto organolettico. È in questa fase che
subentra il richiamo al «precedente storico», ad un fatto mitico (reale o
inventato, o tutt’e due pettinati alla meglio) che legittimi sub specie
aeternitatis l’idea un tempo proibita. Ecco che, in ambiente di retaggio
cattolico, vi potranno essere mille riferimenti alla Messa come atto di
antropofagia. Il cannibalismo non può che essere accettato, perché in
fondo viene celebrato ogni settimana dalla popolazione più pia.
L’illegittimità dell’idea, quindi, è indebolita per sempre: pur non
essendo ancora libera di correre per la società, essa viene ritenuta
legittima in un determinato recinto storico-antropologico.
Sensible
Si passa quindi allo step successivo, quello che dall’idea lava per
sempre la patina di inaccettabilità: il concetto viene trasformato in
«sensato», «ponderato», «razionale», legato ad una necessità
«fisiologica», «naturale», «biologica». Ecco nuovi studi che affermano
che il desiderio di mangiare carne umana può essere dovuto ad una
predisposizione genetica dell’individuo: esistono già studi, del resto,
che abbinano la dieta carnivora a determinati gruppi sanguigni. Qui si
introduce il tema d’attualità, quello che spinge l’individuo a fantasticare
delle «insuperabili circostanze» nelle quali il destino potrebbe
piazzarlo. Immaginate la carestia, o una situazione in cui un essere
umano «deve avere il diritto di fare la scelta». Pro-choice: pensate al
famoso disastro aereo delle Ande (1972), quando 16 sopravvissuti,
dispersi nelle altitudini della Cordigliera, decisero, per sopravvivere, di
cibarsi dei morti. Ecco pronta la programmazione TV del film tratto da
questo episodio di cronaca, Alive, con il giovane Ethan Hawke: la
pellicola ti porta inevitabilmente a vedere il cannibalismo come fatto di
pura razionalità, mostrato dal regista anche con una certa pudicizia, al
punto che potrebbe anche non capirsi cosa sta accadendo, e il tutto
comunque si dimentica facilmente grazie al luminoso finale di salvezza.
Il cannibalismo (pardon, «antropofilia») salva le vite umane. Altro che
cosa orrida e inconcepibile.
Popular
Quinta fase: da «sensato» a «diffuso», e cioè pubblicamente accettato.
Qui intervengono, pesantemente, i dibattiti sui media. Gli intellettuali
disquisiscono del cannibalismo come fatto mitico e come tendenza. I
talk show intervistano un ragazza di buona famiglia che dichiara di
essere cannibale, magari anche con una certa moderazione: «mangio
solo cadaveri o persone consenzienti». Nei film e (soprattutto oggi)
nelle serie TV tra i personaggi positivi (se non tra i protagonisti) spunta
un cannibale, con relativa storia di discriminazione alle spalle.
Immagini di cannibalismo compaiono nei video dei cantanti del
momento, sui cui gusti alimentari un po’ si chiacchiera. Viene rivelato
che sono «antropofili» numerosi musicisti, attori, politici, VIP di ogni
sorta. La serie Hannibal viene rifatta con finalmente il protagonista, il
brutale ma raffinato assassino antropofago Hannibal Lecter, reso
protagonista senza più comprimari, un eroe positivo e basta.
Poi si delinea la strategia della “pistola puntata”: quanti ragazzi si
suicidano perché sono cannibali e la famiglia, la società, non possono
capire? È la minaccia che non è mancata nel discorso di Bruce Jenner
(che ora si dovrebbe chiamare Caytlin) alla cerimonia della TV sportiva
ESPN che lo premiò per il suo coraggio. Molti maschi che vorrebbero
andare in giro vestiti da donna, assumere ormoni e mutilarsi gli organi
sessuali, oggi stesso sono costretti ad ammazzarsi ha dichiarato
l’olimpionico mutante. E la colpa è solo nostra, della società, dei
«cosiddetti sani». La storia dei suicidi è tutt’ora probabilmente l’unico –
fallace – argomento messo in campo dalle sigle LGBT per giustificare
l’«emergenza omofobia». La rivoltella della discriminazione è pronta a
tirare sull’innocente incompreso: più tempo attendiamo, più aumenta il
numero dei morti.
Così, un’emergenza per i cannibali suicidi comincia a monopolizzare il
discorso pubblico. A questo punto gruppi antropofagi (un tempo ritenuti
oltranzisti) ora sono entrati appieno nello spettro delle possibilità
politica, sia pure con le loro sfumature. L’idea di base è che una grossa
parte della popolazione sia cannibale, un’altra, ancora più vasta, lo è in
modo latente, sino all’apparizione di una teoria per cui tutti gli uomini
nascono in potenza antropofagi, devono solo decidere se esserlo o meno
(esattamente come la sessualità per la teoria del gender).
Qui si scatenano gli attivisti. Parafrasando un recente slogan della
propaganda di Sodoma, «Il cannibalismo esiste, fattene una ragione». In
fondo, si tratta solo di persone culinariamente creative, spesso più
raffinate della media. Si sparge la voce che chi odia i cannibali sotto
sotto lo è anche lui. E poi ribadiamo ancora una volta la suprema
saggezza relativista: «chi siamo noi per giudicare?»
Si comprende che il cannibalismo, a questo punto, è divenuto una
variante naturale dell’umanità. Discriminarne i portatori diviene cosa
odiosa e ingiusta. Chi disprezza gli «antropofili» è per logica dell’etimo
«antropofobo». Ovvero, chi odia il cannibalismo odia l’uomo. L’amore
per il prossimo passa attraverso la consunzione della sua carne: ecco
che anche la Chiesa «in dialogo con il mondo» recepisce il portato di
giustizia umanitaria di questo fenomeno.
È a questo punto che cominciano a programmarsi leggi a protezione del
fenomeno: una legge dovrà punire l’«antropofobia», un’altra insegnare
il cannibalismo sin dall’asilo, un’altra ancora dovrà sancire il diritto alla
«libertà di alimentazione» degli «antropofili».
È davanti a questa ebollizione della massa desiderante, convinta vi sia
un bisogno civile «non più rinviabile» che entra in scena il corpo

politico, che tenta di cavalcare come deve la novità, fedele a
quell’imperativo di «imprenditoria dell’opinione» che forma lo Stato
democratico. Nelle fasi precedenti i protagonisti erano gli attivisti e
think tank, fondazioni transnazionali, ONG, media: gli evocatori delle
«potenze dell’aria» di cui si parla nel Vangelo. Con i politici l’idea
comincia ad incarnarsi, ad assumere un sostrato materiale. Vi erano,
forse, nei previ momenti del processo, delle figure politiche, ma si tratta
di early adopters, precursori, una minoranza rispetto alla massa umana
che costituisce il legislatore, la quale, come tutte le masse è pigra, poco
fantasiosa, passiva, specialistica quanto vuota, altisonante quanto
volubile ed inetta. Il politico medio che vuol stare a galla capisce che in
qualche modo con il cannibalismo ci deve avere a che fare. E quindi,
ecco realizzate le leggi che trasformeranno il tabù in fenomeno
mainstream protetto dalla giurisprudenza e dalle forze dell’ordine.
Policy
Nell’ultima fase assistiamo alla trasformazione definitiva dell’idea, da
diffusa a legalizzata. La propagazione sui media è virale, così come i
dibattiti in sede parlamentare: l’idea riceve piena importanza politica. I
cannibali sono oramai totalmente umanizzati, quindi fatti oggetto di
diritti inalienabili.
Qui entrano in campo direttamente le lobby; le ricerche scientifiche
storico-antropologiche lasciano il passo a statistiche sociologiche
riguardanti il presente più stretto. I sondaggi tastano l’umore del popolo
democratico: legalizzare il cannibalismo, sì o no?
Con il giusto clima socio-politico, magari pure con una bella spintarella
dall’ONU o da Bruxelles, arriva la prima legge. Vietato discriminare i
cannibali, mai più l’«antropofobia» che fa suicidare tanti poveri
«antropofili». Poi le scuole, con libri per bambini ricchi di disegni di
grande chiarezza illustrativa. Infine la libertà di mangiare carne umana
quandunque il cittadino lo desideri, certo con alcuni «paletti» tipici
della civiltà del compromesso (come la Democrazia Cristiana): il
consumato deve essere morto, o aver redatto una richiesta di eutanasia

almeno una settimana prima; il consumato può essere anche sano e
vivente purché si compili un contratto con il consumatore che autorizzi
a quest’ultimo di cibarsi delle carni del contraente, come pare succedere
spesso in Germania, patria del cannibalismo consenziente: il primo caso
fu quello di Armin Meiwes; di recente abbiamo visto anche la storia di
Detlev Guentzel, poliziotto antropofago che si mangiò, non senza il
permesso dell’interessato, Wojciech Stempniewicz, un consigliere
comunale della CDU (appunto, la DC tedesca…).
Finestra sull’ecosistema del Male
Ora, il lettore capirà a quante realtà lo schema di Overton sia stato già
applicato. Per il sodomismo mondialista, e le relative nozze, siamo già
vicini a chiudere la finestra. Abbiamo assistito, nel giro di pochi anni, a
tutta la trafila. Da idea reietta è divenuta oggetto di studio (lo studio
psichiatrico dell’omosessualità, prima incoraggiato poi militarizzato dai
militanti LGBT), poi fenomeno chiacchierato («sai che anche quello…»
«Come Giulio Cesare!»), poi ancora fatto razionale («se uno nasce
così...»), quindi tema popolare (gli omosessuali al Cinema e in TV, da
In&Out a Un Posto al sole; gli stilisti invertiti innalzati ad esempio
perfino per i cattolici, come nel caso di CL e Dolce&Gabbana), infine
legge di Stato: ddl Scalfarotto, ddl Fedeli (ora riassorbito e già votato
nel decreto «Buona Scuola»), ddl Cirinnà.
Per l’aborto fu lo stesso: un omicidio che va contro lo spirito di una
Nazione Cattolica viene fatto oggetto di conferenze e studi sociali;
compaiono i gruppi estremisti (i radicali di Pannella e Bonino e gruppi
pragmatici come la squadra di mammane capitanata da Eugenia
Roccella, ora deputato dei vescovi in Parlamento), quindi viene
discusso («si dice che Grace Kelly...»), poi razionalizzato (si deve
procedere in certi frangenti: ecco che esplode il caso Seveso, con
Susanna Agnelli che a Montecitorio chiede una deroga per far abortire
le donne della cittadina che si supponeva intossicata), quindi idea
popolare («l’utero è mio e me lo gestisco io», è un ritornello che dalle
studentesse si sposta verso qualsiasi donna si senta infine «liberata»),
fuori dal discorso pubblico: la DC crea la 194, pensando che sia un
buon compromesso tra il divieto di aborto – ritenuto, dopo tante fasi
della finestra, «impossibile da mantenere» – e i cannibali oltranzisti
Pannella e Bonino, che vorrebbero l’aborto senza freni. I democristiani,
fieri degli stupidi «paletti» posti, non si rendono conto che accettando
l’aborto nel discorso pubblico hanno permesso al pensiero radicale di
dilagare sino ad affogare ogni resistenza. Così, l’aborto totale chiesto da
Pannella – che ora, infatti, difende alla grande la 194 – si ottiene tramite
la resistenza simbolica dei cattolici: i colloqui in consultorio sono fittizi,
il periodo prima dell’esecuzione del feticidio diviene un dettaglio
trascurabile.
In più, con lo sdoganamento di questo vero e proprio cannibalismo
infanticida a spese del contribuente, il potere radicale ha caricato i colpi
successivi, che ne sono la diligente conseguenza. La produzione di
umani in vitro, presupposta dal libero aborto, presuppone a sua volta i
matrimoni tra invertiti, che hanno così possibilità di prodursi i figli
biotecnologicamente, fecondazione eterologa in vitro e impianto in
utero surrogato, quindi eliminazione del bambino difettato, se
necessario.
È sempre così: Il buco nella diga, grande come il dito di un bimbo
olandese, la fa crollare tutta.
Ad essere normalizzato fino alla legalizzazione non è più il singolo
fatto – come l’aborto – ma un ecosistema del Male in sé. Un clima, un
ambiente complesso.
Così, la legalizzazione dei matrimoni omofili, è solo il cavallo di Troia
per far entrare nel discorso pubblico – legittimamente e con la
protezione armata di Polizia, Carabinieri, Esercito – la congerie di
perversioni associate all’omosessualismo: la rinuncia definitiva a
pensare all’amore fisico come atto procreativo (love is love, e niente
questo ha più a che fare con la fertilità), la voracità sessuale senza limiti
(tipica delle dark room e dei pisciatoi pubblici), le pulsioni esibizioniste
tradotte in pura pornografia (come ai gay Pride), la necessità della

produzione in vitro delle creature umane (con eugenetica borghese
come sopramercato), l’inevitabilità del mercato dei gameti (con casi di
incesto genetico in arrivo), lo schiavismo terzomondiale degli uteri in
affitto (che prima o poi, come preconizzato dall’avanguardia gay, sarà
sostituito da xeno-gestazioni – ossia bambini incubati dentro a scrofe –
o uteri artificiali veri e propri).
Come nelle storie, il vampiro ti entra in casa solo se invitato. E tu credi
di invitarlo a cena, e poi ti ritrovi con tutta la famiglia azzannata. Per
quanto incredibile, i democristiani non lo hanno ancora capito.
Non si pensi che la pedofilia non stia già avviandosi a fase avanzate
della “finestra”. Abbiamo scritto su questo sito di un Convegno presso
l’Università di Cambridge (luglio 2014), dove si sostenne che «la
pedofilia sia cosa normale tra maschi adulti», poiché «una certa
porzione di maschi adulti normali vuole fare sesso con i bambini» e «i
maschi normali sono eccitati dai bambini». Poi lo scorso settembre,
ecco che spunta d’un bleu un articolo del New York Times: lo si spiega
sin dal titolo, «Pedophilia, a disorder, not a crime» («pedofilia, un
disordine, non un crimine»). Ecco poi il manuale psichiatrico più
seguito al mondo, il DSM, uscito incredibilmente nella sua quinta
edizione con il declassamento della pedofilia a «orientamento sessuale»
(dopo le proteste, i compilatori dell’American Psychiatric Association
provano a ricucire sostenendo che si tratta di un typo, un refuso...).
Abbiamo visto come i radicali –veri pionieri assoluti, la cui prescienza
ha un che di preternaturale – già nel 1998 organizzavano convegni per
normalizzare politicamente l’inclinazione pedofila: ad organizzare,
Pannella e l’ora berlusconiano Daniele Capezzone, con il
coinvolgimento di una ressa di deputati e senatori che vanno da
Taradash a Vittorio Sgarbi a serque di carneadi del PD (allora DS) o
della Lista Pannella o di Forza Italia, più psicanalisti di grido, filosofi,
sociologi, imprenditori, giornalisti, uomini di apparato ministeriale, etc.
Alla lista, oggi, si aggiungerebbe anche qualche vescovo... (2)
Non so: forse Pannella, che è vecchio e malato, vuole davvero provare a

vedere se in vita riuscirà a vedere overtonizzata anche questa immonda
aberrazione, e per questo ci parla dei suoi ninfetti.
Distruggete la finestra di Overton
Terminata questa discesa negli inferi dello Stato moderno, allo scrivente
risulta chiara quindi una cosa: per nessuna ragione dev’essere
consentito l’uso di questo sistema disumanizzante, in grado di
trasformare i carnefici in vittime, i mostri in santi, i cannibali in
minoranze discriminate. Si tratta, purtroppo, di un tratto ineliminabile di
una struttura politica basata sul consenso, dove chi governa subisce le
pressioni di chi è governato, anche quando quest’ultimo è con evidenza
turlupinato, sopraffatto da forze altre.
La democrazia e il Male, purtroppo, sembrano essere termini legati da
una forza magnetica. La democrazia, che si vuole sposa del
«progresso», non può che soggiacere a questa spirale perversa che porta
il legislatore, e il popolo tutto, verso l’abisso più suicida.
La democrazia è permeabile ad una tale follia perché essa è ormai la
sola irradiazione statuale, peraltro sempre più trascurabile, dell’umanità
schiava del relativismo. Un mondo senza più punti fermi, un mondo
senza Verità, può solo produrre uno Stato che tenta di adattarsi al gorgo,
invece che nuotare lontano. Anzi, lo Stato relativista non percepisce
nemmeno il gorgo, perché gli è stato insegnato che panta rei, tutto
scorre.
La Fede Cattolica presuppone l’esatto opposto: esiste una Verità, e il
mondo – e lo Stato – vi si devono adeguare. Questa verità è fissa,
immutabile, è una sola, perché materialmente creatrice del mondo,
materialmente rivelata all’umanità in forma umana, materialmente
vivificante; ogni aspetto dell’Essere è rivolto ad essa.
Vi è una sola legge naturale, scritta una volta per tutte, scritta sin dentro
il nostro cuore, i nostri geni, la nostra esistenza. Lo Stato Cristiano
protegge la legge naturale e solo quella; non cambia i suoi codici per




venire incontro ai popoli drogati dalla demagogia. Lo Stato Cristiano è
esecutore di una dimensione divina che è eterna, non negoziabile,
irreversibile, non discutibile.
Per questo ritengo che ogni forza voglia richiamarsi ad una politica
cristiana debba con ogni energia rifiutare la trappola della tirannia del
consenso.
Il compito di ogni cristiano è di procedere, con la preghiera o con la
propria energia politica, alla distruzione della finestra di Overton. E di
creare le basi per l’instaurazione di un unico processo politico:
restaurare omnia in Christo.
Roberto Dal Bosco
(articolo pubblicato il 16 agosto)