Silvo Krčméry è morto. Ha tenuto in vita la chiesa slovacca durante il comunismo
Silvo Krčméry è morto. Ha tenuto in vita
la chiesa slovacca durante il comunismo
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Si
è spento nel suo piccolo appartamento di Bratislava a 89 anni Silvo
Krčméry, una delle personalità più carismatiche della Chiesa slovacca
«clandestina» durante il comunismo. Nato il 5 agosto 1924 a Trnava in
una famiglia della piccola borghesia, da bambino è «un monello famoso»
che «giocava a calcio per la strada». A 17 anni è affascinato dai
gesuiti che si coinvolgono con i giovani, organizzano circoli letterari,
gite, proiezioni di film. Iscrittosi alla facoltà di medicina a
Bratislava, continua l’approfondimento del cammino di fede, lo
interessano i destini della Russia e dei greco-cattolici, e con alcuni
amici fonda un gruppetto che si ispira alla figura di Pier Giorgio
Frassati: «Volevamo essere come lui: fedeli allo studio, lieti nella
vita comunitaria, responsabili di quanto accadeva nella società».
Nel 1943 stringe una profonda amicizia con Vlado Jukl, coetaneo
conosciuto in occasione dell’arrivo di padre Kolakovič in fuga dalla
Jugoslavia che, sull’esempio della Gioventù Operaia Cristiana, svolge
apostolato fra gli studenti e li prepara mettendoli in guardia dal
pericolo comunista.
Nel
febbraio del 1945 i tedeschi cominciano a ritirarsi, ormai la guerra
volge al termine, e i due giovani amici, «a cavallo di un’unica
bicicletta» rientrano con i partigiani a Bratislava. Si trasferiscono a
studiare a Praga, dove li chiamano «i fratelli apostolici». Silvo
ottiene una borsa di studio che lo porterà a Parigi, finché nel maggio
del 1948, mentre in Cecoslovacchia si instaura il regime comunista, si
laurea in medicina e va a lavorare in ospedale. Quello che durante gli
incontri di Kolakovič era sembrato un gioco, nel giro di pochi anni
diventa dura realtà: dopo il colpo di Stato comunista, la Chiesa subisce
restrizioni e qualsiasi attività missionaria è considerata illegale.
Così nel gennaio 1950, iniziata la leva militare, Silvo viene arrestato.
Durante i lunghi mesi di carcere istruttorio dove è interrogato anche
con metodi violenti, offre le sue giornate secondo un «programma
settimanale»: il lunedì per i malati e i medici, il martedì per il mondo
del lavoro, poi per la scuola, per la conversione della Russia, fino
alla domenica «dedicata» al papa e ai sacerdoti. Il 24 giugno del ’54 il
tribunale lo condanna a 14 anni di carcere. Memorabile la sua replica
che fa arrossire di vergogna i giudici: «Voi avete il potere, ma noi
abbiamo la verità. Non siamo invidiosi di voi e non desideriamo il
potere, ci basta la verità». Chiederà di essere trasferito
dall’infermeria tra i detenuti che lavorano in miniera, per poter
incontrare l’umano con tutti i suoi limiti e bisogni. Nell’ottobre del
’64 viene rimesso anticipatamente in libertà: non ho commesso alcun
reato – dice – voglio star qui fino alla fine a meno che non riapriate
il caso e non emerga la verità. Lo sollevano di peso e lo accompagnano
alla porta…
Rientra
a Bratislava, ma il primo impatto è negativo: «Quando sono andato a
messa, mi è venuto da piangere: per questo siamo stati dentro? C’erano
solo le vecchiette, nessun giovane». Quando torna in libertà anche Vlado
(che diventerà sacerdote), i due amici vorrebbero riprendere il
servizio alla Chiesa ma «in due non si poteva far molto, sarebbe stato
meglio avere una comunità di amici». Con cautela, coinvolgono alcuni
giovani: «Parlavamo della fede, andavamo a fare gite, a sciare… Piano
piano si tesseva la rete: gli studenti, tornando a casa, portavano
questa proposta in tutto il paese». Nascono i numerosi gruppetti della
comunità «Fatima» che sosterrà «clandestinamente» la Chiesa con modalità
simili a quelle dei religiosi oblati, senza dimenticare l’originale
intento missionario verso la Russia: gli slovacchi possono viaggiare in
URSS come turisti e introdurvi letteratura religiosa e allacciare
contatti con minori complicazioni rispetto ai cristiani occidentali.
Negli anni Ottanta la comunità pubblica riviste samizdat, raccoglie
firme per la libertà religiosa, aiuta a organizzare i pellegrinaggi come
nell’84 a Šaštín, il santuario nazionale, quando il dottor Krčméry
prolunga il ricovero ospedaliero del tremebondo parroco in modo che si
possa svolgere un’adorazione notturna «informale» senza nessuno che
rompa le uova nel paniere…
Silvo,
pur non essendo un religioso, è punto di riferimento per moltissimi
giovani, ai quali chiede un rapporto sincero e serrato: «Sono contento
di esserti di ispirazione se faccio qualcosa di buono, ma se vedi che
faccio qualcosa di sbagliato, ti scongiuro di dirmelo!».
Dopo l’89 Silvo si dedica ai drogati e agli alcolisti, considera le
persecuzioni del passato utili alla maturazione personale, «senza la
quale un uomo non può essere cristiano». Negli ultimi anni è costretto a
letto, eppure sono centinaia le persone, giovani e meno giovani, che
passano a trovarlo e partecipano alle messe celebrate nella stanzetta al
secondo piano. È splendido vedere come questo vecchietto malato, quasi
incosciente abbia il dono di raccogliere attorno a sé la comunità
cristiana, di far pregare e di insegnare la bellezza di quei canti che
non si è stancato di ripetere fino all’ultimo filo di voce: dai canti
tradizionali slovacchi a quelli russi o latini, all’intramontabile Mamma
di Beniamino Gigli, la sua preferita.
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