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mercoledì 28 febbraio 2024

La ricerca di Pavese

 PAVESE 

PAVESE 1

In un libro intitolato IL SENSO RELIGIOSO, che molti amici stanno leggendo in questi giorni, si parla di uno scambio epistolare tra Cesare Pavese e una giovane professoressa che stava traducendo per lui dal greco i capolavori di Omero, Iliade e Odissea. Lei viene colpita da ciò che scrive Pavese nel doppio romanzo autobiografico “Prima che il Gallo canti”, e in particolare dal cap. XV di “La casa in collina” ove lo scrittore confessa la propria “esigenza religiosa”. Lui le risponde che questo è “il punto infiammato, il locus di tutta la sua coscienza”.


Qualche tempo fa ho approfondito il FATTO VERO, cioè l’incontro accaduto a Pavese all’inizio del 1944. Lo racconto in quattro post a partire da oggi [il mio mini-saggio su Pavese è a stampa nel libro “L’io spezzato e la domanda di assoluto”, edito da Itaca]


Nel cap. XV Corrado [alter ego di Pavese] si sente “braccato”, cerca un luogo in cui nascondersi. Sa di gente che si è rifugiata nei conventi e nelle chiese… “Un ritorno all’infanzia, all’odore d’incenso, alle preghiere e all’innocenza?”. Per la sua ideologia in quei luoghi dovrebbero esserci solo i “fastidiosi borbottii” di vecchi bigotti; e se invece proprio lì egli potesse sentire, “con le palme sul viso, calmarsi il battito del cuore?”. Quindi gli accadde un primo evento, tutto interiore: “Ricordo che stavo traversando una piazza, e il pensiero mi fece fermare. Trasalii. Fu quella una gioia, una beatitudine inattesa. Pregare, entrare in chiesa, è vivere un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue”. Vede una chiesa e ci entra. “C’era in fondo, sotto l’altare, un lumicino rosso; nei banchi, nessuno. Fissai gli occhi a terra e ripensai quel pensiero, volli rigodere la gioia e la certezza della pace improvvisa. Non mi riuscì”. Avvenimento: accade quando accade, non a comando. “Non parlai con nessuno di quell’attimo, di quello sgorgo di gioia”. Solo con Cate – colei che era stata la sua donna – Corrado prova ad aprire il discorso, ma per lei che ha una posizione ideologica è appunto un “discorso”. Invece per lui “crederci bisogna. Se non credi in qualcosa non vivi. … Siamo tutti malati che vorremmo guarire. È un male dentro… Uno che prega, quando prega è come sano”. Ma lei taglia corto: “Pregare non serve”. Qualche giorno dopo i tedeschi arrestano Cate e gli altri amici. Corrado vede la scena dall’alto. “Si udì il canto di un gallo, strepitoso e lontano” (cap. XVI). Il “gallo” che è nel titolo del libro. 

Domani vedremo che a Pavese accadde un “incontro”, di cui sappiamo anche la data…PAVESE 1

In un libro intitolato IL SENSO RELIGIOSO, che molti amici stanno leggendo in questi giorni, si parla di uno scambio epistolare tra Cesare Pavese e una giovane professoressa che stava traducendo per lui dal greco i capolavori di Omero, Iliade e Odissea. Lei viene colpita da ciò che scrive Pavese nel doppio romanzo autobiografico “Prima che il Gallo canti”, e in particolare dal cap. XV di “La casa in collina” ove lo scrittore confessa la propria “esigenza religiosa”. Lui le risponde che questo è “il punto infiammato, il locus di tutta la sua coscienza”.


Qualche tempo fa ho approfondito il FATTO VERO, cioè l’incontro accaduto a Pavese all’inizio del 1944. Lo racconto in quattro post a partire da oggi [il mio mini-saggio su Pavese è a stampa nel libro “L’io spezzato e la domanda di assoluto”, edito da Itaca]


Nel cap. XV Corrado [alter ego di Pavese] si sente “braccato”, cerca un luogo in cui nascondersi. Sa di gente che si è rifugiata nei conventi e nelle chiese… “Un ritorno all’infanzia, all’odore d’incenso, alle preghiere e all’innocenza?”. Per la sua ideologia in quei luoghi dovrebbero esserci solo i “fastidiosi borbottii” di vecchi bigotti; e se invece proprio lì egli potesse sentire, “con le palme sul viso, calmarsi il battito del cuore?”. Quindi gli accadde un primo evento, tutto interiore: “Ricordo che stavo traversando una piazza, e il pensiero mi fece fermare. Trasalii. Fu quella una gioia, una beatitudine inattesa. Pregare, entrare in chiesa, è vivere un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue”. Vede una chiesa e ci entra. “C’era in fondo, sotto l’altare, un lumicino rosso; nei banchi, nessuno. Fissai gli occhi a terra e ripensai quel pensiero, volli rigodere la gioia e la certezza della pace improvvisa. Non mi riuscì”. Avvenimento: accade quando accade, non a comando. “Non parlai con nessuno di quell’attimo, di quello sgorgo di gioia”. Solo con Cate – colei che era stata la sua donna – Corrado prova ad aprire il discorso, ma per lei che ha una posizione ideologica è appunto un “discorso”. Invece per lui “crederci bisogna. Se non credi in qualcosa non vivi. … Siamo tutti malati che vorremmo guarire. È un male dentro… Uno che prega, quando prega è come sano”. Ma lei taglia corto: “Pregare non serve”. Qualche giorno dopo i tedeschi arrestano Cate e gli altri amici. Corrado vede la scena dall’alto. “Si udì il canto di un gallo, strepitoso e lontano” (cap. XVI). Il “gallo” che è nel titolo del libro. 

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PAVESE 2

Nel romanzo “La casa in collina” Cesare Pavese dice che un giorno al protagonista Corrado (alter ego del Narratore) di fronte ad una chiesa accadde di vivere “un attimo di beatitudine inattesa, uno SGORGO DI GIOIA”. Si tratta della rielaborazione letteraria di un’esperienza veramente accaduta in un preciso giorno a Pavese. Ne “Il mestiere di vivere” – il suo diario segreto, pubblicato postumo – egli annota il 29 gennaio ’44: “Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto goder sempre quello SGORGO DI DIVINITÀ. È questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di esser fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di amore, un mancamento al barlume di questa POSSIBILITÀ. Forse è tutto qui: in questo tremito del «se fosse vero!» se davvero fosse vero”. Il 1° febbraio aggiunge: “Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di gratitudine, di aspettazione”. Dal dicembre ’43 fino alla Liberazione, nell’aprile ’45, Pavese fu per ben sedici mesi ospite dei padri Somaschi nel collegio Trevisio di Casale Monferrato. Di mattina studiava e scriveva, di pomeriggio dava ripetizioni di latino e greco ai ragazzi. Taciturno e diffidente, mantenne le distanze con tutti, ma non con il padre Giovanni Baravalle, un giovane gioviale sacerdote soprannominato padre Felice. Anzi fra i due crebbe una cordiale amicizia, che culminò in un evento ignoto ai più.

Lo racconto domani…

Domani vedremo che a Pavese accadde un “incontro”, di cui sappiamo anche la data…

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 In un’affollatissima sala milanese, a quarant’anni dalla morte dello scrittore, padre Giovanni Baravalle ha raccontato: “La sera del 29 gennaio ’44 me ne stavo nella cappella del collegio a recitare il breviario. Ero concentrato sul libro. Improvvisamente qualcuno entra nel locale, camminando in punta di piedi, e si siede sulla panca al mio fianco. Vado avanti qualche istante a leggere e intanto con una sbirciata mi accorgo che quella persona è il professore [Cesare Pavese], l’aria disperata, la testa fra le mani. Improvvisamente mi dice: «Padre, ho bisogno di lei. Mi aiuti». Comincia a parlare senza più fermarsi per due ore, mi racconta la sua vita. Si sfoga e alla fine mi chiede: «Che cosa può fare per me?». «In nome di Dio le posso dare il perdono e l’assoluzione, purché lei sia pentito dei suoi peccati». «Sì – risponde Pavese – se ho offeso Dio voglio chiedergli perdono delle mie colpe». Finalmente lo assolvo; passa qualche secondo e lui, vinto un moto di esitazione, mi pone un’altra domanda: «E come faccio a fare la Comunione? Io non so più come si fa». «Non si preoccupi; domattina alle sette lei si trovi qui. La cappella è deserta, finisco di celebrare la Messa nella cappella pubblica e vengo qui: io le do la comunione e lei non deve preoccuparsi di cerimonie o altro». L’indomani Pavese arriva puntuale e riceve il sacramento”. È un evento che rimane inciso nella memoria. Annoterà ne “Il mestiere di vivere” il 12 gennaio ’48: “Perché quando riesci a scrivere di Dio, della gioia disperata di quella sera al Trevisio, ti senti sorpreso e felice come chi giunge in paese nuovo?”. Lo “sgorgo” di gioia coincide proprio con la sorprendente novità accaduta quella sera.

domenica 25 febbraio 2024

Grandezza di Dostoevskij

 Quando Tolstoj apprese della morte di Dostoevskij, ne fu sconvolto. Espresse i suoi sentimenti in una lettera scritta alcuni giorni dopo: "Non ho mai visto quest'uomo e non ho mai avuto rapporti diretti con lui, e tuttavia, quando è morto, mi resi conto che era la persona più vicina, più cara e più necessaria per me. E non mi è mai venuto in mente di competere con lui - mai. Tutto ciò che faceva era tale che, più ne faceva, meglio era per me".

Sii te stesso

 Piccinini racconta questo episodio: 


A Forlì salgo in macchina con don Giussani, dovevo andare a fare un’assemblea per il movimento a Bologna e lui mi dice: “Allora come va a Bologna? Cosa devo venire a fare, a dire?”. 

"Beh, a Bologna va bene, stiamo pure crescendo, siamo sempre di più, però…" 

“Però cosa?”. 

"Però sono pochi quelli veramente amici.» 

Allora Giussani continuando a leggere il giornale dice: «Cos’è che hai detto?!» 

E Piccinini risponde: «Ho detto che mi preoccupa che il nostro problema a Bologna è che sono pochi quelli veramente amici!» 

E Giussani incalza: «E che problema è?» 

E Piccinini, un po’ incredulo, ribatte: «Come che problema è? Non dobbiamo diventare tutti amici nel movimento?! Tu hai sempre detto che dobbiamo diventare tutti amici!». Giussani allora risponde: «Tu non hai capito niente! Veramente tu sei un ex brigatista che vuole imporre d’autorità anche l’amicizia, ma sei matto?! Io ho sempre detto tre cose: che tra noi la comunione è un dono di Cristo che ci mette assieme e ci lega con la fede e col sacramento. La comunità o la compagnia è un compito che dobbiamo costruire noi dando la vita. L’amicizia, infine, è una grazia molto rara in una comunità cristiana. Capita ogni tanto a qualcuno, e se la godono pure! Le amicizie di una comunità, le amicizie belle, piacevoli, le simpatie, le preferenze ecco, le preferenze, sono molto rare in una comunità, sono quasi impossibili. Enzo, pensaci, come si diventa amici?» 

E Piccinini risponde: «Per una preferenza» 

E Giussani: «Appunto! Come per la moglie, c’è quella che preferisci! Hai un po’ di amici perché tu preferisci loro e loro preferiscono te. Quando finisce la preferenza te vai via. Tu perché stai nella comunità a Bologna, li preferisci?». 

«No, no! Non li sopporto! E loro mi odiano, mi ammazzerebbero!!» 

«E allora perché state insieme?» 

«Il Signore mi ha chiamato qui, lavoro all’ospedale Sant’Orsola, mi sono stati dati!» 

«Ma tu li preferisci?» 

«No» 

«E chi li preferisce?» 

«Ah, è Cristo che li preferisce, è Lui che me li dà!» 

«Appunto! In una comunità non ci si entra per una preferenza, ma si entra per una preferenza di Cristo, che tocca il cuore a te, lo tocca a lei e ti mette con gente che tu non hai scelto! Che tu non preferisci! E quindi che ti stanno fondamentalmente antipatici. La loro stessa presenza ti ferisce, perché tu non li hai scelti e loro non hanno scelto te, quindi è impossibile che siate amici. Siete in comunione perché c’è Cristo risorto presente. Alla comunità dovete dare la vita, è il compito dare la vita, il compito è fare il movimento. Che poi su mille persone, cinque o sei diventino pure amici è una grazia che Dio fa a loro, che se la godono a servizio di tutti. Ma guai a te se pretendi che tutti siano amici in comunità!». 

Enzo rimane interdetto per circa mezzo minuto e Giussani entra a gamba tesa e gli dice: «E poi ti aggiungo un’altra cosa: che la pedagogia di CL è un’autentica pedagogia cristiana, non favorisce le amicizie. Io non ho come scopo che la gente della comunità vada d’accordo, ho come scopo che ognuno vada d’accordo con se stesso, col proprio cuore e con Cristo, non con gli altri». Io non dirò mai: «Carletto cerca di essere un bravo ciellino, un bravo prete, o peggio un bravo prete di CL. Sii te stesso! Stacci col tuo carattere! Facci vedere che cosa Dio ti ha messo dentro, quando s’è inventato uno scomposto come te! Facci vedere chi sei tu, perché Dio t’ha fatto diverso da tutti gli altri. Io tiro su delle personalità molto caratterizzate, che hanno il gusto di dire: “Io son fatto così, m’ha fatto Dio e che ci posso fare? Non ho bisogno di cambiare per stare qua!”». Voglio dei luoghi in cui ognuno possa dire: «Io son fatto così e son contento di come Dio m’ha fatto!» Ti tiro su personalità spigolose, tendenzialmente conflittuali con gli altri, che costringono tutti i giorni a dire: «Ma chi me l’ha fatto fare? Ma perché io  sto con te?» E quando ci dicono che noi ciellini litighiamo con tutti, dico: «Benissimo, anche tra di noi!» Perché io non ho come scopo che siate amici, ma che ognuno sia se stesso. Preferisco un alto tasso di conflittualità, ma che si respiri aria pura. Quindi la moglie spigolosa è una fortuna!"

Il male è assenza di bene

 Se Dio esiste, da dove viene il male? Ma da dove viene il bene, se Dio non esiste?” 

(Boezio, De consolatione philosophiae).

         

Il male è solo assenza di bene, come in discordia, ingiustizia, e la perdita di vita o di libertà; è il risultato dell’assenza dell’amore di Dio nel cuore degli uomini.

        Un giorno, un professore ateo sfidò i suoi alunni e chiese: ‘Dio ha fatto tutto ciò che esiste?’.

Uno studente rispose coraggiosamente: ‘Sì l’ha fatto’.

‘Proprio tutto?’, chiese il professore.

‘Sì proprio tutto’, rispose lo studente.

‘Allora Dio ha fatto anche il male giusto? – rispose il professore – Perché il male esiste’.

Lo studente non seppe rispondere e restò in silenzio.

Il professore era visibilmente soddisfatto di aver provato ancora una volta che la fede era un mito.

All’improvviso un altro studente alzò la mano e chiese: ‘Posso farle una domanda professore?’. ‘Il freddo esiste?’.

‘È chiaro che esiste – rispose il professore -. 

Lo studente:

“In realtà il freddo non esiste, secondo le leggi della fisica, ciò che noi consideriamo freddo nella realtà è assenza di calore, che fa in modo che tale corpo ha e trasmette energia. Lo zero assoluto è l’assenza totale e assoluta del calore, tutti i corpi rimangono inerti, incapaci di reagire. Ma il freddo non esiste. Noi abbiamo ceato questo termine per descrivere come ci sentiamo quando manca il calore’.

‘E l’oscurità?’, continuò lo studente.

‘Esiste’, rispose il professore.

‘Di nuovo, professore, si inganna: l’oscurità è l’assenza totale di luce. Possiamo studiare la luce, ma non l’oscurità. 

E infine lo studente chiese: ‘E il male, professore, esiste il male? Dio non creò il male. Il male è l’assenza di Dio nei cuori delle persone. L’assenza dell’amore, dell’umanità e della fede. L’amore e la fede sono come il calore e la luce, la loro assenza produce il male’.

Questa volta fu il professore 

che restò in silenzio.” 


Autore sconosciuto

(Attribuito ad Albert Einstein)

Non importa che cosa dobbiamo fare:

 „Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio.“


Madeleine Delbreil

sabato 24 febbraio 2024

IL NOSTRO NEMICO

 IL  NOSTRO  NEMICO


""Il nostro nemico è una mediocrità cordiale che impera tra di noi nella misura in cui la nostra compagnia non diventa luogo della memoria di Colui per cui si vive.


Il buonista è per sua definizione un connivente, un complice, perché chiunque voglia dialogare con il mondo – e questo riguarda qualsiasi uomo di buona volontà - deve preoccuparsi anzitutto di impostare la questione sul piano della concezione, dei fondamenti della società. 


E invece questo è severamente bandito, non si deve parlare di queste cose, disturbano. 


Forse che Gesù Cristo ha avuto il problema di non urtare l’unità della società giudaica, che era obiettivamente in decomposizione, divisa tra le urla dello zelotismo che voleva distruggere il predominio romano e la connivenza delle caste sacerdotali che erano anche caste economiche?""


Don Giussani, nel 1994,  agli studenti universitari


La letizia è la condizione per la

generazione, la gioia è la condizione per la fecondità. Essere lieti è la condizione indispensabile per generare un mondo diverso, una umanità diversa.”

Luigi Giussani


giovedì 22 febbraio 2024

Il corpo

 Aveva ragione Camporesi: il nostro tempo ha sposato l’ideale del corpo in forma, del corpo del fitness, del corpo in salute, come una sorta di inedito comandamento sociale. Si tratta di una religione senza Dio che eleva il corpo umano e la sua immagine al rango di un vero e proprio idolo. Come ogni religione, anche quella del corpo implica, infatti, asservimento e spegnimento delle facoltà critiche; il nuovo feticcio – il corpo in forma – esige obbedienza e venerazione. La sua potenza genera un’ipnosi collettiva e un’idolatria a cui è difficile sottrarsi. Una nuova forma di schiavitù avanza sotto le spoglie della cosiddetta cultura del benessere infiltrandosi nelle pieghe più intime della nostra vita quotidiana. Il corpo sempre in forma, obbligatoriamente in salute, assume i caratteri perfezionistici di un dover-essere tirannico, di un accanimento psicofisico, addirittura di una prescrizione moralistica: ama il tuo corpo più di te stesso!


Massimo Recalcati,  "Una nuova religione del corpo", La Repubblica, 27  maggio 2011, in "A pugni chiusi. Psicoanalisi del mondo contemporaneo", Feltrinelli, Milano 2023 


Il vero

 22 febbraio 2005 - 22 febbraio 2024. Anniversario della nascita al Cielo di don Luigi Giussani. 


«Nuovo non è ciò che non si è mai sentito o udito, ma ciò che è vero. Il vero, tutte le volte che lo si ripete, ogni volta che lo si ripete, è sempre più nuovo, perché rivela sempre di più se stesso. Il vero, infatti, il nuovo, come abbiamo detto altrove, è il compimento di un’origine, di un antico, di un prima, che si impone nonostante la stanchezza. E la stanchezza ci può essere. Se non ci fosse la stanchezza, saremmo angeli, e noi preferiamo essere uomini stanchi che angeli non stanchi».

(L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo: (1990-1991), Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2013, p. 86).

martedì 20 febbraio 2024

 Sempre attuale.


«Ma il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, nei due sensi, che è senza inquietudine (cioè cerca una sequenza di godimenti superficiali nell’intento di eliminare il dramma dal cuore dell’uomo) – forse per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano – e che ha il suo simbolo nell’omosessualità (per il fatto che intende sempre l’amore “omosessualmente”, anche quando mantiene il rapporto uomo-donna). Il giudizio che qui ci interessa è antropologico, non anzitutto etico: il nichilismo gaio “non vedendo” la differenza, anche sessuale, come segno dell’altro, rischia di concepire l’amore come puro prolungamento dell’io (appunto “omosessualmente”). Non per nulla trova i suoi rappresentanti in ex cattolici, corteggiati ancora da cattolici che riconoscono in loro qualcosa che trovano sul loro fondo. Tale nichilismo è esattamente la riduzione di ogni valore a “valore di scambio”; l’esito borghese massimo, nel peggiore dei sensi, del processo che comincia con la prima guerra mondiale».


(Augusto Del Noce, Lettera a Rodolfo Quadrelli, 8 gennaio 1984)


P.S.: l’ex cattolico corteggiato dai cattolici di cui scrive Del Noce era Gianni Vattimo...

lunedì 19 febbraio 2024

La bontà

 Papa Paolo VI chiese a Giuseppe Prezzolini: “Lei si dichiara lontano dalla Chiesa! Cosa suggerisce per poter avvicinare i lontani alla Chiesa?”. Prezzolini diede una risposta sulla quale dovremmo tanto riflettere. Eccola: “Padre Santo, c’è una sola strada: preparate persone umili e veramente buone, perché solo la bontà attira. Di persone colte ce ne sono fin troppe, di persone intelligenti ce ne sono fin troppe. Ma non sono costoro che rendono più buono il mondo. L’intelligenza suscita ammirazione e la cultura strappa applausi, ma soltanto la bontà attira a Dio e spinge le persone alla conversione”.


Cardinale Angelo Comastri

 

Tutto in una d

I cruenti fatti di cronaca recente mostrano lo stretto legame tra religione e violenza. A tal proposito molti pensano, come canta Lennon in Imagine, che eliminare le religioni ci renderebbe più fratelli. Proprio la Bibbia affronta il tema sin dall’inizio senza mezzi termini: la violenza tra fratelli scatta proprio per un motivo religioso. Infatti al capitolo 4 di Genesi è narrata la vicenda di Caino Abele, i primi due fratelli, figli di Adamo ed Eva. I due fanno un’offerta a Dio, ma quella di Caino non è gradita. Questi, invece di interrogarsi sul perché, decide di eliminare il fratello. Potremmo dare la colpa a Dio, che però non aveva chiesto alcun sacrificio, è stata una loro iniziativa, perché la religione è una iniziativa umana, un modo in cui l’uomo risponde al suo non bastarsi. Ma nel racconto ciò che interessa a Dio è altro: il cuore dell’uomo. Infatti mette in guardia Caino proprio sulle condizioni del suo cuore, che non sopporta ci sia un altro ad avere ciò che lui vuole in esclusiva. Non è la religione a generare violenza, ma la mania di possesso, anche su Dio. La parola religione (da re-ligare) rimanda al creare legami, mentre Caino li spezza: «Sono forse il custode di mio fratello?» risponde a Dio che gli chiede dove sia Abele. Ma perché proprio la religione nella storia fa spesso emergere questa violenza?

La violenza di Caino (che rappresenta anche gruppi o popoli) non nasce dalla religione ma dalle difese che il nostro io impaurito dalla morte alza per proteggersi e rassicurarsi: avere il controllo di Dio o di ciò che riteniamo essere dio (risorse, potere, ricchezza, salute...). L’io non vuole con-dividere, vuole essere «figlio unico», cioè «assoluto», letteralmente «sciolto da tutto», del tutto autosufficiente: non ci possono essere fratelli. Il problema è tutto in una «d», basta toglierla a Dio e l’io, privo di trascendenza, diventa violento, perché il suo desiderio di infinito viene proiettato su ciò che è finito, e l’altro diventa una minaccia allo «spazio vitale», la «d» è sostituita da una «m», perché dire «mio» significa rafforzare l’«io». L’ego non vuole con-dividere, gli pare di morire. Che c’entra questo con la religione? La religiosità, come mostra la storia dell’umanità, è un bisogno naturale dell’uomo che scopre di non bastare a se stesso. La psicologia della religione, che è parte di quella del profondo, spiega che l’atteggiamento religioso è una disposizione esistenziale che, sfuggendo al puro dominio razionale, attribuiamo infatti a luoghi metaforici: inconscio, cuore... A questo livello profondo siamo mossi dall’istinto di conservazione, come dalla fame, dalla sete, dalla paura del dolore. E usiamo la religione come narrazione per sopravvivere, o meglio l’ego, impaurito della morte, se ne serve così: in un aereo in balia di forti perturbazioni pregano anche gli atei. L’uomo, nel tentativo di gestire forze di cui non ha il controllo, inventa espedienti rassicuranti, attribuisce al divino ciò che lo minaccia e cerca di tenerlo a bada attraverso rappresentazioni con le quali instaura poi relazioni di tipo commerciale: idoli, sacrifici, preghiere, prove... in cambio di protezione. Di fronte all’ignoto che è ignoranza della causa o dello scopo di qualcosa, l’uomo ha bisogno di rassicurarsi, e la religione attenua la paura dettata dall’ignoranza (paura oggi combattuta con una fiducia nella scienza e nella tecnica che ha infatti assunto caratteri religiosi: devozione, fedeli, nemici, profeti, promesse...). Per farsi amico di ciò che lo minaccia e gestirne la paura, l’uomo crea strutture materiali e psichiche fatte di narrazioni, regole, luoghi, riti e si assoggetta ad esse. Chi minaccia queste «proiezioni» e «protezioni» diventa: eretico, infedele, impuro...

L’ego pone confini ed esclusività proprio a chi gli sta più vicino («fratello» nel racconto di Caino e Abele indica i legami più stretti). Il sadismo è la risposta estrema al senso di minaccia portato al nostro ego, e diventa masochismo quando è rivolto a se stessi: devo distruggere ciò a cui tengo per tenermi buono il divino. «Perché proprio a me che ti ho sempre servito» è la frase che tradisce l’ego che crede sia amore la sua interessata sottomissione. La religiosità autentica, che non è prodotta dell’ego, non sottomette ma crea legami che uniscono. All’origine di ogni distruzione, sacrificio, violenza, c’è un ego impaurito che corrompe la natura religiosa dell’uomo. Anche i totalitarismi rivelano questo meccanismo, l’ideologia è una forma religiosa con apparati rituali, sacrificali e di censura. La soluzione non è allora eliminare la sete naturale di Dio, ma scoprire che ciò che unisce Caino e Abele è proprio quella sete: l’altro non è il nemico dell’ego che vuole l’esclusiva, ma un fratello con la stessa domanda di infinito e quindi da custodire. L’amore nasce da qui: dal riconoscersi figli della stessa sete. La religiosità autentica non corazza l’ego, ma lo smonta per far emergere il Sè, cioè l’uomo compiuto, che è l’io in relazione, aperto alla vita. L’io isolato, amando, esce dalla sua prigione auto-inflitta e genera vita: ci vuole una «egografia» per far nascere l’io che sa amare, che rinuncia all’esclusiva sul mondo perché, solo amando, relativizza la paura della morte che lo porta a volere tutto per sé. Mi ha sempre colpito che in origine i cristiani, per l’eucarestia, non si riunivano in un luogo sacro ma nelle case, senza differenza di classe o cultura. Un gesto quotidiano e necessario, un pasto, rimescolava rapporti di forza e li trasformava in legami: non sorprende che i Romani, pronti pragmaticamente a tollerare tutte le religioni, perseguitarono (la loro violenza viene smascherata) proprio quella che minava un intero sistema di potere e non era disposta ad adorare l’imperatore.

La vita veramente religiosa si mostra come un modo nuovo di vivere le relazioni: non è un’esperienza «esclusiva» come si dice oggi per rendere appetibile qualcosa di costoso, ma è gratis, per tutti, così come sono. Ed è l’Amore. Dio non è onnipotente, onnisciente... ma, dice l’evangelista Giovanni, è Amore, cioè relazione e vita data gratis, che comincia dal riconoscere all’altro il valore assoluto che pretendiamo sia solo nostro, proprio perché in relazione a Dio siamo tutti paradossalmente «fratelli unigeniti», ognuno necessario (unico) e relativo (cioè in relazione, collegato). Dio non è dove c’è il potere religioso e purtroppo spesso la religione si riduce ad apparato di potere, ma dove c’è un modo nuovo di vivere le relazioni con gli altri e con il mondo: non sono dettate dal controllo e dalla paura ma dalla libertà e dalla ricerca comune di senso. La religiosità autentica fa nascere l’io compiuto, aggiunge una d- a -io, perché Dio è la possibilità di creare relazioni vere. Dio c’è solo dove uno diventa custode dell’altro e il sangue di Abele smette di scorrere.

sabato 17 febbraio 2024

Il giornalismo

 "Il giornalismo, invece di essere un sacerdozio, è diventato un mezzo per i partiti; da mezzo si è fatto commercio; e, come tutti i commerci, non ha né Dio né patria. Ogni giornale è, come dice Blondet, una bottega in cui si vendono al pubblico parole del colore che vuole.”


"Illusioni perdute" di Honoré de Balzac 

martedì 13 febbraio 2024

Giovanni Allevi: Lei è credente?

 Giovanni Allevi: Lei è credente?

«Sì, credo in Dio e penso che chiun­que svolge una attività artistica o crea­tiva non può non esserlo. Il musicista ha la possibilità di os­servare la realtà e di svelare il mistero, di essere travolto da squarci di divino. Io sono solo un compo­­sitore, certe valutazio­ni le lascio ad altri, an­che se trovo il cristia­nesimo assolutamen­te rivoluzionario per questa divinità che si è fatta uomo, che sentiamo così vicino. Nel mio piccolo sento di potere met­tere la gente a contatto con le proprie emozioni più profonde, il che fa bene allo spirito»

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"Ho capito che dove non c’è certezza del futuro, serve vivere con più intensità il presente. Ho strappato alla mia fine una manciata di anni e li voglio vivere come un presente allargato.

Cosa darei oggi per suonare davanti a 15 persone.

I numeri non contano. Perché ogni individuo è unico, irripetibile e a suo modo infinito.

Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale, il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più.

Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo.

Come è liberatorio essere se stessi."


Giovanni Allevi 


domenica 11 febbraio 2024

Gli uomini

 “Gli uomini prima sono mossi dalla necessità, poi cercano l'utile, poi si beano nel conforto, ancor dopo si trastullano nel piacere, quindi si dissolvono nel lusso e infine impazziscono e sprecano la loro sostanza.”

Giambattista Vico, “La Scienza nuova”

sabato 10 febbraio 2024

Liberatemi da colui

 "Liberatemi da colui che dice la verità solo ferendo, da chi si comporta irreprensibilmente ma ha cattive intenzioni, da chi acquista stima di se stesso solo vedendo l'errore degli altri"

 Khalil Gibran

martedì 6 febbraio 2024

Amicizia

 Non posso darti soluzioni per tutti i problemi della vita,

Non ho risposte per i tuoi dubbi o timori,
però posso ascoltarli e dividerli con te.
Non posso cambiare né il tuo passato né il tuo futuro,
però quando serve starò vicino a te.
Non posso evitarti di precipitare,
solamente posso offrirti la mia mano perché ti sostenga e non cada.
La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo non sono i miei,
però gioisco sinceramente quando ti vedo felice.

Non giudico le decisioni che prendi nella vita,
mi limito ad appoggiarti, a stimolarti e aiutarti se me lo chiedi.
Non posso tracciare limiti dentro i quali devi muoverti,
però posso offrirti lo spazio necessario per crescere.
Non posso evitare la tua sofferenza, quando qualche pena ti tocca il cuore,
però posso piangere con te e raccogliere i pezzi per rimetterlo a nuovo.
Non posso dirti né cosa sei né cosa devi essere,
solamente posso volerti come sei ed essere tuo amico.
In questo giorno pensavo a qualcuno che mi fosse amico,
in quel momento sei apparso tu…
Non sei né sopra né sotto né in mezzo,
non sei né in testa né alla fine della lista.
Non sei né il numero uno né il numero finale e tanto meno ho la pretesa di essere io il primo, il secondo o il terzo della tua lista.
Basta che tu mi voglia come amico.
Poi ho capito che siamo veramente amici.
Ho fatto quello che farebbe qualsiasi amico:
ho pregato e ho ringraziato Dio per te.
Grazie per essermi amico.

Attribuita a Borges

venerdì 2 febbraio 2024

S. Massimiliano Kolbe

 "... Un condannato al pensiero della moglie e dei figli grida. A un tratto il miracolo. P. Massimiliano esce dalla fila, si offre in cambio di quell'uomo che nemmeno conosce. Lo scambio viene accettato. Il miracolo per intercessione di P. Kolbe, Dio lo compie in quell'istante.

Dobbiamo veramente ricostruire ciò che avvenne. Non molti poterono udire. Ma tutti ricordano un particolare... Kolbe uscì dalla fila e si diresse diritto, " a passo svelto " verso il Lagerfuehrer Fritsch, allibito che un prigioniero osasse tanto.

Per il Lagerfuehrer Fritsch i prigionieri erano solo dei numeri.

P. Kolbe lo costrinse a ricordare che erano uomini, che avevano una identità. " Che cosa vuole questo sporco polacco? ". " Sono un sacerdote cattolico. Sono anziano (aveva 47 anni). Voglio prendere il suo posto perché lui ha moglie e figli ".

La cosa più incredibile, il primo miracolo di Kolbe e attraverso Kolbe fu il fatto che il sacrificio venisse accettato.

Lo scambio, con la sua affermazione di scelta e di libertà e di solidarietà, era tutto ciò contro cui il campo di concentramento era costruito. Il campo di concentramento doveva essere la dimostrazione che " l'etica della fratellanza umana " era solo vigliaccheria. Che la vera etica era la razza, e le razze inferiori non erano " umane ". Il principio umanitario secondo l'ideologia nazista era una menzogna giudeo-cristiana. Nel campo dì concentramento si dimostrava che l'umano è ciò che di più esterno c'è nell'uomo, una maschera che può essere levata a volontà.

" I campi di concentramento costituivano un frammento del dibattito filosofico definitivo " (Szczepanski).

Che Fritsch accogliesse il sacrificio di Kolbe e soprattutto accogliesse lo scambio (avrebbe dovuto almeno decidere la morte di ambedue) e quindi il valore e l'efficacia del dono, fu qualcosa di incredibile. Era infatti un gesto che dava valore umano al morire, che rendeva il morire non più soggezione alla forza ma offerta volontaria. Per Fritsch o fu un lampo di novità o fu la totale cecità di chi non credeva più che quella gente avesse alcun significato storico. Di fatto non c'era nessuna speranza umana che quel gesto oltrepassasse i confini del campo di concentramento.

Né P. Kolbe poteva umanamente pensare a una qualsiasi eco storica del suo gesto. Ma P. Kolbe riuscì a dimostrare fisicamente che quel campo era un Calvario. E non mi riferisco a una immagine simbolica. Mi riferisco a una Messa.

Da quel giorno, da quella accettazione, il campo possedette un luogo sacro. Nel blocco della morte i condannati vennero gettati nudi, al buio, in attesa di morire per fame. Non venne dato loro più nulla, nemmeno una goccia d'acqua. La lunga agonia era scandita dalle preghiere e dagli inni sacri che P. Kolhe recitava ad alta voce. E dalle celle vicine gli altri condannati gli rispondevano.

" L'eco di quel pregare penetrava attraverso i muri, di giorno in giorno sempre più debole, trasformandosi in sussurro, spegnendosi insieme al respiro umano. Il campo tendeva l'orecchio a quelle preghiere. Ogni giorno la notizia che pregavano ancora faceva il giro delle baracche. L'intorpidito tessuto della solidarietà umana ricominciava a pulsare di vita. La morte che lentamente veniva consumata nei sotterranei del tredicesimo blocco non era la morte di vermi schiacciati nel fango. Era un dramma e rito. Era sacrificio di purificazione " (Szczepanski).

La fama di ciò che avveniva si sparse anche negli altri campi di concentramento. Ogni mattina il bunker della fame veniva ispezionato.

Quando le celle si aprivano quegli infelici piangevano e chiedevano del pane; chi si avvicinava veniva colpito e ributtato violentemente sul cemento.

P. Kolbe non chiedeva nulla non si lamentava, restava in fondo seduto, appoggiato alla parete. Gli stessi soldati lo guardavano con rispetto. Poi i condannati cominciarono a morire; dopo due settimane erano vivi solamente in quattro con P. Kolbe. Per costringerli a morire, il 14 agosto, venne fatta loro una iniezione di acido fenico al braccio sinistro. Era la vigilia di una delle feste mariane che Massimiliano amava di più: l'Assunta, a cui cantava sempre volentieri quella lauda popolare che dice: " Andrò a vederla, un dì! ".

" Quando aprii la porta di ferro, è il suo carceriere che racconta, non viveva più; ma mi si presentava come se fosse vivo. Ancora appoggiato al muro. La faccia era raggiante in modo insolito. Gli occhi largamente aperti e concentrati in un punto. Tutta la figura come in estasi. Non lo dimenticherò mai ".

Giovanni Paolo Il, predicando ad Auschwitz, ha detto:

" In questo luogo che fu costruito per la negazione della fede, della fede in Dio e della fede nell'uomo, e per calpestare radicalmente non soltanto l'amore ma tutti i segni della dignità umana, dell'umanità, quell'uomo (il P. Kolbe) ha riportato la vittoria mediante l'amore e la fede".


( da Antonio Sicari, " Vite dei santi", s.Massimiliano Kolbe)


giovedì 1 febbraio 2024

Il denaro

 « Il denaro può comprare la buccia

di molte cose, ma non il seme;

può darvi il cibo, ma non l'appetito,

la medicina ma non la salute,

i conoscenti ma non gli amici,

i servitori ma non la fedeltà,

giorni di gioia ma non la pace o la felicità. »


Henrik Ibsen