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domenica 27 dicembre 2020

Nessuno sa che cos'è la bellezza

 Nessuno sa che cos'è la bellezza



L'idea che la gente si fa della bellezza, il concetto stesso di bellezza, mutano nel corso della storia assieme alle pretese filosofiche e al semplice sviluppo dell'uomo nel corso della sua vita personale. E questo mi spinge a pensare che, effettivamente, la bellezza è il simbolo di qualcos'altro. Ma di cosa esattamente? La bellezza è simbolo della verità. Non dico nel senso della contraddizione "verità/menzogna", ma nel senso di cammino di verità, che l'uomo sceglie.


Andrej Tarkovsky


 Lo specchio, regia di A.Tarkovsky 1975

sabato 26 dicembre 2020

Gesù è nato in una stalla

 Gesù è nato in una stalla

***

Codesto può essere il sogno dei novizi, il lusso dei curati, il balocco dei bambini, il “vaticinato ostello” d’Alessandro Manzoni, ma non è davvero la stalla di Gesù. Una stalla, una stalla reale, è la casa delle bestie, la prigione delle bestie che lavorano per l’uomo. L’antica, la povera stalla dei paesi antichi, dei paesi poveri, del paese di Gesù, non è il loggiato con pilastri e capitelli, né la scuderia scientifica dei ricchi d’oggidì o la capannuccia delle vigilie di Natale. La stalla non è che quattro mura rozze, un lastricato sudicio, un tetto di travi e di lastre. La vera stalla è buia, sporca, puzzolente: non vi è di pulito che la mangiatoia, dove il padrone ammannisce fieno e biadumi.

I prati di primavera, freschi nelle serene mattine, ondanti al vento, soleggiati, umidi, odorosi, furon falciati: tagliate col ferro l’erbe verdi, l’alte foglie fini, recisi insieme i bei fiori aperti: bianchi, rossi, gialli, celesti. Tutto appassì, seccò, prese il colore pallido e unico del fieno. I manzi trascinarono a casa la soglia morta del maggio e del giugno. Ora quell’erbe e quei fiori, quell’erbe fatte aride, quei fiori che sempre odorano, son lì nella mangiatoia per la fame degli schiavi dell’uomo. Gli animali l’abboccano adagio coi grandi labri neri e più tardi il prato fiorito torna alla luce, sullo strame che serve da letto, mutato in concio umido. Questa è la vera stalla dove Gesù fu partorito. Il luogo più lurido del mondo fu la prima stanza dell’unico puro tra i nati di donna. Il Figlio dell’Uomo, che doveva esser divorato dalle bestie che si chiamano uomini, ebbe come prima culla la mangiatoia dove i bruti digrumano i fiori miracolosi della primavera.

Non per caso Gesù nacque in una stalla. Il mondo non è forse un’immensa stalla dove gli uomini inghiottono e stercano? Le cose più belle, più pure, più divine non le cambiano forse, per infernale alchimia, in escrementi? Poi si sdraiano sui monti del letame e chiamano ciò “godere la vita”. Sulla terra, porcile precario dove tutti gli abbellimenti e i profumi non possono nascondere lo stabbio, è apparso una notte Gesù partorito da una Vergine senza macchia, di nulla armato che di innocenza. I primi che adorarono Gesù furono animali e non uomini.

Fra gli uomini cercava i semplici, tra i semplici i fanciulli – più semplici dei fanciulli, più mansueti, lo accolsero gli animali domestici. Benché umili, benché servi di esseri più deboli e feroci di loro, l’asino e il bove avevan visto inginocchiarsi dinanzi a loro le moltitudini. Il popolo di Gesù, il popolo santo che Jahvè aveva liberato dalla servitù dell’Egitto, il popolo che il Pastore aveva lasciato solo nel deserto per salire a colloquio coll’Eterno, aveva forzato Aronne a fargli un bove d’oro per adorarlo. L’asino era consacrato, in Grecia, ad Ares, a Dionisio, ad Apollo Iperboreo. L’asina di Balaam aveva salvato colle sue parole il profeta, più savia del savio; Ochos, re di Persia, pose un asino nel tempio di Fta e lo fece adorare. Pochi anni prima che nascesse Cristo il suo futuro padrone, Ottaviano, scendendo verso la sua flotta, la vigilia della battaglia di Anzio, incontrò un asinaio col suo somaro. La bestia si chiamava Nicon, il Vittorioso, e dopo la battaglia l’imperatore fece inalzare un asino di bronzo nel tempio che ricordò la vittoria.

Re e popoli si erano fin allora inchinati a bovi e asini. Erano i re della terra, i popoli che predilegevano la materia. Ma Gesù non nasceva a regnar sulla terrà né ad amar la materia. Con lui finirà l’adorazione della bestia, la debolezza di Aronne, la superstizione di Augusto. I bruti di Gerusalemme l’uccideranno ma intanto quelli di Betlemme lo riscaldano coi loro fiati. Quando Gesù giungerà, per l’ultima Pasqua, alla città della morte, cavalcherà un asino. Ma egli è profeta più grande di Bataam, venuto a salvare tutti gli uomini e non gli ebrei soli, e non rivolterà dal suo cammino anche se tutti i muli di Gerusalemme raglieranno contro di lui”.

Giovanni Papini

Amore liquido

 

Amore liquido

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Sostiene Ivan Klìma: poche cose di avvicinano alla morte quanto l’amore corrisposto.
Ciascuna apparizione dell’una o dell’altro è un evento unico ma anche definitivo, che non ammette repliche, non concede appelli, non consente deroghe.
Ciascuna di esse deve essere ed è un evento a sé stante. Ciascuna di esse nasce per la prima volta, o rinasce, ogni qual volta entra in scena, sempre spuntando dal nulla, dall’oscurità del non-essere, senza un passato né un futuro. Ciascuna di esse, ogni volta, parte dall’inizio, mettendo a nudo la superfluità di trame passate e la vacuità di ogni trama futura. Nessuno può sperimentare due volte lo stesso amore o la stessa morte- così come, ci diceva Eraclito, nessuno può bagnarsi due volte nello stesso fiume. (…)
E dunque non si può imparare ad amare; così come non si può imparare a morire. Né si può imparare l’elusiva – inesistente, per quanto ardentemente desiderata – arte di non rimanerne impigliati e tenersene alla larga.(…)

L’amore sembra godere di uno status diverso rispetto agli altri eventi irripetibili.

Certo, è possibile innamorarsi più di una volta, e c’è chi si vanta o si lamenta – di innamorarsi e disamorarsi fin troppo spesso. Ciascuno di noi avrà certamente conosciuto o sentito parlare di tali persone particolarmente “facili a innamorarsi” o “vulnerabili all’amore”. Esistono fondati motivi per considerare l’amore, e in particolare lo stato di “innamoramento”, come una condizione – quasi per sua natura – ricorrente, soggetta a ripetersi o che addirittura solleciti ripetuti tentativi. Quasi tutti noi potremmo citare un certo numero di volte in cui abbiamo pensato di esserci innamorati e di amare qualcuno. Si può supporre che oggigiorno si vadano rapidamente ampliando a ranghi di chi tende ad assegnare il nome di amore a più di una delle proprie esperienze di via, di chi non è disposto a giurare che l’amore attualmente vissuto sarà l’ultimo, e di chi si aspetta altre esperienze simili in futuro. (…) Il tipo di conoscenza che cresce di volume via via che l’elenco delle storie d’amore si allunga è quella dell’amore vissuto come sequenza di episodi distinti, brevi e appassionati, consumati con la consapevolezza a priori di fragilità e brevità (..)

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Nel Simposio di Platone, la professoressa Diotima di Mantinea fece notare a Socrate, il quale ne convenne, che l’ “amore non è amore del bello, come tu credi […] ma generazione e procreazione nel bello”. Amore significa desiderare di “generare a procreare” e dunque chi ama “quando si avvicina al bello diviene ilare, e nella sua letizia si effonde e procrea e genera” In altre parole, non è brama di cose pronte per l’uso, belle e finite, che l’amore trova il proprio significato, ma nello stimolo a partecipare al divenire delle cose. L’ amore è simile alla trascendenza; non è che un altro nome per definire l’impulso creativo e in quanto tale è carico di rischi, dal momento che nessuno può mai sapere dove andrà a finire tutta la creazione. In ogni amore, ci sono almeno due esseri, ciascuno dei quali è la grande incognita nelle equazioni dell’Altro. E’ questo che fa percepire l’amore come un capriccio del destino: quello strano e misterioso futuro, impossibile da predilire, prevenire o evitare, accellerare o arrestare. Amare significa offrisi a questo destino, alla più sublime di tutte le condizioni umane, una condizione in cui paura e gioia si fondono in una miscela che non permette più ai suoi ingredienti di scindersi (…) in una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazione immediata, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicurazione contro tutti i rischi e garanzie del tipi “soddisfatto e rimborsato”. Quella di imparare l’arte di amare è la promessa (falsa, ingannevole, ma che si spera ardentemente esser vera) di rendere l’ “esperienza dell’amore” simile ad altre merci, che attira e seduce sbandierando tutte queste qualità e promettendo soddisfazioni immediate e risultati senza sforzi. Senza umiltà e coraggio non c’è amore. (..)

Finché dura, l’amore è in bilico sull’orlo della sconfitta. Man mano che avanza dissolve il proprio passato; non si lascia alle spalle trincee fortificate in cui potersi ritrarre e cercare rifugio in caso di difficoltà. E non sa cosa lo attende e cosa può serbargli il futuro. Non acquisterà mai fiducia sufficiente a disperdere le nubi e debellare l’ansia. L’amore è un mutuo ipotecario su un futuro incerto e imperscrutabile. (…) La tentazione di innamorarsi è grande e travolgente, ma altrettanto lo è l’attrattiva della fuga. E la seduzione di cercare una rosa senza spine è costantemente in agguato, e resistervi impresa sempre ardua.

 

tratto da: Amore Liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi – Zygmunt Bauman traduzione di Sergio Minucci – Edizioni Laterza

giovedì 24 dicembre 2020

«Amare la vita più del senso della vita?

 «Amare la vita più del senso della vita?

E non piangerò per disperazione, ma solo perché versare quelle lacrime mi farà felice. Mi inebrierò della mia stessa commozione. Le vischiose foglioline di primavera, il cielo azzurro: ecco ciò che amo! Qui non c'entrano né l'ingegno né la logica, qui si ama con le viscere, con i primi impulsi giovanili... Comprendi qualcosa, Aleska, di tutto questo guazzabuglio, o no?» Ivàn scoppiò in una risata improvvisa.

«Capisco anche troppo: si ha voglia di amare con le viscere e con il ventre e tu l'hai detto benissimo. Sono terribilmente lieto che tu abbia tanta voglia di vivere!» esclamò Alesa. «Credo che tutti dovrebbero amare la vita prima di ogni altra cosa al mondo.» «Amare la vita più del senso della vita?»

«Proprio così: amarla prima della logica, come dici tu, assolutamente prima di ogni logica, e solo allora se ne afferrerà il senso. Metà dell'opera è fatta, Ivàn, e assicurata: ami la vita. Ora devi cercare di compiere anche l'altra metà e sarai salvo.»

«Forse non mi stavo ancora perdendo e tu parli già di salvezza! E in che cosa consiste l'altra metà?»

«Nel far resuscitare i tuoi morti che forse non sono nemmeno mai morti. Su, dammi il tè. Sono contento di parlare con te, Ivàn.»

«Sei come ispirato, lo vedo. Amo terribilmente queste professions de foi da parte... dei novizi come te. Sei un uomo risoluto, eh, Alekséj? È vero che vuoi lasciare il monastero?»

«Sì, è vero. il mio stàrets mi manda nel mondo.»

Fratelli Karamazov Dostoevski

domenica 20 dicembre 2020

Per dimagrire


 I monaci del monastero di Santa Maria de Alcobaça, Portogallo, erano sottoposti nel Medioevo ad un trattamento infallibile contro l'obesità.

I monaci, che mangiavano in refettorio, dovevano andare a prendere il loro cibo nella cucina accanto. Nessuno serviva a tavola, come accade nei “self-service”. Quindi, dovevano entrare da una porta. E qui viene il bello. Questa porta, era chiamata porta ′′pega gordo" (acchiappagrosso): altezza 2 metri e larghe solo 32 cm. Chi non poteva passarla si ritrovava senza mangiare e ovviamente perdeva peso velocemente. I superiori dei monaci si erano avvalsi di questa porta perché la golosità è uno dei sette peccati capitali e l'obesità rende meno idonei ai pensieri spirituali, ma anche ai lavori manuali.

 

LETTURE Quegli scrittori senza Dio che si inchinarono al Natale

 
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La dimensione del racconto è la più bella, la più affascinante, quella che davvero conquista. A tutti noi, anche quando siamo cresciuti, piace scoprire storie e avventure. Quante se ne leggono e se ne studiano a scuola in prosa o in poesia! Da decenni, però, non si raccontano più storie sulla nascita di Gesù. Le antologie scolastiche escludono per lo più testi che raccontino la sua vicenda, anche se scritti da grandi letterati.

Perché accade questo? Forse perché scrittori e poeti non hanno raccontato la storia di Gesù? Certo che no. Infatti, quasi tutti i grandi scrittori, malgrado la smemoratezza della critica letteraria e delle antologie scolastiche, si sono cimentati con questo fatto.

È una storia che è più grande di tutte le altre, che ci commuove perché ci racconta di un Dio che si è fatto carne, che è diventato un bambino indifeso, come lo siamo stati tutti noi, ha fatto il falegname per tanti anni finché non ha iniziato la missione. Non ci ha fatto prediche, ma si è piegato sul nostro niente, ci ha amato ed abbracciato come un  padre e una madre fanno con il proprio figlio, ha condiviso con noi uomini il suo tempo, rivelandoci il Mistero del Padre, l’amore, è morto in croce per redimere i nostri peccati ed è resuscitato. Quanti tra quelli che hanno conosciuto quell’uomo Dio, Gesù, sono morti pur di dare testimonianza di Lui! Sono morti i primi apostoli duemila anni fa, come sono morti poi nei due millenni successivi milioni di martiri. O sono tutti pazzi oppure hanno davvero visto e incontrato qualcosa di straordinario.

Ebbene, una storia come questa, che sia considerata vera o falsa o addirittura poco pertinente alla nostra vita, meriterebbe di essere conosciuta, di essere studiata. Non sorprende certo che dopo la conversione A. Manzoni (1785-1873) dedichi gli «Inni sacri» ai momenti principali della vita di Gesù. In Natale il poeta, dopo essersi soffermato sulla redenzione del peccato originale, esclama:

Ecco ci è nato un Pargolo,
ci fu largito un Figlio: […]
all’uom la mano Ei porge,
che sì ravviva, e sorge
oltre l’antico onor.

Manzoni si commuove per un evento così grande, quello di un Dio che si è degnato di farsi povera carne:

E Tu degnasti assumere
questa creata argilla?
qual merto suo, qual grazia
a tanto onor sortilla
se in suo consiglio ascoso
vince il perdon, pietoso
immensamente Egli è.

Il Figlio di Dio si è rivelato ai semplici, ai pastori che

senza indugiar, cercarono
l’albergo poveretto
que’ fortunati, e videro,
siccome a lor fu detto
videro in panni avvolto,
in un presepe accolto,
vagire il Re del Ciel.

Molti non sanno che Lui è nato, allora, duemila anni fa, come oggi. Non attendono la sua venuta, non lo credono a noi contemporaneo, lo pensano una bella favola o ancor di più lo hanno cancellato dalla memoria:

Dormi, o Celeste: i popoli
chi nato sia non sanno;
ma il dì verrà che nobile
retaggio tuo saranno;
che in quell’umil riposo,
che nella polve ascoso,
conosceranno il Re.

Un giorno tutti sapranno e Lo riconosceranno.

Se non sorprende che Manzoni abbia scritto questi versi, colpisce, invece, che Arthur Rimbaud (1854-1891), conosciuto come poeta maledetto insieme a Baudelaire e Verlaine, autore di Une Saison en Enfer, ovvero Una stagione all’inferno (1873), opera che contribuisce a creare il mito del poeta geniale e maudit, inserisca in maniera inaspettata nella raccolta anche la poesia Natale sulla Terra. Recita così:

Dallo stesso deserto,
nella stessa notte,
sempre i miei occhi stanchi si destano
alla stella d’argento,
sempre,
senza che si commuovano i Re della vita,
i tre magi, cuore, anima, spirito. Quando
ce ne andremo di là
dalle rive e dai monti,
a salutare la nascita del nuovo lavoro,
la saggezza nuova, la fuga dei tiranni e dei demoni,
la fine della superstizione,
ad adorare – per primi! – Natale sulla terra!

Si avvertono, qui, il senso di solitudine, la stanchezza, ma, nel contempo, il desiderio del viaggio, la speranza di incontrare quella saggezza nuova sulla Terra che renda nuove tutte le cose. È l’annuncio del mondo nuovo, che possa incominciare per ciascuno di noi già in questo mondo. Gesù è il Regno di Dio, è la speranza dell’uomo nuovo, rigenerato, perché redento. Rimbaud intraprenderà, di lì a poco, un viaggio, lontano dall’Europa, alla ricerca, forse, di qualcosa che possa rendere nuova la sua vita. Vivrà una vita errabonda, sempre annoiato da quei piaceri che la vita offre, come scriverà lui stesso nelle lettere dall’Africa.

Anche D’Annunzio (1863-1938), frequente dissacratore del nome di Gesù, che spesso contrappone la propria brama di affermazione narcisistica al Verbo incarnato di Cristo, si confronta con l’evento della nascita di Gesù.

Nella poesia Re magi scrive:

Una luce vermiglia
risplende nella pia
notte e si spande via
per miglia e miglia e miglia.
O nova meraviglia!
O fiore di Maria!
Passa la melodia
e la terra s’ingiglia.
Cantano tra il fischiare
del vento per le forre,
i biondi angeli in coro;
ed ecco Baldassarre
Gaspare e Melchiorre,
con mirra, incenso ed oro.

Animato da una religiosità di stampo panteistico, da un riconoscimento della presenza del divino nelle piccole cose e nelle umili creature, Umberto Saba (1883-1957) trasfonde questo tipo di religiosità anche nel componimento A Gesù Bambino:

La notte è scesa
e brilla la cometa
che ha segnato il cammino.
Sono davanti a Te, Santo Bambino!
Tu, Re dell’universo,
ci hai insegnato
che tutte le creature sono uguali,
che le distingue solo la bontà,/ tesoro immenso,
dato al povero e al ricco.
Gesù, fa’ ch’io sia buono,
che in cuore non abbia che dolcezza.
Fa’ che il tuo dono
s’accresca in me ogni giorno
e intorno lo diffonda,
nel Tuo nome.

Gesù è qui apostrofato come Re dell’universo, un dono che ci rende responsabili e missionari, come i primi apostoli. Negli ultimi anni di vita Saba si convertirà al cattolicesimo.

Partito volontario per la grande guerra, Ungaretti (1888-1970) dedica all’esperienza della guerra la sua prima raccolta Il porto sepolto pubblicata grazie all’amico Ettore Serra nel 1916. Nello stesso anno Ungaretti scrive Natale:

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
Stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.

Batte in questi versi il cuore di un uomo che prova arsura e vuole essere colmato, quello stesso cuore che nella poesia Perché? (sempre del 1916) trabocca di domanda: «Ha bisogno di qualche ristoro/ il mio buio cuore disperso». Il poeta troverà risposta alcuni anni dopo, nel 1928, quando si recherà nel monastero di Subiaco con un amico. Ivi si compirà il suo cammino di conversione.

Allora Ungaretti potrà finalmente scrivere:
Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è pura bestemmia. Oggi il poeta è tornato a sapere, ad avere gli occhi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole vedere l’invisibile nel visibile.

Così attento anche alle vicende del suo tempo, alla guerra e alla violenza che imperversa nel mondo, in Uomo del mio tempo Salvatore Quasimodo (1901-1969) vede gli odierni abitanti della Terra simili a Caino, all’uomo che ha ucciso il proprio fratello.

Nel Natale scrive:
Non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.

La morte di Cristo si ripete ogni giorno e il poeta si domanda:

Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?

Quella pace che Quasimodo vede nel presepe è invocata anche nella vita di tutti i giorni, non è la pace dell’uomo, senza giustizia e senza amore, ma è la «Pace nel cuore di Cristo in eterno». (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 20-12-2020)

sabato 19 dicembre 2020

 Brani scelti: ZYGMUNT BAUMAN, Intervista di Raffaella de Santis (La Repubblica, 20 Novembre 2012).


L'amore non è un oggetto preconfezionato e pronto per l'uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno. E l'amore ripaga quest'attenzione meravigliosamente [...]. Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l'opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. L'amore richiede tempo ed energia.

Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l'altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l'amore. Non troveremo l'amore in un negozio. L'amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana.

mercoledì 16 dicembre 2020

 Ti ama chi ama la tua anima

(Socrate in Platone)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 28 /10 /2012 - 15:34 pm | Permalink | Homepage
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da Platone, Alcibiade maggiore, 128E-133D

Socrate: Ebbene: con quale arte potremo prenderci cura di noi stessi?

Alcibiade: Non lo so.  (e)

So. Non dovrà comunque trattarsi di un'arte che renda migliore qualcosa che ci riguardi, ma noi stessi.

AL. È vero. [...]

So. E potremo sapere quale arte renda migliori noi stessi, se non sappiamo chi siamo noi stessi? (129a)

AL. Impossibile.

So. Ma pensiamo che sia facile conoscere se stesso e che fosse uno sciocco chi pose quell'iscrizione nel tempio di Delfi [“Conosci te stesso”], o non piuttosto una cosa difficile e non da tutti?

AL. Molte volte facile, altre difficilissima, Socrate. [...] (b)

So. L'uomo non si serve di tutto il corpo?

AL. Sì.

So. Allora, l'uomo è diverso dal suo corpo?

AL. Mi pare di sì.

So. Che cos'è allora l'uomo?

AL. Non so cosa rispondere.

So. Sai però che è ciò che si serve del corpo.

AL. Sì. (130a)

So. E che cosa si serve del corpo, se non l'anima?

AL. Niente altro. So. Ed è comandandogli che se ne serve?

AL. Sì.

So. C'è un altro punto su cui nessuno potrà dissentire.

AL. Quale?

So. Che l'uomo sia almeno una di queste tre cose.

AL. Quali?

So. O anima, o corpo, o ambedue insieme, come un tutto unico.

AL. Non c'è dubbio.

So. Ma non avevamo detto che l'uomo è ciò che comanda al corpo? (b)

AL. D'accordo.

So. E può il corpo comandare a se stesso?

AL. In nessun modo.

So. E infatti, abbiamo detto che è comandato.

AL. Sì.

So. Non può quindi essere ciò che cerchiamo.

AL. No.

So. Allora, sono ambedue insieme a comandare il corpo, e questo è l'uomo?

AL. Può darsi.

So. Ma no: se una della due parti non partecipa al governo, è impossibile che comandi il loro insieme.

AL. Giusto. (c)

So. E allora, se non è uomo né il corpo, né l'insieme di corpo e anima, non resta da concludere, mi pare, o che l'uomo non sia nulla, o che, se è qualcosa, non sia altro che anima.

AL. Esatto. [...] (e)

So. Chi ci comanda di conoscere se stessi, dunque, ci comanda di conoscere l'anima.

AL. Sì, mi pare. [...]

So. E così, chi si prende cura del corpo, si cura di ciò che gli è proprio, ma non di se stesso.

AL. Sembra di sì. [...]

So. Allora, se uno ama il corpo di Alcibiade, non ama Alcibiade, ma qualcosa che gli appartiene.

AL. Vero.

So. Ti ama invece chi ama la tua anima.

AL. Necessariamente, date le premesse.

So. Ma chi ama il tuo corpo, non ti abbandona quando sfiorisce?

AL. Evidente. (d)

So. Chi invece ama la tua anima, non se ne va finché essa avanza sulla via del meglio.

AL. Naturale.

So. Ebbene, io sono quello che non ti abbandona... [...] ( 133b)

So. Ebbene, caro Alcibiade, se l'anima vuole conoscere se stessa, dovrà guardare in se stessa, e soprattutto dove si trova la sua virtù, la sapienza.

AL. Mi pare di sì, Socrate.

So. E allora, possiamo dire che ci sia un luogo dell'anima più divino di quello in cui risiedono la conoscenza e il pensiero?

AL. No. [...]

So. Perciò, guardando al divino e, tra le cose umane, alla virtù dell'anima, potremo conoscere noi stessi nel modo migliore possibile.

AL. Sì.

So. Ma non abbiamo convenuto che il conoscere se stessi è saggezza?

AL. Certo.

So. Quindi, senza conoscere noi stessi ed essere saggi, non potremo sapere se qualcosa è male o bene per noi.

AL. E come sarebbe possibile? (d)

martedì 15 dicembre 2020

IL SILENZIO San Giovanni della Croce

IL SILENZIO 

San Giovanni della Croce


Il silenzio è mitezza:

Quando non rispondi alle offese

Quando non reclami i tuoi diritti

Quando lasci a Dio la difesa del tuo onore


Il silenzio è misericordia:

Quando non riveli le colpe dei fratelli

Quando perdoni senza indagare nel passato

Quando non condanni ma intercedi nell'intimo


Il silenzio è pazienza:

Quando soffri senza lamentarti

Quando non cerchi consolazione dagli uomini,

ma attendi che il seme germogli lentamente


Il silenzio è umiltà:

Quando taci per lasciare emergere i fratelli

Quando celi nel riserbo i doni di Dio

Quando lasci che il tuo agire sia interpretato male

Quando lasci ad altri la gloria dell'impresa

  

Il silenzio è fede: 

Quando taci perché è Lui che agisce

Quando rinunci alle voce del mondo per stare alla Sua presenza

Quando non cerchi comprensione perché ti basta essere conosciuto da Lui.


Il silenzio è saggezza: 

Quando ricorderai che dovremo rendere conto di ogni parola inutile, 

Quando ricorderai che il diavolo è sempre in attesa di una tua parola imprudente per nuocerti e uccidere. 


Infine, il silenzio è adorazione: 

Quando abbracci la Croce, senza chiedere il perché, nell’intima certezza che questa è l’unica via giusta.


(S. Giovanni della Croce)

domenica 13 dicembre 2020

 Petr Iljic Ciajkovskij: «Oh se gli uomini fossero Cristiani, non soltanto di nome bensì nella concretezza dei fatti! Se tutti fossero compenetrati delle semplici verità della dottrina cristiana! Questo, purtroppo, non sarà mai, perché altrimenti il regno dei cieli sarebbe vicino. Tuttavia, sembra che siamo al mondo soltanto per combattere senza tregua contro i malvagi, inseguire l’ideale, lottare per la verità e non mai raggiunger la meta… Comincio ad amare Iddio, – ciò che finora non mi era possibile. Ho ancora molti dubbi e non smetto di far tentativi per arrivare a comprendere l’impenetrabile coi mezzi della mia debole ragione. Tuttavia la voce della verità divina si fa sentire sempre più forte. Che indescrivibile consolazione inchinarsi alla saggezza di Dio!»

sabato 12 dicembre 2020

 Alcuni anni addietro Giampaolo Pansa ha parlato del Natale in modo sublime e, nell’avvicinarsi del Natale, mi piace rileggere le sue parole, quando alla domanda di un giornalista “che cosa dice a te il Natale?”, ha risposto: “Sono stato battezzato, cresimato, andavo a messa, sono stato anche chierichetto nel Duomo di Casale. Però non mi ricordo come pensassi a Dio in quei momenti. Ricordo che mi spaventavano le illustrazioni del libro di religione, quell’inferno in cui bruciavano i corpi nudi. Poi sono sparito nel limbo degli agnostici. Oggi, la sera, quando vado a dormire, con mia moglie preghiamo i nostri genitori. E Gesù Bambino: parliamo di Dio, ma non di un Dio anziano, con il barbone. No, di un Dio bambino, buono, tenero. Penso a Dio con quelle fattezze, perché mi sembra più disposto a perdonare le mie sciocchezze, i miei peccati. Ho sempre pensato che ci fosse il nulla dopo la morte. Ora ne sono sempre meno convinto. Preferirei che ci fosse il famoso giudizio: Pansa? Dove lo mandiamo? Inferno, purgatorio, paradiso? Natale è Dio che viene sulla terra, ma che resta perennemente bambino, che è buono. E poi nascere in quelle condizioni! Un profugo, sotto la tenda… Ricordo la cura impressionante con cui io e mia sorella facevamo il presepe. Papà portava in casa due assi che diven

tavano un tavolone. La capanna ancora vuota mi colpiva sempre: un bambino, nascere lì, in quel modo, avrà freddo… E mia sorella: «Ma che dici! Ci sono il bue e l’asino. Poi san Giuseppe, vuoi che non ci pensi?». Ecco, io sono rimasto a quel bambino lì, in quella capanna. Il Papa parla di ragione e ragionevolezza. Be’, io forse non sono un uomo “ragionevole”. Lavoro molto con il cuore, con il mio bisogno. Non so se questa parabola mi porterà a essere credente. Ma se dovessi riscoprire Dio credo che sarei guidato da quel bambino, dal Dio di Natale, dal Dio della nascita. E sarei spinto dal bisogno che ho di Lui. Lo avverto in un modo prepotente, soprattutto la sera, dopo aver lavorato tutta la giornata. Ho bisogno di Lui. Anche soltanto dieci anni fa non ci pensavo. Ma oggi mi chiedo se con la morte finisce tutto. Cosa c’è dopo? C’è qualche posto in cui posso andare? A fare cosa, non lo so. Ma non vorrei che fosse un posto cattivo. Anche se non so se potrei meritarmi il paradiso

 

Chesterton: il mondo è abitabile perché si regge sulla follia della Croce

CHESTERTON, SAINT PAUL, COLLAGE

Shutterstok - Wikipedia

Annalisa Teggi - pubblicato il 11/12/20

Nel suo romanzo "La sfera e la croce" Chesterton intuì che il mondo avrebbe progressivamente rifiutato lo scandalo della Croce: "Cominciate con l’infrangere la Croce; ma finite col distruggere il mondo abitabile"

La sfera e la croce è uno dei romanzi più famosi di G. K. Chesterton, fu pubblicato per la prima volta nel 1909. È disponibile in una nuova veste editoriale (con traduzione di Mauro Flavio rivista da Umberta Mesina) grazie al Centro Missionario francescano di Mogliano (MC).

Facile definirlo un racconto profetico, ma in che senso? Chesterton ebbe una grande capacità di lettura della realtà, tanto da vedere in essa i segni che avrebbero generato conflitti profondi. Il rifiuto della Croce come elemento paradossale, di scandalo, era già a suo tempo un vulnus aperto. GKC allora immaginò una scena che si apre in cielo su un vascello che vola, guidato da un fantomatico Professor Lucifero che ha rapito un monaco di nome Michele. Fuor di metafora: il diavolo è un erudito, l’arcagelo è un umile eremita.

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Insieme si trovano a guardare, dal cielo e da vicino, la cupola della Cattedrale di Saint Paul a Londra su cui svetta una sfera sormontata da una croce (opera creata dall’architetto Christopher Wren, citato nel passo che segue). Questo doppio simbolo fa discutere i due. Il mondo si regge sull’idea della sfera (logica, perfetta, liscia) o sullo scandalo della croce (due linee in conflitto)?

Vi offriamo un brano significativo tratto dall’inizio del romanzo.

NB: questa scena nacque da un vissuto molto reale di Chesterton. La cattedrale di Saint Paul, infatti, era parte delle sue giornate di lavoro a Londra. Fleet Street era la via delle redazioni giornalistiche, dove si recava GKC: una strada trafficatissima, di affari e faccende molto razionali, che però confluiva verso la cattedrale di Londra. A Chesterton questo panorama geografico rimase sempre caro: gli pareva l’immagine chiara di un’umanità indaffarata che – anche inconsapevolvemente – faceva tutto al cospetto della Croce e verso essa s’incamminava.

FLEET STREET, SAINT PAUL
Alexey Fedorenko | Shutterstock

Di G. K. Chesterton

Il professor Lucifero batté due volte la mano spalancata sulla superficie della grossa palla, come se stesse accarezzando un gigantesco animale.
– Eccolo qua – disse, – ecco quello che mi occorre.
– Posso chiederti, con tutto il rispetto – chiese il monaco – di che diamine stai parlando?
– Ma di questa! – gridò Lucifero, battendo una terza volta il palmo della mano sulla sfera. – Questa, questa è il solo e unico simbolo, caro il mio uomo. Così grassa. Così soddisfatta. Non come quell’individuo scarno lassù, che protende le sue braccia in un gesto di disperata stanchezza.

E col viso fosco e minaccioso proseguì, additando la croce:
– Te lo dicevo poco fa, Michele, che posso provare la parte più importante della tesi razionalistica e della mistificazione cristiana usando qualunque simbolo che ti piaccia di offrirmi, qualunque esempio che vorrai. Eccone uno che mi conviene alla perfezione.  Per rappresentare la tua e la mia filosofia, che vuoi trovare di meglio della forma di questa croce e di questa sfera?

Questa palla è ragionevole; quella croce è irragionevole. È una bestia a quattro zampe, una delle quali è più lunga delle altre. Il globo è
logico. La croce è arbitraria. Prima di tutto, il globo è unità in se stesso; la croce è, essenzialmente e soprattutto, nemica di se stessa. La croce è il conflitto di due linee nemiche, di due direzioni inconciliabili. Questa cosa muta che si innalza è un contrasto, una rottura violenta, una lotta nella pietra. Ne abbiamo abbastanza di questo simbolo. La stessa sua forma è una contraddizione in termini.

– Quello che tu dici è assolutamente vero – disse con serietà Michele. — Ma noi amiamo le contraddizioni in termini.
L’uomo stesso è una contraddizione in termini: è un animale la cui superiorità sugli animali sta nel fatto che è caduto. Tu dici che questa croce è un eterno contrasto: anche io lo sono. È una lotta nella pietra; ma ogni forma di vita è una lotta nella carne.
La forma della croce è irrazionale, come irrazionale è la forma dell’animale umano. Tu dici che la croce è un quadrupede con un arto più lungo degli altri. Io dico che l’uomo è un quadrupede che usa solo due delle sue zampe.

Il professore corrugò la fronte e stette pensoso un attimo, poi disse:
– Naturalmente tutto è relativo; ed io non nego che l’elemento di lotta e di contraddizione rappresentato da questa croce non abbia il suo posto necessario in un certo grado dell’evoluzione. Ma è innegabile che la croce rappresenta la tappa più bassa nello sviluppo e la sfera la tappa più alta. Del resto, è abbastanza facile vedere in che cosa consista l’errore architettonico nell’opera di Wren.
– E qual è questo errore? — domandò Michele.
– La croce è sopra la sfera – disse il professore. – È un errore evidente. La sfera dovrebbe essere sopra la croce. Questa non è che un supporto barbarico; la sfera è la perfezione. La croce è tutt’al più l’albero amaro della storia dell’uomo; la sfera è il tondo frutto maturo finale. E il frutto sta in cima all’albero; non alla sua base.

SAINT PAUL, CATHEDRAL
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– Oh! – disse il monaco con la fronte attraversata da una ruga. – Allora tu credi che in uno schema razionalistico di simboli la sfera dovrebbe trovarsi in cima alla croce?
– Sì: è la sintesi di tutta la mia allegoria – rispose il professore. – Bene, è davvero molto interessante – disse il monaco che parlava con molta lentezza. – Io penso che in quel caso assisteresti a un fenomeno assai singolare, un effetto che generalmente è stato conseguito da tutti gli abili e ferrei sistemi che il razionalismo, o la religione della sfera, ha prodotto per guidare o ammaestrare l’umanità. Credo che vedresti accadere quello che è sempre la suprema realizzazione e la logica conseguenza del vostro progetto logico.
– Di che cianci? – chiese Lucifero. – Che cosa accadrebbe?
– Voglio dire: la vedresti rotolare giù – rispose il monaco, fissando pensieroso il vuoto. Lucifero ebbe un gesto di collera e aprì la bocca per ribattere; ma Michele, che ora parlava senza esitazioni, continuò con determinazione a parlare, prima che il professore potesse
pronunciar sillaba.
– Un tempo conoscevo un uomo come te, Lucifero – disse, con un tono di uniformità esasperante e articolando lentamente le
parole. – Aveva questa…

– Non ci sono uomini come me! – urlò Lucifero con tanta violenza che tutto il vascello ne fu scosso.

– Come ti stavo dicendo – seguitò Michele, – anche quell’uomo aveva questa opinione che il segno del Cristianesimo fosse un simbolo di barbarie e di irragionevolezza. È una storia assai interessante. Ed è una perfetta allegoria di ciò che accade ai razionalisti come te. Egli cominciò, naturalmente, col bandire il crocifisso da casa sua, dal collo della sua donna, perfino dai quadri.
Diceva, come tu dici, che era una forma arbitraria e fantastica, una mostruosità; e che la si amava soltanto perché era paradossale. Poi diventò ancora più furioso, ancora più eccentrico; e avrebbe voluto abbattere le croci che si innalzavano lungo le strade del suo paese, che era un paese cattolico romano. Alla fine, in un eccesso di frenesia, s’arrampicò sul campanile di una chiesa, ne strappò la croce e l’agitò nell’aria, in un tragico soliloquio sotto le stelle.
Poi, una sera d’estate, mentre se ne tornava a casa, lungo un viale, il demone della sua follia lo ghermì di botto, con quella violenza e quel delirio che trasfigurano il mondo agli occhi dell’insensato.

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Si fermò un momento, fumando la sua pipa, di fronte a una lunghissima palizzata e all’improvviso gli si spalancarono gli occhi. Non brillava una luce, non si muoveva una foglia; ma egli credette di vedere, come in un fulmineo cambiamento di scena, la lunga palizzata tramutata in un esercito di croci innumerevoli legate l’una all’altra, su per la collina, giù per la valle. Allora, facendo volteggiare nell’aria il suo pesante bastone, egli mosse contro la palizzata come contro una schiera di nemici. E, per quanto era lunga la strada, spezzò, strappò, sradicò tutte quelle assi che incontrava sul suo cammino. Egli odiava la croce e ogni palizzata è una parete di croci. Quando arrivò a casa, era pazzo da legare. Si lasciò cadere sopra una sedia, ma rimbalzò subito in piedi perché in ogni oggetto di falegnameria scorgeva l’intollerabile immagine. Si buttò sul letto, ma ricordò che anche quello, come ogni opera artigianale, era costruito in base a quel piano maledetto. Distrusse tutti i suoi mobili, perché erano fatti di croci. Appiccò il fuoco alla casa perché era fatta di croci. Lo ritrovarono nel fiume.

Lucifero guardò il vecchio monaco mordendosi le labbra.
– È vera questa storia? – chiese.
– Oh, no – disse Michele con disinvoltura. – È una parabola: è la parabola di tutti voi razionalisti. Cominciate con l’infrangere la Croce; ma finite col distruggere il mondo abitabile.

(da G.K. Chesterton, La sfera e la croce, libro distribuito dal Centro Missionario Francescano, per acquistarlo: laperlapreziosa@libero.it )