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sabato 31 dicembre 2022

“Il Natale

 “Il Natale è assolutamente inadatto al mondo moderno. Presuppone la possibilità che le famiglie siano unite, o si riuniscano, e persino che gli uomini e le donne che si sono scelti si parlino(…) Il Natale giudica il mondo moderno, perciò vogliono che se ne vada”.

Chesterton 

venerdì 30 dicembre 2022

la Tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare,

 “SIGNORE,

spesso la Tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel Tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della Tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirTi ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della Tua Chiesa: anche all’interno di essa, Adamo cade sempre di nuovo. Con la nostra caduta Ti trasciniamo a terra, e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarti da quella caduta; spera che Tu, essendo stato trascinato nella caduta della Tua Chiesa, rimarrai per terra sconfitto. Tu, però, Ti rialzerai. Ti sei rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi. Salva e santifica la Tua Chiesa. Salva e santifica tutti noi.


Pater noster, qui es in cælis:

sanctificetur nomen tuum;

adveniat regnum tuum;

fiat voluntas tua, sicut in cælo, et in terra.

Panem nostrum cotidianum da nobis hodie;

et dimitte nobis debita nostra,

sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;

et ne nos inducas in tentationem;

sed libera nos a malo.


Eia mater, fons amoris, me sentire vim doloris fac, ut tecum lugeam.”

[BENEDETTO XVI - Via Crucis, Colosseo, 2005


Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. 

«Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte. In proposito mi ritorna di continuo in mente quello che Giovanni racconta all’inizio dell’Apocalisse: egli vede il Figlio dell’uomo in tutta la sua grandezza e cade ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di lui la destra, gli dice: “Non temere! Sono io…” (cfr. Ap 1,12-17).


Cari amici, con questi sentimenti vi benedico tutti.


Benedetto XVI».

lunedì 26 dicembre 2022

Buon Natale di Dino Buzzati

 Buon Natale di Dino Buzzati 


E se invece venisse per davvero?

Se la preghiera, la letterina, il desiderio

espresso così, più che altro per gioco

venisse preso sul serio?


Se il regno della fiaba e del mistero

si avverasse? Se accanto al fuoco

al mattino si trovassero i doni

la bambola il revolver il treno

il micio l’orsacchiotto il leone

che nessuno di voi ha comperati?


Se la vostra bella sicurezza

nella scienza e nella dea ragione

andasse a carte quarantotto?

Con imperdonabile leggerezza

forse troppo ci siamo fidati.


E se sul serio venisse?

Silenzio! O Gesù Bambino

per favore cammina piano

nell’attraversare il salotto.


Guai se tu svegli i ragazzi

che disastro sarebbe per noi

così colti così intelligenti

brevettati miscredenti

noi che ci crediamo chissà cosa

coi nostri atomi coi nostri razzi.


Fa piano, Bambino, se puoi.

HANNAH ARENDT IL SENSO DEL NATALE

 HANNAH ARENDT

  IL SENSO DEL NATALE 

"Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane, dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. E’ in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. E’ questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”





Santo Stefano Omelia di don Giussani

 26 dicembre: Santo Stefano protomartire


Santo Stefano ovvero dell'amicizia di Cristo

Omelia di Luigi Giussani per la festa di Santo Stefano

Desio, 26 dicembre 1944


Veni Sancte Spiritus.

Veni per Mariam.


Le sacre vesti che i ministri rivestono all’altare non han più il candore di ieri. Rosse sono: simbolo di sangue. Accanto alla dolcissima contemplazione di un Dio bambino riscaldato dall’amore della Madre, quale contrasto la visione di Stefano che muore fra il grandinare delle pietre, coperto di sangue! Con che raccapriccio il nostro pensiero passa dal canto degli angeli e dai volti affettuosi dei pastori alle figure urlanti e frementi d’odio dei lapidatori di Stefano!


Ma l’accostamento è denso di significato. Nel fulgore di luce che circonda la capanna di Betlem si delinea maestosa la figura della Croce.


S. Stefano fu il primo che per seguire il Maestro Divino sacrificò la propria vita. La festa del suo martirio unitamente a quella del S. Natale di cui completa il pensiero, ci danno una lezione di sacrificio. Il suo martirio ci indica un mezzo per aiutarci a vivere questa lezione di sacrificio; il suo martirio ce ne fa vedere i frutti preziosi.


Noi non comprenderemo nulla del vero significato del Natale, se non sentiamo vivamente che Dio si fece uomo per salvare noi: e per salvarci doveva sacrificarsi. Il Bambino, che contempliamo in questi giorni con tutto l’affetto e la riconoscenza di uomini credenti, porta impresso sulla sua fronte a programma di tutta la sua vita e monito alla nostra anima pensosa: «Io son nato a morire per te». Quando la nostra mamma da piccoli ci insegnava a compiere ogni giorno della novena del S. Natale un piccolo fioretto perché il Bambino Gesù ci stesse più comodamente sul fieno rigido e la paglia non lo facesse soffrire - Lui che sarebbe morto in Croce per nostro amore -, la nostra mamma senza saperlo coglieva in modo ingenuo, ma reale, il vero senso della nascita di Dio nel mondo, quello cioè di un profondo sacrificio.


Pensiamo: l’Infinito di Dio si è racchiuso in un minuscolo corpo di bambino. Egli, che ha creato tutto ciò che esiste, si è umiliato a nascere come un meschino figlio di uomo. Egli, l’Eterno, Bellissimo, Incorruttibile ha rivestito questa nostra carne, che ci pesa con tutte le sue esigenze, le sue infermità, la sua condanna a morire e a dissolversi. Egli, ai cui cenni tutte quante le creature si muovono come un canto immenso in Suo onore, ha vissuto in mezzo ai piccoli uomini, trattato colla stessa indifferenza con cui guardiamo le persone ignote che ci passano accanto. Egli, che costruì con meravigliosa sapienza tutte le leggi dell’universo e che conosce anche il più piccolo pensiero che s’alza dal nostro cuore nell’oscurità silenziosa della notte, fu trattato da pazzo. Egli, la giustizia vera, fu condannato ingiustamente. Egli, la vita stessa, in cui ogni vita affonda le radici di sua esistenza, morto sul patibolo degli schiavi. Egli, l’Amore, il cui sguardo trasformava una vita intera, la cui parola consolava una vita intera e di cui il tocco solo delle vesti risanava, giustiziato come un assassino.


La storia del Bambino di Nazareth è una storia di dolore ed è come una grande strada su cui tutti gli uomini, senza distinzione, devono camminare: ma vi è chi la percorre bestemmiando; vi è chi la percorre scuotendo la testa incredulo e senza persuasione; vi è chi la percorre come un lungo lamento, intontito, senza comprendere la meta divina; vi è infine chi la percorre con religiosa rassegnazione: vero martire, cioè testimone di Gesù Cristo - come Stefano -, è colui che si sforza almeno di percorrerla con amore. La vita dell’uomo è colma di fatiche, di rinunce, di dolore: ma l’uomo è attaccato alla sua vita terrena con un istinto formidabile; l’uomo su di essa fabbrica tutti i suoi sogni; in essa colloca tutte le sue speranze; per essa spende tutte le sue fatiche; per tenere la sua vita terrena l’uomo rinuncerebbe volentieri alla certezza di una vita felice nell’aldilà; il dolore e le pene che trova, si sforza bene di diminuirle: con un istinto profondo di egoismo, che cerca di scaricare su chi lo circonda la maggior quantità possibile di pesi, che cerca di asservirsi gli altri, che del bisogno e delle pene del prossimo si disinteressa con sollecitudine. In questa mentalità ogni malato è tenuto come un tollerato; ogni povero è un disgraziato; chi piange, un infelice; ogni essere debole e impotente, una cosa disprezzabile; ogni anima mite, un obbrobrio; ogni individuo poco quotato in società, un fallito. Così sorge l’abborrimento a ciò che costa, la nausea del dovere che impone fatica, l’odio al sacrificio.


A questo punto, per contrasto, mi pare quasi che S. Stefano sorga tra il cumulo dei sassi scagliati, a ricordarci una pagina di Vangelo. Un giorno Gesù si azzardò a dire chiaramente ai discepoli che Egli di lì a poco sarebbe dovuto essere crocifisso. Pietro, presolo per un braccio, si mise a rimproverarlo che così parlasse. Gesù, alzato lo sguardo severo ai discepoli, e con una voce che deve aver fatto rimanere assai male il povero Pietro: «Indietro, Satana - gli intimò -, tu ragioni non collo Spirito di Dio, ma collo spirito di questo mondo» (cfr. Mc 8,33). Indietro, Satana! La distinzione tra Cristo e l’anticristo, fra il cristiano e il non cristiano sta proprio in questa valutazione del sacrificio e della vita. Il sacrificio ha una funzione redentrice, perché è la strada che Cristo ha battuto per salvarci e che ognuno di noi deve seguire per giungere alla sua vera casa. Il sacrificio ha una funzione educatrice, perché ci impedisce di cullare l’illusione che la vita terrena debba durare indefinitamente; ci impedisce di scambiare la misera via del pellegrino colla luminosa eterna felicità della patria. Indietro, Satana! aveva risposto Cristo a Pietro; e levando poi la voce perché l’avesse a sentire anche la folla che gli s’andava accalcando intorno: «Chi mi vuol seguire, su, prenda la sua croce. Perché chi non vuole soffrire ora, soffrirà per sempre; ma chi si sacrificherà ora, godrà per sempre. Che importa a un uomo il divenir padrone dell’universo, se poi perde l’anima sua? Che cosa in cambio darà l’uomo per la sua anima?» (cfr. Mc 8,34-37). Come dovette sentire questo pensiero S. Stefano quando veniva spinto a viva forza fuori dalla Sinagoga e trascinato per le viuzze ingombre dalle baracche dei rigattieri fino al Palazzo del Sommo Sacerdote, per essere condannato alla morte.


Lezione di sacrificio quella di Natale e S. Stefano, ma quale il mezzo per poterla vivere? Ce lo indica S. Stefano colla sua appassionata dedizione al Signore Gesù. Si potrebbe esprimere così: «Non bisogna sentirsi da soli». Quando due sposi fedeli si sentono l’uno vicino all’altro; quando i genitori si sentono vicini ai loro figlioli e i figli accanto ai genitori, la loro forza davanti al sacrificio non è forse centuplicata? Quando degli amici veri si sentono solidali e compatti nel loro Ideale, la loro forza davanti ad ogni ostacolo non si ingigantisce a dismisura? Oh fratelli, e sposo e genitore e figlio e amici altro non sono che una espressione sensibile di Cristo benedetto, l’invisibile ma vero sposo e padre e madre e figlio ed amico, sempre desto accanto a noi con affetto infinitamente premuroso per sostenerci colla sua forza divina. Ma bisogna “credergli”. E credere non è appena prestar fede alle sue parole, ma aderire alla Sua Persona, sentire la Sua Persona sempre presente, dominatrice di ogni attività della vita, di ogni relazione sociale, perfino di ogni forma di pensiero e di sentimento interiore. Dobbiamo poter affermare che nella vita giudicheremmo o agiremmo in modo completamente diverso, se Nostro Signore Gesù Cristo non esistesse: perché Egli è ogni giorno il nostro Maestro personale. «Mi chiamate Maestro, e fate bene: perché lo sono» (cfr. Gv 13,13). È questa fede profonda nella presenza vivente di Nostro Signore Gesù Cristo che fece di Stefano il primo martire: eccolo, ritto, colle braccia elevate mentre la gragniuola di sassi gli cade addosso furibonda: e «lo lapidarono, mentre egli pregava dicendo: “Signore Gesù, accogli l’anima mia”» (cfr. At 7,59).


Un ultimo riflesso ci suggerisce la festa di oggi. «Noi abbiamo abbandonato tutto, Signore, per seguirti» (cfr. Mt 19,27), esclamò una volta Pietro a Gesù. E voleva quasi soggiungere: «Che ci darai?». Gesù rispose alla domanda sottintesa: «Il centuplo in questa vita e la vita eterna» (cfr. Mt 19,29). Il centuplo in questa vita. È una gloria anche terrena: dopo tanti secoli ancora oggi milioni di uomini in tutto il mondo rendono il loro canto di omaggio a S. Stefano e la sua apoteosi s’innalza come una magnifica cattedrale, fatta di ammirazione, di gloria, di amore, di entusiasmo, di venerazione. Ma soprattutto il frutto del sacrificio accolto sulla terra è la pace. Il bene dell’esilio è la pace, come il bene della patria è la felicità. Io parlo, fratelli, della pace interiore, senza di cui non si può godere completamente di nulla; della pace interiore, perché quella esterna in tanto è necessaria in quanto che senza di essa diviene molto più difficile il mantenere quella interiore dello spirito: noi oggi ne abbiamo l’esperienza. La pace vera, quella che importa e che è la sicurezza grande della coscienza che cerca di fare la volontà di Dio; la pace vera, quella che importa e che è la tranquillità profonda che ognuno di noi può sentire, ma che è quasi impossibile far capire a uno che non la prova; che ci lascia lo strazio e il dolore e l’ansia della fatica, ma che in fondo all’anima, appena ci ritorniamo, ci fa trovare una fedele rassegnazione, una silenziosa e certa speranza; la pace vera, quella che importa e che è una pazienza piena di bontà e di comprensione per gli altri, che son tutti nostri fratelli e miseri come noi. Ecco Stefano, colpito a morte, cade in ginocchio con un ultimo grido pieno di pace: «Signore, perdona loro questo peccato» (cfr. At 7,60).


Ci dia Gesù Bambino, per intercessione della Madonna, come la diede al Suo primo martire, la forza sovrumana di saperLo seguire sulla strada della Croce, che è la legge di ogni vita, che è la legge di ogni vero amore, che è - ora - soprattutto la legge della vera amicizia con Cristo. Questa forza Egli la darà ai suoi poveri fratelli uomini, i cui giorni disgraziati fanno toccare con mano come non siamo fatti per la terra.


A noi che dobbiamo soffrire e non vogliamo soffrire, noi che dobbiamo piangere e versiamo con amarezza impotente le nostre lacrime; noi che siamo spogliati e martoriati, e ci ribelliamo con istinto di belve ferite agli strappi rudi; noi che dobbiamo morire e vorremmo fuggire dalla morte con raccapriccio e con orrore. Ci dia di soffrire in pace; di piangere in pace; di sentirci martoriati in pace; di morire in pace.


Nella sua visione dell’Apocalisse S. Giovanni vide davanti al trono dell’Agnello, cioè di Cristo, una immensa moltitudine di persone biancovestita, con una palma tra le mani. Domandò chi fossero: «Essi sono coloro che vennero dalla tribolazione e hanno reso bianche le loro vesti nel sangue dell’Agnello [cioè nella croce e nel dolore]. Perciò ora sono davanti al trono di Dio. Essi non avranno più né fame né sete, né il sole mai tramonterà per essi. E l’Agnello li condurrà per sempre alla sorgente della vita, della felicità, e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (cfr. Ap 7,14-17). Et absterget Deus omnem lacrimam ex oculis eorum. Che meravigliosa cosa! Ricordiamo, fratelli, nel nostro dolore, la visione di S. Giovanni, e confortiamoci al dolcissimo pensiero che «Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi».


Don Giussani a Varigotti

Lapidazione di santo Stefano, arazzo su cartone di Raffaello Sanzio

NATALE 2022 PAPA FRANCESCO

 

 OMELIA DEL NATALE 2022

 DI PAPA FRANCESCO

(2022-12-24)

  "Questa notte, che cosa dice ancora alle nostre vite? Dopo due millenni dalla nascita di Gesù, dopo molti Natali festeggiati tra addobbi e regali, dopo tanto consumismo che ha avvolto il mistero che celebriamo, c’è un rischio: sappiamo tante cose sul Natale, ma ne scordiamo il significato. E allora, come ritrovare il senso del Natale? E soprattutto, dove andare a cercarlo? Il Vangelo della nascita di Gesù sembra scritto proprio per questo: per prenderci per mano e riportarci lì dove Dio vuole. Seguiamo il Vangelo.

Inizia infatti con una situazione simile alla nostra: tutti sono presi e indaffarati per un importante evento da celebrare, il grande censimento, che richiedeva molti preparativi. In tal senso, il clima di allora era simile a quello che ci avvolge oggi a Natale. Ma da quello scenario mondano il racconto del Vangelo prende le distanze: “stacca” presto l’immagine per andare a inquadrare un’altra realtà, su cui insiste. Si sofferma su un piccolo oggetto, apparentemente insignificante, che menziona per ben tre volte e sul quale i protagonisti del racconto convergono: dapprima Maria, che pone Gesù «in una mangiatoia» (Lc 2,7); poi gli angeli, che annunciano ai pastori «un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (v. 12); quindi i pastori, che trovano «il bambino, adagiato nella mangiatoia» (v. 16). La mangiatoia: per ritrovare il senso del Natale bisogna guardare lì. Ma perché la mangiatoia è così importante? Perché è il segno, non casuale, con cui Cristo entra nella scena del mondo. È il manifesto con cui si presenta, il modo in cui Dio nasce nella storia per far rinascere la storia. Che cosa ci vuole dire dunque attraverso la mangiatoia? Ci vuole dire almeno tre cose: vicinanza, povertà e concretezza.

1. Vicinanza. La mangiatoia serve a portare il cibo vicino alla bocca e a consumarlo più in fretta. Essa può così simboleggiare un aspetto dell’umanità: la voracità nel consumare. Perché, mentre gli animali nella stalla consumano cibo, gli uomini nel mondo, affamati di potere e di denaro, consumano pure i loro vicini, i loro fratelli. Quante guerre! E in quanti luoghi, ancora oggi, la dignità e la libertà vengono calpestate! E sempre le principali vittime della voracità umana sono i fragili, i deboli. Anche in questo Natale un’umanità insaziabile di soldi, insaziabile di potere e insaziabile di piacere non fa posto, come fu per Gesù (cfr v. 7), ai più piccoli, a tanti nascituri, poveri, dimenticati. Penso soprattutto ai bambini divorati da guerre, povertà e ingiustizia. Ma Gesù viene proprio lì, bambino nella mangiatoia dello scarto e del rifiuto. In Lui, bambino di Betlemme, c’è ogni bambino. E c’è l’invito a guardare la vita, la politica e la storia con gli occhi dei bambini.

Nella mangiatoia del rifiuto e della scomodità, Dio si accomoda: viene lì, perché lì c’è il problema dell’umanità, l’indifferenza generata dalla fretta vorace di possedere e consumare. Cristo nasce lì e in quella mangiatoia lo scopriamo vicino. Viene dove si divora il cibo per farsi nostro cibo. Dio non è un padre che divora i suoi figli, ma il Padre che in Gesù ci fa suoi figli e ci nutre di tenerezza. Viene a toccarci il cuore e a dirci che l’unica forza che muta il corso della storia è l’amore. Non resta distante, non resta potente, ma si fa prossimo e umile; Lui, che sedeva in cielo, si lascia adagiare in una mangiatoia.

Fratello, sorella, Dio stanotte si fa vicino a te perché gli importa di te. Dalla mangiatoia, come cibo per la tua vita, ti dice: “Se ti senti consumato dagli eventi, se il tuo senso di colpa e la tua inadeguatezza ti divorano, se hai fame di giustizia, io, Dio, sono con te. So quello che tu vivi, l’ho provato in quella mangiatoia. Conosco le tue miserie e la tua storia. Sono nato per dirti che ti sono e ti sarò sempre vicino”. La mangiatoia del Natale, primo messaggio di un Dio infante, ci dice che Lui è con noi, ci ama, ci cerca. Coraggio, non lasciarti vincere dalla paura, dalla rassegnazione, dallo sconforto. Dio nasce in una mangiatoia per farti rinascere proprio lì, dove pensavi di aver toccato il fondo. Non c’è male, non c’è peccato da cui Gesù non voglia e non possa salvarti. Natale vuol dire che Dio è vicino: rinasca la fiducia!

2. La mangiatoia di Betlemme, oltre che di vicinanza, ci parla anche di povertà. Attorno a una mangiatoia, infatti, non c’è molto: sterpaglie e qualche animale e poco altro. Le persone stavano al caldo negli alberghi, non nella fredda stalla di un alloggio. Ma Gesù nasce lì e la mangiatoia ci ricorda che non ha avuto altro intorno, se non chi gli ha voluto bene: Maria, Giuseppe e dei pastori; tutta gente povera, accomunata da affetto e stupore, non da ricchezze e grandi possibilità. La povera mangiatoia fa dunque emergere le vere ricchezze della vita: non il denaro e il potere, ma le relazioni e le persone.

E la prima persona, la prima ricchezza, è proprio Gesù. Ma noi vogliamo stare al suo fianco? Ci avviciniamo a Lui, amiamo la sua povertà? O preferiamo rimanere comodi nei nostri interessi? Soprattutto, lo visitiamo dove Lui si trova, cioè nelle povere mangiatoie del nostro mondo? Lì Egli è presente. E noi siamo chiamati a essere una Chiesa che adora Gesù povero e serve Gesù nei poveri. Come disse un vescovo santo: «La Chiesa appoggia e benedice gli sforzi per trasformare le strutture di ingiustizia e mette soltanto una condizione: che le trasformazioni sociali, economiche e politiche ridondino in autentico beneficio per i poveri» (O.A. Romero, Messaggio pastorale per il nuovo anno, 1° gennaio 1980). Certo, non è facile lasciare il caldo tepore della mondanità per abbracciare la bellezza spoglia della grotta di Betlemme, ma ricordiamo che non è veramente Natale senza i poveri. Senza di loro si festeggia il Natale, ma non quello di Gesù. Fratelli, sorelle, a Natale Dio è povero: rinasca la carità!

3. Arriviamo così all’ultimo punto: la mangiatoia ci parla di concretezza. Infatti, un bimbo in una mangiatoia rappresenta una scena che colpisce, persino cruda. Ci ricorda che Dio si è fatto davvero carne. E allora su di Lui non bastano più le teorie, i bei pensieri e i pii sentimenti. Gesù, che nasce povero, vivrà povero e morirà povero, non ha fatto tanti discorsi sulla povertà, ma l’ha vissuta fino in fondo per noi. Dalla mangiatoia alla croce, il suo amore per noi è stato tangibile, concreto: dalla nascita alla morte il figlio del falegname ha abbracciato le ruvidità del legno, le asperità della nostra esistenza. Non ci ha amato a parole, non ci ha amato per scherzo!

E dunque, non si accontenta di apparenze. Non vuole solo buoni propositi, Lui che si è fatto carne. Lui che è nato nella mangiatoia, cerca una fede concreta, fatta di adorazione e carità, non di chiacchiere ed esteriorità. Lui, che si mette a nudo nella mangiatoia e si metterà a nudo sulla croce, ci chiede verità, di andare alla nuda realtà delle cose, di deporre ai piedi della mangiatoia scuse, giustificazioni e ipocrisie. Lui, che è stato teneramente avvolto in fasce da Maria, vuole che ci rivestiamo di amore. Dio non vuole apparenza, ma concretezza. Non lasciamo passare questo Natale, fratelli e sorelle, senza fare qualcosa di buono. Visto che è la sua festa, il suo compleanno, facciamogli regali a Lui graditi! A Natale Dio è concreto: nel suo nome facciamo rinascere un po’ di speranza in chi l’ha smarrita!

Gesù, guardiamo a Te, adagiato nella mangiatoia. Ti vediamo così vicino, vicino a noi per sempre: grazie, Signore. Ti vediamo povero, a insegnarci che la vera ricchezza non sta nelle cose, ma nelle persone, soprattutto nei poveri: scusaci, se non ti abbiamo riconosciuto e servito in loro. Ti vediamo concreto, perché concreto è il tuo amore per noi: Gesù, aiutaci a dare carne e vita alla nostra fede. Amen.(24/12/2022-ITL/ITNET)

domenica 25 dicembre 2022

Dio ama ciò che è perduto

 Dio ama ciò che è perduto   3

Dietrich Bonhoeffer, Riconoscere Dio al centro della vita

Dio non si vergogna della bassezza dell'uomo, vi entra dentro (...) Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l'insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono "perduto", lì egli dice "salvato"; dove gli uomini dicono "no", lì egli dice "sì".

Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente e incomparabile. Dove gli uomini dicono "spregevole", lì Dio esclama "beato".

Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima.

Lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia.

mercoledì 21 dicembre 2022

AUGURI SCOMODI

AUGURI SCOMODI


Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’ idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario. Mi lusinga addirittura l’ ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.

Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli!

Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.

Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.

Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’ inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.

Giuseppe, che nell’ affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.

Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’ aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.

I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’ oscurità e la città dorme nell’ indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.

Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.

Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano. 

Che i ritardi dell’ edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.

I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge”, e scrutano l’ aurora, vi diano il senso della storia, l’ ebbrezza delle attese, il gaudio dell’ abbandono in Dio. E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’ unico modo per morire ricchi.

Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.


+ Tonino Bello

lunedì 19 dicembre 2022

 

La luce: dalle preghiere di J.C. Maxwell alla luce di Dante

All’origine della filosofia occidentale Talete di Mileto afferma che l’acqua è il principio di ogni cosa. L’acqua è certamente qualcosa di meravigliosamente importante (essa è “utile et humile et pretiosa et casta”, direbbe san Francesco), ma anche, diciamo così, di molto “semplice”: due atomi di idrogeno e 1 di ossigeno. La luce è tutta un’altra cosa. Sia per la sua bellezza ed evocatività, sia da un punto di vista scientifico (la sua velocità è la massima possibile fisicamente; ha natura insieme corpuscolare e ondulatoria ecc.).
La stessa parola “Dio” significa “luce”,

da cui anche il termine greco “Zeus”, o il latino “dies” e l’italiano “dì”, cioè “giorno”.
Nella Bibbia, la parola “luce” compare come prima parola di Dio (“Fiat lux”: “Sia fatta la luce!”), e nel medioevo le cattedrali gotiche, con le loro grandi vetrate colorate e luminose, sono la traduzione in pietra di un passo del Credo (“Dio da Dio, luce da luce”), della descrizione della Gerusalemme celeste (città di luce, descritta nell’Apocalisse), e della ottimistica filosofia della luce dei naturalisti francescani che ad Oxford fanno nascere l’ottica (e, quindi, anche gli occhiali che molti di noi portano sul naso).


Uno di questi naturalisti è Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln e cancelliere ad Oxford nel XIII secolo, studioso di specchi, lenti, arcobaleno. Per lui la luce è il corpo più impalpabile e “spirituale” esistente: di essa Dio si è servito per creare l’ intero universo (il De luce di Grossatesta è considerato la prima intuizione del Big bang, che verrà teorizzato nel 1931 da un sacerdote che in gioventù aveva scritto un commento proprio al Fiat Lux del Genesi). Per il suo discepolo, il frate Ruggero Bacone, la “legalità geometrica, che governa la propagazione della luce” è “il modello di spiegazione di tutti i fenomeni fisici”: anch’egli, affascinato dalla luce, studia e comprende le leggi della riflessione e della rifrazione e spiega come le lenti possano essere disposte per costruire occhiali e telescopi.
L’uomo- scrive il sacerdote ed astronomo Giuseppe Tanzella Nitti, curatore del sito scientifico www.disf.org, proprio a presentazione dell’anno della luce- “ha bisogno di Dio come, sul piano scientifico, la vita e l’uomo hanno bisogno di luce. Luce vuol dire energia. Delle quattro forme di energia che l’uomo conosce, quella elettromagnetica è più facilmente maneggiata e impiegata; se l’uomo sfrutta altre forme di energia, come ad esempio quella gravitazionale o quella nucleare, è per ottenere ancora energia elettromagnetica, di cui la luce visibile costituisce la parte a noi fisiologicamente più vicina. Nel sole, la grande efficienza dell’energia nucleare che si sprigiona nel suo nucleo, analogamente a quanto accade nelle altre stelle, giunge a noi ancora sotto forma di energia elettromagnetica, di calore e di luce. Senza luce solare non vi sarebbe fotosintesi clorofilliana, non vi sarebbe vita, senza il calore del sole non vi sarebbero processi biochimici, la terra sarebbe una distesa di roccia e di ghiaccio. La qualità della vita sulla terra dipende ormai, in modo determinante, dalla nostra capacità di ottenere energia e luce a basso costo, di poterla distribuire senza troppe perdite”.

Se dobbiamo, tra i tanti scienziati che hanno affrontato nei secoli lo studio della luce, sceglierne qualcuno per la sua importanza, siamo obbligati a citare uno dei massimi fisici di ogni tempo, lo scozzese James Clerk Maxwell che nel 1864, con le sue celebri equazioni, definisce in modo completo il legame tra campo elettrico e campo magnetico, unificando elettricità e magnetismo e fornendo allo stesso tempo una sintesi teorica di tutti i fenomeni sperimentali connessi. Le equazioni di Maxwell non hanno cambiato solo la scienza (servono a spiegare come funzionano la luce, i colori, il sole…), ma la vita di tutti noi, essendo all’origine, per esempio, delle telecomunicazioni, dalla radio al telefono ad internet.
Oltre che un fisico, Maxwell è anche un filosofo, un poeta e un fervente cristiano. Le sue lettere alla moglie e agli amici, infatti, testimoniano di come il suo amore alla natura sia di marca francescana: vede nelle creature la traccia, l’impronta del Creatore, e come il fondatore della prima chiesa gotica francese, , l’abate Suger -che vuole che dalle “bellezze visibili” della Chiesa illuminata dalle vetrate, il fedele passi alla contemplazione delle “bellezze invisibili”-, così anche Maxwell ama passare “da mondo a mondo”, cioè dalla creazione al Creatore, dalla fisica alla metafisica, dalla contemplazione scientifica alla contemplazione dell’anima.

Nell’Inno della sera di uno studente, scritto a Cambridge il 25 aprile 1853, infatti, si rivolge a Dio così: “Tu che riempi i nostri occhi frementi/con il cibo della contemplazione,/disponendo nel tuo cielo oscurato/i segni di una creazione infinita/concedi alla meditazione notturna/ciò che l’operoso giorno nega/insegnami in questa stazione terrestre/ a riconoscere la Verità Celeste/… Per mezzo delle creature che Tu hai creato/ mostra lo splendore della Tua gloria/, l’eterna Verità si manifesti/nella loro sostanza transitoria,/finché la Terra verde e l’Oceano canuto, /la solida roccia e il tenero filo d’erba/racconteranno la stessa infinita storia/ ‘Siamo la Verità ordinata nella Forma’…/Così che, quando i Santi con gli Angeli umilmente/ si uniranno alla preghiera incessante del cielo/, con altrettanta certezza la mia, sebbene lentamente,/ possa ascendere e lassù fondersi alla loro./ Insegnami a leggere le Tue opere/di modo che la mia fede-acquistando nuova forza-/possa procedere da mondo a mondo/perseguendo la feconda ricerca della saggezza;/ finché una volta che la tua verità avrà impregnato la mia mente/proclamerò l’Eterno Credo/, rinnovando spesso il glorioso motivo/ Iddio nostro Signore è il vero Dio./ Donami amore per rintracciare correttamente/ il Tuo in ogni cosa creata/predicando una razza redenta/dalla Tua misericordia rinnovata,/finché sazio della tua pienezza/Ti guarderò faccia a faccia/ e con infaticabile Ardore/ canterò le glorie della tua grazia”.

Un’altra poesia di Maxwell, scritta il I marzo del 1856, si conclude così: “…Chiedete solo l’eterno Riposo,/che dona pace e sicurezza./Riposo di Vita e non di morte,/riposo nell’Amore, nella Speranza, nella Fede,/fino a che il Dio che dà loro il respiro/li chiamerà a sé a riposare dal vivere”. In Il segreto per essere felici, del 24 marzo 1858, Maxwell medita sulla fugacità dei piaceri e della vita, ma anche sulla solidità che deriva dalla fede e sulla luce metafisica di Dio che ci aiuta a vedere anche laddove l’uomo, da solo, non vede: “…Veniamo aiutati da una forza che non viene da noi./Il mondo e i suoi pericoli perciò non rifuggiamo/perché Colui che l’ha creato è saggio/Egli sa che siamo pellegrini e stranieri,/ed i nostri occhi Egli illuminerà”.
Maxwell: scienziato e poeta. Il che ci spinge a concludere con il nostro poeta per eccellenza, Dante Alighieri, che fa del Paradiso il luogo che “solo amore e luce ha per confine”, essendo Dio “luce eterna che sola in te sidi”, “luce che da sé è vera”, luce di cui tutti gli uomini, per vedere davvero, hanno bisogno.

domenica 18 dicembre 2022

Le comunità virtuali

 

Le comunità virtuali che hanno sostituto quelle naturali, creano solo l'illusione di intimità e una finzione di comunità. Non sono validi sostituti del sedersi insieme ad un tavolo, guardarsi in faccia, avere una conversazione reale. Né sono in grado queste comunità virtuali di dare sostanza all'identità personale, la ragione primaria per cui le si cerca. Rendono semmai più difficile di quanto non sia già accordarsi con se stessi.

Le persone camminano qua e la con l'auricolare parlando ad alta voce da soli, come schizofrenici, paranoici, incuranti di ciò che sta loro intorno. L'introspezione è un'attività che sta scomparendo. Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri, controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro.

Brani scelti: ZYGMUNT BAUMAN, Intervista sull'identità (Bari, Laterza 2003).

Diteci, che cos’è la verità?

 Ma ecco in mezzo a loro si alzò un uomo.

Per tutta l’eternità anteriore non era mai accaduto che qualcuno si alzasse, che qualcun si modificasse, diventasse diverso. Lo guardavano meravigliati. Il viso era acceso di passione, come bruciato dal fuoco, gli occhi fiammeggiavano nell’oscurità. E l’uomo non parlò come gli altri, parlò con violenza; le parole si susseguirono impetuose:

"Che cos’è laverità? Diteci, che cos’è la verità?
questa vita che noi viviamo, è soltanto confusione, soltanto ricchezza illimitata. E’ troppo. E’ un troppo, che noi non possiamo capire: riusciamo soltanto a vedere  la piccola parte nostra che è minuscola. D’altro canto ciò che è grande è troppo grande. Lottiamo e lottiamo, ognuno per conto suo, cerchiamo e cerchiamo, ma ognuno non trova che se stesso. Sediamo solitari in uno spazio senza fine, e la nostra solitudine chiama nel buio. Non possiamo essere salvati, siamo troppi. E non troviamo una strada che tutti si possa seguire.
La vita è dunque sempre uno solo di noi? Non è mai noi tutti, non è mai qualcosa di così certo da permetterci di appoggiare la testa ad essa ed essere felici? Non è mai unica e identica? Non è mai semplice come una vecchia madre che ogni giorno dice le stesse parole al suo bimbo, sentendo di volta in volta sempre più forte il suo amore? Non è mai una casa, dove noi tutti ci si possa riunire formando un’unica famiglia? E’ forse così grande che noi mai riusciremo a concepirla? Mai, in tutta l’eternità! Soltanto meditare, meditare ognuno a suo modo, vedere che tutto è inghiottito da un buio dove non intravediamo niente.
Io non posso sopportare che la vita sia così grande! io non posso sopportare che sia sterminata. Non posso sopportare la mia solitudine in uno spazio che non ha fine.
Voglio cercare dio, ciò che è sempre vero.

Andiamo in cerca di dio, chiediamogli conto del fatto che la vita è così disorientante. Raduniamoci tutti, e partiamo: cerchiamo dio, per ottenere finalmente una certezza"

Lo ascoltavano intenti. Aveva parlato in modo da affascianrli. Aveva toccato in loro qualcosa che ognuno sapeva di possedere, nascosto al fondo dell’essere, e che doleva a un contatto.
Prima non avevano sentito in modo così profondo l’infelicità della vita, alcuni non l’avevano sentita affatto. Ora finalmente si destavano alla coscienza di tutto. Ora tutti capivano quale disperato groviglio fosse la vita, e come essa fosse così immensa da non concedere pace ad alcuno, non al più felice, non al più ricco: la vita per l’uomo era senza basi, senza un terreno saldo, senza verità. Ora capivano come fosse avvilente vivere come vivevano, senza sapere, senza realmente credere. Capivano a quale disperata solitudine fosse condannato ognuno, in mezzo all’impenetrabile oscurità. E capivano che a ciò bisognava metter fine, che dovevano partire in cerca di qualcosa d’altro, di qualcosa che valesse per tutti (…)

Senonché alcuni pensavano: esiste dunque realmente un dio? Uno disse: "Se anche esiste un dio, io ho la sensazione che non ne esiste uno per me". Un altro dichiarò: "Anch’io ho la sensazione che per me non esista alcun dio". Colui che aveva parlato con fervore rispose: "Un unico uomo non può desiderare di avere un dio; ma per noi milioni bisogna che un dio esista". A queste parole tutti credettero e si alzarono per seguirlo, per chiedere a dio conto della vita incomprensibile.
(…)
Sentivano che, in tutta la confusione e la molteplicità della vita, qualcosa li teneva finalmente uniti:la loro infelicità, la loro abissale miseria. Sentivano la profondità della loro disperazione, e sentivano che essa li univa, e se ne inebriavano. La percepivano come una forza possente, la forza dell’essere umano, che erompeva dalla loro anima in tumulto, e questa sensazione li inebriava. I felici si domandavano come avesere potuto essere felici. Gli infelici rimpiangevano di non esser stati ancora più infelici.

Guidati dall’oratore appassionato, partirono per chiedere a dio conto di tutto.

 P. LagerkvistIl sorriso eternoIperborea. (Pagg.65   e ss.)

che vale la vita se non per essere data?

 Anna Vercors: 

“Ma la mia piccola Violaine 

è stata più saggia. 

Che fine della vita è vivere? 

forse che i figli di Dio 

resteranno con fermi piedi 

su questa miserabile terra? 

Non vivere, ma morire, 

e non disgrossar la croce, 

ma salirvi, e dare in letizia 

ciò che abbiamo. 

Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, 

la giovinezza eterna!...

Che vale il mondo rispetto alla vita? 

E che vale la vita 

se non per essere data? 

E perchè tormentasi 

quando è così semplice obbedire?”


Paul Claudel 

“L'annuncio a Maria”

L’amore

L’amore

L’amore è sofferenza,

pianto, gioia, sorriso.

L’amore è felicità

tristezza e tormento.

Non si ama con il cuore,

si ama con l’anima

che si impregna di storia.

Non si ama se non si soffre

e non si ama

se non si ha paura di perdere.

Ma quando ami vivi,

forse male, forse bene, ma vivi.

Allora muori

quando smetti di amare,

scompari quando non sei più amato.

Se l’amore ti ferisce,

cura le tue cicatrici

e credici, sei vivo…

Perchè vivi per chi ami

e per chi ti ama.

Quelle come me…

Quelle come me regalano sogni, anche a costo di rimanerne prive.

Quelle come me donano l’anima,

perché un’anima da sola è come una goccia d’acqua nel deserto.

Quelle come me tendono la mano ed aiutano a rialzarsi,

pur correndo il rischio di cadere a loro volta.

Quelle come me guardano avanti,

anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro.

Quelle come me cercano un senso all’esistere e, quando lo trovano,

tentano d’insegnarlo a chi sta solo sopravvivendo.

Quelle come me quando amano, amano per sempre.

e quando smettono d’amare è solo perché

piccoli frammenti di essere giacciono inermi nelle mani della vita.

Quelle come me inseguono un sogno

quello di essere amate per ciò che sono

e non per ciò che si vorrebbe fossero.

Quelle come me girano il mondo alla ricerca di quei valori che, ormai,

sono caduti nel dimenticatoio dell’anima.

Quelle come me vorrebbero cambiare,

ma il farlo comporterebbe nascere di nuovo.

Quelle come me urlano in silenzio,

perché la loro voce non si confonda con le lacrime.

Quelle come me sono quelle cui tu riesci sempre a spezzare il cuore,

perché sai che ti lasceranno andare, senza chiederti nulla.

Quelle come me amano troppo, pur sapendo che, in cambio,

non riceveranno altro che briciole.

Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso,

purtroppo, fondano la loro esistenza.

Quelle come me passano inosservate,

ma sono le uniche che ti ameranno davvero.

Quelle come me sono quelle che, nell’autunno della tua vita,

rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti

e che tu non hai voluto.

........   Alda Merini


L'amore non è già fatto, si

 L'amore non è già fatto, si fa   4

Michel Quoist

Non è un vestito già confezionato,
ma stoffa da tagliare, preparare e cucire.
Non è un appartamento chiavi in mano,
ma una casa da concepire, costruire, conservare e, spesso, riparare.
Non è una vetta conquistata,
ma scalate appassionanti e cadute dolorose.
Non è un solido ancoraggio nel porto della felicità,
ma è un levar l'ancora, è un viaggio in pieno mare.
Non è un sì trionfale che si segna fra i sorrisi e gli applausi,
ma è una moltitudine di "sì" che punteggiano la vita,6
tra una moltitudine di "no" che si cancellano strada facendo.
Non è l'apparizione improvvisa di una nuova vita,
perfetta fin dalla nascita,
ma sgorgare di sorgente e lungo tragitto di fiume
dai molteplici meandri, qualche volte in secca,
altre volte traboccante,
ma sempre in cammino verso il mare infinito.

M. Quoist

sabato 17 dicembre 2022

 

Ecco il testo della poesia "L'Amicizia"

Non posso darti soluzioni per tutti i problemi della vita,

Non ho risposte per i tuoi dubbi o timori,

però posso ascoltarli e dividerli con te.

Non posso cambiare né il tuo passato né il tuo futuro,

però quando serve starò vicino a te.

Non posso evitarti di precipitare, solamente posso offrirti la mia mano perché ti sostenga e non cada.

La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo non sono i miei,

però gioisco sinceramente quando ti vedo felice.

Non giudico le decisioni che prendi nella vita,

mi limito ad appoggiarti, a stimolarti e aiutarti se me lo chiedi.

Non posso tracciare limiti dentro i quali devi muoverti,

però posso offrirti lo spazio necessario per crescere.

Non posso evitare la tua sofferenza, quando qualche pena ti tocca il cuore,

però posso piangere con te e raccogliere i pezzi per rimetterlo a nuovo.

Non posso dirti né cosa sei né cosa devi essere,

solamente posso volerti come sei ed essere tuo amico.

In questo giorno pensavo a qualcuno che mi fosse amico,

in quel momento sei apparso tu…

Non sei né sopra né sotto né in mezzo, non sei né in testa né alla fine della lista.

Non sei né il numero uno né il numero finale e tanto meno ho la pretesa

di essere io il primo, il secondo o il terzo della tua lista.

Basta che tu mi voglia come amico.

Poi ho capito che siamo veramente amici.

Ho fatto quello che farebbe qualsiasi amico:

ho pregato e ho ringraziato Dio per te.

Grazie per essermi amico.

Jorge Luis Borges

giovedì 15 dicembre 2022

l’uomo è un essere frivolo

 «Le venerabili formiche cominciarono col formicaio, e probabilmente col formicaio finiranno, cosa che fa grande onore alla loro costanza e positività. 

Ma l’uomo è un essere frivolo e sregolato e, forse, come un giocatore di scacchi, ama soltanto il processo necessario per raggiungere lo scopo, non già lo scopo stesso. 

E chissà (non è possibile garantirlo), può darsi che lo scopo stesso a cui tende l’umanità, consista in questo incessante processo di realizzazione, cioè nella vita stessa e non particolarmente nello scopo, il quale non è altro che il «due per due quattro», cioè una formula. 

Ma il «due per due quattro» non è più la vita, signori, ma il principio della morte».


Perle "dal sottosuolo"

F.M Dostoevskij 🖤🎩

Il talento femminile

 “Il talento femminile è un talento innato, una disposizione originaria, un assoluto virtuosismo nel conferire al finito un senso. La donna concilia l’uomo e se stessa col mondo, è in armonia con l’esistenza in una misura che l’uomo non conosce. Poiché la donna spiega la finitezza, essa è la vita profonda dell’uomo: una vita tranquilla e nascosta, come è sempre la vita delle radici”. 


Cesare Pavese

mercoledì 14 dicembre 2022

la sua mente può conoscere ma non comprendere

 Shakespeare lo fa dire chiaramente ad Amleto: Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.” La mente umana per quanto possa lavorare e produrre immaginazione su immaginazione non riuscirà mai a “comprendere” il reale, nel senso letterale del termine: comprendere come “mettere dentro”. La mente umana, anche quella che funziona meglio e che è capace di inventare cose straordinarie, non ha la possibilità di “esaurire” il reale, di spiegarlo totalmente, di venirne a capo scoprendone il senso più nascosto.

Questa è un’evidenza, è un fatto, non lo si deve certo dimostrare; piuttosto sarebbe il contrario a dover essere dimostrato, ma ovviamente è indimostrabile. Ed è un’evidenza che costringe moralmente l’uomo ad un atto che dovrebbe essere una sorta di “riflesso condizionato spirituale”. Come esistono i riflessi condizionati fisiologici (la salivazione nel pensare a cibi gustosi o la gamba che si alza se si dà il colpetto sul ginocchio), così esistono anche i riflessi condizionati spirituali; in questo caso mi riferisco al riflesso condizionato spirituale dell’umiltà. L’uomo che prende davvero coscienza che la sua mente può conoscere ma non comprendere, è un uomo umile che riuscirà a strutturare sull’umiltà, e con l’umiltà, l’intera sua esistenza. L’uomo, invece, che non vuole riconoscere tale dato, s’illuderà di porre se stesso come criterio di giudizio di tutto … e, quasi sempre, diventerà schiavo di una lettura ideologica della realtà che poi promuoverà, questa, a criterio di giudizio di ogni cosa.

L’ideologia nasce proprio a causa della dimenticanza di ciò che il buon Shakespeare fa dire ad Amleto, nasce dalla dimenticanza che sono molte di più le cose che esistono in cielo e in terra che non quelle che può pensare la mente umana. In un certo qual modo si potrebbe propriamente utilizzare quella famosa frase che dice che la realtà facilmente supera la fantasia; sì la realtà supera -di molto- la fantasia. I folli filosofi della postmodernità (prima fra tutti Nietzsche, che folle divenne davvero) dicono che la realtà non è comprensibile perché è irrazionale, perché non può essere spiegata con la logica. Non si tratta di questo, anzi. La realtà non può essere compresa dalla mente umana non perché è irrazionale, non perché è illogica, ma perché è misteriosa. Il mistero è oltre ma non contro la ragione. Il mistero segna razionalmente l’incapacità dell’uomo che, non essendo creatore della realtà, non può stravolgerla o annullarla.

Guareschi queste cose le diceva eccome. Per esempio, nel racconto Il dono mancato (inserito nella raccolta L’anno di don Camillo) si narra del figlio del Tarocci (uno dei compagni comunisti di Peppone) che non riceve i giocattoli da parte di Santa Lucia, a causa del papà che vuole che il bambino (Gigino, così si chiama il piccolo) non cresca con le “fantasie della reazione clericale”. Il bambino ne soffre, tant’è che decide di scappare di casa, ma viene ritrovato dal genitore.

Tarocci rifece la strada percorsa chiamando a gran voce il bambino ma nessuno gli rispose. Finalmente quando il Padreterno volle, trovò Gigino addormentato sulla paglia umida, dentro la capannuccia di melicacci. Il Tarocci era imbestialito e, tirato su il bambino ancora addormentato, lo svegliò con due sberle. (…). –Due ore, mi hai fatto cercare! – lo rimproverò aspro quando furono in casa. –Perché invece di venire a casa diritto, ti sei andato a perdere in mezzo ai campi? Perché non sei tornato assieme agli altri?

-Gli altri avevano tutti la roba e io no- sussurrò il bambino.

-Che roba?

-La roba di Santa Lucia – spiegò il bambino.

Al Tarocci venne un mezzo colpo: Santa Lucia! La raccomandazione della moglie… Ma anziché placarsi a quel pensiero, venne preso da un’ira furibonda:

-Ma che Santa Lucia! –urlò- Sono tutte stupidaggini. Santa Lucia non c’è.

-C’è –replicò Gigino- Ho visto io la roba.

Per un bambino di sei anni niente può esserci che riesca a demolire questa ferrea costruzione logica.

Guareschi lo fa capire chiaramente con le semplici parole di un bambino. Santa Lucia c’è perché c’è la Tradizione. Esiste, perché –per Guareschi- non può non esistere l’attenzione alla serietà del tempo. Tempo che non è un semplice succedersi di avvenimenti, ma il riconoscimento sempre nuovo della ragione dell’esistere. Certo, un bambino non può argomentare in questo modo, ma il desiderio che ci sia tutto questo è in lui presente.

Ma torniamo al racconto. Dopo aver apostrafato ben bene la madre che vuole perpetuare quella dannosa tradizione, Tarocci dice a Gigino che deve aver pazienza e il giorno dopo i doni glieli avrebbe portati Stalin, perché –ovviamente- Santa Lucia non esiste, ma Stalin sì.

-E allora, per avere il regalo chi bisogna pregare? –domandò Gigino con voce piena d’ansia.

A Tarocci era venuta in mente una storia che aveva letto o sentito da qualche parte, e s’era regolato in modo da attirare nella trappola il bambino.

-Secondo me bisognerebbe pregare Stalin- rispose.

-Stalin?- si informò il bambino. –E’ un santo?

-E’ uno che fa delle cose straordinarie- spiegò il Tarocci. –Tu stasera devi pregare Stalin di portarti il regalo perché sei stato buono. Se stasera ti porta il regalo vuol dire che esiste per te, mentre se Santa Lucia non ti ha portato niente, significa che per te non esiste.

Il bambino si rasserenò.

E Tarocci continua il suo maldestro progetto…

 Tarocci spiegò a Peppone tutta la storia e il trucchetto combinato per democratizzare Santa Lucia.

-Capo- concluse- non è stata un’idea in gamba?

-Certo- borbottò Peppone.

-Bisogna agire senza sentimentalismi- continuò il Tarocci. –Alle donne si può dar retta fino a un certo punto. Dopo, occorre intervenire decisi. Incominciamo a snebbiare pian piano i cervelli. Incominciamo a sloggiare i Santi dall’animo dei nostri bambini mettendo al loro posto qualcosa di più sostanzioso. Incominciamo a sfatare le leggende. Non ti pare?

Ma cosa avviene? Che malgrado il Tarocci avesse preparato i doni affinché Gigino potesse trovare le sorprese portate da Stalin, la mattina seguente il bambino non trovò un bel nulla. Tarocci non si meravigliò più di tanto, anzi tutto sommato una latente soddisfazione colpì il suo animo … e disse a Gigino, piangente per questa nuova delusione, che Natale era vicino e Gesù Bambino avrebbe sistemato tutto. Era passato anche lui alla speranza “clericale”. Ma perché Gigino non aveva trovato nulla malgrado il papà avesse preparato i doni di Stalin? Cosa era successo? Leggiamo il finale del racconto.

A onor del vero non ci fu niente di miracoloso nella scomparsa dei doni di Stalin: perché Peppone, dopo averli cavati fuori dalle scarpe di Gigino, li era andati a buttare nel fiume borbottando:

“Non è un buon servizio che faccio al compagno Stalin”.

Poi, quando l’acqua del grande fiume ebbe ingoiato tutta la merce, si consolò dicendo tra sé:

Dio ti vede, Stalin no.”

Si accorse troppo tardi d’essere caduto come un pesce nella trappola degli slogan della propaganda clerico-americana.

E se ne dolse.

Ma fino a un certo punto.

Dunque, Peppone se ne dolse, ma fino ad un certo punto. Aveva capito che così andava fatto. Eppure se si fosse messo a “pensare”, sarebbe certamente arrivato a tutt’altra conclusione, avrebbe dato ragione al suo amico e chi si è visto se è visto. Il buon senso, invece, lo aveva portato a negare quell’invenzione: i doni di Stalin. Non perché Stalin gli stesse antipatico, per carità … ma perché, in quel caso, Stalin stava prendendo il posto di qualcun altro (meglio: di qualcun’altra), e questo, malgrado la simpatia per il sovietico con i baffoni, non poteva accadere. Lui stesso era cresciuto con i doni di santa Lucia e non con quelli di Stalin.

Qui Guareschi fa capire una cosa importante: ciò che è stato trasmesso non può essere distrutto. Chesterton amava dire che la vera democrazia è poter “far votare i morti”, cioè qualsiasi decisione debba essere presa non può mai andare contro la tradizione dei padri. Già!.. la Tradizione. Il musicista Gustav Mahler la definisce non come “il culto delle ceneri”, ma come “la custodia del fuoco”. Si racconta –non so fino a che punto sia vero- che quando gli uomini primitivi scoprirono il fuoco, lo lasciarono sempre acceso per far sì che non andasse perduto: era troppo prezioso. Ogni uomo, indipendentemente dal grado di cultura (anzi, forse un grado di cultura elevato a riguardo può essere pericoloso) coglie la necessità di perpetuare e non di distruggere, di custodire e non di stravolgere.

Anche Peppone, infischiandosene di proclami di partito e slogan ideologici, si sentì di fare lo stesso.