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mercoledì 28 febbraio 2024

La ricerca di Pavese

 PAVESE 

PAVESE 1

In un libro intitolato IL SENSO RELIGIOSO, che molti amici stanno leggendo in questi giorni, si parla di uno scambio epistolare tra Cesare Pavese e una giovane professoressa che stava traducendo per lui dal greco i capolavori di Omero, Iliade e Odissea. Lei viene colpita da ciò che scrive Pavese nel doppio romanzo autobiografico “Prima che il Gallo canti”, e in particolare dal cap. XV di “La casa in collina” ove lo scrittore confessa la propria “esigenza religiosa”. Lui le risponde che questo è “il punto infiammato, il locus di tutta la sua coscienza”.


Qualche tempo fa ho approfondito il FATTO VERO, cioè l’incontro accaduto a Pavese all’inizio del 1944. Lo racconto in quattro post a partire da oggi [il mio mini-saggio su Pavese è a stampa nel libro “L’io spezzato e la domanda di assoluto”, edito da Itaca]


Nel cap. XV Corrado [alter ego di Pavese] si sente “braccato”, cerca un luogo in cui nascondersi. Sa di gente che si è rifugiata nei conventi e nelle chiese… “Un ritorno all’infanzia, all’odore d’incenso, alle preghiere e all’innocenza?”. Per la sua ideologia in quei luoghi dovrebbero esserci solo i “fastidiosi borbottii” di vecchi bigotti; e se invece proprio lì egli potesse sentire, “con le palme sul viso, calmarsi il battito del cuore?”. Quindi gli accadde un primo evento, tutto interiore: “Ricordo che stavo traversando una piazza, e il pensiero mi fece fermare. Trasalii. Fu quella una gioia, una beatitudine inattesa. Pregare, entrare in chiesa, è vivere un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue”. Vede una chiesa e ci entra. “C’era in fondo, sotto l’altare, un lumicino rosso; nei banchi, nessuno. Fissai gli occhi a terra e ripensai quel pensiero, volli rigodere la gioia e la certezza della pace improvvisa. Non mi riuscì”. Avvenimento: accade quando accade, non a comando. “Non parlai con nessuno di quell’attimo, di quello sgorgo di gioia”. Solo con Cate – colei che era stata la sua donna – Corrado prova ad aprire il discorso, ma per lei che ha una posizione ideologica è appunto un “discorso”. Invece per lui “crederci bisogna. Se non credi in qualcosa non vivi. … Siamo tutti malati che vorremmo guarire. È un male dentro… Uno che prega, quando prega è come sano”. Ma lei taglia corto: “Pregare non serve”. Qualche giorno dopo i tedeschi arrestano Cate e gli altri amici. Corrado vede la scena dall’alto. “Si udì il canto di un gallo, strepitoso e lontano” (cap. XVI). Il “gallo” che è nel titolo del libro. 

Domani vedremo che a Pavese accadde un “incontro”, di cui sappiamo anche la data…PAVESE 1

In un libro intitolato IL SENSO RELIGIOSO, che molti amici stanno leggendo in questi giorni, si parla di uno scambio epistolare tra Cesare Pavese e una giovane professoressa che stava traducendo per lui dal greco i capolavori di Omero, Iliade e Odissea. Lei viene colpita da ciò che scrive Pavese nel doppio romanzo autobiografico “Prima che il Gallo canti”, e in particolare dal cap. XV di “La casa in collina” ove lo scrittore confessa la propria “esigenza religiosa”. Lui le risponde che questo è “il punto infiammato, il locus di tutta la sua coscienza”.


Qualche tempo fa ho approfondito il FATTO VERO, cioè l’incontro accaduto a Pavese all’inizio del 1944. Lo racconto in quattro post a partire da oggi [il mio mini-saggio su Pavese è a stampa nel libro “L’io spezzato e la domanda di assoluto”, edito da Itaca]


Nel cap. XV Corrado [alter ego di Pavese] si sente “braccato”, cerca un luogo in cui nascondersi. Sa di gente che si è rifugiata nei conventi e nelle chiese… “Un ritorno all’infanzia, all’odore d’incenso, alle preghiere e all’innocenza?”. Per la sua ideologia in quei luoghi dovrebbero esserci solo i “fastidiosi borbottii” di vecchi bigotti; e se invece proprio lì egli potesse sentire, “con le palme sul viso, calmarsi il battito del cuore?”. Quindi gli accadde un primo evento, tutto interiore: “Ricordo che stavo traversando una piazza, e il pensiero mi fece fermare. Trasalii. Fu quella una gioia, una beatitudine inattesa. Pregare, entrare in chiesa, è vivere un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue”. Vede una chiesa e ci entra. “C’era in fondo, sotto l’altare, un lumicino rosso; nei banchi, nessuno. Fissai gli occhi a terra e ripensai quel pensiero, volli rigodere la gioia e la certezza della pace improvvisa. Non mi riuscì”. Avvenimento: accade quando accade, non a comando. “Non parlai con nessuno di quell’attimo, di quello sgorgo di gioia”. Solo con Cate – colei che era stata la sua donna – Corrado prova ad aprire il discorso, ma per lei che ha una posizione ideologica è appunto un “discorso”. Invece per lui “crederci bisogna. Se non credi in qualcosa non vivi. … Siamo tutti malati che vorremmo guarire. È un male dentro… Uno che prega, quando prega è come sano”. Ma lei taglia corto: “Pregare non serve”. Qualche giorno dopo i tedeschi arrestano Cate e gli altri amici. Corrado vede la scena dall’alto. “Si udì il canto di un gallo, strepitoso e lontano” (cap. XVI). Il “gallo” che è nel titolo del libro. 

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PAVESE 2

Nel romanzo “La casa in collina” Cesare Pavese dice che un giorno al protagonista Corrado (alter ego del Narratore) di fronte ad una chiesa accadde di vivere “un attimo di beatitudine inattesa, uno SGORGO DI GIOIA”. Si tratta della rielaborazione letteraria di un’esperienza veramente accaduta in un preciso giorno a Pavese. Ne “Il mestiere di vivere” – il suo diario segreto, pubblicato postumo – egli annota il 29 gennaio ’44: “Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto goder sempre quello SGORGO DI DIVINITÀ. È questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di esser fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di amore, un mancamento al barlume di questa POSSIBILITÀ. Forse è tutto qui: in questo tremito del «se fosse vero!» se davvero fosse vero”. Il 1° febbraio aggiunge: “Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di gratitudine, di aspettazione”. Dal dicembre ’43 fino alla Liberazione, nell’aprile ’45, Pavese fu per ben sedici mesi ospite dei padri Somaschi nel collegio Trevisio di Casale Monferrato. Di mattina studiava e scriveva, di pomeriggio dava ripetizioni di latino e greco ai ragazzi. Taciturno e diffidente, mantenne le distanze con tutti, ma non con il padre Giovanni Baravalle, un giovane gioviale sacerdote soprannominato padre Felice. Anzi fra i due crebbe una cordiale amicizia, che culminò in un evento ignoto ai più.

Lo racconto domani…

Domani vedremo che a Pavese accadde un “incontro”, di cui sappiamo anche la data…

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 In un’affollatissima sala milanese, a quarant’anni dalla morte dello scrittore, padre Giovanni Baravalle ha raccontato: “La sera del 29 gennaio ’44 me ne stavo nella cappella del collegio a recitare il breviario. Ero concentrato sul libro. Improvvisamente qualcuno entra nel locale, camminando in punta di piedi, e si siede sulla panca al mio fianco. Vado avanti qualche istante a leggere e intanto con una sbirciata mi accorgo che quella persona è il professore [Cesare Pavese], l’aria disperata, la testa fra le mani. Improvvisamente mi dice: «Padre, ho bisogno di lei. Mi aiuti». Comincia a parlare senza più fermarsi per due ore, mi racconta la sua vita. Si sfoga e alla fine mi chiede: «Che cosa può fare per me?». «In nome di Dio le posso dare il perdono e l’assoluzione, purché lei sia pentito dei suoi peccati». «Sì – risponde Pavese – se ho offeso Dio voglio chiedergli perdono delle mie colpe». Finalmente lo assolvo; passa qualche secondo e lui, vinto un moto di esitazione, mi pone un’altra domanda: «E come faccio a fare la Comunione? Io non so più come si fa». «Non si preoccupi; domattina alle sette lei si trovi qui. La cappella è deserta, finisco di celebrare la Messa nella cappella pubblica e vengo qui: io le do la comunione e lei non deve preoccuparsi di cerimonie o altro». L’indomani Pavese arriva puntuale e riceve il sacramento”. È un evento che rimane inciso nella memoria. Annoterà ne “Il mestiere di vivere” il 12 gennaio ’48: “Perché quando riesci a scrivere di Dio, della gioia disperata di quella sera al Trevisio, ti senti sorpreso e felice come chi giunge in paese nuovo?”. Lo “sgorgo” di gioia coincide proprio con la sorprendente novità accaduta quella sera.

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