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giovedì 30 maggio 2019

Citazioni di Padre Pino Puglisi


L’amore.
«
Solo se si è amati si può cambiare; è impossibile cambiare se si è giudicati. Si può contribuire a cambiare qualcuno solo se gli si esprime il proprio amore, e nel proprio amore gli si dice: appunto perché ti voglio bene così come sei, desidero per te che tu cambi.»
Il Signore sa aspettare.
«Nessun uomo è lontano dal Signore.
Il Signore ama la libertà, non impone il suo amore.
Non forza il cuore di nessuno di noi.
Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere.
Lui bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto si aprirà.»
Il senso della vita.
«Ognuno di noi sente dentro di sé una inclinazione, un carisma.
Un progetto che rende ogni uomo unico e irripetibile.
Questa chiamata, questa vocazione è il segno dello Spirito Santo in noi.
Solo ascoltare questa voce può dare senso alla nostra vita.»
Ho fatto del mio meglio.
«Bisogna cercare di seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d’amore.
Ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea, già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di avere accolto l’invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio
Come le tessere di un mosaico.
«Pensiamo a quel ritratto di Gesùraffigurato nel Duomo di Monreale.
Ciascuno di noi è come una tessera di questo grande mosaico.
Quindi tutti quanti dobbiamo capire qual’é il nostro posto e aiutare gli altri a capire qual’è il proprio, perché si formi l’unico volto del Cristo.»
Le parole e i fatti.«E’ importante parlare di mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi. Non ci si fermi però ai cortei, alle denunce, alle proteste.
Tutte queste iniziative hanno valore ma, se ci si ferma a questo livello,
sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti.»
Dio ci dà forza.
«L’amore per Dio purifica e libera. Ciò non vuol dire che veniamo spersonalizzati ma, anzi, la nostra personalità viene esaltata e potenziata, cioè viene data una nuova potenzialità alle nostre facoltà naturali, alla nostra intelligenza. Viene data una luce nuova alla nostra volontà.»
Se ognuno fa qualcosa.
«Le nostre iniziative e quelle dei volontari devono essere un segno.
Non è qualcosa che può trasformare Brancaccio.
Questa è un’illusione che non possiamo permetterci.
E’ soltanto un segno per fornire altri modelli, soprattutto ai giovani.
Lo facciamo per poter dire: dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa.
E se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto…»
La testimonianza che diventa martirio.
«Il discepolo di Cristo è un testimone.
La testimonianza cristiana va incontro a difficoltà, può diventare martirio.
Il passo è breve, anzi è proprio il martirio che dà valore alla testimonianza.
Ricordate San Paolo: “Desidero ardentemente persino morire per essere con Cristo”. Ecco, questo desiderio diventa desiderio di comunione che trascende persino la vita.»

mercoledì 29 maggio 2019

Alessandro D’Avenia: «Incanto, fragilità e speranza. Ecco quello che ho imparato da Leopardi»



Alessandro D’Avenia: «Incanto, fragilità e speranza. Ecco quello che ho imparato da Leopardi»



Alessandro D'Avenia: «Incanto, fragilità e speranza. Ecco quello che ho imparato da Leopardi»
L’Infinito di Leopardi il 28 maggio ha compiuto 200 anni. Migliaia di studenti a Recanati, dov’è nato il poeta, e in contemporanea in molte piazze, scuole, biblioteche e carceri di tutta Italia e all’estero hanno partecipato al flashmob #200infinito organizzato dal Miur. Con loro, in piazza Sabato del Villaggio, c’erano il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti e la contessa Olimpia Leopardi, ideatrice dell’iniziativa.
Alessandro D’Avenia, come ha onorato la giornata?
«Seguendo le istruzioni dell’Infinito: l’infinito si trova dove sono le cose più “care”. Per lui il colle e la siepe, per me la scuola: quindi ore con i miei studenti, tra correzione di compiti, lavoro con i colleghi e versi danteschi. E poi mi hanno invitato a premiare tre bambini di quinta elementare che avevano partecipato al concorso di narrativa per le quinte della scuola. In ognuna di queste cose ho trovato un po’ del mio infinito quotidiano».
Con il suo libro «L’arte di essere fragili: come Leopardi può salvarti la vita» (Mondadori) non solo ha venduto migliaia di copie, ma ha riempito i teatri di ragazzi. Qual è l’incantesimo di Leopardi, dopo due secoli?

«Non è un incantesimo, ma un incanto. L’incantesimo lancia una menzogna sulla realtà, l’incanto svela la bellezza imprigionata nella realtà. Il suo segreto è racchiuso nel titolo del libro: c’è un’arte di vivere che è proprio l’arte di essere fragili. Per il poeta il limite non è una condanna, ma una sfida, non è un alibi per ritirarsi, ma un destino da trasformare in destinazione. Un toccasana per un tempo illuso che non ci siano limiti o che vadano rimossi. Solo la piena accettazione della nostra condizione finita ci apre all’infinito, la scoperta dell’essere relativi ci apre a relazioni autentiche».
Perché Leopardi è stato così importante nella sua formazione e qual è l’insegnamento più grande che ne ha tratto e che cerca di trasmettere ai suoi studenti?

«Che la bellezza ha l’ultima parola e non il nulla. Leopardi ha posto la bellezza come baluardo contro la tentazione del nulla che conosceva bene. Non si crea nulla se non si spera, e la lezione di Leopardi è proprio questa: creare contro ogni speranza. La ginestra, il suo testamento, fiorisce nel deserto, lo “consola e profuma”, non rinuncia al suo compimento, trasforma la materia che la vita le offre in bellezza. Proprio in questa poesia Leopardi usa l’aggettivo “frale” (fragile) per indicare i cespugli di ginestra, un aggettivo presente nei Canti solo un’altra volta, nel Canto notturno del pastore errante che si definisce “esser frale”. In questo nostro tempo in cui sembra esser titolato a vivere solo chi è perfetto, Leopardi ci riporta alla realtà: è veramente vivo chi abbraccia tutta la sua verità e la vive come compito, chi è presente non chi è prestante, chi non smette, come Leopardi e il suo pastore errante, di chiedersi: “Ove tende questo vagar mio breve?”»

lunedì 27 maggio 2019

Vanità di vanità

Vanità di vanità

Vanità di vanità.
Ogni cosa è vanità.
Tutto il Mondo, e ciò che ha
Ogni cosa è vanità.
Se del mondo i favor suoi
T’alzeran fin dove vuoi.
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se regnassi ben mill’anni
Sano, lieto, senz’affanni.
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se tu avessi d’ogn’intorno
Mille servi, notte e giorno,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se tu avessi più soldati
Che non ebbe Serse armati,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se tu avessi ogni linguaggio,
E tenuto fossi saggio,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se starai con tutti gli agi,
Nelle Ville, e ne’ Palagi,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
E se in feste, giuochi e canti
Passi i giorni tutti quanti,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Sazia pur tutte tue voglie
Sano, allegro e senza doglie,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Dunque a Dio rivolgi il cuore,
Dona a lui tutto il tuo amore,
Questo mai non mancherà,
Tutto il resto è vanità.
Se godessi a tuo volere
Ogni brama, ogni piacere,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se tu avessi ogni tesoro
Di ricchezze, argento ed oro.
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se vivessi in questo mondo
Sempre lieto, ognor giocondo,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se lontan da pene e doglie
Sfogherai tutte tue voglie,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se qua giù starà il tuo cuore
Giubilando a tutte l’ore,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Dunque frena le tue voglie,
Corri a Dio, che ognor t’accoglie,
Questo mai non mancherà.
Tutto il resto è vanità.
(San Filippo Neri. Da Giuseppe De Libero, Vita di S. Filippo Neri, Apostolo di Roma, Ed. Oratorio di Roma, 1960, pp.191 s.. Testo raccolto a cura di Giuliano Zoroddu)

venerdì 24 maggio 2019

beatitudini del politico

alcune riflessioni sul profilo morale del politico elaborate dal cardinale Van Thuân, allora presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.
Sono le “beatitudini del politico”:
***
1º – Beato il politico consapevole del proprio ruolo.
2º – Beato il politico di cui si rispetta l’onestà.
3º – Beato il politico che lavora per il bene comune e non per il proprio.
4º – Beato il politico che si ritiene fedelmente coerente e rispetta le promesse elettorali.
5º – Beato il politico che costruisce l’unità, e facendo di Gesù il suo centro la difende.
6º – Beato il politico che sa ascoltare il popolo prima, durante e dopo le elezioni.
7º – Beato il politico che non ha paura, soprattutto della verità.
8º – Beato il politico che non ha paura dei media, perché al momento del giudizio dovrà rispondere solo a Dio.

venerdì 17 maggio 2019

Una domanda a cui non so rispondere

Una domanda a cui non so rispondere

***


Alcuni brani dello scrittore scomparso venticinque anni fa



di Fabio Pierangeli
Nostalgia del cristianesimo. Passione e morte. Come se, con le lucciole che scompaiono davanti al cemento delle città, possa morire anche quell’antica tradizione, legata al «paese di temporali e primule», alla civiltà contadina. 
«Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, / dalle chiese, / dalle pale d’altare, / dai borghi [...] E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più»1 (Pier Paolo Pasolini, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa). 
Non poco dell’opera di Pier Paolo Pasolini (nato a Bologna nel 1922, ma intimamente legato ai luoghi nativi della madre, il Friuli, il «paese di temporali e primule» dove visse alcuni anni fino al 1950) attinge a queste immagini: 
«Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire. Ed è volgare, / questo non essere completo, / mai fui così volgare come in questa ansia, / questo “non avere Cristo” – una faccia / che sia strumento di un lavoro non tutto / perduto nel puro intuire in solitudine» (Poesia in forma di rosa). 
Lontanissima eco di quel paese religioso, Pasolini la riconosce, fino alla metà degli anni Sessanta, nelle strade violente della borgata romana. Era arrivato nella capitale nel 1950, in misere condizioni economiche. Aveva dapprima abitato nel ghetto ebraico, a piazza Costaguti, poi nelle borgate accanto all’Aniene e in seguito, una volta risolti i problemi economici, a Monteverde. 
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fotografato nella sua casa romana
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fotografato nella sua casa romana
«Stella, stella guidaci nel cammino», dice Accattone, nel film omonimo, incontrando per la prima volta la ragazza (attrice friulana) che porta quel nome. Il suo sguardo, rivolto alla bionda Stella, smagato, furbetto, rassegnato, malizioso conserva per il regista una qualche autenticità creaturale, estranea alla grande omologazione. Non a caso Pasolini prova a più riprese ad ambientare tra quelle baracche, specie al Mandrione, nella Mortaccia e poi nella Divina mimesis, un poema, sulle tracce della Divina Commedia, omaggio all’amatissimo Dante. Non ci riuscirà. 
Al di fuori di questo mondo del sottoproletariato, l’orribile e «volgare» mancanza si avverte a tutti i livelli, creando abnormi situazioni di noia e crudeltà. Come nelle sei tragedie, culmine, sia pur artisticamente debole, della violenta critica al mondo borghese, alla società del capitale e dell’interesse. 
L’uomo è solo con se stesso, onnipotente, macabro, orgoglioso. Squallidamente annoiato dalle sue trasgressioni, come in Orgia. La ragione diventa follia, fissazione su un particolare, magari del passato, che non ritorna come si vorrebbe, non avendo più alcuna apertura alla realtà delle cose, come nel rapporto tra padre e figlio in Affabulazione. Niente accade di nuovo: è il segno del «vuoto volgare» che nei più intelligenti personaggi di Pasolini diviene appunto nostalgia di un avvenimento presente di novità. 
Già riassuntivi i versi del poemetto Pietro II, del 1963, poi raccolti in Poesia in forma di rosa
«Il sangue di Cristo si è fatto ceralacca, / la ceralacca polvere, la polvere omissis. / Non una parola, o un accenno, o uno sguardo, / ah, uno sguardo, sono cristiani, per chi / ha l’abitudine, poco civile, certo, e un po’ angosciosa, / di richiedere questo a uno che parla, a uno che guarda. / Ah, dolce religione, del resto tante volte tradita, / nell’uomo in cui ti sei inaridita, nasce la pazzia [...] L’io soffre / un’inestetica erezione: ha per sé un amore infelice [...] Dove il Cristianesimo / non rinasce, marcisce. E, contraddizione / mille volte, mille volte allusa / dal mio Cristo irriducibile, / finisce difeso da qualche Erodiano impazzito / macabramente privo di senso del ridicolo». 
Del 1968 è Teorema, film e romanzo, ambientato a Milano. Pasolini pretende di inventare lui un dio carnale, l’Ospite. Anche artisticamente è fuori strada. La figura rimane irrisolta, la favola illusoria. Meglio riuscita la seconda parte, dove i personaggi, abbandonati dal dio che li aveva posseduti carnalmente, recitano diversamente la loro malinconia, fino a capire di abitare il deserto, pieni di una domanda, di un urlo straziante: 
«IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE. / [...] È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo». 
Invocare l’attenzione di qualcuno che non si conosce e di cui si avverte il desiderio e la nostalgia. Dei movimenti e delle situazioni del romanzo l’urlo qui richiamato è ciò che resta più impresso. 
Nel film Teorema le immagini rendono ancor più plasticamente la potenza dell’urlo finale. Sono fotogrammi che richiamano un altro finale quello del Vangelo secondo Matteo, racconto fedele di un fatto storico. 
Nei finali dei due film citati la cinepresa sorprende il correre di uomini; la corsa solitaria e disperata di Paolo, protagonista di Teorema, nella cui pelle traspare la sabbia del deserto e il riflesso della luce, cielo e sudore, e la cui voce consegna al vento l’urlo disperato, anche oltre la parola fine. E la corsa stupita degli apostoli verso Gesù Cristo risorto che pronuncia una frase affascinante e commovente che abbraccia e dà respiro, completamente sorprendendola, alla genialità poetica dell’uomo: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». 
«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Quello che interessa è solo il presente. 
«Caro Dio, / liberaci dal pensiero del domani [...] Caro Dio, / l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani [...] Caro Dio, / facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi» (Preghiera su commissione, in Trasumanar e organizzar). 
«Dà angoscia il vivere di un consumato amore» (Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci), o di una rappresentazione, di una favola, di un sublime racconto (di fronte a cui è più sincera la ragione goliardica dei film picareschi, fino alla boccaccesca Trilogia della vita). Pasolini è come se volesse rivivere gli incontri evangelici in prima persona, chiamando amici e scrittori intorno a sé a recitare quell’evento. Perfino la madre dello scrittore interpreta la Madonna nel Vangelo secondo Matteo
In una lettera del 27 dicembre 1964 a don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi, visitando la quale trovò spunto per il Vangelo secondo Matteo2, Pasolini scrive: 
«Sono bloccato, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere»
La Grazia: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Anche oggi, in un mondo in cui la grande omologazione, venticinque anni dopo quella notte tra il 1º e il 2 novembre all’idroscalo tra Ostia e Fiumicino in cui Pasolini fu ucciso, è trionfante. 
«Dà angoscia il vivere di un consumato amore»: profonda e poetica saggezza umana. Attesa. Lo ha scritto Patrizio Barbaro. In Pier Paolo PasoliniBiografia per immagini
«“La vita finisce dove comincia”, ha scritto Pasolini. È una speranza. La vita comincia quando vi irrompe una novità bella e felice, una cosa imprevedibile e inaspettata. Allora la vita comincia nuova e tutto quello che c’era prima diventa subito irrimediabilmente vecchio, passato, nostalgia. Finisce. Ecco perché la vita finisce dove comincia. È un augurio. Che la vita cominci. Che accada un inizio» (p. 192). 
Credo che Patrizio (scomparso nel ’99, il 29 settembre, come papa Luciani) ci guardi dal Paradiso. 
Amava (ama) la realtà, il presente. E quindi Pasolini e i poeti. Non viceversa. Grato di quel dono semplice di aver intravisto nello sguardo di un amico l’accenno di una luce e di una speranza, anche dentro il tempo della malattia. 
Poco prima di morire, sapendo di morire, ha scritto queste altre parole, sullo sguardo («ah, uno sguardo»), tema caro al cinema di Pasolini: 
«L’occhio guarda, per questo è fondamentale. È l’unico che può accorgersi della bellezza. La visione può essere simmetrica lineare o parallela in perfetto affiancamento con l’orizzonte. Ma può essere anche asimmetrica, sghemba, capricciosa, non importa, perché la bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Ma che certe volte si sveli non c’è dubbio [...]. Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio». 


Note 
1 La poesia è letta da Orson Welles nella Ricotta di fronte ad un giornalista. 
2Si veda a questo proposito la testimonianza di Lucio Caruso su 30Giorni del novembre 1994.

giovedì 16 maggio 2019

Vedere La Bellezza

Vedere La Bellezza: Una Citazione Non Di Pasolini, Ma Di Patrizio Barbaro

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Marzo 24, 2013
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L’occhio guarda, per questo è fondamentale. È l’unico che può accorgersi della bellezza. La bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla”.
Cominciava così una pagina su Pier Paolo Pasolini e la Bellezza che avevamo pubblicato nel 2012 sulla Voce della Bellezza. In realtà, qualche mese dopo ci era arrivata una precisazione: si trattava in relatà di un testo scritto da Patrizio Barbaro in memoria di Pier Paolo Pasolini, caro amico di Patrizio.
“Pasolini mi piace molto –  ci ha scritto Gabriele, a sua volta caro amico di Patrizio –  anche perchè ha uno sguardo penetrante sulla realtà. E molti suoi pensieri rimangono attuali. La citazione che fai però non è di Pasolini, ma di Patrizio Barbaro, un caro amico scomparso prematuramente, a poco più di quarant’anni, il 29 settembre 1999.
Di lui ho trovato questo ricordo di Andrea Gareffi, docente presso l’Università di Tor Vergata:
“Il 29 settembre del 1999, festa degli arcangeli, muore il caro amico Patrizio Barbaro, a poco più di quarant’anni. Nella sua memoria, questo blog (Icipit – Associazione Testori) ha avuto “inizio”.  Regista e giornalista, collaboratore di Vita e dell’Associazione Testori (la morte lo ha sorpreso prima di poter collaborare alla Biografia per immagini Gribaudo di Testori, nella collana nella quale aveva regalato immagini e parole su Calvino, Pasolini, Quasimodo, Gadda) aveva portato la Rai in università, per filmare gli incontri con gli scrittori, e firmato tra i tanti altri tre documentari bellissimi su Pratolini, Calvino, Pasolini e i loro luoghi.”
Le parole di Andrea Gareffi (docente a Tor Vergata di Letteratura italiana), in memoria dell’amico prematuramente scomparso, si leggono nel libro di Patrizio Barbaro “Sperdutezza” edizioni dell’Associazione San Gabriele che Andrea Gareffi ha introdotto, toccando le corde più essenziali dell’esistenza umana.
Su Internet ci sono molti che attribuiscono le due citazioni che seguono a Pier Paolo Pasolini, ma è un errore, sono parole scritte da Patrizio Barbaro.
L’occhio guarda, per questo è fondamentale. È l’unico che può accorgersi della bellezza.
La visione può essere simmetrica, lineare o parallela, in perfetto allineamento con l’orizzonte. Ma può essere anche asimmetrica, sghemba, capricciosa, non importa, perché la bellezza può passare per le più strane vie anche quelle codificate dal senso comune. E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla dipende da dove si svela. Ma che certe volte si sveli, non c’è dubbio.
Ecco perché bisogna stare dalla parte dell’occhio, l’occhio che osserva scruta i dettagli e l’orizzonte insieme, vede le piccole e le grandi cose, il gesto minimo e l’azione prolungata”
“E la cecità allora? No, la cecità non è un problema, almeno fino ad un certo punto. Il cieco vede gli odori, riconosce i movimenti dell’aria, si accorge con la sua sensibilità. Perché la bellezza quando appare, sposta tutti i sensi e si sa anche far ascoltare. No, la cecità non è un problema.
Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esiste. Ma sul deserto delle nostre strade, Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio.

domenica 12 maggio 2019

La vita felice di Jean




La vita felice di Jean ***È morto a 90 anni Jean Vanier, fondatore della Comunità dell'Arca. Nel 2016 Tracce lo aveva intervistato. Così raccontava come dall'incontro con due malati mentali è nata una storia «che non mi sarei mai aspettato»
Maurizio Vitali 
Jean Vanier è uno dei più grandi testimoni della carità cristiana della nostra epoca. Nasce a Ginevra da famiglia canadese nel 1928. Il padre, eroico generale della Prima Guerra mondiale, era divenuto ambasciatore e infine governatore generale del Canada. Jean, ancora giovanissimo, è ufficiale della Royal Navy britannica e poi della Marina canadese; poi professore di Filosofia a Parigi e Toronto; infine lascia ogni carriera, crea una piccola comunità con due malati mentali gravi, e va a vivere con loro in un villaggetto della Piccardia, Nord-Est della Francia, Trosly-Breuil. È il 1964, ed è nata L’Arca, che ora è una rete di 140 comunità sparse nei cinque Continenti, in cui gente reietta dalla società convive a tempo pieno con altra gente che la accoglie. Jean ha dato vita anche a Fede e Luce, movimento con gli stessi ideali dell’Arca vissuti in incontri, ritiri spirituali, vacanze insieme, che oggi conta 1.500 gruppi nel mondo. 
A quasi 88 anni, il vecchio leone della carità appare ancora alto e imponente come una quercia, solo un po’ incurvato dagli anni, mite e affettuoso - si direbbe misericordioso - come un buon padre. 
«Comunione e Liberazione!», è il suo abbraccio mentre apre il cancelletto della stessa sua casetta di mezzo secolo fa. Vanier ha girato il mondo, incontrato Papi, santi, Capi di Stato, ricevuto onorificenze prestigiose. Ma vive ancora in quelle due stanzette, una cucina e uno studiolo, che ricordano tanto dove viveva don Giussani in via Martinengo, periferia sud-est di Milano. «Le père Giussani! Che anno era?». «Il 1998». Vanier porta indelebile il ricordo di quella testimonianza sul mendicante protagonista della storia davanti al Papa. «Era già malato, vero?». Sarà che quella figura, il mendicante, “legge” la sua vita e la sua opera. 
Per parlare della Misericordia «devo per forza raccontare la mia esperienza», dice: «Un’esperienza assolutamente sorprendente, che mai mi sarei aspettato». Tutto accadde nel 1963, quando il giovane professore ebbe l’occasione di visitare un “istituto” dove erano rinchiusi 80 malati mentali. Insomma, un manicomio. «Un luogo spaventoso, pieno di violenza; dove quelle persone non erano trattati da uomini». Vorrebbe poter buttare all’aria quella situazione vergognosa, cambiare tutto; ma il mare del bisogno è così sconfinato che lo lascia smarrito. Ed ecco il fatto sorprendente: l’incontro con due di quei poveretti, Raphaël e Philippe, gli fa intuire una strada. Decide di condividere la vita con loro. «Ecco: la Misericordia è un incontro». 

Il dove e il come. Jean non aveva mai saputo acquietarsi in attività che pur amava e svolgeva con profitto. «Io volevo seguire Gesù ma non avevo ancora trovato la mia strada. Avevo come la sensazione che ci fosse qualcosa d’altro che Gesù voleva da me. Ma non conoscevo il dove e il come». E come ha capito che quell’incontro era la Misericordia, era quello che cercava? «Perché ci siamo trovati felici. Loro due felici per essere stati liberati dal manicomio e dalla disumanità, per essersi scoperti persone con un valore; io felice perché il Signore mi aveva mostrato la strada, la mia vocazione». 
Quella di Jean è una rivoluzione prodotta da una fede che abbraccia l’umano. All’epoca, ovunque nel mondo, i malati di mente venivano messi in manicomio: «Reietti e isolati perché considerati una vergogna per i genitori e un disturbo per la società, e perché il loro handicap era visto come una punizione di Dio», spiega Vanier. Perché proprio a Trosly? Lì viveva un prete amico di Jean ed esisteva un ambulatorio messo su da bravi psichiatri. «Potevo avere sostegno spirituale e sostegno sanitario».
La vita straordinaria e felice di Jean è l’umile vita di condivisione dei piccoli gesti quotidiani, come fare la spesa, tenere in ordine la casa, cucinare, impostare dei lavori, fare della formazione, tenere buoni rapporti con i vicini. E, naturalmente, seguire le cure. «Ho scoperto la verità delle parole di Gesù riportate in Luca 14: quando date un banchetto, non invitate i familiari, i vicini ricchi, gli amici ma i poveri, gli storpi, gli infermi e i ciechi e sarete felici. La gioia è stato il primo sintomo, il primo documentarsi della Misericordia». Arrivarono anche persone molto difficili, violente: non c’è stato nulla di facile nella storia dell’Arca. «Ma la Misericordia, che ha accompagnato tutta la mia vita, ha permesso che l’opera andasse avanti». 
Vanier pensa a papa Francesco, per il quale ha un’ammirazione grandissima, al suo ripetuto invito ad andare verso le periferie dell’esistenza, stare a contatto con i poveri, «incontrarli e imparare da loro». E lei, Jean, che cosa ha imparato? «Che gli uomini poveri, umili, emarginati o deviati, hanno un cuore sano e aperto; il loro grande bisogno è sapere che c’è qualcuno che li ama. Solo questo può contrastare lo scoraggiamento, il senso di non avere valore, l’odio contro Dio e contro se stessi».
Incontro, parola che ritorna sempre nel racconto e nella riflessione di Vanier. È la parola che discrimina il far qualcosa per gli altri dalla condivisione. Spiega con un episodio recentissimo. «Ieri sera il direttore di una nostra comunità in Australia mi ha raccontato che, attraversando un parco, si è imbattuto in un uomo che stava morendo per overdose. Si è fermato per soccorrerlo. E l’ha riconosciuto perché tempo addietro aveva avuto a che fare con la Comunità dell’Arca. L’ha preso tra le braccia; e quello gli ha mormorato: “Tu hai sempre voluto cambiarmi, non hai mai voluto incontrarmi”».
Che cosa, nel mondo di oggi, si oppone maggiormente alla Misericordia? Vanier non ha dubbi: la separazione e la paura; i muri di divisione che gli uomini erigono. Quello che imprigiona Betlemme; i reticolati per respingere i profughi e i disperati; ma anche i muri di estraneità umana e sociale. Come ha visto a Santiago del Cile: «La strada dall’aeroporto alla città scorre tra bidonville miserrime tutte poste alla sinistra e quartieri di gente ben presidiati e protetti dalla polizia, dall’altra parte; e nessuno che attraversi mai quella strada». Di nuovo il pensiero a papa Francesco: «La separazione è ciò che preoccupa di più il Santo Padre. Tant’è che il suo Pontificato, come già quello di Giovanni Paolo II, è una grande opera di incontro e di unità, di costruzione di ponti».
Alla domanda se non gli pare che la Chiesa di oggi abbia bisogno di riscoprire la Misericordia, il vecchio patriarca risponde sospirando un «eh, non è facile». E racconta del priore di un convento, che è stato sempre educato ad essere in ogni cosa il primo: il migliore negli scout, il primo della classe, il monaco dell’ordine religioso che si ritiene il migliore. Tutto perfettamente riuscito e perfettamente clericale: «Ma il comandamento di Gesù è altra cosa. Dice: siate misericordiosi». 

La dottrina e l’errore. Nella Chiesa di oggi c’è chi oppone la Misericordia alla Verità, e ritiene che essere “compassionevoli” - per esempio con i gay o i divorziati, o con chiunque abbia sbagliato - sia una negazione della retta dottrina e una connivenza con l’errore. «Costoro pretendono di essere perfetti perché proclamano una dottrina perfetta», commenta Vanier: «Ma alla prostituta, al ladro, al malato di mente, all’omosessuale, hanno mai parlato? Lo hanno mai accostato, ascoltato? Lo so, non sempre si trova la soluzione ai problemi. Ma non si può partire che dall’incontro tra me e te, tra un io e un tu». 
Vanier non mette affatto in discussione la retta dottrina. In materia sessuale, per esempio, ha scritto un libro il cui titolo non lascia dubbi: Maschio e femmina li creò; men che meno sottovaluta la necessità della legge. «La Misericordia non toglie nulla della legge». E racconta di una ragazza, accolta all’Arca, proprio a Trosly, con handicap mentale grave, un braccio paralizzato e con comportamenti sempre molto violenti. «Lei è così perché per tutta la vita è stata rifiutata ed emarginata: dai genitori, dalla scuola, dai compagni. Avrebbe potuto diventare depressa, invece che violenta, dicono gli psichiatri, e non avrebbe disturbato. Invece è violenta, e la sua violenza è un’invocazione a qualcuno che le voglia bene incondizionatamente. A che le giova che uno l’accosti proclamando la dottrina e la legge, senza incontrarla realmente?».

La gente “normale”. La Misericordia può avere, dunque, una forma di incidenza sociale? Può essere addirittura un criterio della politica o della diplomazia internazionale? «Certo. Ci sono nel mondo Comunità dell’Arca in cui convivono israeliani e palestinesi, cristiani e musulmani. E sono un segno e un principio di cambiamento grande. E che dire dell’azione del Papa e della Santa Sede? Che spettacolo l’incontro di Francesco con il patriarca Kirill! Lo so, non sono mancate le critiche, ma quello è un frutto della Misericordia che cambia la storia».
Jean, lei parla sempre dei più sfortunati, bisognosi della Misericordia. E gli altri, quelli che stanno bene? «Ne hanno bisogno ancora di più, perché sono diventati indifferenti e cinici. Ho conosciuto un banchiere che era così. Uomo di successo in tutti i campi. Finché sua figlia ha manifestato una grave malattia mentale, e allora lui si è sentito del tutto perso. Solo quando ha incontrato altri con problemi simili al suo, e ha trovato in loro un appoggio amichevole, ha iniziato a scoprire la Misericordia, cioè la verità di se stesso». Ma poi chi l’ha detto che la gente normale sia felice? Quanti sono feriti dentro e fanno mostra di stare bene... «Nascondono la ferita. Invece bisogna accoglierla, la ferita; è il dono che ci aiuta a riconoscerci come siamo, poveri e bisognosi di tutto. E Dio ascolta il grido del povero».

domenica 5 maggio 2019

Erba della Madonna, una pianta per la chirurgia







Erba della Madonna, una pianta per la chirurgia


In fitoterapia è possibile utilizzare la pianta medicinale secondo varie modalità estrattive, e questo in relazione al tipo di sostanze che vogliamo estrarre ed utilizzare ai fini curativi. Esistono tuttavia dei limiti oggettivi della tecnologia farmaceutica. Talvolta infatti non è possibile estrarre i principi attivi più utili oppure non è possibile mantenerli attivi nel tempo, ad esempio dentro ad una capsula per uso orale o in un gel per uso esterno.
di Fabio Firenzuoli
Un esempio molto concreto ci è offerto dal Sedum. Chiamata anche Erba della Madonna, il Sedum è una pianta grassa alla quale la medicina popolare riconosce virtù emollienti, antiinfiammatorie, antidolorifiche e cicatrizzanti. Il suo nome botanico è Sedum telephium, ed appartiene alla famiglia delle Crassulaceae, e la pianta viene anche coltivata a scopo ornamentale.
Fu un monaco di Vallombrosa, Fulgenzo Vitman, docente anche di botanica farmaceutica, a descrivere per primo le proprietà curative della pianta. E nel 1770 infatti scriveva:
ulcera detergit, ad cicatricem perducit, tumorem suppurationem promovet et dolores mitigat”
Quindi “deterge, favorisce la cicatrizzazione, rimuove la suppurazione e riduce il dolore”, ma ancora oggi, dopo oltre 300 anni, non è stata trovata
una preparazione farmaceutica migliore della stessa foglia fresca applicata direttamente sulla lesione!
Meccanismo d'azione
Le foglie della pianta fresca, private della cuticola della faccia inferiore, vengono poste sopra le piaghe o ulcere o comunque la sede dell'infiammazione, e questa ne favorisce la detersione, favorendone la cicatrizzazione in quanto stimola il processo di granulazione a partire dai bordi. Nei processi infettivi favorisce la flogosi suppurativa, richiamando tutti gli elementi della serie bianca, responsabili dei processi di difesa. Il ultimo, ma è certamente l'aspetto più importante per il paziente, calma il dolore. Responsabili di queste attività sono i polisaccaridi ed i polifenoli presenti nelle foglie.
Indicazioni
Le attuali indicazioni sono state definite in particolare dal dottor Sergio Balatri, l'Autore moderno che ha riscoperto le virtù terapeutiche dell'Erba della Madonna, e che ha in assoluto la maggiore
esperienza nel suo impiego nella pratica clinica ospedaliera. E sono rappresentate in particolare dalla piccola patologia chirurgica ambulatoriale:
· patereccio periungueale, foruncoli, idroadenite ascellare, ascessi, mastiti
· complicazioni di ferite, ustioni, difetti di cicatrizzazione
· cisti pilonidale, cisti sebacee suppurate, fistole sottocutanee
· osteiti di piccole ossa
· ulcere flebostatiche
· ipercheratosi plantare, calli
Applicazione
La pianta viene utilizzata soltanto fresca oppure congelata: tutte le altre preparazioni, dalle tinture agli estratti di vario tipo, usati in creme, unguenti o lozioni, sono risultati totalmente inutili! E' pertanto una pianta da tenere in giardino, anche a scopo ornamentale, da usare al bisogno per la piccola patologia chirurgica accidentale domestica. La piantina può esser messa a dimora, anche esposta al sole, e le foglie devono essere raccolte nel periodo di giugno-luglio, staccate una a d una,
lavate, asciugate e messe nel congelatore. Quando servono, dopo 5 minuti di esposizione a temperatura ambiente si asporta la pellicola della pagina inferiore e si applicano sulla zona interessata, ricoprendole con un cerotto adesivo. Le foglie devono essere rimosse e sostituite dopo un periodo di 12-24 ore.
di Fabio Firenzuoli
Cautele
Talvolta si verificano reazioni dermatitiche, nel qualcaso la pelle deve essere medicata con pomata all'ossido di zinco.
Nota
Il Dottor Sergio Balatri ha utilizzato l'Erba della Madonna nella sua attività di aiuto chirurgo presso l'Ospedale San Giovanni di Dio di Firenze, ha pubblicato alcuni lavori scientifici sull'argomento, ed è attualmente segretario dell'Associazione San Giovanni di Dio http://www.dada.it/
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(l'autore è Direttore del Centro di Medicina Naturale, Scuola di
Fitoterapia clinica, Ospedale S. Giuseppe, Empoli

Il Telefio o "Erba della Madonna" o "Erba di San Giovanni"

Il grande medico naturalista Linneo la chiamò Sedum telephium, riassumendo con geniale sintesi due delle sue caratteristiche : nel genere (Sedum) il portamento "stare seduta", nella specie la sua virtù vulneraria.

Il re Telefo infatti fu curato, secondo la leggenda riferita da Plinio, di una ferita che non guariva mai alla gamba con una pianta le cui caratteristiche furono da Linneo ravvisate nella Nostra.

Fino a non molto tempo fa, mi riferisco alla mia infanzia, ricorrere a questa pianta per curare processi infiammatori superficiali era cosa naturale: mi ricordo di essere stato curato da mia madre di un "giradito" all'età di sette anni e di aver conosciuto allora la caratteristica più apprisciente dell'azione della foglia, la macerazione, o come dicevo io la "lessatura" del dito rimasto a contatto per tutta la notte con il succo della pianta.

Il patereccio periungueale (giradito) è cosa assai banale e di comune osservazione; normalmente il medico e soprattutto il chirurgo lo degnano di poca attenzione nella sua fase iniziale suggerendo al paziente, peraltro molto preoccupato per il grande dolore, di fare tutt'al più bagni di acqua salata.

Il paziente allora ricorre al farmacista che cercando nel suo armamentario lo consiglierà di usare lo steridrolo, l'ittiolo, o il cerotto dei frati ( una specialità dei monaci Vallombrosani detto cerotto di Padre Rimbotti). Può darsi che il processo infiammatorio, sotto l'azione di questi rimedi revulsivi si estingua ma può anche darsi che invece stenti oppure peggiori, costringendo il, povero paziente, che ha già passato alcune notti insonni per il dolore, a tornare dal suo medico che lo spedirà con richiesta di intervento dal collega chirurgo, oppure, cosa più frequente al più vicino Pronto Soccorso.

Dopo un periodo di attesa dei più variabili, il nostro paziente può essre sottoposto a vari trattamenti, secondo l'entità e la sede del processo che questa volta può essre francamente suppurativo. Tutti i procedimenti chirurgici prevedono interventi cruenti sulla falange che in seguito fanno ricordare questa affezione soprattutto per le atroci soffrenze.

Purtroppo, non sempre, nonostante le soffrenze la guarigione è assicurata: alcune volte il processo infiammatorio suppurativo raggiunge l'osso della falange per cui si può anche porre l'indicazione all'amputazione della medesima.

Chi scrive ha conosciuto di persona tutti questi casi e sapendo che poche applicazioni delle foglie dell'"Erba della Madonna" guariscono senza "spargimento di sangue", senza dolore e senza complicazioni questa banale affezione, non può fare a meno di raccomandarne l'uso, direi fino all'abuso, dato che non esistono controindicazioni, tranne l'allergia che peraltro si manifesta dopo alcuni giorni di applicazioni.

Il Telefio è stato usato e studiato da molti autori nel corso dei secoli, l'unico però che ne ha riassunto e sintetizzato in maniera perfetta e tutt'ora valida le sue caratteristiche è stato il medico monaco Vallombrosano Fulgenzo Vitman che nel suo "DE MEDICATIS HERBARUM FACULTATIBUS" del 1770 così ne descrisse le virtù:

"Ulcera detergit..." (deterge le ulcere): la foglia privata della cuticola della faccia inferiore, posta sopra piaghe, ulcere, necrosi cutanee, ne dissolve le parti superficiali portando in superficie il tessuto di granulazione sottostante.

"... et ad cicatricem perducit ..." ( e le porta a cicatrizzazione): di modo che l'epitelio proveniente dai margini dell'ulcera, si può finalmente distendere sul tessuto di granulazione.

"... tumorum suppurazionem promovet ..." (favorisce la flogosi suppurativa): favorisce cioè la formazione degli ascessi. E' infatti questa una notevole proprietà interessante sia sul piano terapeutico che su quello speculativo; le foglie scogelate, oppure finemente suddivise della pianta fresca, messe sopra una zona dove il processo infiammatorio sia appena abbozzato possono farlo regredire, se la sequenza degli eventi non ha ancora portato alla formazione del pus oppure possono indurre un enorme richiamo di leucociti provocando la raccolta di pus in un tempo sinceramente fuori del normale.

"... et dolores mitigat." (e calma il dolore): quarta ed ultima virtù che messa insieme alle altre, per esempio durante il processo infiammatorio, che è sempre accompagnato da più o meno intenso dolore (ascesso dentario per esempio), fa capire la ragione della sua coltivazione pressochè generalizzata in tutte le parti del mondo.

Ho riassunto tutta la storia in questolibretto , che potete liberamente scaricare.

Il 16 ottobre 2015 ho tenuto una presentazione sull'Erba della Madonna alla libreria "Todo Modo", di cui potetere guardare il video.



 

Dott. Sergio Balatri


Sedum telephium o Erba della Madonna
Enrica Campanini
Piccola pianta grassa con proprietà vulnerarie. Dalla tradizione popolare una pianta con interessanti proprietà detergenti, disinfiammanti, cicatrizzanti e analeesiche
“Fino a non molto tempo fa, mi riferisco alla mia infanzia all'Impruneta, ricorre re a questa pianta per curare processi infiammatori superficiali era cosa naturale: mi ricordo di essere. stato curato da mia madre di un giradito all'età di sette anni e di aver conosciuto allora la caratteristica più appariscente dell'azione della foglia, la macerazione cutanea,o come dicevo io la ‘lessatura del dito' rimasto a contatto per tutta la notte con il succo della pianta." Queste parole scritte dal dottor Sergio Balatri (1988) fanno riferimento a una pianta molto comune in Toscana, il Sedum telephium L., conosciuta con i nomi popolari di Erba della Madonna o erba da calli. La tradizione popolare, infatti attribuisce a questa piccola pianta grassa, appartenente alla famiglia delle Crassulaceae, interessanti proprietà vulmerarie.
Le foglie fresche e spellate erano considerate detergenti, disinfiammanti, cicatrizzanti e analgesiche ed erano impiegate topicamente per trattare ulcere, ascessi, paterecci, ecc. Alle foglie erano attribuite anche proprietà emollienti e cheratolitiche in virtù delle quali venivano impiegate, sempre per uso topico, nel trattamento delle zone ipercheratosiche plantari e dei calli. Non è un caso, quindi, che la pianta fosse conosciuta anche come erba deî calli o erba callista.ù
Il dito del calzolaio
“Nell'ottobre del 1973 si presentò al pronto soccorso dell'Ospedale S.Giovanni di Dio un calzolaio di 35 anni che presentava una ferita a un dito, evoluta in osteite, e al quale era stata prospetta l'amputazione.
A quel punto ho avuto come una folgorazione e mi è venuto in mente il Sedum,
la pianta che la tradizione popolare usava nei paterecci. lo che non mi interessavo di piante, o cose simili, di fronte a una possibile amputazione ho voluto provare il tutto per tutto. Telefonai a un vivaista che mi procurò un vasetto con la pianta e
d'accordo con il paziente gli applicai la foglia spellata sulla ferita.
Lo feci tornare il giorno dopo per cambiare la medicazione, quindi gli consegnai il vasetto con la pianta e gli raccomandai di cambiare ogni giorno la foglia.
Dopo quindici giorni la ferita guarì e il calzolaio non perse il suo dito.
Da li ho iniziato a studiare le piante”
Sergio Balatri
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Un po' di storia...
Interessante può risultare seguire il percorso del Sedum telephium nella storia della medicina. Fu il grande botanico e classificatore Linneo [XVIII sec.) ad attribuire il nome Sedum telephium alla pianta. Il vocabolo Sedum deriva dal latino sedeo = mi siedo, in allusione al portamento della pianta che si adagia al suolo, mentre telephium fa riferimento alle proprietà vulnerarie che la tradizione, soprattutto empirica, da sempre le attribuisce. Secondo Plinio (I sec. d.C.) Telefo, re di Misia, riuscì a guarire dalla ferita alla coscia che gli aveva inferto Achille con la sua lancia, grazie a una pianta che Linneo identificò appunto con il Sedum. Furono così chiamate “telefie” le ferite che stentavano a guarire, ferite per le quali la medicina del passato impiegava, a volte, le foglie fresche di questa pianta a cui riconosceva proprietà vulnerarie.
Oribasio di Pergamo, medico e compila. tore bizantino (I-II sec, d.C] nelle sue Collectiones medicae composte di 70 libri, ove raccolse quanto era noto di medicina fino al suo tempo, cita il Sedum utilizzato per curare una lesione di un polpastrello con interessamento dell'osso della falange distale a cui era seguita un'infezione [Collectiomes medicae, 13.2). Anche Galeno (Il sec. d.C.), come riportava il grande medico senese Mattioli nel suo trattato (1557), citava la pianta, preparata in aceto, affermandone l'utilità nel trattamento delle ulcere putride, della vitiligine e delle “bianche macole del corpo”, Il medico senese, però, non condivideva pienamente le indicazioni di Galeno che ritiene abbia confuso la pianta con la chelidonia minore. Segnala, tuttavia, per il Sedum che “le frondi empiastrate per ispatio di sei hore sanano le vitiligini: ma bisogna poscia fargli sopra un linimento di farina d'orzo. Il che fa anchora ungendosene insieme con aceto al sole, lavando però il luogo, come è secco il linimento."
Hieronymus Bock, detto Tragus (1498- 1554], medico e botanico tedesco, nel suo libro Krauterbuch così si esprimeva a proposito della pianta: “Viene usato esternamente per raffreddare le infiammazioni sopra qualsiasi lesione o ferita, ne allevia il dolore. Guarisce ustioni e scottature: il succo viene sbattuto con olio da insalata e usato come unguento, La foglia contusa e applicata su qualsiasi ferita fresca nella testa o nelle gambe le guarisce rapidamente, e se è legata alla gola ne guarisce l'angina; inoltre, ricompone le lacerazioni, Se si mette il succo in uno sciroppo con miele o zucchero, se ne può prendere un paio di cucchiaiate per volta per la gola dolente e l'angina".
Sarà, tuttavia, il monaco medico Vallombrosano Fulgenzio Vitman nel De medicatis herbarum facultatibus (1770) a precisare con accuratezza le proprietà terapeutiche del Sedum: "Ulcera detergit et ad cicatricem perducit, tumorum suppurationem promovet, et dolores mitigat" (deterge le ulcere e le porta a cicatrizzazione, favorisce la suppurazione e calma il dolore). Scarse sono comunque le segnalazioni relative all'impiego terapeutico della pianta e Targioni Tozzetti A, (1847) nella Materia Medica le dedica poche righe: “Le foglie mucillaginose e sugose, spogliate dell'epidermide sono emollienti, refrigeranti, e credute antiscorbutiche. Sono adoprate, per le ernie, per le bruciature e per ammorbidire i calli presso il volgo."
A parte queste sporadiche segnalazioni il Sedum cadde nell'oblio e si deve al medico fiorentino Sergio Balatri (1973) l'aver riportato alla luce, più di un secolo dopo, le qualità terapeutiche di questa piccola ma preziosa pianta. Il dottor Balatri ha utilizzato, infatti, il Sedum telephiurm nella sua attività di aiuto chirurgo presso l'Ospedale San Giovanni di Dio a Firenze e ha trasmesso i risultati della sua esperienza clinica pubblicando alcuni lavori scientifici sull'argomento dai quali è emerso come le foglie fresche presentino interessanti proprietà detergenti, disinfiammanti, cic trizzanti e analgesiche.
Le virtù terapeutiche
La prima conferma clinica delle virtù terapeutiche di Sedum telephium risale all'ottobre del 1973 quando “il dottor Balatri impiegò le foglie della pianta pet trattare un paziente con una ferita a un dito, evolutasi in osteite cronica a rischio di amputazione, resistente a ogni altro trattamento. La ferita guarì in breve tempo. Da allora il dott. Balatri ha continuato a utilizzare, con il consenso dei pazienti, le foglie di S. telephium subsp. maximum nella sua pratica medica ospedaliera per il trattamento di varie patologie cutanee, spesso di notevole entità, sfruttando la proprietà analgesica, cicatrizzante, antinfiammatoria, antibatterica e cheratolitica della pianta" (lanello G., Tesi di laurea, 2004- 2005, p. 11].
Scrive il dottor Balatri (Natom, 48, 62, 1988): “La foglia privata della cuticola della faccia inferiore, posta sopra piaghe, ulcere, necrosi cutanee, ne dissolve le parti superficiali portando in su perficie e favorendone il trofismo, il tessuto di granulazione sottostante di modo che l'epitelio proveniente dai margini dell'ulcera si può finalmente distendere sul tessuto di granulazione”,
La foglia sembra inoltre favorire la maturazione degli ascessi: “È infatti questa una notevole proprietà, interessante sia sul piano terapeutico che su quello speculativo; le foglie scongelate, oppure finemente suddivise della pianta fresca, Messe sopra un zona dove il processo infiammatorio sia appena abbozzato possono farlo regredire, se la sequenza degli eventi non ha ancora portato alla formazione del pus oppure possono indurre un enorme richiamo di leucociti provocando la raccolta del pus in un tempo molto rapido"
(Sergio Balatri, Associazione San Giovanni di Dio, Firenze, www.asgdd.it).
Gli studi del dottor Balatri hanno evidenziato che sono da utilizzare le foglie raccolte tra luglio e agosto, quando la pianta inizia a fiorire; vanno, quindi, lavate e fatte asciugare in un giorno solo; asciutte, si mettono in scatola a chiusura ermetica, nel congelatore. La tecnica del congelamento è risultata utile sia per poter disporre per tutto l'anno delle foglie fresche sia perché, dopo lo scongelamento, si riesce a togliere con facilità la pellicola della pagina inferiore e le grosse cellule del parenchima si rompono lasciando fuoriuscire il contenuto citoplasmatico; i principi attivi delle foglie sono così immediatamente a contatto con la superficie da trattare, mentre se si usa la foglia fresca, tutto avviene ugualmente, ma con più lentezza |...]
Quando è stata congelata la foglia aderisce bene e si modella su qualsiasi superficie” (Balatri S., Natom, 48, 62,




Le foglie vengono quindi applicate direttamente sulla cute lesa, fissate con un cerotto, poi rimosse e sostituite dopo 12-24 ore. È bene segnalare che dopo 4-5 giorni di trattamento si possono verificare, a volte, casi particolari di allergia, con dermatite, In questo caso si deve interrompere l'applicazione e medicare con una pomata all'ossido di zinco. Una volta controllata la reazione dermitica, il trattamento può essere ripreso.
Altre indicazioni terapeutiche segnalate dal dottor Balatri sono: idroadenite (ascellare), cisti sebacee suppuranti, complicazioni di ferite, difetti di cicatrizzazione, corpi estranei sottocu tanei, radiodermiti, tendiniti, ulcere trofiche flebostatiche delle gambe, ustioni Il grado profondo e III grado, ecc. (vedi tabella}


Difetti di cicatrizzazione
Fistole sottocutanee
Foruncoli
lidroadenite (ascellare)
Ipercheratosi (ipercheratosi plantare psoriasica)
Mastiti
Osteiti piccole ossa
Seno pilonidale
Radiodermiti
Tendiniti
Ulcere trofiche flebostatiche delle gambe
Ustioni II grado profondo e II grado
. Le proprietà terapeutiche della pianta sono indubbiamente legate alla ricchezza del suo fitocomplesso. In particolare alla presenza di glicosidi flavonolici (kampferolo, quercetina, ecc.) si devono le proprietà antiossidanti e vasculoprotettive, mentre alla presenza dei polisaccaridi si devono quelle antinfiammatorie e immunostimolanti. Sembra inoltre che l'attività immunostimolante manifestata dai polisaccaridi presenti nel S. telephium svolga un ruolo importante nel processo di cicatrizzazione: “secondo vari studi, infatti, nu merose molecole capaci di modulare il sistema immunitario prendono parte anche alla riparazione delle ferite (...)
Numerosi polisaccaridi naturali (...) sono in grado di aumentare l'infiltrazione dei macrofagi nei pressi della ferita, di stimolare la formazione del tessuto di granulazione e la riepitelizzazione" (lanello G., Tesi di laurea, 2004-2005, p.51). Prove sperimentali effettuate con polisaccaridi puri hanno tuttavia evidenziato la superiorità di efficacia del succo totale rispetto alla sola frazione polisaccaridica per quanto riguarda la formazione di collagene: “La frazione polisaccaridica ha mostrato una diminuzione del collagene neosintetizzato, mentre il succo totale ha determinato un notevole aumento della sintesi del collagene a partire dalla minima dose testata,


Quest'apparente discrepanza indica che l'effetto stimolatorio sullasintesi del collagene dipende dai composti presenti nel succo, diversi dai polisaccaridi" (Iannello G., Tesi di laurea, 2004-2005, p.52).
Importante, ad esempio, nel processo riparativo dei tessuti è la presenza di agenti antiossidanti o scavengers di radicali liberi in grado di limitare i danni tissutali dovuti al processo infiammato rio: molti componenti del fitocomplesso presentano tale attività (flavonoidi, cumarine, acidi organici, tannini, ecc.) contribuiscono, pertanto, all'azione vulneraria della pianta. Analoghe considerazioni sono state fatte per quanto riguarda l'attività antibatterica: non è sufficiente la presenza di concentrazioni, anche notevoli, di flavonoidi quali kampferolo e quercetina, ritenuti efficaci nei confronti dello Staphilococcus aureus, ma occorre anche la presenza dei tannini (e molto probabilmente anche di altri fattori) per poter ottenere un'azione antibatterica.
Per poter conseguire, quindi, buoni risultati terapeutici risulta indispensabile utilizzare preparati della pianta che siano quanto più simili al succo fresco della foglia. In questi ultimi anni la ricerca è stata incentrata, pertanto, a individuare l'ottenimento di preparati della pianta che presentassero analoga efficacia rispetto all'impiego estemporaneo della foglia fresca. Da indagini fitochimiche e farmacologiche effettuate su alcuni preparati a base di Sedum telephium è emerso che l'estratto metanolico ottenuto dalle foglie fresche presenta una composizione chimica pressoché uguale al succo totale e un'analoga attività antiossidante e favorente i processi di cicatrizzazione.
“È quindi auspicabile, visti i risultati ottenuti, che la ricerca su Sedum telephium continui, sia con l'identificazione accurata di tutti i componenti del fitocomplesso, sia con l'analisi farmacologica in vivo, al fine di una possibile utilizzazione di preparati a base di questa entità in condizioni fisiopatologiche, quali la cicatrizzazione e l'invecchiamento" (lannello G., Tesi di laurea, Siena, 2004 -2005, p. 110).
Per concludere, una piccola digressionegastronomica:"Le preparazioni erboristiche del Sedum sembrano spesso ricette gastronomiche: infatti, le foglie possono essere pestate con sale e aceto o cuocere nel latte o farle macerare con l'olio. La radice cotta con lo strutto si può mangiare in purea “(Luzzi,1992). essenziale
© ‘Associùzione San Giovanni di Dio, Firenze, www.asgdd.it. © Balatri S, Natom, 48, 62 ,1988. © Bruneton J, Pharmacognosie, Technique et DocumentationLavoisier, Paris 1993.;3° ed., 1999, © Campanini E, Dizionario di fitoterapia e piante medicinali, Tecniche Nuove, Milano 1998; 2° ed. 2004. © lannello G, Indagini fitochimiche e farmacologiche su preparati a base di Sedum telephitim ssp.maximun L., Tesi di laurea, Università degli Studi di Siena, Facoltà di Farmacia, Corso di laurea in Chimica è Tecnologie Farmaceutiche, Anno Accade © Luzzi P, Guida alle piante medicinali del Giardino dei Semplici di Firenze, Pubblicazioni dell'Orto Botanico di Firenze, Firenze, 1992.
da: 

Associazione San Giovanni di Dio