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sabato 31 maggio 2014

Uno vive della compagnia

Uno vive della compagnia 
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Se uno vive o pretende di vivere di principi, di criteri ideali, quando è incoerente non sa più cosa fare e allora, per non disperarsi, per non diventare cinico, censura quello che ha fatto, o addirittura idealizza, giustifica in un modo o nell’altro quello che ha fatto.
Altro è, invece, uno che vive della compagnia che lo abbraccia nella sua incoerenza, lo abbraccia nella sua meschinità, lo abbraccia nella sua chiusura mentale, affettiva, lo abbraccia nella grettezza delle sue pretese, lo abbraccia nella vergogna delle sue recriminazioni: lo abbraccia perché sono le braccia di Cristo stesso.  

Una compagnia che lo abbraccia: questo è l’annuncio cristiano. Non è mai il giorno del mio trionfo, ma è sempre il giorno del trionfo del dolore di quel che si è e dell’amore per cui si è fatti, dell’amore di Cristo a noi, della Sua pietà, e quindi in noi del dolore di quello che siamo, perché il dolore per noi è amore; il dolore è riconoscere un amore contro cui siamo andati e contro cui resistiamo.
Allora bisogna sempre ripetere, riprendere, ricominciare tutti i giorni il riconoscimento che il mio valore è questa compagnia che mi abbraccia nonostante quel che sono. Riconoscere questo è continuamente ricominciare.

Ora, per continuamente ricominciare ci vuole un’umiltà che solo Cristo può dare, insieme a una possibilità di dolcezza che il nostro temperamento magari non avrebbe mai conosciuta; e in questo abbraccio nulla è censurato.


don Luigi Giussani
da: Ciò che abbiamo di più caro ed.Rizzoli

CESARE PAVESE. «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?

Maturità 2014. CESARE PAVESE. «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?»


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Maturità 2014. CESARE PAVESE. «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?»
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Maturità 2013. Prosegue il viaggio di tempi.it in preparazione dell’Esame di Stato. Dopo Giovanni Pascoli, Gabriele D’AnnunzioLuigi Pirandello, Italo SvevoGiuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Umberto Saba, Salvatore Quasimodo, Italo Calvino e Giuseppe Tomasi di Lampedusa oggi parliamo di Cesare Pavese.

La vita

Nato a Santo Stefano Belbo nelle Langhe nel 1908, Cesare Pavese studia Lettere all’Università di Torino ove ha come maestro Augusto Monti e stringe amicizie che saranno poi determinanti nella sua formazione e nell’attività editoriale e letteraria successiva. Un suo amico Giulio Einaudi fonda l’omonima casa editrice di cui Pavese diventerà prima collaboratore e successivamente anche direttore e con cui pubblicherà tutti i suoi romanzi. La sua vocazione alla scrittura è viva e feconda fin da giovane, già dai tempi universitari e da quando, una volta laureato, si dedica anche all’insegnamento. Nel 1935 viene confinato per un anno a Brancaleone calabro, accusato di collaborare con gli antifascisti. Ritornato a Torino, scopre che Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca» di cui è innamorato, si è sposata con un altro uomo. Grande è la delusione. La sua produzione si converte sempre più dalla poesia alla prosa, in un’attività instancabile che lo porta al più grande riconoscimento italiano, il conseguimento del Premio Strega (1950) con La bella estate, scritta nel 1949. Il 1950 è anche l’anno del suo più noto romanzo, La luna e i falò. Il 27 agosto 1950 Pavese si suicida in una camera d’albergo a Torino.

 
I romanzi
La contemporaneità ha esaltato quell’autonomia e quell’individualismo dell’uomo moderno che coincide, in realtà, con una condizione di solitudine. Così scrive Charles Taylor ne Il disagio della modernità: «Il lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io, che a un tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato e le allontana dall’interesse per gli altri e la società». Per questo Cesare Pavese (1908-1950) annota in una pagina del suo diario Il mestiere di vivere, datata 1939: «La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che  il supremo conforto - la religione - consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera  è lo sfogo come con un amico [...]. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi qui stia la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un'illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri». L’uomo si può conoscere e  riavere solo nel rapporto con l’altro, proprio perché l’io è rapporto strutturale con un tu.

  Le righe sopra riportate appartengono alle pagine di riflessioni personali, di diario privato che furono trovate in una cartella verde, alla morte di Cesare Pavese, fogli sciolti per lo più manoscritti (tranne quattordici pagine dattiloscritte). Su una pagina bianca compare il titolo Il mestiere di vivere di Cesare Pavese. La prima edizione dell’opera sarà postuma (1952). Pavese aveva chiuso i suoi giorni in una camera d’albergo a Torino, suicida. Nell’ultima confidenza affidata al diario annotava (18 agosto 1950): «La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi? Basta un po’ di coraggio. […] Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». Non aveva ancora compiuto quarantadue anni, aveva già pubblicato tantissime opere, sillogi poetiche (tra cui Lavorare stanca, La terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) e romanzi (La spiaggia, Il compagno, La casa in collina, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, La bella estate, La luna e i falò, …), aveva conseguito la palma del migliore ottenendo il Premio Strega proprio due mesi prima e il 14 luglio aveva scritto facendo presagire quanto sarebbe poi successo: «Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla». Il mestiere di vivere è, forse, il più bel diario che sia mai stato steso insieme allo Zibaldone di Leopardi, da leggersi a sorsi, come si assaggia un vino pregiato. Vi dominano la vita, la dimensione dell’esperienza, la ricerca della maturità (per Pavese «Ripeness is all» ovvero «la maturità è tutto»), la consapevolezza che l’animo umano è strutturato come attesa. Il 27 novembre del 1945 Pavese annota: «Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Nessuna delusione, per grande che sia, può estirpare questa innata aspettativa del compimento. Disumano, addirittura tragico, sarebbe non attendersi più nulla: «Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile» (15 settembre 1946). Nel 1942 Pavese aveva intuito, così almeno ci sembra di capire, che l’attesa scaturisce da un’esperienza già vissuta e sperimentata. Scriveva, infatti, il 28 gennaio: «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla- ora soltanto- per la prima volta. Devi creare un nesso tra il fatto che nei momenti più veri tu sei inevitabilmente ciò che fosti in passato […] e il fatto che soltanto le cose ricordate sono vere». La memoria di quanto è stato è ciò che permette all’uomo di essere pienamente tale. È il ricordo dell’evento, di quanto sarà e si ripeterà sempre. Altrove Pavese usa il termine «mito», parola a lui così cara che alla dimensione del mito dedicherà l’intera opera Dialoghi con Leucò e la poesia «Mito» («Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo/ senza pena, col morto sorriso dell’uomo/ che ha compreso»).

L’idea del viaggio, di una vita in cui si prende consapevolezza di sé e della realtà, in cui si possa giungere a cogliere l’essenza stessa di ciò che sta oltre il tempo, proprio perché permane, invariabile, è sottesa a tutta la produzione di Pavese, da quella poetica (si pensi a I mari del sud) a quella narrativa. La vita dell’uomo permette viaggi, ma non ritorni. L’impossibilità di un ritorno è raccontata nell’ultimo romanzo La luna e i falò (pubblicato nel 1950). Tornato dall’America dopo la liberazione e dopo aver fatto fortuna, Anguilla cerca invano nel paese natio delle Langhe il proprio passato e i compagni cari dell’infanzia. Molti, infatti, sono morti. Rivive nella figura del piccolo Cinto, adottato dal contadino Valino, la sua stessa storia di orfano nell’infanzia. Infine, scopre che quei falò che nella tradizione mitica, ancestrale e contadina rinnovano di anno in anno la fecondità della terra sono nell’orizzonte storico lo strumento della tragica morte durante la guerra, in cui ha perso la vita giovanissima la bella ragazza del paese, Santa, divenuta spia dei tedeschi. Ora che è tornato capisce che «un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Anguilla non può restare, deve ripartire, ora che sa e ha capito. La maturità dell’uomo è questa consapevolezza della vita, questa accettazione del destino che, se non si tramuta in amore, lascia solo tanta tristezza e malinconia. Annotava Pavese il 15 febbraio del 1950: «Ragioni sempre: le cose prima d’esser conosciute, le cose dopo conosciute… Il problema è sempre quello – razionalizzare, prender coscienza, fare storia».
Ma non tutto si comprende. «Poesia è rappresentare il nodo irrisolto come tale, farne sentire il mistero, il selvaggio. Ma allora dov’è lo sforzo di conoscere del poetare?» (15 febbraio 1950). La poesia e l’arte più in generale nascono dal mito, non da un concetto. I «compagni» comunisti di Pavese non concordano con questa visione dello scrittore, lo trovano un cattivo compagno, come lo scrittore precisa nello stesso giorno sul diario.
Il 1950 è l’anno in cui Pavese vince il Premio Strega con La bella estate, una trilogia che raccoglie brevi romanzi: La bella estate (1940), Il diavolo sulle colline (1948), Tra donne sole (1949). Pavese annota nel suo diario: «C'è una cosa più triste che fallire i propri ideali: esserci riusciti». La vittoria era stata la conferma dell’inutilità di ogni sforzo umano di darsi la felicità. L’adesione al Comunismo (Pavese si era tesserato al PCI nel 1945 per «tacitare i rimorsi e […] rompere l’isolamento» come scrisse Davide Lajolo nel Vizio assurdo, fondamentale biografia dello scrittore) aveva mostrato l’inconsistenza dell’ideologia e la sua incapacità a cogliere la complessità del reale. L’uomo è in attesa della buona novella, che il Mistero (così presente in tutta la produzione di Pavese) condivida la strada con noi, si faccia compagnia e presenza umana, rompendo così la solitudine. Questa era stata l’intuizione di Pavese descritta nella pagina di diario del 1939.

Invito alla lettura

Il mestiere di vivere;
Lavorare stanca;
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi;
Il diavolo sulle colline;
Tra donne sole;
La bella estate;
Dialoghi con Leucò;
La luna e i falò.


Analisi di testo

«I mari del Sud» da Lavorare stanca
(a Monti)
Camminiamo una sera sul fianco di un colle, in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo mio cugino è un gigante vestito di bianco, che si muove pacato, abbronzato nel volto, taciturno. Tacere è la nostra virtù. Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo - un grand'uomo tra idioti o un povero folle - per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto se salivo con lui: dalla vetta si scorge nelle notti serene il riflesso del faro lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino... " mi ha detto "...ma hai ragione. La vita va vissuta lontano dal paese: si profitta e si gode e poi, quando si torna, come me a quarant'anni, si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono". Tutto questo mi ha detto e non parla italiano, ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre di questo stesso colle, è scabro tanto che vent'anni di idiomi e di oceani diversi non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino, usare ai contadini un poco stanchi.

Vent'anni è stato in giro per il mondo. Se n' andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne e lo dissero morto. Sentii poi parlarne da donne, come in favola, talvolta; uomini, più gravi, lo scordarono.
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino con un gran francobollo verdastro di navi in un porto e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore, ma il bambino cresciuto spiegò avidamente che il biglietto veniva da un'isola detta Tasmania circondata da un mare più azzurro, feroce di squali, nel Pacifico, a sud dell'Australia. E aggiunse che certo il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo. Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero che, se non era morto, morirebbe. Poi scordarono tutti e passò molto tempo.

Oh da quando ho giocato ai pirati malesi, quanto tempo è trascorso. E dall'ultima volta che son sceso a bagnarmi in un punto mortale e ho inseguito un compagno di giochi su un albero spaccandone i bei rami e ho rotta la testa a un rivale e son stato picchiato, quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi, altri squassi del sangue dinanzi a rivali più elusivi: i pensieri ed i sogni. La città mi ha insegnato infinite paure: una folla, una strada mi han fatto tremare, un pensiero talvolta, spiato su un viso. Sento ancora negli occhi la luce beffarda dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.

Mio cugino è tornato, finita la guerra, gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro. I parenti dicevano piano: "Fra un anno, a dir molto, se li è mangiati tutti e torna in giro. I disperati muoiono cosi ". Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame. Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi e lui girò tutte le Langhe fumando. S'era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza esile e bionda come le straniere che aveva certo un giorno incontrato nel mondo. Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco, con le mani alla schiena e il volto abbronzato, al mattino batteva le fiere e con aria sorniona contrattava i cavalli. Spiegò poi a me, quando fallì il disegno, che il suo piano era stato di togliere tutte le bestie alla valle e obbligare la gente a comprargli i motori. "Ma la bestia"  diceva "più grossa di tutte, sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere che qui buoi e persone son tutta una razza".

Camminiamo da più di mezz'ora. La vetta è vicina, sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento. Mio cugino si ferma d'un tratto e si volge: "Quest'anno scrivo sul manifesto: - Santo Stefano è sempre stato il primo nelle feste della valle del Belbo - e che la dicano quei di Canelli ". Poi riprende l'erta. Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio, qualche lume in distanza: cascine, automobili che si sentono appena; e io penso alla forza che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare, alle terre lontane, al silenzio che dura. Mio cugino non parla dei viaggi compiuti. Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell'altro e pensa ai suoi motori.

Solo un sogno gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta, da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo, e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia. Me ne accenna talvolta.

Ma quando gli dico ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora sulle isole più belle della terra, al ricordo sorride e risponde che il sole si levava che il giorno era vecchio per loro.
Comprensione complessiva
  1. Quali sono i contenuti principali della poesia?

Analisi di testo
  1. La poesia «I mari del Sud» assume talvolta i toni del racconto e della prosa. Argomenta questa affermazione con opportuni esempi al testo.
  2. Compaiono molti discorsi diretti. Qual è il significato della loro presenza all’interno del componimento?
  3. Quali espressioni
  4. Qual è la forma metrica della poesia?

Inquadramento generale e approfondimenti
  1. Lo scrittore parla di partenze e di ritorni in cui si scopre che niente è più uguale a prima. Pavese scrive nel 1930, vent’anni prima de La luna e i falò quando il tema dell’impossibile ritorno diventa centrale. Approfondisci queste affermazioni con opportuni riferimenti al romanzo di Pavese e riconosci eventuali differenze con «I mari del sud» dovute non solo alla distanza tra prosa e poesia, ma anche alla diversa età in cui lo scrittore ha composto i due testi.

(pubblicato su Tempi.it del 15-6-2013

venerdì 30 maggio 2014

ORIANNA FALLACI esprime compiutamente il suo pensiero contro l'omosessualità.

Oriana Fallaci si espone sull'omosessualità

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Da: Oriana Fallaci - Wikipink - L'enciclopedia lgbt italiana

Nel 2004 Oriana Fallaci pubblica Oriana Fallaci intervista sé stessa - L'Apocalisse[2], il terzo libro della Trilogia di Oriana. È proprio nel phamphlet di attacco alla modernità che la scrittrice esprime compiutamente il suo pensiero contro l'omosessualità.
La giornalista, ad esempio, critica il primo ministro socialista spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero reo di aver consentito e sostenuto l'approvazione del matrimonio gay:

« "la bravata del senor Zapatero che imitando il sindaco di San Francisco, (antiamericani sì, ma non quando gli americani ti suggeriscono cattive idee), buttava alle ortiche il concetto biologico di famiglia e autorizzava il matrimonio gay. Quel che è peggio, mille volte peggio, l'adozione gay. E questo senza che nessuno gli rispondesse per le rime. Senza che nessuno gli dicesse almeno cretino: il mondo va a fuoco, l'Occidente fa acqua da tutte le parti, il terrorismo islamico non fa che tagliarci la testa, e tu perdi tempo coi matrimoni-gay e le adozioni-gay? Questo senza che la Chiesa Cattolica si ribellasse, senza che il Papa (di nuovo) si difendesse. Magari tirando in ballo la Madonna di Czestochowa a cui è tanto devoto e che certo non avrebbe gradito l'iniziativa di Zapatero. Tutti zitti. Tutti intimiditi, impauriti, incapaci di commentare la cosa in modo raziocinante lo spontaneo. Tutti ricattati dalla tirannia dei Politically Correct. Perché se dici la tua sui matrimoni-gay e l'adozione-gay, finisci al rogo come quando dici la tua sull'Islam. Ti danno di razzista, di fascista, di bigotto, di incivile, di reazionario. Come minimo ti accusano di pensarla come Hitler che gli omosessuali li gettava nei forni crematori insieme agli ebrei. Insomma ti mettono alla gogna. Be': dopo la sfuriata iniziale, anche stavolta caddi in una stanchezza profonda. Assai più profonda di quella in cui ero caduta a causa delle due Simonette. Perché sull'accettazione dell'omosessualità il senor Zapatero non ha da insegnarmi nulla". »
In un altro passo il matrimonio gay è definito come un tentativo di "sovvertire il concetto biologico di famiglia":

« "In qualsiasi società, in qualsiasi angolo della Terra, in qualsiasi paese esclusa la Spagna di Zapatero, il matrimonio è l'unione di un uomo e di una donna. Tale rimane anche se da quell'unione non nascono figli. Così capisco i risultati del referendum che in dodici Stati americani si è concluso con la vittoria schiacciante del No, insomma con un assordante rifiuto del suddetto matrimonio. Non capisco, invece, perché in una società dove tutti possono convivere liberamente cioè senza dar scandalo, senza essere condannati o considerati reprobi, gli omosessuali sentano l'improvviso e acuto bisogno di sposarsi davanti a un sindaco o a un prete. Magari con l'abito bianco, il mazzolino di fiori in mano, e lo spettro del divorzio che costa un mucchio di tempo e un mucchio di soldi. Spero che sia un'isteria temporanea, un capriccio alla moda, una forma di esibizionismo o di conformismo. Perché, se non lo è, si tratta d'una provocazione legata alla pretesa di adottare i bambini e sovvertire il concetto biologico di famiglia. Insomma d'una intimidazione. Non mi piacciono le provocazioni, non mi piacciono le intimidazioni. Gira e rigira, sono sempre di natura politica. E in tal caso a quei fidanzati, quelle fidanzate, dico: accontentatevi del sacrosanto diritto che il mondo civile riconosce a chiunque. Il diritto di amare chi si vuole, come si vuole". »
Ancora, Oriana Fallaci esprime "fastidio" per la cosiddetta lobby gay:

« "Voglio dire: l'omosessualità in sé non mi turba affatto. Non mi chiedo nemmeno da che cosa dipenda. Mi dà fastidio invece quando, come il femminismo, si trasforma in ideologia. Quindi in categoria, in partito, in lobby economico-cultural-sessuale, e grazie a ciò diventa uno strumento politico. Un'arma di ricatto, un abuso Politically and Sexually Correct. O-fai-quello-che-voglio-io-o-ti-faccio-perdere-le-elezioni". »
È negativo, ancora, il suo giudizio sui gay pride

« Mi dà fastidio anche quando, attraverso le loro lobby, a discriminare il prossimo sono proprio gli omosessuali. E ancor più quando, attraverso l'arroganza della categoria, il prossimo lo offendono con le becere Gay Parades alle quali si presentano seminudi o travestiti e truccati da baldracche” »
e quello sulla genitorialità gay:

« "Un omosessuale maschio l'ovulo non ce l'ha. Il ventre di donna, l'utero per trapiantarcelo, nemmeno. E non c'è biogenetica al mondo che può risolvergli un tale problema. Clonazione inclusa. L'omosessuale femmina, sì, l'ovulo ce l'ha. Il ventre di donna necessario a fargli compiere il meraviglioso viaggio che porta una stilla di Vita a diventare un germoglio di Vita poi un'altra Vita, un altro essere umano, idem. Ma la sua partner non può fecondarla. Sicché se non si unisce a un uomo o non chiede a un uomo per-favore-dammi-qualche-spermatozoo, si trova nelle stesse condizioni dell'omosessuale maschio. E a priori, non perché è sfortunata e i suoi bambini muoiono prima di nascere, non partecipa alla continuazione della sua specie. Al dovere di perpetuare la sua specie attraverso chi viene e verrà dopo di lei. Con quale diritto, dunque, una coppia di omosessuali (maschi o femmine) chiede d'adottare un bambino? Con quale diritto pretende d'allevare un bambino dentro una visione distorta della Vita cioè con due babbi o due mamme al posto del babbo e della mamma? E nel caso di due omosessuali maschi, con quale diritto la coppia si serve d'un ventre di donna per procurarsi un bambino e magari comprarselo come si compra un'automobile? Con quale diritto, insomma, ruba a una donna la pena e il miracolo della maternità? Il diritto che il signor Zapatero ha inventato per pagare il suo debito verso gli omosessuali che hanno votato per lui?!?". »
In un altro brano la Fallaci aggiunge:

« "Lo Stato non può consegnare un bambino, cioè una creatura indifesa e ignara, a genitori coi quali egli vivrà credendo che si nasce da due babbi o due mamme non da un babbo e una mamma. E a chi ricatta con la storia dei bambini senza cibo e senza casa (storia che oltretutto non regge in quanto la nostra società abbonda di coppie normali e pronte ad adottarli) rispondo: un bambino non è un cane o un gatto da nutrire e basta, alloggiare e basta. È un essere umano, un cittadino, con diritti inalienabili. Ben più inalienabili dei diritti o presunti diritti di due omosessuali con smanie materne o paterne. E il primo di questi diritti è sapere come si nasce sul nostro pianeta, come funziona la Vita sul nostro pianeta. Cosa più che possibile con una madre senza marito, del tutto impossibile con due "genitori" del medesimo sesso. Punto e basta". »
Alla dichiarazione, fanno da contraltare due episodi personali rammentati dalla scrittrice.
Nel primo la vediamo assumere posizioni di contrarietà all'omofobia:

« [...] guai a chi fa del male a un omosessuale in quanto omosessuale. Chiunque egli sia, e che l'omosessuale in questione lo conosca o no. Anni fa, nel mio villaggio in Toscana, il postino mi raccontò che due omosessuali della zona erano rimasti senza casa perché il padrone di casa s'era accorto che vivevano «come-marito-emoglie». E li aveva cacciati. Io non li conoscevo, non li avevo mai visti. Ma udire una cosa simile mi mandò il sangue al cervello. Non per pietà, bada bene. Per principio. E dissi al postino: «Voglio incontrarli. Me li porti qui». Il postino me li portò e mi trovai davanti due giovanotti molto civili, molto educati, che con gran dignità si lamentavano: «L'albergo costa troppo e non sappiamo dove andare». Così gli mostrai una graziosa casetta attigua alla mia, la casetta che tengo per gli ospiti, e: «Se vi piace, state qui». Ci stettero qualche anno. Cioè fino a quando si separarono ed entrambi lasciarono l'Italia. Cosa che mi dispiacque in quanto il nostro era diventato un rapporto quasi familiare. M'ero abituata a loro, di loro non mi dispiaceva nulla escluso il fatto che a volte tenessero il volume della radio troppo alto e che uno adorasse esser chiamato gay. Inappropriato anzi stupido termine che detesto anche perché in inglese «gay» vuoi dire «allegro», e quando scrivo in inglese non so a che santo votarmi per dire allegro. Da quel punto di vista la parola «gay» è un vero furto al vocabolario e vorrei proprio sapere chi è l'irresponsabile che la mise in giro, che la adottò". »
nel secondo l'autrice ricorderà la sua amicizia e frequentazione con Pier Paolo Pasolini:

« Eravamo in un ristorante lungo la via Appia, ricordo, e seduti al tavolo aspettavamo Alekos che era molto in ritardo a causa d'uno sciopero aereo. D'un tratto Pier Paolo mi accarezzò una mano e riferendosi al mio libro Lettera a un bambino mai nato (libro che odiava) mormorò: «Quanto a infelicità, anche tu non scherzi». Credendo che si riferisse al mio libro gli chiesi da dove venisse quell' anche, il discorso scivolò immediatamente sulla sua incontrollabile omosessualità". » 

Eulero: un gigante della matematica e della scienza parla di Dio, angeli e demoni

Eulero: un gigante della matematica e della scienza parla di Dio, angeli e demoni

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Ho già avuto modo di raccontare un dato di fatto incontrovertibile, per quanto poco conosciuto: i migliori matematici, così come i migliori scienziati, sono, nella stragrande  parte dei casi, uomini religiosi. Più religiosi, se si potesse fare una statistica, dei letterati o dei poeti. Perché, adattando Alexis Carrel, tanta osservazione e un po’ di ragionamento, portano a Dio, mentre molto ragionamento e poca vita, poca esperienza, poca realtà conducono, spesso, all’ideologia e allo scetticismo. Ebbene, tra questi giganti di cui si legge che fosse un uomo di fede vi è lo svizzero Leonardo Eulero, il cui nome è sempre affiancato a quello dei più grandi matematici di sempre: Archimede, Newton e Gauss. Gli esperti dicono che è stato “il più prolifico matematico della storia”, mentre Ronald Calinger riassume così i suoi meriti: “Nel cuore della sua ricerca si trovano l’Analisi infinitesimale, o Calcolo differenziale, e la Meccanica razionale. Insieme alla meccanica celeste, le fece diventare la scienza par excellence del XVIII secolo. Fu il principale creatore dal Calcolo delle variazioni e delle equazioni differenziali, ed un precursore della Geometria differenziale delle superfici. In Meccanica, Euler, non Newton, formulò la maggior parte delle equazioni differenziali…permise di trasformare la meccanica e l’astronomia in moderne scienze esatte, basate sul calcolo infinitesimale” Inoltre “fondò la meccanica dei continui, promosse la balistica, la cartografia, la diottrica, la teoria dell’elasticità, l’idraulica, l’idrodinamica, la teoria della musica, la teoria dei numeri, l’ottica e la teoria delle navi…”.

Per quanto riguarda gli interessi di questa rubrica, Eulero era anche un conoscitore degli studi classici, greci e latini, e un assiduo lettore delle Sacre Scritture. La sua epoca è il Settecento, il secolo dei lumi, in cui la potenza della ragione umana viene sovente esaltata non come dono di Dio, ma come motivo di orgoglio e sfida dell’uomo al cieloEbbene Eulero, sia alla corte di Caterina di Russia sia presso Federico II, a Berlino, non si esime dallo schierarsi contro lo spirito del suo tempo. A costo di scontrarsi con Voltaire, Diderot, D’Alambert e altri enciclopedisti che si autoproclamano portatori e interpreti del verbo della scienza.Ebbene Eulero, sia alla corte di Caterina di Russia sia presso Federico II, a Berlino, non si esime dallo schierarsi contro lo spirito del suo tempo. A costo di scontrarsi con Voltaire, Diderot, D’Alambert e altri enciclopedisti che si autoproclamano portatori e interpreti del verbo della scienza. E’ il traduttore inglese delle Lettere ad una principessa tedesca di Eulero, Henry Hunter, a notare, nella prefazione, che le opere di Rousseau e di Voltaire sono nelle mani di tutti, mentre i pensieri filosofici e religiosi di una vera autorità scientifica come Eulero sono ai più sconosciuti.


Come sconosciuto ed ancora oggi introvabile, se non in archivio, è il suo trattato tradotto e stampato in Italia, a Pavia, nel 1777, intitolato: Saggio di una difesa della divina Rivelazione. Ebbene, in questo saggio, breve ma denso, Eulero sostiene che la perfezione dell’intelletto consiste nella cognizione della Verità, donde la concezione del Bene immediatamente deriva”: “i principali oggetti di tal cognizione sono Dio e le sue Opere, giacché tutte le altre verità a cui l’uomo mercé la sua riflessione può giungere si riducono per ultimo a Dio e alle Opere della sua Onnipotenza. Dio è la Verità, e il mondo è l’Opera delle sue infinita Onnipotenza e Sapienza”.

Poi Eulero accenna alla Legge Naturale, per cui col lume della Natura i doveri delle nostre azioni si definiscono” e che “con tutta ragione viene nominata Legge Divina, perché Dio medesimo l’ha impressa, per così dire, nel cuore degli Uomini. E’ la trasgressione di questa legge che porta all’infelicità: “Niente è dunque veramente capace di rendere veramente felice un uomo, fuorché primieramente una sufficiente cognizione di Dio, delle sue Opere, ma secondariamente una perfetta soggezione della propria Volontà alla Divina Volontà; soggezione non facile, vista la corruzione insita nell’uomo a causa del peccato originale.

Nel trattato Eulero sostiene l’esistenza di spiriti intelligenti e razionali, gli Angeli e i Demoni; difende le Sacre Scritture come testi della cui “origine divina non possiamo dubitare”; argomenta a favore della possibilità dei miracoli, e in particolare della Resurrezione di Cristo. Quanto alla ragione umana essa è considerata limitata, e per questo bisognosa della Rivelazione: Conviene inoltre riflettere che nelle Sacre Scritture quelle cose soltanto sono rivelate, le quali o non mai o molto difficilmente si sarebbero potute colla nuda ragione di scoprire…”. La conclusione di Eulero è dura: si scaglia contro la “fazione de’ libertini e dileggiatori della Rivelazione”, che con le loro argomentazioni fallaci cercano di sedurre il prossimo.

Questo saggio costò a Eulero critiche e una certa impopolarità presso alcuni potenti dell’epoca; ma i biografi concordano nel definirlo un uomo alieno dalla cortigianeria e dall’ambizione e segnato da una “totale mancanza di meschino orgoglio”. E’ in questa umiltà, invero, che si trova la radice della sua fede in Dio. Umiltà che mancava, negli stessi anni, a tante intelligenze scettiche, certamente inferiori alla sua; umiltà che distingue il sapiente, dall’intellettuale.

Il Foglio, 29 maggio 2014

giovedì 29 maggio 2014

Testamento (1226) San Francesco d'Assisi



  Testamento (1226) San Francesco d'Assisi
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Il Signore concesse a me, frate Francesco, d'incominciare così a far penitenza: poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia.
E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d'animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
E il Signore mi dette tale fede nelle chiese, che io così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo.
Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà.
E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come i miei signori. E non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue che essi ricevono ad essi soli amministrano agli altri.
E voglio che questi santissimi misteri sopra tutte le altre cose siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi.
E dovunque troverò manoscritti con i nomi santissimi e le parole di lui in luoghi indecenti, voglio raccoglierli, e prego che siano raccolti e collocati in luogo decoroso.
E dobbiamo onorare e venerare tutti i teologi e coloro che amministrano le santissime parole divine, così come coloro che ci amministrano lo spirito e la vita. E dopo che il Signore mi diede dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò.
E quelli che venivano per abbracciare questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevano avere di più.
Noi chierici dicevamo l'ufficio, conforme agli altri chierici; i laici dicevano i Pater Noster; e assai volentieri ci fermavamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti.
Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all'onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l'esempio e tener lontano l'ozio.

Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l'elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto:"Il Signore ti dia la pace! ".

Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.
Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna (di privilegio) nella curia romana, nè personalmente nè per interposta persona, nè per una chiesa nè per altro luogo, nè per motivo della predicazione, nè per la persecuzione dei loro corpi; ma, dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio.
E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare o fare oltre l'obbedienza e la sua volontà, perché egli è mio signore.
E sebbene sia semplice e infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico, che mi reciti l'ufficio, così come è prescritto nella Regola.
E non dicano i frati: Questa è un'altra Regola, perché questa è un ricordo, un'ammonizione, un'esortazione e il mio testamento, che io, frate Francesco piccolino, faccio a voi, miei fratelli benedetti, perché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore.
E il ministro generale e tutti gli altri ministri custodi siano tenuti, per obbedienza, a non aggiungere e a non togliere niente da queste parole.
E sempre tengano con se questo scritto assieme alla Regola. E in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la Regola, leggano anche queste parole.
E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non inseriscano spiegazioni nella Regola e in queste parole dicendo: "Così si devono intendere" ma, come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere con semplicità e purezza la Regola e queste parole, così cercate di comprenderle con semplicità e senza commento e di osservarle con sante opere sino alla fine.
E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell'altissimo Padre, e in terra sia ricolmato della benedizione del suo Figlio diletto col santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i Santi. Ed io frate Francesco piccolino, vostro servo, per quel poco che io posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. (Amen).
 
   San Francesco d'Assisi

venerdì 23 maggio 2014

UN COLLOQUIO DI MESSORI CON BALTHASAR

UN COLLOQUIO DI MESSORI CON BALTHASAR

di Vittorio Messori  da:

PapalePapale.com – Raccontare "on the road" la Chiesa

www.papalepapale.com
Il teologo Balthasar
Il teologo Balthasar
“Mi raccomando – dice congedandoci dopo un lungo colloquio –. Non fate di me una vedette. Ciò che importa sono i problemi, non la mia persona”. Deve partire, l’abbiamo trattenuto più del previsto, ma con un tocco che rivela la sua attenzione alle persone, si informa del nostro programma, vuole darci alcune indicazioni concrete. “Tenete presente il buffet della stazione: il prezzo è buono e non si sta male”.
Alto, asciutto, vestito austeramente di scuro, lucidissimo: a 80 anni il “grande vecchio di Basilea”,“l’uomo più colto del secolo”, l’autore di quasi settanta libri che hanno segnato a fondo il nostro tempo (e il recente Premio Paolo VI lo ha riconfermato), Hans Urs von Balthasar, insomma, è più attivo e presente che mai.
Per molti, quest’uomo sembra rappresentare la sintesi vivente di ciò che dovrebbe essere il teologo secondo lo spirito del Vaticano II. Eppure, fu escluso dai lavori di quel Concilio per il quale aveva profondamente contribuito a creare un clima propizio.
Anche nella Roma di Papa Giovanni si diffidava dì lui e delle sue aperture, della sua attenzione ai sogni del tempo. Soltanto nel 1969 finiva il suo lungo esilio “ufficiale”, con la chiamata — fattagli da Paolo VI — alla Commissione teologica internazionale che affianca la Congregazione per la Dottrina della Fede.  Pensatore tra i più moderni, e insieme incrollabilmente radicato nella grande tradizione della Chiesa, il destino di von Balthasar è stato quello di altri grandi vecchi della teologia cattolica, da Maritain al suo amico e maestro De Lubac in odore di “progressismo” prima del Vaticano II,  in sospetto di “moderatismo”  dopo,  stando almeno alle lobbies che controllano e manipolano gran parte dell’attuale informazione ecclesiale. Nessuno però, né prima né dopo, ha mai messo in discussione la sua straordinaria statura teologica e, quel che più conta, spirituale. I molti volumi di Gloria, la sua opera maggiore, sono già tra i classici: ma è ben noto anche il suo coinvolgimento nella teoria e nella pratica della mistica in cui vede il vertice dell’esperienza religiosa.
Balthasar giovane studente di germanistica nella Vienna del 1927
Balthasar giovane studente di germanistica nella Vienna del 1927
Nella Arnold Böcklin-Strasse di quella Basilea che da secoli è un crogiuolo di teologia, di filosofia, di avventure del pensiero, la casetta di von Balthasar ha la grazia modesta e schiva deIIa Svizzera tedesca. Un cancello che dà su un giardinetto — poco più che un’aiuola – una scala, il vecchio professore che accoglie, guidando in uno studio foderato di libri. Entrando, si sbirciano le pareti, a cogliere i“segni”  di chi abita qui. Ecco infatti, subito nell’ingresso, due ritratti esemplari: santa Teresa di Lisieux e la maschera funebre di Ignazio di Loyola (von Balthasar fino al ‘48 fu gesuita passando poi, per un suo preciso disegno di apostolato, tra il clero diocesano).
Lo studio è dominato da una grande statua in legno della Vergine mentre, proprio sopra la porta, è collocata quella tragica Crocifissione di Grunewald davanti alla quale Dostoewskij cadde nel delirio epilettico: forse l’immagine pittorica più consona a illustrare il “Gesù in agonia alla fine del mondo”  di cui parlò quell’altro grande, Blaise Pascal, carissimo a von Balthasar. Assieme alla Trinità, a Maria, alla Chiesa, al centro della sua riflessione vi è da sempre“il caso serio”  della Croce che giudica ogni ottimismo umano troppo facile e superficiale.
Sulla scrivania, sotto una piccola foto di Giovanni Paolo II, è aperta la Basel Zeitung, uno dei tanti giornali del mondo che hanno pubblicato l’ultima, furibonda aggressione di Hans Kung al Papa e ai suoi diretti collaboratori.
Iniziando il colloquio, viene spontaneo chiedergli se ha già letto il testo di quel suo collega nato, come lui, nel cantone di Lucerna. Scuote il capo, come rattristato, parla a voce bassa, guardando fisso negli occhi:
***

Kung non è più cristiano da un pezzo

Molti lo ignorano, ma Hans Kung, lo stravagante strepitatore più o meno teologico, è un prete. Qui una rarissima foto in abiti clericali, lui giovanissimo. Fonte: popscreencdn.com
Molti lo ignorano, ma Hans Kung, lo stravagante strepitatore più o meno teologico, è un prete. Qui una rarissima foto in abiti clericali, lui giovanissimo. Fonte: popscreencdn.com
“Sono almeno dieci anni che quest’uomo ripete sempre le stesse cose. Il solo fatto nuovo è il crescere del tono polemico. In realtà, sin dai tempi del suo libro ‘Essere
cristiani’, Hans Kung non è più cristiano”.
Vorrà dire non più cattolico.
No, non è più cristiano. Basta leggere i suoi ultimi libri, anche quello recentissimo sulle altre religioni: Kung non è più cristiano. Per lui, Gesù non è altro che un profeta; il problema, dunque, si riduce a una discussione se sia stato o no un profeta maggiore di Budda, di Confucio, di Maometto. Non a caso è stato invitato da Khomeini in Iran per delle conferenze, dove ha ribadito che c’è un solo Dio e tanti profeti. Ormai, per lui — lo dice chiaro, appunto, in quel suo libro non ancora tradotto in italiano — il cristianesimo è una via di salvezza tra le tante.
Se davvero è così, è inutile attardarsi in quel “dialogo” che pur pretende con toni tanto urlati dalla gerarchia cattolica.
“Kung si situa ormai fuori per sua scelta, dalla Chiesa: dunque, non ha più nulla da
dire ai vescovi. In realtà, non ha più nulla da dire neanche ad altri, a cominciare dai protestanti. In effetti, da quando il suo Istituto di teologia ecumenica non è più riconosciuto come cattolico, Kung rappresenta solo sé stesso. Forse, anche per questa situazione in cui si è trovato, ha spostato il discorso dall’ecumenismo tra cristiani a quello con le religioni non cristiane”.
Eppure, si ha l’impressione che continui ad esercitare una notevole influenza: tutti i grandi quotidiani borghesi del mondo opulento hanno dedicato pagine e pagine alla sua requisitoria contro il Papa e Ratzinger.
Balthasar
Balthasar
 “Il settore che rappresenta è quello di una certa intelligencija, ma con sempre minor peso: in Germania ha perso influenza ed è di rado invitato per conferenze, soprattutto nelle università. Così, viaggia all’estero: è conosciuto come un buon oratore e, soprattutto, come un nemico di Roma. Questo gli attira molte simpatie, in certi ambienti”.
La virulenza dell’attacco all’attuale prefetto della Congregazione per la Fede ha stupito anche coloro che conoscevano i suoi rapporti tesi con il professor Ratzinger, quando entrambi insegnavano a Tubinga.
“Credo che sia esasperato anche dalla progressiva perdita di ascolto. Tra l’altro, è una menzogna l’accusa a Ratzinger di essere cambiato da quando ‘ha fatto carriera’, come dice lui. Io conosco Ratzinger da sempre e sempre è stato così, sempre l’ha pensata così. In ogni caso, non è Ratzinger ma Kung che attacca il Vaticano II giudicandolo ancora ‘clericale’, angusto, insufficiente, chiedendo dunque un Vaticano III. Ratzinger è fedele al Concilio e il suo ‘Rapporto sulla fede’ lo dimostra”.

Ratzinger ha ragione su tutto

Lo stile del gran teologo: il prof. Ratzinger
Lo stile del gran teologo: il prof. Ratzinger
L’edizione tedesca è uscita da poche settimane. L’ha già letta?
“Certo che l’ho letta. Che ne penso? C’è poco da dire: Ratzinger ha ragione. Qualcuno chiama pessimismo quello che non è che realismo: chi ha il coraggio della verità deve riconoscerlo. Nessuno parla di questa immensa, spaventosa defezione di preti e di suore: se ne sono andati, e continuano ad andarsene a migliaia”.
Dunque, Lei si riconosce nella lettura data da Ratzinger di questi ultimi vent’anni?
“Ci si può chiedere se la colpa di ciò che è successo è del Concilio (e Ratzinger l’esclude) o se c’erano già prima le condizioni che avrebbero provocato lo scatenarsi della crisi. È certo che Giovanni XXIII (quello autentico, non quello di un certo mito creato dopo la sua morte) non si aspettava che le cose sarebbero andate in questo modo”.
Il controverso libro di Balthasar, che negli anni '50 gli valse una non immotivata diffidenza ed emarginazione da parte della gerarchia cattolica
Il controverso libro di Balthasar, che negli anni ’50 gli valse una non immotivata diffidenza ed emarginazione da parte della gerarchia cattolica
Eppure, Lei è tra coloro che prepararono il clima che avrebbe portato al Concilio. Il suo libro “Abbattere i bastioni”  è del 1952 e le procurò grossi problemi con Roma.
“C’è stato un equivoco attorno a quel libro. Io volevo che si ‘abbattessero i bastioni’ non certo perché si scappasse dalla Chiesa, ma per permettere alla Chiesa stessa di essere sempre più missionaria, di annunciare con ancor maggiore efficacia il Vangelo”.
Anche l’intenzione primaria dei Padri conciliari era missionaria ma si ha l’impressione che, invece di proiettarsi ad extra, ci si sia ripiegati ad intra, in una interminabile discussione tra noi a uso interna.
“Ma sì, tutti questi documenti che nessuno legge, questa carta che io stesso sono costretto ogni giorno a cestinare, tutte queste strutture, questi uffici delle nostre conferenze episcopali e delle nostre diocesi! Gli stessi che chiedevano lo snellimento della Curia romana hanno contribuito a creare una miriade di mini-curie alla periferia della Chiesa”.

La burocrazia clericale che soffoca la missione cristiana

1936, l'ordinazione sacerdotale di Balthasar, avvenuta in Baviera per mano del cardinale Faulhaber, lo stesso che 20 anni dopo consacrò il giovane Ratzinger
1936, l’ordinazione sacerdotale di Balthasar, avvenuta in Baviera per mano del cardinale Faulhaber, lo stesso che 20 anni dopo consacrò il giovane Ratzinger
Dunque, lei concorda anche con le denunce del pericolo che la Chiesa  con lo sviluppo ipertrofico delle strutture clericali si trasformi in un’enorme burocrazia fine a sé stessa.
“Certo. Rileggiamoci anche qui il Vangelo: Gesù ha sempre designato a un servizio delle persone, mai delle istituzioni. Della struttura fondante della Chiesa fanno parte le persone dei vescovi, non gli uffici burocratici. Niente di più grottesco che pensare a un Cristo che volesse istituire delle commissioni! Dobbiamo riscoprire una verità cattolica: nella Chiesa, tutto è personale, niente deve essere anonimo. Sono invece delle strutture anonime quelle dietro le quali si nascondono ora tanti vescovi. Commissioni, sottocommissioni, gruppi e uffici di ogni tipo… Si lamenta [sic!] che mancano i preti, ed è vero; ma migliaia di ecclesiastici sono addetti alla burocrazia clericale. Documenti, carte che non sono lette e che comunque non hanno alcuna importanza per la Chiesa viva. La fede è ben più semplice di tutto questo”.
Ma perché, a suo avviso, questo avviene?
“Forse, hanno l’impressione di fronteggiare così la crisi, di fare qualcosa. Siamo in un mondo tecnico e allora ci si rivolge ai computer. Nelle nostre diocesi adesso è arrivata anche l’elettronica, si sfornano tabulati con le statistiche della frequenza alla Messa, delle comunioni distribuite… Il che, oltretutto, non ha proprio alcuna rilevanza: questo tipo di conti può e deve tenerli solo Dio per il quale una sola comunione vera vale più di mille superficiali registrate dal computer”.
Una rarissima foto di Balthasar con i paramenti sacerdotale mentre celebra
Una rarissima foto di Balthasar con i paramenti sacerdotale mentre celebra. Prediligeva i contesti e i vestiti laici
Secondo molti il problema più urgente oggi è quello della crisi del concetto autenticamente cattolico di Chiesa. Dicono che occorrerebbe parlarne al Sinodo.
“Forse, il Vaticano II si è fermato troppo a parlare della struttura della Chiesa. La Lumen gentium  di cui parla la Costituzione conciliare non è la Chiesa, è Cristo. È certo che, con una lettura parziale del Vaticano II, si è fatta della Chiesa più un gruppo sociale che non misterico, sacramentale. Vediamo invece che sin dagli inizi la comunità cristiana ha una struttura, una gerarchia, volute dal Cristo e basate sul collegio apostolico. Certa, quello che la genie d’oggi cerca è il Cristo non la Chiesa, che nel suo volto visibile non sembra credibile a molti che ne sono all’esterno. Nella nostra predicazione,  occorre mettere più che mai in rilevo l’unicità di Gesù, la sua persona: è Lui che attira gli uomini di sempre. Ma poi come ricorda giustamente il Vaticano II, non dobbiamo dimenticare che non c’è Cristo senza la Chiesa e quindi dobbiamo mostrarne l’assoluta necessità”.
Oltre a questo tema dell’ecclesiologia, quale argomento vedrebbe volentieri al centro dei lavori del prossimo Sinodo straordinario?
“Ci si potrebbe ricordare di quanto diceva il mio amico Karl Barth, il grande teologo protestante che, in una conferenza alla radio nei suoi ultimi anni ammonì: ‘Cattolici, non fate le betises, le sciocchezze, che noi protestanti abbiamo fatto a partire da un secolo fa!’”
Scegliendo tra queste betises, quale, secondo Lei, la più urgente da sottoporre all’attenzione del Sinodo?
“Forse, è il problema di cui si è parlato molto al recente convegno romano su Adrienne von Speyr. Il problema cioè dello studio della Bibbia, dell’esegesi cosiddetta ‘scientifica’.  Questi specialisti hanno fatto molto lavoro, ma è un lavoro che non nutre la fede dei credenti. Bisogna riscoprire una lettura più semplice della Scrittura, mettere l’esegesi ‘scientifica’ in equilibrio con quella ‘spirituale’, non tecnica, della grande tradizione patristica. Non credo che il Sinodo potrebbe risolvere questo problema: potrebbe però fare un auspicio in tal senso”.

Rifare catechismo

Nella sua biblioteca a Basilea
Nella sua biblioteca a Basilea
Non si può, peraltro, impedire con un decreto il lavoro degli esegeti.
“Infatti non dico questo. C’è però il dramma degli stessi specialisti, spesso cristiani buoni e pii, che devono però fare un lavoro al livello di quelle università in cui sono inseriti. E’ una condizione non sempre facile da vivere. C’è infatti il diritto degli studiosi a guardare la Scrittura come a un vecchio libro tra tanti e quindi da studiare con le stesse tecniche impiegate per gli altri testi. Ma la Scrittura che conta per la fede non è questa: ciò che conta è la Bibbia vista come il luogo dove lo Spirito Santo parla del Cristo, in modo nuovo, a ciascuna generazione”.
L’approccio “scientifico” alla Scrittura sembra avere un fall-out, una ricaduta sconcertante nella pastorale quotidiana.
La rivista che fondò insieme a Ratzinger e ad altri, in risposta alle derive progressiste della teologia postconciliare
La rivista che fondò insieme a Ratzinger e ad altri, in risposta alle derive progressiste della teologia postconciliare
“In effetti le ipotesi degli specialisti giungono diluite se non deformate ai preti, ai laici, e fanno dei guasti. Anche di recente ho ascoltato un’omelia dove un parroco spiegava l’incontro dei discepoli col Cristo, sulla via di Emmaus, sentendosi in dovere di avvertire i suoi ascoltatori che non si tratta di un episodio ‘storico’. Questo dubbio coinvolge persino la realtà, la materialità della radice stessa della fede: il racconto della Risurrezione”.
Forse, questo sconcerto tra la gente comune è aggravato dal fatto che molti non sono più raggiunti dalla catechesi. C’è qualche insegnante che segnala come molti laici affollino i suoi corsi di teologia senza però conoscere la base. E cioè, il catechismo.
“Sì, bisogna tornare a dei catechismi seri, autentici. Anche qui Ratzinger ha ragione, dobbiamo ritrovare la struttura ineliminabile di ogni vera catechesi: il Credo, il Pater, i Sacramenti, il Dio creatore, il Dio redentore, lo Spirito che vive nella Chiesa. Non è più ammissibile che ciascuno si faccia un testo a suo gusto: da noi, nell’area germanica, ne circolano a centinaia. Spesso non sono neppure autenticati dai. vescovi”.

TdL. Gesù per loro non è che un profeta fallito

S.Giovanni Paolo II che, in un viaggio in America Latina, pubblicamente ammonisce Ernesto Cardenal, prete, ministro e esponente delle TdL... a braccio armato
S.Giovanni Paolo II che, in un viaggio in America Latina, pubblicamente ammonisce Ernesto Cardenal, prete, ministro e esponente delle TdL… a braccio armato
Ma ci sono catechismi ufficiali (come Pierres Vivantes in Francia) che sono stati approvati da tutta intera la Conferenza episcopale nazionale. Eppure sono stati criticati da Roma e si è dovuto rivederli.
“Torniamo qui al discorso sulle strutture anonime: spesso sono delle anonimità, degli uffici, delle commissioni. non dei vescovi con nome e cognome che danno quelle approvazioni. E poi, temo proprio che presso certi vescovi vi sia come paura per certe minoranze aggressive. Si dice che quattro o cinque persone padroneggino intere conferenze episcopali, e tra le più importanti e numerose”.
Occorre pur riconoscere che i problemi di fronte ai quali si trovano certe Conferenze sona talmente spinosi da rendere difficile l’unanimità. La Conferenza episcopale brasiliana, per esempio, deve gestire un caso complicato come quello di Leonardo Boff.
“Leonardo Boff, come Hans Kung, non è più cristiano”.
Quello che lei dice è grave.      ‘
“Non lo dico io, Io dice lui. Nel suo libro, ‘Passione di Cristo, passione del cristiano’, decima edizione, ammette di non credere alla divinità di Gesù. Sostiene quanto già sosteneva, agli inizi del secolo, Albert Schweitzer. Come lui, Boff dà per scontato che la divinizzazione di Gesù sia stata fatta dai discepoli dopo la Passione. Dunque, Gesù non era che un profeta che predicava il Regno imminente. Il Regno non è venuto, lo
scacco è stato totale. In questa luce, il grido sulla croce (‘Dio mio, perché mi hai abbandonato?’) esprime la disperazione di un uomo che ha fallito”.
Wojtyla aveva grande stima di Balthasar, tant'è che lo volle cardinale
Wojtyla aveva grande stima di Balthasar, tant’è che lo volle cardinale
Anche questo revival di vecchie tesi del liberalismo della Belle Époque europea potrebbe confermare il sospetto di molti: certe teologie della liberazione come esportazione verso il Terzo Mondo di prodotti ormai démodés di intellettuali occidentali.
“C’è del vero. Il nocciolo di quelle teologie della liberazione viene dall’Europa ma certa elaborazione in senso violento è poi stata concepita sul posto. Uno dei padri della teologia della liberazione, il tedesco J.B. Metz, ha fatto conferenze in America latina, ma a molti, laggiù, è sembrato troppo astratto: le sue teorie volevano trasformarle in rivoluzione armata. Credo che il documento della Congregazione per la Fede abbia ragione: non ci si può servire delle analisi marxiste solo come una sorta di ‘strumento’ tecnico”.
Si discute anche del vero influsso sul popolo di certe teologie della liberazione: alcuni affermano che si tratta ancora di un fenomeno elitario.
In età matura
In età matura
“Molti pensavano che la rivoluzione marxista si sarebbe realizzata in pochi anni. Questo non è avvenuto, ma ora si indottrina il popolo, ‘coscientizzandolo’ con delle pubblicazioni al cui centro c’è il Cristo libertadòr, il ‘sovversivo nazareno’. Ratzinger ha dato la precedenza a questo fenomeno perché qui si toccano i punti decisivi della fede. É urgente che laggiù si faccia qualcosa. I teologi non devono più improvvisarsi sociologi ed economisti. Mi sembra che tutte le teologie della liberazione dimentichino che l’essenziale del Nuovo Testamento è la carità: non occorre altro, basta viverla”.
Ma molti le obietterebbero che carità è proprio aiutare i poveri a fare la rivoluzione.
“Anche il Papa ha detto che bisogna privilegiare i poveri (questo è Vangelo), ma a Puebla ha ribadito anche chiaramente che il cristiano deve rifuggire dalla violenza, che il clero non deve in alcun modo mescolarsi con una politica di parte. I ‘poveri di Jahvè’ della Bibbia non sono affatto il proletariato di Marx”.
I problemi sono tali e tanti che qualcuno, basandosi anche su quanto avviene in questi mesi, teme che la Chiesa possa divenire ingovernabile da Roma.
“Il Vaticano II impiega il termine di ‘comunione gerarchica’ per indicare la comunione di tutti i vescovi con Roma, simbolo visibile dell’unità. C’è da chiedersi se certi episcopati abbiano ancora con il Papa quella ‘comunione nell’amore’ di cui parla, ad esempio, un san Cipriano”.

Lefebvre e i suoi non sono i “veri cattolici”

copIl suo discorso ritorna così alle Conferenze episcopali.
“Ad esse, il Concilio dedica una piccola frase. Alcuni ne hanno fatto invece il centro di tutto. Quando la struttura diventa troppo pesante, il vescovo finisce con l’essere paralizzato“.
Qual è il suo giudizio sullo stato attuale della liturgia?
“Se giudico dall’area germanica, ho l’impressione che sia sobria e che, se fatta bene, (cioè in modo davvero pio rispettosa del sacro [sic!] ) sia ben accetta alla maggioranza di quelli che vanno ancora in chiesa.
Una risposta che conforta perché replica a certi ambienti integristi che della riforma liturgica hanno fatto il loro cavallo di battaglia. E il centro del movimento lefebvriano è proprio qui, in Svizzera. Si dimentica troppo spesso che attacchi durissimi al Papa e a Ratzinger continuano a giungere proprio da quella direzione.
“Monsignor Lefebvre e i suoi non sono i veri cattolici. L’integrismo di destra mi sembra ancor più incorreggibile del liberalismo di sinistra. Credono di sapere già tutto, di non avere nulla da imparare. D’altro canto è contraddittoria la loro conclamata fedeltà ai Papi, ma solo a quelli che gli danno ragione. Ma questo attacco a tenaglia, su due fronti, è tipico di ogni fase dopo un Concilio“.

La Chiesa è femmina: Maria viene prima di Pietro

Col confratello tedesco ex gesuita come lui, Otto Karrer (1888-1976), che lasciò la Compagnia nel 1933 dandosi a esperimenti di ecumenisco, che chiaramente risultarono vacue e inutili, dannose anche
Col confratello tedesco ex gesuita come lui, Otto Karrer (1888-1976), che lasciò la Compagnia nel 1933 dandosi a esperimenti di ecumenisco, che chiaramente risultarono vacue e inutili, dannose anche
Girando tra Europa e America del Nord si ha l’impressione che le religiose, le suore, siano tra le più sconcertate da certa predicazione, magari le più sofferenti davanti alla crisi
“Per una giusta risposta ai problemi della donna nella Chiesa bisogna ridare il posto che merita a una mariologia molto sobria e insieme molto buona. Bisognerebbe ricordare a tutti i cattolici – a cominciare dalle donne – che, nella Chiesa, Maria ha un posto ancor più alto che quello di Pietro. La Chiesa è una realtà femminile ed è posta davanti ai successori, maschi, degli apostoli: il principio-Maria (dunque, il principio femminile) è più importante di quello gerarchico stesso, affidato alla componente maschile. Alcune suore – spinte spesso da certa teologia di uomini – non vedono che i curés, i preti, pensano cosi che l’ordinazione sacerdotale rappresenti il massimo del potere nella Chiesa. Ma questo è clericalismo. Maria – e non si tratta di fare del sentimentalismo – è il cuore della Chiesa. Un cuore femminile, che dobbiamo rivalutare come merita, in equilibrio con il servizio di Pietro. Questo non è devozionismo: questa è teologia della grande tradizione cattolica.
Dunque, la devozione mariana così singolare di  Giovanni Paolo II ha anche un significato teologico preciso?                                                
 “È così. Il Papa sa che il perno nascosto della Chiesa non è lui, è Maria; non è a caso che abbia voluto ‘Totus Tuus’ come motto del suo pontificato. Non c’è bisogno, forse, di proclamare nuovi dogmi mariani, ma dobbiamo riscoprire la ricchezza di quelli che già ci sono e che sono essenziali all’equilibrio delia fede autentica”.

 Tornare al modello tridentino di seminario

Balthasar in una curiosa immagine
Balthasar in una curiosa immagine
Le suore sono spesso in crisi. Ma anche il disagio dei preti non è stato e non è da poco. Quali sono le cause principali?
“È spesso estremamente duro essere inviati in parrocchie scristianizzate, dove il curato non conta più nulla. Una volta era il centro di tutto, ora deve correre dietro a qualcuno per cercare di trattenerlo. Ma per fronteggiare e sopportare questa situazione occorrerebbe un’altra formazione dei preti.
Che intende dire?
Bisogna tornare al modello tradizionale, direi ‘tridentino’, seppur prudentemente aggiornato, di seminario. Io sarei d’accordo di non permettere alla maggior parte dei giovani seminaristi di studiare nelle università, come attualmente avviene. Devono studiare in seminari autentici, che siano seri, ‘clericali’: che li formino, cioè, ad essere ‘clero’, che li preparino al loro sempre più duro servizio. Le università esterne non possono fare questo. Il vescovo deve avere la possibilità di ricreare i seminari secondo le indicazioni date da Roma e nominarvi professori di sua fiducia. Ma spesso, anche se volesse farlo, ne è impedito da tutte le strutture che gli sono state create intorno”.
Con don Giussani
Con don Giussani
Il suo bilancio del post-Concilio sembra a chiazze: zone di luce e zone di ombra. Come, in effetti, sembra essere in realtà.
“Dopo ogni Concilio c’è stato il caos. Bisogna mettere nel bilancio anche certe cose che stanno nascendo e che sono come pianticelle; piccole per ora ma già vigorose, i cui semi sono stati piantati dal Vaticano II. Oggi, sulle cattedre di teologia, giunge una generazione che aveva 18-20 anni nel ’68 e che spesso porta nel suo insegnamento uno spirito liberale, di contestazione. Intanto, i grandi teologi di un tempo non ci sono più. Ma c’è anche una generazione nuova che si sta formando, giovani che si ribellano a certo conformismo, che intendono fare una teologia che sia insieme aperta alla Scrittura e alla grande tradizione cattolica. Anche tra i teologi già in cattedra, ci sono persone solide che stanno ripensando in modo nuovo l’intera fede. Un buon lavoro in questo sento è stato fatto anche dal teologo Ratzinger. Lasciamo che Io Spirito lavori: ci sono dei virgulti che ‘spingono’, che stanno nascendo e che non sono certo contro il Concilio autentico, anzi sono nati da esso”.

Non bisogna ragionare troppo di Chiesa, ma viverla

Tra questi segni di speranza, il prefetto della Congregazione per la Fede mette anche i nuovi movimenti ecclesiali.
“E ha ragione. Essi sono, tra l’altro, la possibilità per la Chiesa di fare una teologia vivente. Ma in alcuni, a uno slancio magnifico fa riscontro una tentazione di chiusura. Il pericolo, per alcuni, è di divenire quasi delle sètte, di chiudersi in se stessi, mentre occorre più che mai ‘abbattere i bastioni’: essere, cioè, proiettati nella missione, verso il mondo”.
Non è, forse, un chiudersi istintivo per cercare di salvaguardare un’identità cattolica che sentono minacciata?
“Io cerco di costruire un istituto secolare al quale intendo comunicare uno spirito molto cattolico, un’identità precisa di Chiesa. Ma, posta questa base, desidero che sia aperto al massimo, a tutti. La casa va sorvegliata e tenuta in ordine, ma le porte devono restare spalancate a chiunque voglia entrare”.
Il teologo assiste a una messa, anni '80, in un raduno degli amici di Communio
Il teologo assiste a una messa, anni ’80, in un raduno degli amici di Communio
Lei si è formato e ha lavorato per molti decenni nella Chiesa pre-conciliare. Ha poi vissuto, sempre come teologo, questo ventennio di post-Concilio. Che differenze avverte tra le due fasi?
‘Ha ragione il mio amico e maestro De Lubac e ha ragione Ratzinger quando rifiutano di parlare di Chiesa ‘pre’ o ‘post’ conciliare. C’è una sola chiesa. Vedo i pregi e i difetti del prima e del dopo ma ciò che mi è sempre importato è vivere il centro della Chiesa: questo non cambia e non cambierà mai. Non bisogna ragionare troppo sulla Chiesa: bisogna innanzitutto viverla. Essendo al contempo consapevoli che essa sempre è stata — e sempre sarà — un piccolo gregge”.
L'ultima foto del teologo, due settimane prima della morte, appena ricevuta la notizia della sua creazione cardinalizia. Ma morì tre giorni prima di ricevere la berretta
L’ultima foto del teologo, due settimane prima della morte, appena ricevuta la notizia della sua creazione cardinalizia. Ma morì tre giorni prima di ricevere la berretta
Sul suo tavolo c’è una foto del Papa. Questo mi conferma quanto è ben noto: la sua amicizia, la sua stima profonda per Giovanni Paolo II. E si sa che i suoi sentimenti sono ricambiati.
“Sì, amo molto questo Papa. Ma in fondo, non è questo che importa. Importante per tutta la Chiesa è piuttosto il fatto che quest’uomo vive di preghiera. Quando torna da quei suoi viaggi massacranti, tutto il suo seguito — dai prelati ai giornalisti — è stordito dalla fatica. Lui no, lui è raggiante: è la preghiera che Io nutre. Quando è venuto qui in Svizzera, qualcuno a Einsiedeln lo ha ingiuriato. Lui ha taciuto e poi, non si sa come, è sparito. Dopo un po’ Io hanno ritrovato: era in una cappella, prosternato davanti al tabernacolo. Al suo ritorno l’ho visto a Roma: era più che mai fresco, riposato. ‘Santità – gli ho chiesto – come fa a non essere mai stanco?’. Mi ha risposto ridendo: ‘Questo viaggio in Svizzera non è stato che un allenamento per prepararmi alla visita in Olanda’ [dove infatti la contestazione clerico-progressista arrivò al paradosso dei domenicani che lanciavano sassi contro il papa. Ndr]. Il suo segreto è l’orazione in cui è continuamente immerso”.

Il cristianesimo non è “anonimo”, come vorrebbe Rahner

Il confratello gesuita tedesco, Rahner
Il confratello gesuita tedesco, Rahner
Tra le cose che sembrano più preoccupare il Papa, nei suoi viaggi al di fuori dell’Europa, sembra esservi soprattutto la caduta della tensione missionaria verso i non cristiani.
“Sì, e di questa caduta è responsabile anche una certa versione, diluita e forse mal digerita, della teologia di Karl Rahner, con la sua teoria del ‘cristianesimo anonimo’. Rahner ha forse fornito l’occasione a certi teologi di esprimere ciò che essi avevano latente: secondo loro, in ogni uomo, qualunque sia la sua credenza (o la sua non credenza) c’è già la grazia, compito del cristiano sarebbe solo quello di fortificarlo nelle sue convinzioni. Poi, c’è stata un’attenzione esclusiva, in ogni caso eccessiva, per la promozione socioeconomica: è il Vangelo, in realtà, la prima ricchezza che dobbiamo donare ai poveri. Non si può rimandare l’annuncio del Cristo morto e risorto a quando saranno stati risolti i problemi economici”.

Dialogare, senza illusioni

Il confratello gesuita francese De Lubac, grande amico di Balthasar, chiamati contemporaneamente al cardinalato
Il confratello gesuita francese De Lubac, grande amico di Balthasar, chiamati contemporaneamente al cardinalato
Come svizzero di lingua tedesca, lei è da sempre molto attento ai problemi dei rapporti tra le varie confessioni cristiane. Che giudizio dà dell’attuale momento ecumenico?
“Purtroppo, il dialogo si è rivelato un fantasma, una chimera. Non è possibile dialogare con le Chiese che non hanno quel centro di unità visibile, concreto, che è il Papato. Le Chiese protestanti sono talmente frantumate in tante denominazioni e divise poi al loro stesso interno, che ci si può intendere con una persona, con un teologo; ma tutto si ferma lì perché certamente altri verranno a dire che non la pensano allo stesso modo. Ne ho avuto esperienza personale con Karl Barth: con molti incontri, con molto lavoro ci sembrava di essere giunti a una possibile base di accordo. Ma quando l’abbiamo resa pubblica, ecco insorgere subito un altro professore di teologia di Zurigo, e poi un altro e un altro ancora, anch’essi protestanti ma in completo disaccordo con quanto diceva Barth. E ciò vale per tutto il mondo nato dalla Riforma; nessuno, ad esempio, potrà mai far sì che
l’anglicanesimo sia una Chiesa, diviso com’è da sempre in vari tronconi”.
Karl Barth, il teologo luterano grande amico di Balthasar
Karl Barth, il teologo luterano grande amico di Balthasar

L’intervista proibita e perduta di Messori a von Balthasar. In esclusiva, dopo 30 anni

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In esclusiva per Papalepapale la versione più o meno integrale del libro-intervista scomparso e messo al bando trent’anni fa. Ossia la controversa intervista di Vittorio Messori ad Hans Urs von Balthasar, dove il grande teologo svizzero fa una critica serrata alla Chiesa post-conciliare, al progressismo (ma non risparmia i lefebvriani), ma soprattutto, dopo aver preso le distanze dall’”oracolo” Karl Rahner, e ventilato una riforma “tridentina” dei seminari, riduce un budino Hans Küng. La cui reazione fu violentissima. Fino alla messa al bando del libro, quasi subito ritiraro e mandato al macero, fino alla damnatio memoriae e alla congiura del silenzio finali. Ma colpisce ancora di più il fatto che sembra fatta appena ieri: la situazione non è mutata. Vi riproponiamo qui, dunque, questo testo non raro, ma introvabile. Donatoci direttamente dall’autore, Vittorio Messori, con licenza di pubblicarlo.

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Antonio Margheriti Mastino

Me dovreste aringrazià!

Me dovreste aringrazià sì, invece de lamentavve sempre e dì “il mastino è così il mastino è colà, il mastino è stronzo e scrive pure le parolacce”[e fra l’altro è una calunnia]. Sciocchi. Massì, perché vi porto in dono una cosa che non avreste immaginato, data per perduta, e più che altro dimenticata, persino dal suo autore.
Sto parlando di un libricino edito intorno al settembre 1985, quasi trent’anni fa. Che neppure fece in tempo ad arrivare nelle librerie e fu subito ritirato e mandato al macero. Per ordine dell’editore, che a sua volta aveva avuto ordine da Avvenire, che a sua volta l’aveva avuto dal Vaticano, che a sua volta l’aveva avuto dai teologi progressisti tedeschi, che a loro volta l’avevano avuto dal demonio loro dottore.  Su questo libro è caduta la damnatio memoriae, tant’è che neppure nelle bibliografie dei tanti studi su Hans Urs von Balthasar, il teologo della bellezza, e il teologo tra i più grandi dell’ultimo secolo, se ne fa cenno alcuno: è stato dato un colpo di spugna definitivo ovunque.
von Balthasar, olio su tela
von Balthasar, acquerello
Sì, perché sto parlando proprio di lui, Balthasar, della lunga intervista che a ridosso del Sinodo Straordinario dell’85 rilasciò a colui  – Vittorio Messori – che poco prima era stato l’autore di un’altra bomba ecclesiale: “Rapporto sulla fede”, in cui era per la prima volta un prefetto del Sant’Uffizio – Ratzinger – a dire la sua, e più che altro suonare il campanello della “ricreazione finita” al postConcilio delirante e contestatore, che nel frattempo s’era anche armato, con la TdL. E scoppiò un finimondo planetario, alla pubblicazione.
E bomba è questa pure, che memori di quell’altra, fu immediatamente disinnescata dalla reazione a catena delle lobbies teologiche. Lo stesso Balthasar ne fu spaventato, sino a smentirla sui giornali tedeschi. Purtroppo per lui, era registrata. Ma rieccola qui, tirata fuori dall’oblio trent’anni dopo, con il consenso di Messori.
Mi è corso un brivido di esaltazione lungo la schiena quando ho letto Balthasar che riduce praticamente un budino Hans Küng, dipingendolo con una maestria rara come un mendicante della teologia senza alcun credito presso i teologi seri, ma semmai con debiti da saldare… vendendo le sue mutevoli opinioni da teologia da salotto ai rotocalchi. E durissimo va sulle teologie della liberazione, sulla contestazione clericale, sul postConcilio che ha centuplicato le strutture invece di semplificarle soffocando così fede e vescovi. E poi enuncia tutto il suo amore appassionato per la Chiesa Cattolica Apostolica e Romana, “contro ogni complesso antiromano”.
Ma prima di proporvi l’intervista, vorrei raccontarvi con “parola argute” e aneddoti vari, come andò quella volta, e come mi ritrovo questo pezzo raro tra le mani. Se non ve ne frega niente della mia premessa, significa che non siete all’altezza della situazione, dunque saltate pure più giù, all’intervista Messori-Balthasar.

Vi racconto come è andata

Balthasar
Balthasar
Vittorio Messori è uno scrittore professionista di… “long-seller”, ossia non solo libri che all’uscita registrano il tutto esaurito scalando le classifiche com’è per i best-seller; ma libri destinati a restare in catalogo per decenni, forse per sempre, ciclicamente ristampati. È l’apice del successo per uno scrittore, la vera sola consacrazione definitiva. Va da sé è anche l’occasione più ricercata, ambita e rara, per chi vive di penna. Un vero miracolo, se quello scrittore è anche un giornalista cattolico, che per giunta di cose cattoliche scrive. Pensate che ad oggi, in Italia, questa vetta spetta a Umberto Eco, certo, ma a pari numeri, se non di più, a Vittorio Messori. Curioso che per entrambi l’argomento di fondo fosse uno: la fede cattolica. Eco per tentare di sputtanarla; Messori per difenderla. Diciamo che stanno pari e patta. Solo che Eco si può smentire facilmente. Basta aver studiato. Anche perché il suo solo vero libro, Il Nome della Rosa, è appunto un romanzo, fantasia dunque, ideologica quanto vi pare, come ha anche ammesso quell’autore “mosso dalla necessità di ammazzare un monaco”, ma fantasia. Perversa magari. E ciò non toglie sia bellissimo libro quello.
Non solo long-seller, ma long-seller premeditati quelli di Messori. Cioè, lui li scrive consapevole che taluni di essi lo saranno: naso sopraffino, certo; ma anche esperienza, anni e anni passati a La Stampa, negli anni ’70, a curare (e allora la cosa era seria e di successo) l’allegato settimanale di quell’antico quotidiano, Tuttolibri.
A Torino c’era un tempo la casa editrice di Piero Gribaudi, altro tipo di cattolico di cui varrebbe la pena parlare. Il Gribaudi era comunque un vero esperto di editoria religiosa. Una sera a cena nella casa torinese di Messori, suscitò l’ilarità dello scrittore, perché  posò la forchetta , lo guardò e: «Vedi Messori, nella mia lunga vita di editore tu sei il solo che io abbia incontrato convinto di star scrivendo un best-seller come primo libro e che lo abbia scritto davvero». Naso certamente, esperienza certo, ma anche realismo, avere perfettamente il quadro della situazione e dei tempi.
Vittorio Messori
Vittorio Messori
E allora non stupisce che sia stato lui l’intervistatore di quel futuro papa (altro colpo) che era Ratzinger, l’allora tanto contestato “Panzerkardinal”, il prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il “Grande Inquisitore” come lo intitolavano i più indecenti e traviati esponenti del progressismo “cattolico” ma anche i più moderati. Non stupisce soprattutto che Messori abbia “premeditato” quel libro sicuro che fosse una bomba. Una bomba che infatti esplose in tutto l’Orbe cattolico con reazioni a catena di proteste rancorose da parte dei peggiori “contestatori” clericali, e che fece di Ratzinger il mostro della “reazione” agli occhi dei progressisti, divenuti nel frattempo non solo marxisti a scoppio ritardato, ma pure guerriglieri rossi mitra alla mano; e di Messori un bersaglio mobile (su consiglio della polizia dovette rifugiarsi in un luogo segreto, perché minacciato di morte da “cattolici dialoganti” e “democratici”, va da sé “non-violenti”), colpevole non solo di aver intervistato il “Grande Inquisitore”, ma persino di avergli dato ragione.
Ne chiedo qualche dettaglio “inedito” al Messori stesso, sulla genesi di quel best-long-seller che fu Rapporto sulla fede. E sì, c’era davvero premeditazione.
Rapporto_Sulla_Fede«Mi era chiarissimo quel che volevo fare e prevedevo anche i risultati. Ratzinger, no, nella sua innocenza. E non riusciva a capire che cosa volessi fare. Tanto che quando gli portai il manoscritto, come da accordi, mi ricevette affannato: “Ho le visita ad limina e tante altre cose. Lo darò a don Clemens perché veda lui”. Che era poi il segretario — l’unico prete che abbia mai conosciuto nato e ordinato a Berlino, capitale di quella Prussia che, per Donoso Cortes (che vi fu ambasciatore) “ha per padre il diavolo”. Io di fronte al sottogamba del Prefetto sbalordii: “Ma Eminenza, mi permetta di insistere. Lo guardi Lei e con molta attenzione. Susciterà molte polemiche, in tutto il mondo”. Lui mi guardò con quegli occhi azzurri, spalancati,  da eterno  bambino: “Polemiche? Warum?”. Perché? Riuscii a convincerlo a leggerlo, mi restituì in pochi giorni  il testo quasi senza correzioni: “Alcune delle cose che Lei mi fa dire [Messori in genere non registrava, prendeva appunti a mano. Ndr] non le ho dette. Ma ha fatto bene ad attribuirmele perché se non le ho dette, e proprio in quel modo, è perché mi ero dimenticato…”. E, lealmente, mi difese pubblicamente quando si cercò di disinnescare la bomba dicendo che quella non era la Chiesa secondo Ratzinger ma secondo Messori, quel fazioso che era riuscito a plagiare un serio ma disarmato teologo». Così nasce un best-long-seller premeditato.
E aggiunge anche dell’altro Messori:
«Non so se ha l’ultimo volume, uscito in appendice, del Fliche e Martin, la più vasta storia della Chiesa. Vi è un teologo olandese che, invelenito, dice che il giorno di uscita di quel libro va ricordato nel lutto perché sancisce la fine del postConcilio,  pieno di speranze e di prospettive entusiasmanti. Ma proprio questo volevo: fare fischiare dal Custode stesso dell’ortodossia la fine della ricreazione». Che bene o male, ancora continua, e in taluni casi, molti “studenti” hanno proprio abbandonato la scuola, qualcuno sospeso.
Il giornalista cattolico e il Prefetto dell'Ortodossia, ai tempi di "Rapporto sulla Fede"
Il giornalista cattolico e il Prefetto dell’Ortodossia, ai tempi di “Rapporto sulla Fede”. Come vedete due mostri sanguinari, o almeno così sembrarono ai progressisti. Che nel frattempo si erano muniti di mitra per giocare ai rivoluzionari
Uno scrittore che non conosce “fallimenti” nella sua fortunatissima carriera editoriale. Siccome con me è molto paziente, anche perché un po’ lo diverto, e mi diverto anche io perché ne sa sempre una più del diavolo, certe volte lo stuzzico. Per esempio sarebbero dovuti uscire libri-intervista di Messori a Del Noce (e sarebbe diventato un altro long-seller, un classico imprescindibile), ad Andreotti, al card. Brandumuller, a von Balthasar, ma niente s’è visto. Naturalmente le ragioni me le ha spiegate e nessuna colpa è imputabile allo scrittore, che è ampiamente giustificato, e comunque tutti quanti abbiamo perso grandi occasioni con questi libri mai nati: ma ve lo immaginate un libro-intervista tra il grande scrittore cattolico, Messori, e il grande politico cattolico, Andreotti? Sul papato?! Purtroppo Andreotti fece di testa sua e pubblicò da sé, con risultati finali piuttosto irrilevanti, quantunque la proposta di quel libro a quattro mani venisse proprio dal Divo. Tutto questo lo so, ma provoco ugualmente Messori, buttando lì, certissimo di una sua reazione, un “progetti velleitari”. Restandone fulminato: io non lui.
E infatti dovevo arrossire di brutto quando mi ha spiazzato con una risposta che è – per uno come me che si spaccia per “esperto” di tutta la produzione messoriana – agghiacciante: mi precisava infatti che in realtà il libro-intervista a Balthasar, per quanto piccolo e scarno fosse, era stato pubblicato eccome, ed era stato pure ritirato dal commercio, solo che io tutto questo lo ignoravo. Un affronto! Una vera figura da coglione, roba da far ridere i polli.
E infatti mi sfotte: «Dunque: per un “messoriano”  (ahimé, la perversione umana supera ogni fantasia) non sapere che il libro intervista con Balthasar l’ho fatto, eccome, è grave». E come finale mi ci infila pure un «eh, no, può dirmi di tutto ma non di essere un velleitario. Forse talvolta pigro ma rodomonte dal “partiam, partiam!” no… ». E così mi ha sistemato per bene. Ma a pensarci col senno di poi, è stata una fortuna.
Il sen. Gian Guido Folloni, allora diretto di Avvenire
Il sen. Gian Guido Folloni, allora direttore di Avvenire
Infatti, non appena che mi era passata la voglia di “stuzzicare”…  a chi la sa troppo più lunga di me, appena che avevo messo la coda da mastino tra le gambe, balbetto qualcosa… tipo “ma io non l’ho mai mai mai incrociato da nessuna parte quel libro, giuro! Mai sentito dirne: che avesse intervistato il gran teologo, sì, ma che ne fosse stato tratto un libricino no: lo andrò a cercare, su Amazon, Ebay, Maremagnum… ovunque!”.
Come suo costume, Messori, dopo che ti ha steso ti dà una mano a rialzarti, da quel generoso che è, anche se non sembra. Infatti offre qualcosa: «Se non lo trova, siccome è molto esile glielo faccio fotocopiare e lo invio. Ammesso che io pure riesca a trovarlo tra i miei libri… La damnatio memoriae ha funzionato persino con l’autore…».
Damnatio memorie? Ma a cosa allude? Glielo domando, e scopro che c’è tutta una storia rognosa dietro.
«Ne uscirono polemiche tanto grandi che l’editore – mi pare fosse l’Ancora – ritirò dal commercio l’opuscolo. Soprattutto perché Balthasar diceva che Hans Küng non solo non era più cattolico ma non era più cristiano. Ne nacque una bagarre, con un  Küng con la bava alla bocca. E lo stesso von Balthasar si spaventò, disse che non lo aveva detto ma io avevo accanto come testimone Folloni, allora direttore di Avvenire. Sia Avvenire che l’Editore decisero di considerare il libro (che poi era solo una piccola brochure) come un fatto spiacevole non avvenuto. Accidenti, quante cose avremmo da raccontare noi vecchi…».
Ma come, il più grande e colto dei teologi del post-concilio e del secolo tutto, ormai vecchio per giunta, che si spaventa all’abbaiare di quel cane randagio da teologia da rotocalco che è Küng? Di quel malato di egocentrismo e di fatturati? Ebbene sì, ma non solo di lui, in realtà: di tutto il gotha teologante di lingua tedesca di allora, quello svizzero specialmente: ultraprogressista e di fatto post-cattolico, era molto violento, intollerante, aggressivo, conformista, rivelando l’animo più profondo del teutonico (non c’è niente da fare: scava scava, a lasciagli il predominio su qualcosa, vien fuori..), ossia il barbaro mai morto, che cova in loro sotto le ceneri del perbenismo borghese il quale prima o poi fa divampare sempre un Hitler, un Bismark, una Merkel… l’Attila intramontabile.
ritratto a carboncino di Balthasar
ritratto a carboncino di Balthasar
Mi precisa ancora Messori, di quell’affaire teologico-internazionale:
«Comunque, Balthasar ci fece una  figura  meschina, e tra le più imbarazzanti. Non avendo visto registratori si era pentito e spaventato di quel che aveva detto e  sperava di incastrarmi, dicendo che NON aveva detto che Küng non era neanche più cristiano. Ma a Basilea mi aveva portato Guido Folloni il quale, annusando le polemiche, si era messo il registratore in tasca e il microfono all’occhiello, mascherato da non so quale stemma. Forse quello della Reggiana AC di cui era tifoso. Sperando comunque di pararsi il lato B  almeno nei Paesi germanofoni, senza dirmi nulla von Balthasar mi smentì come un manipolatore in una intervista sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ovviamente, lo venni subito a sapere e gli mandammo per corriere copia dei nastri. Farfugliò scuse, continuò a parlare di equivoco, anche se per ben tre volte aveva ripetuto, sbattendo il pugno sul tavolo, nel suo bel chalet di Basilea: “Ich wiederhole, meine Herren: Kueng ist nicht mehr christlich!”». Küng non è più cristiano.
Intanto si era mobilitata la lobby dei teologi amici di Küng, anche Folloni si spaventò (la sintesi dell’intervista era apparsa prima su Avvenire), intervennero gerarchi vari e le traduzioni furono bloccate mentre l’originale era ritirato dalle librerie. L’editore lo ritirò istigato “dal Vaticano”, malgrado l’entusiasmo di Giovanni Paolo II che lo aveva fatto tradurre in fretta in polacco, e che se ne era procurate diverse copie che distribuiva personalmente ai suoi visitatori.
Messori fa spallucce e la prende con filosofia: «Vabbé, come sa sono abituato a non prendermela, forse perché non mi prendo troppo sul serio, e ancora una volta mi misi a ridere e lasciai perdere. Peggio per loro…».
Detto così, e dopo avergli convertito in formato word quell’antico testo, mi fa una concessione per Papalepapale: «Questo testo io stesso l’avevo dimenticato e l’ho recuperato per Sua istigazione. Del testo faccia ovviamente quel che crede, se vuole lo pubblichi pure sul suo sito».
Ed eccoci qui, con questa, diciamo così, esclusiva.