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sabato 29 febbraio 2020

Spes salvi

Spes salvi
La libertà presuppone che nelle decisioni 
fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell'intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale dell'umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa.    
 Ma ciò significa che:
a) il retto stato delle cose umane, il benessere morale del mondo non può mai essere garantito semplicemente mediante strutture, per quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo importanti, ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori gioco la libertà dell'uomo. Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera adesione all'ordinamento comunitario. La libertà necessita di una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comunitariamente.
b) Poiché l'uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell'uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone.
25. Conseguenza di quanto detto è che la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione; non è mai compito semplicemente concluso. Ogni generazione, tuttavia, deve anche recare il proprio contributo per stabilire convincenti ordinamenti di libertà e di bene, che aiutino la generazione successiva come orientamento per l'uso retto della libertà umana e diano così, sempre nei limiti umani, una certa garanzia anche per il futuro. In altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L'uomo non può mai essere redento semplicemente dall'esterno. Francesco Bacone e gli aderenti alla corrente di pensiero dell'età moderna a lui ispirata, nel ritenere che l'uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza è fallace. La scienza può contribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanità. Essa però può anche distruggere l'uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa. D'altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull'individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l'orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito – anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell'uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti.
26. Non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore. Ciò vale già nell'ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un grande amore, quello è un momento di « redenzione » che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l'amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L'essere umano ha bisogno dell'amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: « Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore » (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l'uomo è « redento », qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha « redenti ». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che non costituisce una lontana « causa prima » del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno può dire: « Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20).
27. In questo senso è vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell'uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora « sino alla fine », « fino al pieno compimento » (cfr Gv 13,1 e 19,30). Chi viene toccato dall'amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe « vita ». Comincia a intuire che cosa vuole dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la « vita eterna » – la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l'abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi « vita »: « Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora « viviamo ».
28. Ma ora sorge la domanda: in questo modo non siamo forse ricascati nuovamente nell'individualismo della salvezza? Nella speranza solo per me, che poi, appunto, non è una speranza vera, perché dimentica e trascura gli altri? No. Il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Gesù – da soli e con le sole nostre possibilità non ci arriviamo. La relazione con Gesù, però, è una relazione con Colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi (cfr 1 Tm 2,6). L'essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere « per tutti », ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l'insieme. Vorrei, in questo contesto, citare il grande dottore greco della Chiesa, san Massimo il Confessore († 662), il quale dapprima esorta a non anteporre nulla alla conoscenza ed all'amore di Dio, ma poi arriva subito ad applicazioni molto pratiche: « Chi ama Dio non può riservare il denaro per sé. Lo distribuisce in modo ‘divino' [...] nello stesso modo secondo la misura della giustizia » [19]. Dall'amore verso Dio consegue la partecipazione alla giustizia e alla bontà di Dio verso gli altri; amare Dio richiede la libertà interiore di fronte ad ogni possesso e a tutte le cose materiali: l'amore di Dio si rivela nella responsabilità per l'altro [20]. La stessa connessione tra amore di Dio e responsabilità per gli uomini possiamo osservare in modo toccante nella vita di sant'Agostino. Dopo la sua conversione alla fede cristiana egli, insieme con alcuni amici di idee affini, voleva condurre una vita che fosse dedicata totalmente alla parola di Dio e alle cose eterne. Intendeva realizzare con valori cristiani l'ideale della vita contemplativa espressa dalla grande filosofia greca, scegliendo in questo modo « la parte migliore » (cfr Lc 10,42). Ma le cose andarono diversamente. Mentre partecipava alla Messa domenicale nella città portuale di Ippona, fu dal Vescovo chiamato fuori dalla folla e costretto a lasciarsi ordinare per l'esercizio del ministero sacerdotale in quella città. Guardando retrospettivamente a quell'ora egli scrive nelle sue Confessioni: « Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato la fuga nella solitudine. Ma tu me l'hai impedito e mi hai confortato con la tua parola: « Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto per tutti » (cfr 2 Cor 5,15) » [21]. Cristo è morto per tutti. Vivere per Lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo « essere per ».

mercoledì 26 febbraio 2020

predicare i valori morali non partendo dal fatto di Cristo è fuorviante

predicare i valori morali non partendo dal fatto di Cristo è fuorviante
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"...predicare i valori morali non partendo dal fatto di Cristo è fuorviante: si provoca l’uomo a una cosa di cui non è capace, perché non è capace d’applicare tutti questi valori, anzi, non è capace neanche d’applicarne uno solo, perché sono tutti collegati. È il famoso paragone che facevo del ragazzo che è un disgraziato, un delinquente, cioè un poco di buono, e tutte le ragazze del paese sono sue, e tutte le mamme dicono alle ragazze: «State attente a quello lì! State attente a quello lì!», e tutte lo rifuggono. A un certo punto, invece, si innamora di una persona, ma si innamora veramente. Questa qui tutte le volte che lui l’accosta scappa, perché sa che tipo è, ma lui le dice: «Ma no, ma questa volta è diverso, questa volta è diverso: ti voglio bene veramente». E quella, prima, non ci crede... Supponiamo che ci mettano sei mesi: per sei mesi questa qui scappa e lui dietro. In quei sei mesi lì, cambia. Alla fine di quei sei mesi, sua madre incontra la madre della ragazza e dice: «Mio figlio è cambiato, è irriconoscibile!». Seguendo la ragazza e quello che lei voleva, lui è cambiato: ha imparato tutto e non ha studiato a memoria il catechismo dei valori! Il cristianesimo entra nel mondo così."

Don Luigi Giussani
-Il cristianesimo entra nel mondo così-

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con i “Memores Domini”1993

martedì 25 febbraio 2020

By E.Hillesum
"Ci sono due forme di solitudine:
L'una mi fa sentire terribilmente infelice,perduta,e quasi sospesa.
L'altra mi fa sentire forte e felice.
La prima è sempre presente quando non mi sento in contatto con i miei simili,quando in genere non ho benché il minimo contatto con alcunche',allora sono completamente tagliata fuori da tutti e da me stessa.Non afferro il senso di questa vita , né vedo ciò che unisce le cose ,le persone.
Nella seconda solitudine mi sento invece forte e sicura ,in contatto con tutti e con.Dio ,e so di poter affrontare la vita da sola senza dipendere dagli altri.
In quei momenti mi sento parte di un tutto ricco di significato ,immenso ,
e mi sembra di poter dare molta forza anche agli altri "
Diario:pag 139 140..edizione Adelphi.2012.
Dunque quello che fa la differenza tra
le due forme di solitudine ..non è l'essere
soli o in compagnia,ma il vivere una vita piena di significato ..

lunedì 24 febbraio 2020

Pasolini Aborto

"Sono .. traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano - cosa comune a tutti gli uomini - io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell'aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio piú forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo.

La prima cosa che vorrei invece dire è questa: a proposito dell'aborto, è il primo, e l'unico, caso in cui i radicali e tutti gli abortisti democratici più puri e rigorosi, si appellano alla "Realpolitik" e quindi ricorrono alla prevaricazione "cinica" dei dati di fatto e del buon senso".

Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 19 gennaio 1975

sabato 22 febbraio 2020

V. Frankl e la ricerca di un senso alla sofferenza umana – Logoterapia e analisi esistenziale.


V. Frankl e la ricerca di un senso alla sofferenza umana – Logoterapia e analisi esistenziale.


Il contributo di Viktor Frankl (1905-1997) è ricco di frasi suggestive, spesso paradossali, dal significato talora rivoluzionario.
Da alcune affermazioni possiamo scorgere l’originalità del suo pensiero.
“Il piacere è l’ultima cosa per cui siamo al mondo“.
Com’è evidente, Frankl rifiuta di trovare il fondamento della volontà umana nel principio pulsionale del piacere (come nella psicoanalisi freudiana).
L’edonismo è destinato alla ripetizione di piaceri conosciuti, fino alla noia. Una volta appagati i sensi, subentra inevitabilmente un sentimento di manchevolezza: l’uomo aspira sempre a colmare questo vuoto, ad andare oltre lo stesso piacere. Quindi il sentimento del trascendere se stessi ha un primato sulla ricerca della soddisfazione dei sensi.
L’uomo non aspira neanche al piacere inteso come assenza di dolore, come omeostasi: la risoluzione delle tensioni potrà anche soddisfare le leggi della fisica, ma non l’individuo e la sua soggettività:
“L’umano dell’uomo inizia proprio quando egli si pone la domanda se debba piegarsi o no a questa o a quella tendenza”.
L’essere umano è autentico non quando è in stato di quiete, ma quando si pone un problema.
Non quando fugge dai propri sentimenti, ma quando li affronta a viso aperto per conoscere se stesso.
L’uomo non è spinto dall’istinto, ma è attirato dai valori”.
Alla base dell’esistenza dell’individuo vi è il sentimento di trascendere se stesso, di andare oltre le cose, anche oltre gli stessi confini limitati del suo corpo e della mente.
L’uomo esiste in quanto ha un’intenzionalità (secondo il significato della fenomenologia di Husserl), che lo porta a superare se stesso per raggiungere il mondo dei valori (secondo la teoria di Max Scheler), ovvero gli ideali che danno un senso alla sua esistenza.
L’ideale più nobile è quello di donare se stesso ad un’altra persona o ad una causa comune all’umanità.
L’uomo è veramente se stesso quando, impegnato nell’attuazione di un compito o nell’incontro con un partner, si supera e si dimentica“.
Mentre la psicoanalisi di Freud subordina l’esistenza umana alle pulsioni istintuali, l’analisi esistenziale di Frankl propone un rovesciamento dei due termini.
A guidare l’uomo non è quindi la ricerca istintiva del piacere, ma l’aspirazione a trovare un significato (logos) alla propria esistenza.
Il logos è la consapevolezza della mia tensione ad auto-superarmi, non importa a quale prezzo.
L’analisi esistenziale insegna all’analizzando ad essere capace di soffrire“.
È un principio che si scontra con la maggior parte delle psicoterapie, che vorrebbero invece ottenere la remissione del sintomo-sofferenza.
Secondo Frankl, invece, la sofferenza non è un sintomo di una malattia, ma è un naturale sentimento umano.
La patologia mentale nascerebbe, invece, proprio dal tentativo del soggetto di evitare la sofferenza anzichè affrontarla. Se cerco di evitarla, tuttavia, essa prenderà sempre altre forme, fino a costituire un insieme caratteristico di sintomi psicopatologici (es. ansia, depressione, paranoia, fino al delirio).
Che cos’è la sofferenza? È il sentimento che nasce dalla percezione di un divario tra com’è la realtà e come io ritengo che dovrebbe essere.
La sofferenza è inutile? Essendo un sentimento, nasce prima della ragione, per cui è al di fuori della logica dell’utilità.
È spiacevole, ma è una forma di conoscenza concreta della realtà, non astratta come un giudizio intellettuale. Può essere lo stimolo per un cambiamento nella visione di me stesso e del mondo.
La sofferenza ha comunque sempre un senso, più o meno nascosto: comprenderlo mi permette di accettarla. E l’accettazione, a sua volta, riduce l’intensità del dolore.
L’esperienza di Frankl di essere stato internato in diversi lager nazisti, dal 1942 al 1945, avrebbe potuto sopprimere in lui ogni desiderio di dare un senso all’esistenza umana. Ha invece rafforzato, nell’Autore, la convinzione che l’essere umano è capace di superare qualsiasi avversità se riesce a darle un significato. Fondamentali sono state le esperienze condivise con alcuni compagni di prigionia:
“Internato in un campo di concentramento, un uomo portò con sè il manoscritto pronto per la stampa di un libro: era la sua creatura. Invano, però, tentò di tenerlo nascosto, aspettando tempi migliori per pubblicarlo. Non vi riuscì; il manoscritto andò perduto e con esso ogni probabilità di stampa. In tale estrema ed intima situazione egli sperimentò che vivere, soffrire e morire in conformità agli insegnamenti contenuti nel manoscritto era molto più importante della sua pubblicazione“.
Non importa quanto sia drammatica la sofferenza: essa è sempre affrontabile, a patto di trovare in essa un significato. Anzi, proprio nelle situazioni estreme l’uomo ha l’occasione di risvegliarsi e di iniziare a vivere autenticamente.
“.
All’imperativo ‘sapere aude’ ne va contrapposto un altro: ‘pati aude’, abbi l’ardire di soffrire! Questo coraggio, il coraggio dì soffrire: ecco ciò da cui tutto dipende. Occorre accettare il dolore, dire di sì al destino, prendere posizione nei suoi confronti. Solo per questa strada ci si avvicina alla verità e la si raggiunge, ma non con la fuga”.
In questo contesto qual è la mia aspirazione finale? Quella di raggiungere la felicità? Per la legge paradossale dei sentimenti, una ricerca intenzionale della felicità è sempre fallimentare.
Essa sembra sempre trovarsi più in là, oltre la nostra capacità di padroneggiarla pienamente. Questo perché la felicità è la conseguenza del raggiungimento di un valore, non il fine della vita.
Se riesco a realizzarmi in famiglia, nel lavoro o nel ruolo che mi sono ritagliato nel mondo, come conseguenza sarò felice.
Ma se mi convinco che devo essere felice a prescindere, non lo sarò mai.
Caso particolare è proprio quello dello psichiatra, che può cercare di realizzarsi nel suo lavoro illudendosi di poter dare un ordine razionale al mondo della follia che, per definizione, è fuori dal dominio della ragione.
Più egli cerca il controllo di ogni sintomo del suo assistito, più sarà destinato al fallimento; se riesce, invece, a frustrare la propria volontà di modificare a tutti i costi il paziente ed a valorizzarlo anche per le sue imperfezioni, diventerà come conseguenza un professionista di successo.
L’uomo è uno strano essere: a tratti sembra incarnare il culmine della creazione, a tratti sembra piuttosto il prodotto di un incidente evolutivo della natura.
È un essere che più cerca la felicità, più si condanna alla frustrazione; che fugge istintivamente dalla sofferenza, ma che per mezzo di essa si evolve; che stigmatizza quella stessa patologia mentale che finisce con autoprocurarsi.
L’essere umano è in sè un’immensa contraddizione.
Il paradosso è in effetti una caratteristica che distingue l’uomo da ogni altro essere vivente. Al punto che le psicoterapie basate unicamente su una logica lineare e razionale possono avere un’efficacia limitata.
Essendo il sentimento di per sè contraddittorio, ma al tempo stesso la componente più originale dell’animo umano, l’introduzione di tecniche paradossali in psicoterapia può essere determinante nel superare alcune situazioni di blocco nel corso del processo di cura.
Da queste convinzioni Frankl propone la tecnica dell‘intenzione paradossa.
La paura fobica di una paziente di avere un infarto uscendo di casa è stata superata incitandola a procurarsi intenzionalmente un attacco di cuore in pubblico; analogamente, un paziente ossessivo che si è ritirato da un lavoro in banca per il dubbio di avere commesso un errore fatale nei conti, ha ripreso in mano la sua vita professionale convincendosi della sua qualità di poter essere, volendo, “insuperabile nel commettere errori”.
Quando un paziente prova a procurarsi intenzionalmente un sintomo fobico o a desiderare il contenuto di un’ossessione, non vi riesce. Perché si sente “stupido” e gli viene da ridere. Ed a quel punto il sintomo stesso può anche scomparire.
L’umorismo è un’altra caratteristica unica dell’essere umano. Quando l’uomo riesce a ridere di sè, ha già iniziato a curare la sua psicopatologia (come sottolineato da G. Allport).
Forse il paradosso più sconvolgente di tutti è che sia stato proprio Frankl, reduce da un campo di torture, a trovare un senso alla sofferenza gratuita; fino a maturare una visione addirittura benevola dell’essere umano e ad imparare a ridere dell’esistenza stessa.
Riferimenti bibliografici:
Frankl V., Uno psicologo nei lager, 1946.
Frankl V., Logoterapia e analisi esistenziale, 1948.
Frankl V., Homo patiens – Soffrire con dignità, 1984.

venerdì 21 febbraio 2020

LA PRINCIPALE CAUSA DELLA NOSTRA ROVINA

LA PRINCIPALE CAUSA DELLA NOSTRA ROVINA


"Più di mezzo secolo fa, quando ancora ero un bambino, ricordo che un certo numero di anziani offriva questa spiegaz  ione per i disastri che avevano devastato la Russia: "Gli uomini hanno dimenticato Dio, perciò tutto questo è accaduto". Da quel giorno, ho passato 50 anni a lavorare sulla storia della nostra rivoluzione (la rivoluzione russa); ho letto centinaia di libri, raccolto centinaia di testimonianze personali. Ma se mi fosse domandato di formulare in maniera più concisa possibile la principale causa della rovinosa rivoluzione che ha inghiottito quasi 60 milioni di russi, non potrei metterla in maniera più accurata che ripetendo: "Gli uomini hanno dimenticato Dio, perciò tutto questo è accaduto."

Aleksandr Isaevič Solženicyn
 In questa magia l'anima mia risuona dell'Unico Suono che mi riporta a Dio

“Prendo in prestito dei corpi e degli oggetti, li dipingo per ricordare a me stesso la magia dell'equilibrio che regola l'universo tutto. In questa magia l'anima mia risuona dell'Unico Suono che mi riporta a Dio'."
CARAVAGGIO

mercoledì 19 febbraio 2020

BARSANTI motore a scoppio

Motore a scoppio padre Eugenio Barsanti
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Tutti conoscono il nome dei tedeschi Nikolaus August Otto, di Rudolf Diesel e di Karl Friedrich Benz, perché questi nomi sono legati indissolubilmente alla storia dell’automobile. Pochi sono, invece, quelli che saprebbero dare una identità a padre Eugenio Barsanti.
Eppure fu proprio lui, insieme all’ingegner Caro Matteucci, l’inventore del motore a scoppio che ancora oggi, con le opportune modifiche inevitabili nel corso degli anni, ci permette di volare, di precorrere le strade del mondo, di solcare i mari e di far compiere alle macchine faticosi lavori di ogni genere […]
Il libro da cui è tratto il presente articolo
Chi fu dunque, Padre Barsanti, sepolto oggi in santa Croce a Firenze, nella stessa chiesa di Michelangelo e Galilei?
Nato da uno scalpellino di Pietrasanta (Lucca), nel 1821, questo futuro inventore è accolto ancora giovinetto a studiare presso l’Ordine degli Scolopi (da schola e pius), a Pietrasanta. Di lì, non senza una certa disapprovazione del padre, decide di rimanere tra gli scolopi e si trasferisce in un’altra casa dell’ordine, detta “il Pellegrino”, in quel di Firenze, per approfondire gli studi nei quali si è rivelato, precocemente, molto versato. Il luogo è quello adatto: sia per l’origine popolare di Barsanti, sia per la sua predilezione per le materie scientifiche (che non gli impediscono, però, di amare anche la filosofia, la letteratura, la teologia…).
Infatti proprio il fondatore degli Scolopi, il santo spagnolo Giuseppe Calasanzio, si contende con un altro santo, francese, Giovan Battista de la Salle, il titolo di “fondatore della scuola popolare”: nelle Scuole Pie da lui fondate i figli dei ricchi e i figli dei poveri siedono allo stesso banco, e imparano gratuitamente, oltre alle discipline umanistiche, quelle tecnico-professionali.
Calasanzio era stato poi, oltre che un grande educatore, un amico personale di Galileo Galilei, presso il quale aveva mandato vari suoi discepoli, e a cui era rimasto vicino anche dopo la sua caduta in disgrazia presso il pontefice Urbano VIII. Il suo ordine, inoltre, avrebbero accolto e mantenuto, in una casa religiosa, a Roma, il grande matematico galileiano Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) e avrebbe fornito alla scienza, nel Settecento, personalità come Gregorio Fontana e Carlo Barletti, colleghi di Alessandro Volta all’Università di Pavia, e Giovanni Battista Beccaria, su cui sarà bene spendere due parole.
Padre Beccaria delle Scuole Pie è uno dei più insigni scienziati europei del Settecento, astronomo di fama e “padre dell’elettricismo italiano”. La sua scuola e il suo metodo si impongono a livello internazionale e i suoi scritti vengono tradotti sino in America. La sua opera costituisce “un fondamentale contributo non solo alla sistemazione e conferma delle esperienze condotte da Franklin”, ma va “oltre queste esperienze, contribuendo con prove nuove ed originali a chiarire fenomeni ancora poco noti come gli effetti meccanici della scintilla…”. Beccaria è dunque uno dei pionieri degli studi sull’elettricità, e forse il primo, nel 1762, “a verificare l’esistenza di scariche elettriche dalla terra verso le nubi” ed il primo ad utilizzare l’espressione “tensione” elettrica.
[…]
Ma torniamo al Barsanti. Proprio a Firenze, presso il già citato istituto detto il Pellegrino, aveva dimorato uno dei cosiddetti “scolopi galileiani”, cioè gli scolopi che, come padre Francesco Michelini, erano stati eminenti scienziati con un profondo legame con Galilei: il padre Clemente Settimi. Oggi il suo nome è dai più ignorato: eppure lo scolopio Settimi fu uno degli più intimi angeli custodi ed amici, insieme al padre Castelli, del grande scienziato pisano. Scrive Michele Camerota, nel suo “Galileo Galilei”: “Il sopravvenire della cecità costrinse lo scienziato ad avvalersi della continua assistenza di amici e discepoli, il cui aiuto risultava indispensabile non solo per il proseguimento dell’incessante scambio epistolare che egli intratteneva con numerosi corrispondenti, sia italiani che stranieri, ma anche, ed anzi, soprattutto, in vista del perseguimento dei diversi studi che andava sviluppando a dispetto del buio in cui ormai era definitivamente immerso. A fungere da amanuensi si alternano, nel tempo, personaggi quali Dino Pieri, successore di Niccolò Aggiunti nella cattedra di matematica a Pisa, il sacerdote fiorentino Marco Ambrogetti – che tra il giugno 1637 e il gennaio 1639, attenderà alla traduzione latina de Il Saggiatore, delle Lettere solari e del Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, in vista di una progettata edizione da stamparsi in Olanda-, Evangelista Torricelli, lo scolopio Clemente Settimi e, infine, il giovanissimo Vincenzo Viviani, che resterà preso il Maestro dall’ottobre 1639 fino alla di lui morte, avvenuta nel gennaio 1642”. Si aggiunga che il Viviani, cui dobbiamo una breve biografia di Galilei e le sue notizie sulla fede sincera di quest’ultimo, era stato allevato proprio dal Settimi, e da lui presentato e raccomandato, prima di entrare nel suo cuore, al Galilei stesso.
Quando arriva ad approfondire gli studi presso il Pellegrino, dunque, il Barsanti si trova, consapevole o meno, in un luogo che ha fatto storia e che continua a sfornare sacerdoti, educatori e scienziati. Compiuto il noviziato al Pellegrino, mutato il suo nome originario, Niccolò, in Eugenio dell’Addolorata, il Barsanti viene trasferito a san Giovannino, sempre in quel di Firenze, per proseguire ulteriormente negli studi. Qui, presso il convento annesso alla chiesa di san Giovanni, il gesuita Leonardo Ximenes, astronomo, ingegnere civile e idraulico, cui si deve l’avvio della bonifica della Maremma toscana e del Padule di Bientina, aveva fondato nel Settecento l’Osservatorio Ximeniano, passato sotto la direzione degli scolopi dopo che i Gesuiti erano stati costretti a lasciare Firenze nel 1775.
Il professore di Barsanti è ora padre Pompilio Tanzini, docente di geometria e di filosofia e collaboratore della specola astronomica, dove Barsanti ama recarsi, spesso, in solitudine, per studiare e conoscere gli strumenti dell’astronomia, dell’idraulica, della meteorologia e della sismologia. Nel 1841 Barsanti viene inviato dal suo superiore, padre Inghirami, finissimo cartografo, geografo ed astronomo (membro della Accademia della Crusca, dei Quaranta e delle accademie geografiche di Berlino e di Londra), a Volterra, in un collegio degli scolopi, dove si era formato il futuro Pio IX, ad insegnare geometria, matematica e fisica, oltre che a fare il catechista per i collegiali (al Collegio degli Scolopi di Volterra studia anche Giosuè Carducci, mentre Giovanni Pascoli si formerà al collegio degli Scolopi di Urbino, avendo come professore, tra gli altri, lo scolopio Alessandro Serpieri, eminente astronomo, metereologo e sismologo).
A Volterra, nel 1843, Barsanti concepisce le prime idee che lo avrebbero portato alla sua invenzione, e ne dà dimostrazione pratica ai suoi studenti.
Era la primavera del 1843, il “maestrino”, come gli alunni lo chiamavano per la sua giovane età e per l’esile statura, entrò in classe con in mano un barattolo con un lungo collo, strumento che si era personalmente costruito per l’esperienza che doveva fare. Quello strumento riproduceva la pistola di Volta. Il maestrino spiegò agli allievi cosa intendeva fare, riempì il recipiente con idrogeno e aria, chiuse ermeticamente il collo con un tappo di sughero quindi agli estremi della sbarretta di ottone isolata e terminante con due sferette fece scoccare una scintilla elettrica e immediatamente uno scoppio fragoroso scaraventò il tappo contro la soffitta e fece rintronare l’aula. Agli alunni spaventati spiegò cosa era avvenuto: la scintilla elettrica aveva incendiato il miscuglio di gas il quale aumentando di volume aveva prodotto lo scoppio lanciando in aria il tappo. Questo esperimento fece balenare nella mente di Barsanti l’idea di utilizzare l’esplosione di un miscuglio gassoso come generatore di una forza da utilizzare in una macchina a moto continuo che risultasse più pratica della macchina a vapore” (dal sito della Fondazione Barsanti-Matteucci).
Nel 1845 Barsanti viene ordinato sacerdote da padre Tommaso Padula, fondatore e direttore dell’Istituto per sordomuti di Siena; nel 1849 diviene professore presso il citato Osservatorio, poi professore di meccanica alle Belle Arti…
[…]
Il padre Antonelli, invece, l’altra personalità eccezionale si cui sorvoliamo per mancanza di spazio, è colui che gli presenta l’ingegner Carlo Matteucci, che, insieme al Barsanti, inventerà, appunto, il motore a scoppio.

La data di nascita di questa grande invenzione può essere identificata con il giorno 5 giugno 1853 (il brevetto, voluto dal Matteucci, fu il numero 1072 del 13 maggio 1854, in Inghilterra). Ottenuto il brevetto, i due vogliono proseguire i loro sforzi. L’idea è creare una “macchina capace di generare una nuova forma di energia che al confronto con la macchina a vapore” sia “più pratica per gli svariati usi industriali e d’officina, ma anche che essa, dal punto di vista economico”, e funzioni “con un rendimento almeno uguale, se non superiore, a quello della macchina a vapore allora imperante”. Così ai primi di maggio del 1856 vede la luce presso le Officine della Ferrovia Maria Antonietta il secondo prototipo di motore Barsanti Matteucci, una macchina a due cilindri interdipendenti, già complessa, completa, definita dal Barsanti una “forza economica perfetta” (che ha, tra gli altri pregi, quello di essere più sicura delle macchine a vapore, esposte talora la rischio di esplosione delle caldaie).
Di qui un secondo brevetto, il 1655 del 12 giugno 1857, sempre in Inghilterra (patria della ormai superata macchina a vapore). A seguire il brevetto viene riconosciuto anche in Francia, Belgio… Ma ciò non impedisce che nel 1858 il meccanico belga francese Etienne Lenoir annunci l’invenzione di un nuovo motore azionato a gas (con scarso rendimento termico), che altro non è se non un furto del motore “descritto da Barsanti e Matteucci nella domanda per ottenere proprio il brevetto francese” del 1853.
Senza darsi per vinti, nonostante la cocente delusione nel vedersi privati del riconoscimento della loro priorità, decisi a migliorarsi ulteriormente, Barsanti e Matteucci danno vita, nel 1861, ad un nuovo prototipo, tecnicamente detto “a stantuffi contrapposti ad azione diretta”.
L’ultimo motore è quello del 1863, ad un solo cilindro, verticale, ad azione differita e della potenza di 4 cavalli. Quattro anni dopo, all’esposizione universale di Parigi del 1867 Otto e Langen presentano, ottenendo la medaglia d’oro, il loro motore, che però altro non è che una copia abbastanza fedele del motore dei due italiani sia riguardo ai principi generali, sia per certi accorgimenti tecnici.
Intanto, però, il Matteucci è ormai distrutto da un esaurimento nervoso, mentre il Barsanti è morto di febbre tifoide, il 19 aprile 1864, in Belgio, assistito dal sacerdote dei minatori italiani, don Giuseppe, proprio mentre sta per assistere alla costruzione in serie del suo motore (e quindi al conseguente successo commerciale), senza mai aver smesso di confessare, celebrare messa ecc…. Prima di partire, siamo negli anni dello scontro tra Savoia e Papato, Barsanti ha scritto una lunga lettera al pontefice, Pio IX, illustrandogli lo scopo del suo lavoro: inventare qualcosa di utile per il popolo, per aumentare la sicurezza, ridurre la fatica ed i costi, e dimostrare ancora una volta ai suoi “nemici”, come la Chiesa “promuova e coltivi i trovati della scienza e dell’industria”, quando essi non sono “ostacolo al congiungimento di quel bene che più all’uomo interessa, cioè la salute eterna.
Oggi Barsanti e Matteucci, scippati in vita, come l’italiano Antonio Meucci, della loro scoperta, sono universalmente riconosciuti come i padri del motore a combustione interna.

Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra.


La speranza di Clemente Rebora


Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra.
Speravo nel tempo, ma passa, trapassa;
In cosa creata: non basta, e ci lascia.
Speravo nel ben che verrà, sulla terra:
Ma tutto finisce, travolto, in ambascia.

Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato
La Voce d’Amore che chiama e non langue:
Ed ecco la certa speranza: la Croce.
Ho trovato Chi prima mi ha amato
E mi ama e  mi lava, nel Sangue che è fuoco,
Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito,
L’Amore che dona l’Amore,
L’Amore che vive ben dentro nel cuore.

Amore di Cristo che già qui nel mondo
Comincia ed insegna il viver più buono:
Felice amore  di Spirito Santo
Che trasfigura in grazia e morte e pianto, 
D’anima e corpo la miseria buia:
Eterna Trinità, dove alfin belli
-   Finendo il mondo – saran corpi e cuori
In seno al Padre con la dolce Madre
Per sempre in Cristo amandosi fratelli,
Alleluia

la bellezza, grazie alla gioia che provoca, fa sperimentare e sperare in una certa «salvezza

 la bellezza, grazie alla gioia che provoca, 
fa sperimentare e sperare in una certa «salvezza
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«Un ragazzaccio / scappò in Scozia / e scoprì che la terra era altrettanto dura / una iarda altrettanto lunga / una ciliegia altrettanto rossa / una porta altrettanto legnosa / una canzone altrettanto gioiosa che in Inghilterra... Così si fermò / nelle sue scarpe / e si meravigliò / si meravigliò / si fermò nelle sue / scarpe e si meravigliò». Sono i versi di una filastrocca che John Keats, uno dei più grandi poeti inglesi, scrive in una lettera per raccontare alla sorella del suo viaggio a piedi in Scozia, dove era andato a caccia di sole e ispirazione. Camminando insieme a un amico tra altopiani e laghi scozzesi, nel giugno del 1818, Keats scopre che tutto è bello... proprio come nella sua terra d'origine: in quei luoghi il poeta ritrova lo stupore grazie allo sguardo attento e paziente sulle cose, nella loro costante e onnipresente bellezza, ovunque ci si trovi. Meravigliarsi «stando fermi nelle nostre scarpe» è infatti ciò di cui tutti abbiamo bisogno quotidianamente, perché se non troviamo bellezza almeno una volta al giorno perdiamo la capacità di abitare il mondo e amare la vita. La vera bellezza fa sentire a casa, anche quando ci mostra stanze oscure o chiuse. Come fa? Da un lato con la gratuità: ci regala la chiave della stanza senza che l'abbiamo cercata o meritata; dall'altro con l'armonia e la luce: ci assicura che ogni stanza è casa nostra, anche la più buia. Chi si abitua al brutto, senza accorgersene si chiude in cantina e perde la capacità di considerare il mondo una casa e gli altri gli invitati nella stessa dimora per una festa misteriosa. Abitare, forma frequentativa del latino habeo, «avere», significa infatti: continuare ad avere. La bellezza fa abitare perché fa possedere sempre ciò che ci dona, al contrario del brutto che disabita le cose: ce le sottrae, ci svuota e ci rinchiude.

Il brutto ci priva della speranza che può salvarci: di contro chi è toccato dal bello, torna a sperare, perché riscopre che la sua vita ha ancora uno scopo. La bellezza non spiega quale sia lo scopo, ma assicura che ne esista uno. Lo sa bene il Matto del film La Strada di Fellini, di cui abbiamo appena festeggiato i 100 anni dalla nascita: «Tutto ha senso, anche questo sassetto. E se sapessi quale sarei il Padre Eterno. Ma se questo sassetto è inutile, allora tutto è inutile. Anche le stelle». Lo dice a Gelsomina in una scena indimenticabile in cui la donna è disperata perché la sua vita le sembra del tutto inutile. Il Matto è un artista ambulante, un acrobata-clown capace di trovare il sublime nel quotidiano, il bello stando nelle sue povere scarpe, e per questo non perde mai il buon umore e ridona la speranza a chi lo guarda. Consola il dolore di Gelsomina con la bellezza del creato, perché la bellezza, grazie alla gioia che provoca, fa sperimentare e sperare in una certa «salvezza». In ogni suo film, Fellini cerca l'apertura su questo mondo «salvato», rappresentato spesso dal circo e dai clown, ed è proprio lì che le sue storie diventano porte sul mistero. Anche Modigliani, di cui negli stessi giorni ricorrevano i 100 anni dalla morte, cercava queste aperture sacre nei volti dei suoi ritratti e nei loro occhi, che spesso rappresentava vuoti, a volte uno vuoto e uno pieno, ma raramente li dipingeva entrambi. Che si trattasse della moglie Jeanne, di una poetessa come Anna Achmatova, di un mercante d'arte o di una bambina, Modigliani rendeva trasparenti il corpo o il volto dei suoi soggetti, perché manifestassero l'anima: per questo allungava i colli e deformava le fattezze, perché il corpo non fosse apparenza, ma evidenza della verità che spesso cerchiamo di nascondere, ma che è invece la nostra unicità. Se dipingeva un occhio solo era perché – diceva – era quello rivolto al mondo, mentre l'altro era impegnato con il proprio mistero. Aveva imparato dagli antichi, i quali credevano che l'anima risiedesse nell'occhio e per questo la chiamavano «pupilla», diminutivo di pupa (bambola, bambina): per loro l'anima era la piccola immagine riflessa al centro dell'occhio. I ritratti di Modigliani, mostrando un esterno che è in realtà un interno, ci ricordano che l'irripetibile bellezza di una persona risiede in ciò che la «anima» (dal greco anemos: soffio), il soffio della vita o di Dio che dà la vita, ragione ultima per cui bellezza e sacro spesso si identificano.
Modigliani e Fellini, a gennaio 1920, si passano il testimone per ri-animare la vita disabitata: aprire le stanze dimenticate e oscure, e rinnovare la bellezza di quelle troppo consuete. Considerate, fermi nelle vostre scarpe come Keats, l'ultima cosa bella vissuta: il senso di libertà e pienezza che vi ha colto è l'esperienza della vita salvata – grazie a un istante ormai per sempre vostro – dalla morte e resa «dimora» (che significa «posto in cui ci si ferma»). Senza bellezza, almeno una volta al giorno, smettiamo di abitare la vita, divenendo stranieri proprio a casa nostra, proprio nelle nostre scarpe.

La meraviglia nelle scarpe
di Alessandro D'Avenia
03 febbraio 2020, Corriere della Sera

martedì 18 febbraio 2020

Che cos’è, dunque, l’uomo?

Che cos’è, dunque, l’uomo?
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Che cos’è, dunque, l’uomo? Noi l’abbiamo conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si possedeva: denaro, potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo può “avere’, ma ciò che l’uomo deve “essere”; un luogo dove restava unicamente l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza. Che cos’è, dunque, l’uomo.? Domandiamocelo ancora. È un essere che sempre decide ciò che è. Un essere che porta in sé contemporaneamente la possibilità di abbassarsi al livello degli animali o di innalzarsi al livello di una vita santa. L’uomo è l’essere che ha inventato le camere a gas, ma è anche l’essere che è entrato in esse a fronte alta, sulle labbra il Padre nostro e la preghiera ebraica per la morte".
Frankl Viktor

domenica 16 febbraio 2020

La conversione di Gramsci e santa Teresina di Lisieux

La conversione di Gramsci e santa Teresina di Lisieux

"Il vescovo Luigi De Magistris, pro-penitenziere maggiore emerito, intervenendo alla presentazione del primo catalogo internazionale dei santini, ha rivelato i particolari delle ultime ore di vita dell’ideologo del Pci Antonio Gramsci: “Il mio conterraneo, Gramsci, aveva nella sua stanza l’immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù.
Durante la sua ultima malattia, le suore della clinica dove era ricoverato portavano ai malati l’immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: ‘Perché non me l’avete portato?’ Gli portarono allora l’immagine di Gesù Bambino e Gramsci la baciò. Gramsci è morto con i Sacramenti, è tornato alla fede della sua infanzia. La misericordia di Dio santamente ci ‘perseguita’. Il Signore non si rassegna a perderci”.

di Andrea Tornielli

La grandezza di Van Gogh


La grandezza  di Van Gogh
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L’Aia, 7 maggio 1882
Caro Theo,
oggi ho incontrato Mauve e ho avuto una conversazione molto spiacevole con lui da cui ho capito che le nostre strade sono ormai divise per sempre… Mauve mi rimprovera di essermi definito un artista – cosa che non ritiro, perché è ovvio che la parola comprende il significato di cercare sempre senza mai riuscire a trovare del tutto. Proprio l’opposto di dire: “Lo so già, l’ho già trovato”. Quella parola, a quanto so io, vuol dire “sono in cerca, sono in caccia, ci metto il cuore”….

Una lettera autografa di Vincent van Gogh al fratello Theo, aprile 1885
Eppure – eppure – eppure. Io vorrei che Mauve si pentisse. Vengo sospettato di qualcosa… lo sento nell’aria… nascondo qualcosa… Vincent nasconde qualcosa che non si deve vedere… E va bene, signori, allora ve lo dico, visto che date tanta importanza alla forma e alla civiltà, come è giusto che sia, posto che siano sincere: è più civile, sensibile e virile abbandonare una donna o avvicinarsi a una donna abbandonata?
Io quest’inverno ho incontrato una donna incinta, abbandonata dall’uomo il cui figlio portava in grembo.
Una donna gravida che vagava per la strada d’inverno – doveva guadagnarsi il pane, ti immagini come.
Ho preso la donna come modella e ho lavorato con lei per tutto l’inverno. Non potevo darle il salario intero da modella, ciò non toglie che le ho pagato l’affitto e grazie a Dio per il momento ho potuto proteggere lei e il suo bambino dalla fame e dal freddo e ho diviso il mio pane con lei. Quando ho incontrato quella donna l’ho notata perché aveva un aspetto malsano.
Le ho fatto fare dei bagni e le ho dato quanti più corroboranti ho potuto e lei si è ripresa bene. L’ho portata a Leida in un istituto ostetrico. Non era strano che stesse poco bene, il bambino non si è girato e ha dovuto subire un intervento per girarlo con il forcipe. Comunque, ci sono buone probabilità che tutto vada a finire bene. Il parto è previsto in giugno.
Secondo me ogni uomo che valga il cuoio delle sue scarpe trovandosi davanti a un caso del genere avrebbe fatto lo stesso. Trovo quello che ho fatto così semplice e naturale, che ho ritenuto di poterlo tenere per me. All’inizio posare era difficile per lei, eppure ha imparato, mentre io ho fatto passi in avanti nei miei disegni grazie al fatto di aver avuto una buona modella. Quella donna mi è affezionata ora come una tortora addomesticata – visto che posso sposarmi una volta sola, quale migliore occasione che farlo con lei? Perché solo così potrei continuare ad aiutarla e altrimenti la necessità la riporterebbe su quella stessa strada che conduce a un abisso. Lei non ha soldi però mi aiuta a guadagnarne con il mio lavoro. Io sono pieno di passione e ambizione per il mio lavoro, e se ho lasciato per qualche tempo il disegno e gli acquerelli è perché sono rimasto sconvolto dall’abbandono di Mauve, ma se davvero dovesse tornare sui suoi passi, rirenderei con entusiasmo. Adesso al solo vedere un pennello mi sento nervoso…
Non avrei potuto fare diversamente, ho fatto quello che la mano ha trovato da fare, ho lavorato. Credevo di essere capito senza dover parlare. È vero che il mio cuore batteva per un’altra donna – ma lei era lontana e non mi voleva vedere e questa – vagava per le strade malata, gravida, affamata – in inverno. Non avrei potuto fare diversamente.
Vincent van Gogh
*la lettera è tratta da: Vincent van Gogh, “Scrivere la vita”, Donzelli 2013, a cura di Leo Jansen, Hans Luijten, Nienke Bakker

venerdì 14 febbraio 2020

aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel vostro cuore

... e io vi vorrei pregare quanto posso, caro signore, di aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel vostro cuore, e tentare di aver care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cercate ora risposte che non possono venirvi date perché non le potreste vivere. E di questo si tratta, di vivere tutto. Vivete ora le domande. Forse v’insinuate così a poco a poco, senz’avvertirlo, a vivere un giorno lontano la risposta. Forse portate in voi la possibilità di formare e creare, quale una maniera di vita singolarmente beata e pura; educatevi a questo compito, - ma accogliete in grande fiducia quanto vi accade...

RAINER MARIA RILKE, Lettere a un giovane poeta, 1929

mercoledì 12 febbraio 2020

IO E DIO

 IO E DIO


IO E DIO
Ve vojo riccontà ‘na storia strana.
Che m’è successa propio l’artra settimana
Camminavo pe’ r vialone davanti alla chiesa der paese
Quanno ‘na strana voja d’entrà me prese
Sia chiaro non so mai stato un cristiano praticante
Se c’era un matrimonio, se vedevamo al ristorante
Ma me so sentito come se quarcuno,
Me dicesse: “dai entra, nu’ c’è nessuno”
Un misto de voja e paura m’aveva preso
Ma ‘na vorta dentro, restai sorpreso
La chiesa era vota, nun c’era nessuno
La voce che ho sentito era la mia, no de quarcuno
C’erano quattro panche e un vecchio crocifisso de nostro Signore
“Guarda te se a chiamamme è stato er Creatore”
Me gonfiai er petto e da sbruffone gridai: “ So passato pè un saluto”
Quanno na voce me rispose: ”mo sei entrato, nu fa lo scemo mettete seduto!”
Pensai: mo me giro e vado via,
Quanno quarcuno me rispose: “Nu te ne ‘nnà. Resta … famme compagnia”.
“Famo n’altra vorta , poi mi moje chi la sente: è tardi sarà già tutto apparecchiato”.
“Avvicinate nu fa lo scemo, ‘o so che nu sei sposato.
Me sentivo troppo strano, io che nun avevo mai pregato
Me sentivo pregà dar Signore der creato
“Signore dateme na prova, devo da crede
Che sete veramente Iddio che tutto vede”
“Voi na prova ? Questo nu te basta? Te sei mi fijo
E io sto qua inchiodato pe er bene che te vojo!”
“Me viè da piagne, me sento de scusamme.
Signore ve prego perdonate le mie mancanze
A sapello che c’eravate pe davero …
Venivo più spesso, ve accennevo quarche cero”.
“Ahahahahhaha ma te pensi che io sto solo qua dentro?
Io so sempre stato co te, nella gioia e nel tormento.
Te ricordi quanno eri piccolino
Io pe te ero Gesù bambino
Prima de coricatte la sera
Me dedicavi sempre na preghiera
Era semplice quella che po’ fa er core de un bambino,
Me facevi piagne e con le mie lacrime te bagnavo er cuscino
Poi anni de silenzio… te s’è indurito er core
Proprio verso de me, che t’ho fatto co tanto amore.
Te gridavo fijo mio sto qua,
Arza l’occhi guarda tuo papà!
Ma te niente… guardavi pe tera
E te ostinavi a famme la guera.
Poi quanno tu padre stava male
E te già pensavi ar funerale
Sul letto de morte… nelle ultime ore
T’è scappata na preghiera… “Te affido ar core der Creatore”.
Ecco perché t’ho chiamato,
Pe ditte quanto me sei mancato.
Ho cominciato a piagne dalla gioia e dar dolore…
Ho scoperto de esse amato dar Signore…
Questa è na storiella che nun ’ha niente da insegnà,
Solo che in cielo c’è un Dio che piagne se lo chiami papà!
(Trilussa)