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venerdì 28 febbraio 2014

Ogni impeto umano nasce da un'ideologia.... in cui l'aspetto ideale iniziale viene subito massacrato si riproduce l'errore che si voleva togliere magari peggiorando


Ogni impeto umano nasce da un'ideologia.... in cui l'aspetto ideale iniziale viene subito massacrato si riproduce l'errore che si voleva togliere magari peggiorando
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 “Non c'è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo cosa sia la verità”. Malraux:
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"Noi vogliamo come tutti gli altri una migliore umanità, ma perchè una umanità viva meglio se stessa, da sola con i suoi sono i progetti le sue fantasie e le sue energie non può. Ogni impeto umano nasce da un'ideologia , cioè da un punto di vista più o meno sistemato e compie più o meno in fretta una parabola in cui l'aspetto ideale iniziale viene subito massacrato si riproduce l'errore che si voleva togliere magari peggiorando. Noi abbiamo subito sostenuto che non era possibile fare diverso, salvo un ipotesi che in mezzo agli uomini, tra gli uomini fosse emerso un fatto, assolutamente nuovo, non creato da essi, non formulato da essi. perché se l'uomo produce male, produce situazioni cattive, situazioni disumane occorre l'intervento di un fattore d'altra natura un fattore che provenga da un fattore d'altro perché la speranza di una ripresa autentica di un cammino di migliorazione autentica fosse concepibile. Questo noi vogliamo dire col termine di Comunione e Liberazione è soltanto la comunione che Dio ha reso possibile con sé attraverso Cristo, è soltanto la comunione di uomini che riconoscano questo, che dilatandosi creano oasi di umanità più vera.   Noi abbiamo dagli inizi parlato per una sola cosa, per il desiderio che la verità cristiana fosse conosciuta e che attraverso questo riconoscimento i giovani potessero vivere in un modo più pulito, equilibrato, più lieto più capace di perdono e soprattutto capaci di essere perdonati ,  compresi e perdonati di questo ha bisogno l'uomo."

DON GIUSSANI in questa *intervista su rete 4

giovedì 27 febbraio 2014

Il miracolo che salva il mondo

Il miracolo che salva il mondo
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«Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane, dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato per noi”».

Hannah Arendt,

«La Sindone è veramente del I Secolo»

«La Sindone è veramente del I Secolo»

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La Sindone esposta a Torino

La Sindone non finisce mai di stupire. Il prof. Giulio Fanti, esperto di livello mondiale per gli studi sindonici, ha appena dato alle stampe un testo dal titolo decisamente provocatorio: “La Sindone: primo secolo dopo Cristo!” (Ed. Segno). L'Università di Padova, grazie ad un progetto di ateneo, ha realizzato degli esperimenti di datazione della Sindone basati sull’analisi meccanica e opto-chimica e i risultati sono da punto esclamativo.
Prof. Fanti nel 1988, con grande clamore, la datazione al radiocarbonio aveva concluso che la Sindone era medioevale. I vostri esperimenti, invece, cosa dicono?
I risultati delle nostre analisi hanno stabilito che per la Sindone si può ragionevolmente parlare di una data del I secolo d.C., una data che è coerente con l'epoca in cui Gesù di Nazareth visse in Palestina. Il lavoro che abbiamo svolto ha prodotto datazioni compatibili fra loro fornendo una data del 33 a.C. con un’incertezza di ±250 anni. Vorrei ricordare che trattandosi di analisi scientifiche non pretendiamo di avere l'ultima parola, tuttavia siamo arrivati a queste conclusioni utilizzando tre metodi indipendenti che danno risultati coerenti tra loro. Attendiamo le reazioni del mondo scientifico che, per ora, sembrano positive.
Quindi nel 1988 qualcosa è andato storto?
In una recente pubblicazione su un’importante rivista di statistica si mostra come i risultati del 1988 sono stati affetti da un errore sistematico dovuto ad un probabile effetto ambientale che ha reso la data trovata priva di significato scientifico. Tra l'altro vi sono anche studi di altro tipo che indicano come la Sindone non possa essere considerata di epoca medioevale, ma doveva già essere conosciuta in epoca antica. Si tratta di approfondite indagini numismatiche sui volti di Cristo raffigurati nelle monete antiche. È risultato evidente che le prime monete coniate col volto di Cristo dall’imperatore Giustiniano II, a partire dal 692 d.C. (quindi sei secoli prima della datazione radiocarbonica) dovevano avere preso la Sindone come modello di riferimento.
Al di là della datazione l'immagine dell'Uomo della Sindone rimane misteriosa.
La scienza ha dimostrato che l’immagine corporea della Sindone non è ancora oggi riproducibile in tutte le sue particolarissime caratteristiche macroscopiche e microscopiche. Se si riesce a realizzare qualcosa di accettabile dal punto di vista macroscopico non si riesce a soddisfare moltissime caratteristiche a livello microscopico e viceversa. Ad oggi possiamo ragionevolmente ipotizzare che l'immagine dell'Uomo della Sindone si sia formata a causa di una notevole esplosione di energia proveniente dall’interno del corpo avvolto.
Questa “esplosione” potrebbe far pensare alla Risurrezione del Cristo narrata nei Vangeli?
Se da un punto di vista scientifico risulta piuttosto complesso stabilire quali cause possano aver determinato l'effetto dell'immagine sindonica (qualcuno recentemente ha parlato di un terremoto), il fenomeno della Risurrezione potrebbe risolvere il dilemma. Teniamo conto, tra l'altro, che i decalchi di sangue umano sul tessuto di lino non hanno la minima traccia di sbavature che sarebbero, invece, evidenti se il cadavere avvolto fosse stato rimosso fisicamente. Tutto lascia pensare che l'Uomo debba essere uscito dal lino dopo essere divenuto meccanicamente trasparente.
Ma l'uomo della sindone è davvero Gesù di Nazareth?Gli studi scientifici sulla Reliquia fino ad oggi non riescono a fornire risposte conclusive sull’identità dell’Uomo che vi fu avvolto. La scienza umana deve ammettere i suoi limiti, ma la scienza supporta la fede e viceversa. In quest’ottica, attraverso i Vangeli che confermano tutto ciò che si può osservare sulla Sindone, ma che in più aggiungono informazioni su quello che avvenne durante quella Domenica di Pasqua, non è difficile riconoscere quell’Uomo in Gesù Cristo, il Risorto dai morti.  Lorenzo Bertocchi - http://www.lanuovabq.it

Fa bene Renzi a citare una frase di Chesterton. E io rilancio con altre tre

Fa bene Renzi a citare una frase di Chesterton. E io rilancio con altre tre 

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febbraio 26, 2014 Annalisa Teggi



«Questa è la sola ed eterna educazione: essere così sicuri che qualcosa è vero da avere il coraggio di dirlo a un bambino»
G.K. Chesterton
Camera dei Deputati - Fiducia governo RenziA chiunque cita Chesterton io do istintivamente ed entusiasticamente il benvenuto come a un amico. Non vado per il sottile o non sono guardinga, perché sono lieta che chiunque peschi in quel patrimonio di santo senso comune che fu il signor GKC e perché so esattamente il motivo per cui è così facile e appagante citarlo. Chesterton fa colpo. Nel senso che colpisce sempre a segno. È un fuoco d’artificio che si guadagna il centro della scena, perché il suo esplosivo è piantato a fondo nella terra. Le parole di Chesterton riescono sempre a innescare in chi lo incontra – leggendo due righe o leggendo la sua intera e sterminata produzione – un autentico stupore, perché i suoi occhi rimasero sempre fissi su quel seme di verità che è la radice di ogni essere umano.
Dunque, citando il celebre passo di Chesterton sulla meraviglia («il mondo non finirà per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia»), il premier Matteo Renzi ha giocato un asso, toccando un nervo scoperto e vitale di tutti. Il sentiero della meraviglia non fu per Chesterton una passeggiata, ma la conquista di un soldato messo alla prova. Si rese conto che occorreva dare una svegliata alla gente, dopo aver provato da giovane sulla sua pelle una grave crisi esistenziale, da cui riemerse con questa coscienza: «Nessuno si rende conto fino a che punto è ottimista, anche se si definisce un pessimista, perché nessuno ha mai misurato l’immensità del suo debito verso chi lo ha creato e gli ha permesso di avere un nome. Nel fondo del nostro cervello, rimane un bagliore dimenticato, una fiamma di sbigottimento per la nostra stessa esistenza. Lo scopo della vita artistica e spirituale è quello di scavare quest’alba sommersa di meraviglie: e l’uomo seduto sulla sua poltrona avrebbe improvvisamente capito di essere vivo e sarebbe stato felice» (da Autobiografia).dandelion
Chesterton fa colpo e, ascoltandolo, l’uomo salta sulla sua poltrona (… su qualsiasi poltrona, anche quella del politico); è un po’ come il fischio di un amico, … o l’eco della voce paterna, a cui non si può fare a meno di tendere l’orecchio. Tendiamoglielo, allora. Il premier Matteo Renzi ha fatto bene a citare Chesterton e, siccome ha anche indicato la scuola tra le priorità del suo governo, io faccio come si fa al tavolo da gioco: rilancio e metto sul piatto del pubblico dibattito alcune riflessioni di Chesterton sul tema dell’educazione. Sono l’agricoltura della meraviglia e quanto a edilizia scolastica, le ritengo delle pietre miliari. Chiunque voglia approfondire esaurientemente il contenuto di cui riporto solo tre passaggi, può leggersi – traendone grande diletto e ispirazione – la terza parte del saggio Cosa c’è di sbagliato nel mondo, intitolata proprio L’educazione, ovvero l’errore sul bambino:
1) Nessuna pozione magica: «L’errore che oggi va per la maggiore è quello di ritenere che educazione significhi dare alle altre persone qualcosa che noi stessi non abbiamo. Ascoltando i discorsi della gente, a una persona verrebbe da pensare che l’educazione sia una sorta di pozione magica, come se da un grande calderone (…) possa uscire per puro caso qualcosa di splendido; verrebbe da pensare che noi possiamo creare quello non siamo in grado di concepire. Queste pagine non hanno, certamente, altro intento se non quello di affermare che noi non siamo in grado di creare nulla di buono se prima non lo abbiamo concepito. È strano che queste persone, che in materia di ereditarietà sono così burberamente attaccate alle leggi, in materia di ambiente sembrino pressoché convinte di credere nei miracoli. Insistono dicendo che nulla tranne ciò che è nei corpi dei genitori può formare il corpo dei loro bambini, però sembra che pensino che alcune cose possano entrare nella testa dei bambini senza che siano nella testa dei genitori o, a essere onesti, da nessuna altra parte».
2) Autorevolmente autoritari: «Nell’educazione non ci si può liberare dell’autorità; non è tanto che l’autorità dei genitori deve essere preservata, quanto che essa non può essere distrutta. Una volta il signor Bernard Shaw disse che odiava l’idea di formare la mente di un bambino. In quella circostanza il signor Bernard Shaw avrebbe fatto meglio ad impiccarsi, perché si trova a odiare qualcosa che è inseparabile dalla vita umana. (…) L’educazione è violenta; perché è creativa. È creativa perché è umana. È temeraria tanto quanto suonare il violino, categorica tanto quanto fare un disegno, brutale tanto quanto costruire una casa. In breve, è tutto ciò che è proprio delle azioni umane; è un’interferenza con la vita e con la crescita. (…) Una volta allontanati da questa autorità creativa dell’uomo, tutta quella coraggiosa scorribanda che chiamiamo civilizzazione traballa e cade a pezzi. Gran parte della libertà moderna è, alle radici, paura. Non è tanto che noi siamo troppo audaci per sopportare le regole, è che siamo troppo paurosi per sopportare le responsabilità. E il signor Shaw e la gente del suo stampo stanno principalmente rifuggendo da quella terribile e ancestrale responsabilità che i nostri padri ci hanno affidato quando hanno compiuto il gigantesco passo di diventare uomini. Mi riferisco alla responsabilità di affermare la verità della nostra tradizione umana e di tramandarla con la voce dell’autorità, una voce insopprimibile. Questa è la sola ed eterna educazione: essere così sicuri che qualcosa è vero da avere il coraggio di dirlo ad un bambino. Gli uomini d’oggi stanno fuggendo in ogni direzione di fronte a questo compito altamente audace; e l’unica loro scusa di fronte a ciò è, (guarda un po’), che le loro moderne filosofie sono ancora così immature e ipotetiche che loro stessi non ne sono abbastanza convinti per poter convincere un bambino appena nato. Questo è certamente connesso con il declino della democrazia ed è parte di un discorso che esula da questo contesto. Basta dire che, quando io affermo che noi dovremmo istruire i nostri bambini, intendo dire che dovremmo farlo noi, (…). Il problema, in troppe delle nostre scuole moderne, è che lo Stato, essendo espressamente controllato da quei pochi uomini, permette che certe stramberie ed esperimenti entrino direttamente nelle aule senza che abbiano mai attraversato il Parlamento, il pub, la case privata, la chiesa e il mercato. Ovviamente sono le cose più antiche quelle che dovrebbero essere insegnate ai più giovani, quelle verità sicure e sperimentate che il bambino deve considerare come più importanti. Ma oggi a scuola il bambino deve sottostare a un sistema che è più giovane di lui. (…) Ma tutto ciò è dovuto, come ho già detto, al semplice fatto che siamo nelle mani di una piccola oligarchia; il mio sistema prevede che uomini capaci di governare se stessi sapranno governare i loro figli. Oggi noi tutti usiamo l’espressione ‘educazione popolare’ per significare ‘educazione del popolo’. Io spererei di poterla usare nel significato di ‘educati dal popolo’».
3) Una luce più forte di ogni abbaglio: «Non ci sono persone non educate. Tutti in Inghilterra sono educati; solo che la maggior parte di loro sono educati male. (…) Senza andare a scuola neppure un giorno, il ragazzo di strada è già educato. Senza essere andato a scuola neanche un giorno, è già anche troppo educato. L’obiettivo reale delle nostre scuole dovrebbe essere non tanto di spiegare la complessità, ma esclusivamente di ristabilire la semplicità. Si sentono degli onorevoli idealisti proclamare a gran voce che dobbiamo combattere l’ignoranza dei poveri, ma in verità dobbiamo piuttosto combattere il loro sapere. I veri educatori devono fare resistenza contro un certo profluvio assordante della cultura. Tutti i giornali, tutte le pubblicità, tutte le nuove medicine e le nuove teologie, tutti i tintinnii e i luccichii dei vapori e dei metalli dei tempi moderni – è a tutte queste cose che la scuola nazionale si deve opporre, se può. (…) La scuola, infatti, ha la responsabilità di essere una rivale universale. Non c’è bisogno di negare che ovunque c’è una luce che deve conquistare l’oscurità. Ma qui io reclamo una luce che possa conquistare la luce».

Non opprimere i figli con l'idea della scuola

Non opprimere i figli con l'idea della scuola 
 (di Natalia Ginzburg)
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  copertinaAl rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare un'importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio. Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la bandiera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un'offesa. Allora i nostri figli, tediati, s'allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d'una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni.
In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c'è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d'esser continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d'ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi.
I successi o insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo con loro perché gli vogliamo bene, ma allo stesso modo e in egual misura come essi dividono, a mano a mano che diventano grandi, i nostri successi o insuccessi, le nostre contentezze o preoccupazioni. È falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d'esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti.
Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi nell'orgoglio, frustrati d'una soddisfazione.
Se il meglio del loro ingegno non hanno l'aria di volerlo spendere per ora in nulla, e passano le giornate al tavolino masticando una penna, neppure in tal caso abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse quello che a noi sembra ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti.
Se il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra che lo sprechino, buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati in un prato a giocare a football, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si tratti di spreco dell'energia e dell'impegno, o se anche questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità dello spirito.
Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico dell'insuccesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidarne la limpidità e la pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse è possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani.
Quello che deve starci a cuore, nell'educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l'amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d'attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos'è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?
(Natalia Ginzurg, Le piccole virtù, pubblicato originariamente su "Nuovi Argomenti" nel 1960)
Tutti i libri di Natalia Ginzburg

mercoledì 26 febbraio 2014

Hannah Arendt, l’ebrea laica che confidava nel «miracolo» perfino nel secolo della Shoah e del pensiero ateo

Hannah Arendt, l’ebrea laica che confidava nel «miracolo» perfino nel secolo della Shoah e del pensiero ateo 

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febbraio 23, 2014 Luigi Amicone
Così la filosofa tedesca-statunitense illuminò con la sua attitudine realista e positiva l’epoca del rancore, del dubbio, della disperazione. E delle catastrofi
arendtIl successo del film Hannah Arendt di Margarethe von Trotta sta superando ogni aspettativa. Programmato inizialmente nei cinema italiani per due soli giorni (27 e 28 gennaio, memoria della Shoah), continua a essere replicato in tutto il paese grazie alle richieste e all’iniziativa del pubblico. Riproponiamo questo articolo sulla filosofa tedesca-statunitense apparso nel numero di marzo 1997 di Tracce, mensile di Comunione e Liberazione.
Nel 1947, in una lettera all’amico Kurt Blumenfeld, capo di una organizzazione sionista con cui Hannah si era attivamente coinvolta, prima a Berlino favorendo la fuga di ebrei e di oppositori al nazismo e poi a Parigi organizzando il trasferimento di giovani della comunità ebraica in Palestina, scrive: «Io in realtà sono molto felice, perché non si può andare contro la propria vitalità naturale. Il mondo, così come Dio l’ha creato, mi sembra buono». È all’apparenza paradossale che una filosofa ostinatamente laica riecheggi le parole del libro della Sapienza: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per la vita; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale». Il carattere fiducioso di Hannah è tanto più miracoloso se si tiene conto che questo giudizio viene espresso al cospetto dell’immane tragedia che aveva appena strappato dal mondo sei milioni di ebrei.
Il “tipo ebraico”
Nonostante la catastrofe, nell’ebrea Hannah Arendt resiste la certezza del «miracolo» come «stoffa della realtà», come il fondo azzurro del cielo che non può essere cancellato da nessun uragano (e che uragano era stato il nazismo!). Questa attitudine realista e positiva è, a giudizio della Arendt, anche il tratto caratteristico di una «sorta di “tipo ebraico”». Un “tipo” che in una lettera del 7 settembre 1952 al filosofo Karl Jaspers delinea così: «È un tipo umano in cui c’è molto di positivo, e cioè tutto ciò che io faccio rientrare nel concetto di “qualità dei paria” e che Rachel (intellettuale ebrea berlinese di epoca romantica, ndr) chiamava “le vere realtà della vita: amore, alberi, bambini, musica”. C’è uno straordinario sentimento d’insofferenza delle ingiustizie; domina un’assoluta mancanza di pregiudizi e una grande magnanimità».

hannah-arendt-film-von-trottaEsattamente l’opposto della disposizione affettiva caratteristica dell’uomo moderno, che la Arendt designa con il termine «rancore». Rancore contro «tutto ciò che gli è donato, compreso la sua propria esistenza»; rancore contro «il fatto che egli non è il creatore dell’universo, né di lui medesimo». Spinto da questo rancore fondamentale «a non vedere né senso né ragione nel mondo tal quale esso si dona a noi» l’uomo moderno «proclama apertamente che tutto è permesso ed egli crede segretamente che tutto è possibile».
Come ha notato Alessandro Dal Lago, curatore delle traduzioni italiane degli scritti arendtiani, l’atteggiamento filosofico della Arendt riposa sull’assunto che il mondo «non sia una proiezione del pensiero, ma una datità irriducibile». Di qui «l’esaltazione del common sense» (da intendere nella sua originale accezione di «senso condiviso della realtà») contro «il postulato filosofico di un io puro, mero artificio retorico, una robinsonata (da Robinson Crusoe, ndr), uscita dalla condizione comune dell’esistenza» (Dal Lago) e tradimento della ragione frutto di una storia in cui «la realtà e la ragione umana hanno sciolto l’alleanza».
In un saggio sull’età moderna la Arendt scrive: «Nella filosofia e nel pensiero moderni, il dubbio occupa la stessa posizione centrale che occupò per tutti i secoli prima il thaumazein dei greci, la meraviglia per tutto ciò che è in quanto è» (Vita activa). Tale pregiudiziale sospensione dell’assenso sulle cose sembrerebbe all’origine anche di quella immoralità che la Arendt rimproverò ad esempio agli intellettuali tedeschi della sua generazione, da Heidegger a Adorno, che tentarono di ingraziarsi il regime nazista («Tra gli intellettuali l’allineamento – Gleichschaltung – era la regola, mentre non avveniva in altri ambienti. E non l’ho mai dimenticato». La lingua materna).
Scrivendo la biografia di Rachel Varnhagen (1771-1833), intellettuale ebrea protagonista della Berlino romantica (nel cui salotto si riunivano personalità del rango dei fratelli von Humboldt e August e Friedrich von Schlegel) Hannah Arendt osserva: «L’autonomia dell’uomo diventa vittoria delle possibilità che respinge ogni realtà. La realtà non può portare niente di nuovo, la riflessione ha già anticipato tutto». Dove Rousseau appare come il prototipo del «ricordo malinconico» che è «lo strumento migliore per dimenticare del tutto il proprio destino» e in cui «il potere e l’autonomia dell’anima sono assicurati. A prezzo però della verità che, senza realtà, realtà condivisa con altri uomini, perde ogni senso». Ecco allora la fondamentale slealtà dell’intellettuale moderno: «I fatti reali non mi tangono proprio» scrive Rachel a Veit «perché, che siano veri o no, li si può negare».
hannah-arendt-filmIl vero nemico del cristianesimo
Anche il concetto di “secolarizzazione” assume agli occhi della Arendt un contenuto affatto diverso da quello comunemente inteso. «A minare la fede cristiana non fu l’ateismo del XVIII secolo o il materialismo del XIX (…) ma piuttosto l’atteggiamento di sfiducia di uomini genuinamente religiosi, agli occhi dei quali il contenuto e la promessa tradizionali del cristianesimo erano diventati “assurdi”». I responsabili vanno cercati all’interno della stessa tradizione religiosa. «Comunque si voglia intendere nell’uso corrente la parola “secolare”, storicamente non può essere fatta coincidere con l’essere-nel-mondo; a ogni modo l’uomo moderno non guadagnò questo mondo quando perse l’altro mondo, e neppure la vita ne fu favorita. Egli fu proiettato in se stesso, proiettato nella chiusa interiorità dell’introspezione, dove tutt’al più poteva sperimentare i processi vuoti del meccanismo mentale, il suo gioco con se stesso». Profezia straordinaria: «È perfettamente concepibile che l’età moderna – cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana – termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto».

Si provi a rileggere il bilancio di una vita di due illustri intellettuali italiani, il laico Norberto Bobbio (De senectute) e il cattolico Carlo Bo (intervista al Giornale, 12 febbraio). E poi li si compari a questo brano della Arendt: «La speranza induce a esplorare il mondo alla ricerca di una piccola, minuscola crepa che potrebbero aver lasciato rapporti e legami; una fessura – sia pur sottilissima – che aiuti a ordinare e centrare il mondo indefinito perché l’inatteso desiderato dovrà infine uscirne fuori come felicità definitiva. La speranza porta alla disperazione se la convinzione non fa trovare nessuna fessura, nessuna possibilità di essere felice. Questa è la situazione di Rahel a ventiquattr’anni; non ha ancora vissuto nulla, in una vita che non ha ancora contenuto personale. “Sono sfortunata; non mi lascio convincere del contrario; il che ha un brutto effetto”. La convinzione diventa definitiva; non si preoccupa del fatto che continui a sperare nella felicità per quasi tutta una vita; Rahel sa in segreto che in tutto quello che accadrà, la condizione della sua giovinezza aspetta solo di essere confermata».
Postilla apparsa in calce a questo articolo: «Come siamo d’accordo con Hannah Arendt! … Forse perché da cristiani cerchiamo di essere partecipi della vita di una eredità ebraica?». Naturalmente l’autore di questa postilla è don Luigi Giussani, all’epoca capo di Cl e “revisore-editore” di Tracce.

lunedì 24 febbraio 2014

Se i nostri figli non ci seguono

Se i nostri figli non ci seguono
                                      ***                               
Vincent Nagle
sabato 8 giugno 2013

La devozione al Sacro Cuore di Gesù è un’esperienza liberante. Noi cristiani rischiamo di ridurci a misurare, in
modo moralistico, i gesti e gli atti, che pure sorgono da una vita immersa nell’amore divino, senza abbeverarci a
quella iniziativa misericordiosa che sta all’origine di tali gesti. Rischiamo di vedere solo il fardello delle nostre
preoccupazioni o responsabilità, invece di guardare al cuore di Colui che è «venuto perché abbiano la vita e
l’abbiano in abbondanza»
(Gv 10, 10).
Un parroco in Cisgiordania un giorno si lamentò con me di quanto fosse frustrato nella predicazione. Doveva
dedicare tante energie a sviluppare per il suo gregge temi quali la giustizia, la solidarietà e il perdono e non
trovava più il tempo per parlare di Cristo.
Gli ho fatto notare come fosse troppo preoccupato a guardare il frutto
dell’esperienza cristiana. Se un contadino presta tutta la sua attenzione al frutto dell’albero e non cura più il
tronco e le radici, non vedrà più molto frutto. E ne sarà scoraggiato. Se, però, cura le radici, allora il frutto viene
da sé. Spetta a noi curare le radici della vita cristiana, cioè la fede, che nasce da un incontro con il Salvatore. È
saltato sulla sedia, dicendo: «Sì, sì è così!». Era così grato, come liberato… Ecco la liberazione del Sacro Cuore di
Gesù.

Qual è, dunque, il nostro compito? Alla fine di un incontro che ho tenuto sul tema della famiglia, mi è stato
chiesto: «Se i nostri figli non ci seguono nella vita cristiana, vuol dire che abbiamo fallito?». Mi è tornata subito
alla mente la grande tristezza che avevo ravvisato spesso nei volti di genitori non più giovani, i quali mi
raccontavano di come molti dei loro figli, se non tutti, si erano allontanati dalla fede e dalla vita della Chiesa. Ho
risposto d’impulso che, per come noi lo avvertiamo, è un fallimento. Ma mi sono pentito quasi subito di quella
risposta. Noi tutti abbiamo tanta voglia di vedere nei nostri figli i frutti dell’educazione cristiana, come per
esempio un giusto senso del valore dell’altro o un indirizzo sano della loro sessualità.
Nulla di tutto questo, però, è lo scopo dell’educazione cristiana. Lo scopo dell’educazione dei nostri ragazzi è solo
uno. Che possano, prima o poi, cadere in ginocchio e gridare: «Salvami, Gesù!». Forse, per loro,
quell’allontanamento è proprio la strada che li porterà a questo gesto davanti al Sacro Cuore di Gesù.
Non
dobbiamo temere, ma pregare. Sì. È solo questo che conta. L’incontro con chi ha detto: «Non sono venuto per
condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12, 47) e «Neanche io ti condanno» (Gv 8, 11). Ecco l’unica
liberazione dell’uomo, dell’uomo peccatore. Non preoccupiamoci troppo di vedere il frutto nei figli, ma
occupiamoci solo di tracciare la strada alla scoperta di questo Cuore che «vuole» la nostra salvezza (
cfr. 1Tm 2,

4).
© Riproduzione riservata.

Se i nostri figli non ci seguono http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2013/6/8/Se-i-nostri-figli...
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domenica 23 febbraio 2014

per conoscere Gesù non basta il catechismo, bisogna seguirlo come discepoli

Il Papa: per conoscere Gesù non basta il catechismo, bisogna seguirlo come discepoli 

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Gesù si conosce seguendolo, prima che studiandolo. Lo ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa celebrata giovedì mattina in Casa Santa Marta. Ogni giorno, ha spiegato, Cristo ci domanda "chi" Lui sia per noi, ma la risposta è possibile darla vivendo come suoi discepoli. Il servizio di Alessandro De Carolis:RealAudioMP3

È una vita da discepolo, più che una vita da studioso, che permette a un cristiano di conoscere davvero chi sia Gesù per lui. Un cammino sulle orme del Maestro, dove possono intrecciarsi testimonianze limpide e anche tradimenti, cadute e nuovi slanci, ma non solo un approccio di tipo intellettuale. Per spiegarlo, Papa Francesco prende a modello Pietro, che il Vangelo del giorno ritrae contemporaneamente nelle vesti di “coraggioso” testimone – colui che alla domanda di Gesù agli Apostoli: “Chi dite che io sia per voi?”, afferma: “Tu sei il Cristo” – e subito dopo in quelle di avversario, quando ritiene di dover rimproverare Gesù che ha appena annunciato di dover soffrire e morire, per poi risorgere. “Tante volte”, osserva il Papa, “Gesù si rivolge a noi e ci domanda: ‘Ma per te chi sono io?’”, ottenendo “la stessa risposta di Pietro, quella che abbiamo imparato nel catechismo”. Ma non basta:

“Sembra che per rispondere a quella domanda che noi tutti sentiamo nel cuore – ‘Chi è Gesù per noi?’ – non è sufficiente quello che noi abbiamo imparato, studiato nel catechismo, che è importante studiarlo e conoscerlo, ma non è sufficiente. Per conoscere Gesù è necessario fare il cammino che ha fatto Pietro: dopo questa umiliazione, Pietro è andato con Gesù avanti, ha visto i miracoli che Gesù faceva, ha visto il suo potere, poi ha pagato le tasse, come gli aveva detto Gesù, ha pescato un pesce, tolto una moneta, ha visto tanti miracoli del genere. Ma, a un certo punto, Pietro ha rinnegato Gesù, ha tradito Gesù, e ha imparato quella tanto difficile scienza – più che scienza, saggezza – delle lacrime, del pianto”.
Pietro, prosegue Papa Francesco, chiede perdono a Gesù e nonostante ciò, dopo la Risurrezione, si sente interrogare per tre volte da Lui sulla spiaggia di Tiberiade, e probabilmente – dice il Papa – nel riaffermare l'amore totale per il suo Maestro piange e si vergogna nel ricordare i suoi tre rinnegamenti:

“Questa prima domanda – ‘Chi sono io per voi, per te?’ – a Pietro, soltanto si capisce lungo una strada, dopo una lunga strada, una strada di grazia e di peccato, una strada di discepolo.
Gesù a Pietro e ai suoi Apostoli non ha detto 'Conoscimi!' ha detto ‘Seguimi!’. E questo seguire Gesù ci fa conoscere Gesù. Seguire Gesù con le nostre virtù, anche con i nostri peccati, ma seguire sempre Gesù. Non è uno studio di cose che è necessario, ma è una vita di discepolo”.

Ci vuole, insiste Papa Francesco, “un incontro quotidiano con il Signore, tutti i giorni, con le nostre vittorie e le nostre debolezze”. Ma, aggiunge, è anche “un cammino che noi non possiamo fare da soli”. È necessario l’intervento dello Spirito Santo:

“Conoscere Gesù è un dono del Padre, è Lui che ci fa conoscere Gesù; è un lavoro dello Spirito Santo, che è un grande lavoratore. Non è un sindacalista, è un grande lavoratore e lavora in noi, sempre. Fa questo lavoro di spiegare il mistero di Gesù e di darci questo senso di Cristo. Guardiamo Gesù, Pietro, gli apostoli e sentiamo nel nostro cuore questa domanda: ‘Chi sono io per te?’. E come discepoli chiediamo al Padre che ci dia la conoscenza di Cristo nello Spirito Santo, ci spieghi questo mistero”.

Ultimo aggiornamento: 21 febbraio



Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/02/20

L'amore


                                              L'amore
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 L'amore non è una scintilla effimera,
nata dall'incontro di due desideri,
è una fiamma eterna sprigionata
dalla fusione di due destini.


*Gustave Thibon, Quel che Dio ha unito, 1946*

la generazione di idioti

la generazione di idioti
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Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà popolato allora da una generazione di idioti”.  
Albert Einstein

pensieri di Maria Zambrano

PENSIERI  di Maria Zambrano

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«L’attualità piena di ciò che siamo è possibile solo in vista di un’altra presenza, di un altro essere che ha la virtù di porci in esercizio, in atto (…) E come sarebbe possibile uscire da sé (…) a meno di non essere irresistibilmente innamorati».
(Maria Zambrano)

«Riconoscere qualcosa come oggetto significa fermarsi di fronte a esso, rimanerne affascinati, catturati, dargli credito, in un certo modo innamorarsene. [...] L'oggetto è qualcosa che ci sta davanti, quindi qualcosa che ci limita, di fronte al quale dobbiamo fermarci. Non potrebbe esistere senza un certo innamoramento, che è sempre un fermarsi e un annullarsi per far posto a ciò che altrimenti non avrebbe per noi esistenza piena».
(Maria Zambrano)

L'anima - di Maria Zambrano

«L’anima si è rivolta alla sua interiorità, nel suo centro si è trovato quel punto d’identità, eterno e impassibile, che è dentro l’uomo, che non lo trascina fuori di sé come oggetto del mondo intelligibile. L’agognata unità si ottiene in altro modo, è un altro genere di unità in cui la vita ha preso, grazie a questo centro interiore, i caratteri dell’essere autentico; è unità vera ed eterna».
(Maria Zambrano)

Il tempo - di Maria Zambrano


«E anche il tempo alla fine si trasfigura; non si deve mettere a tacere nulla, nessuna passione intralcia, niente di ciò che ci è stato dato si deve annichilire».
(Maria Zambrano)


La verità - di Maria Zambrano


«Quanto più la verità è pura, quanto più è filosofica, tanto più è astratta e generica. Però l’essenza di ogni verità è di essere generale e pur affermando un fatto, un semplice fatto che la vita implica, senza dare a esso maggior trascendenza, lo separa dalla vita proprio in quanto lo esprime. La verità, ogni verità, è sempre trascendente rispetto alla vita, o se lo si guarda in funzione di questa, ciascuna verità è la trascendenza della vita, il suo farsi strada».
(Maria Zambrano)

Il nulla - di Maria Zambrano


«Il nulla è l’irriducibile che la libertà umana trova quando pretende di essere assoluta … Chi pretende assolutamente di essere finisce per sentirsi nulla dentro una resistenza senza frontiere. E’ il sacro che riappare con la sua massima resistenza. Il sacro con tutti i suoi caratteri: ermetico, ambiguo, attivo, incoercibile. E come tutto quello che resiste all’uomo, sembra nascondere una promessa».
(Maria Zambrano)

La tragedia delle creature - di Maria Zambrano


«La tragedia di queste creature è in definitiva la mancanza di spazio interiore. Se guardiamo da vicino, la prima cosa che avvertiamo è il loro eccesso di pienezza, un mondo compresso, affollato di cose: personaggi in embrione, speranze e nostalgie, abbozzi e progetti, orme e presentimenti di realtà senza nome, un mondo che confina o sta nell'ineffabile, ma non per questo è meno reale. Che mancano di spazio non significa semplicemente che mancano di spazio fisico ma che mancano di spazio adeguato; creature troppo reali e piene di realtà in un mondo che gli ha inculcato credenze che non consentono loro di accoglierle. Sono le vittime, prede di allucinazioni e deliri costanti, perseguitate da rimorsi per delitti che non hanno commesso né potrebbero commettere; possedute dalla vertigine della propria infinitezza, inebriate dalla possibilità. La solitudine, questa dell'io senza spazio, è popolata da personaggi, da conati di essere all'interno di un individuo. Molteplicità variegata di esseri senza volto né nome, rancorosi per la propria esistenza a metà; così pare che sia l'inferno».
(Maria Zambrano)

La persona è la parte più vivente della vita umana, il nucleo vivente capace di attraversare la morte biologica". (Maria Zambrano)

«Ciecamente la vita continua a generare esseri che chiedono di vedere. Alcuni tra quelli riescono a crearsi le proprie luci senza bruciarsi, né bruciare». (Maria Zambrano)

"LE RADICI DEVONO AVERE FIDUCIA NEI FIORI". (Maria Zambrano)
"MI HANNO LASCIATA SOLA CON L'AMORE (...)". (Maria Zambrano)
"LA VITA DEVE TRASFORMARSI (...)". (Maria Zambrano)
"SOGNARE E' GIA' SVEGLIARSI". (Maria Zambrano)
"UNA VITA VERA SARA' QUELLA CHE SA ATTRAVERSARE IL SUO TEMPO". (Maria Zambrano)
"LA POESIA E' UN APRIRSI VERSO DENTRO E VERSO FUORI. E' UN UDIRE NEL SILENZIO E UN VEDERE NELL'OSCURITA'". (Maria Zambrano)
"LA VERITA' DI CIO' CHE ACCADE NEL SENO NASCOSTO DEL TEMPO, E' IL SILENZIO DELLE VITE, E CHE NON SI PUO' DIRE. MA E' CIO' CHE NON SI PUO' DIRE, CHE BISOGNA SCRIVERE". (Maria Zambrano)

E' la visione che apre le porte dell'anima e che innamora. (Maria Zambrano)
L'altro è la compagnia di cui ogni essere necessita. (Maria Zambrano)
Il sapere vitale è tessuto di idee incarnate. (Maria Zambrano)
Vivere è convivere. (Maria Zambrano)
La potenza si esaurisce in assenza di argini. (Maria Zambrano)
La verità trasforma la vita. (Maria Zambrano)
Vivere umanamente è andare nascendo. (Maria Zambrano)
Tutto ciò che nasce e il non ancora nato è promesso ad una forma. E' il significato primordiale nuziale della vita. (Maria Zambrano)

La filosofia e la poesia - di Maria Zambrano


«Nei tempi moderni, la desolazione è venuta dalla filosofia, e la consolazione dalla poesia».
(Maria Zambrano)






sabato 22 febbraio 2014

Amore

                         Amore
di George Herbert (1593-1633)          ***
L’Amore mi accolse; ma l’anima mia indietreggiò,
colpevole di polvere e peccato.

Ma chiaroveggente l’Amore, vedendomi esitare
fin dal mio primo passo, mi si accostò con dolcezza,
domandandomi se qualcosa mi mancava.
“Un invitato” risposi “degno di essere qui”.
L’Amore disse: “Tu sarai quello”.

Io, il malvagio, l’ingrato?
Ah, mio diletto, non posso guardarti.

L’Amore mi prese per mano, sorridendo, rispose:
“Chi fece quest’occhi se non io?”
“E’ vero, Signore, ma li ho insozzati;
che vada la mia vergogna dove merita”.
“E non sai tu” disse l’Amore
“chi ne prese il biasimo su di sé?”
Mio diletto, allora servirò”.
“Bisogna tu sieda, ” disse l’Amore
“che tu gusti il mio cibo.”
Così sedetti e mangiai.

giovedì 20 febbraio 2014

Cappella degli Scrovegni

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ROBA DA MEDIOEVO (4): Giotto, Cappella degli Scrovegni (1303-1305), Padova
Intitolata a Santa Maria della Carità, la cappella fu fatta costruire e affrescare tra il 1303 e i primi mesi del 1305 da Enrico Scrovegni, ricchissimo banchiere padovano, a beneficio della sua famiglia e dell'intera popolazione cittadina. Lo Scrovegni, nel febbraio del 1300 aveva acquistato da Manfredo Dalesmanini l'intera area dell'antica arena romana di Padova e vi aveva eretto un sontuoso palazzo, di cui la cappella era l'oratorio privato e il futuro mausoleo familiare. Incaricò di affrescare la cappella il maestro fiorentino Giotto.
La Cappella con il ciclo di affreschi di Giotto è considerata uno dei massimi capolavori dell'arte occidentale.

mercoledì 19 febbraio 2014

ACCADE A BOLOGNA

ACCADE A BOLOGNA

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18 febbraio 2014 / In News
A volte accadono piccoli fatti che sono come lampi di luce nel buio. E folgorano i cuori immersi nella nebbia e i tempi cupi. E fanno capire e vedere la realtà assai più e meglio di tanti discorsi dei cosiddetti intellettuali o di coloro che dovrebbero illuminare il mondo.
E’ accaduto a Bologna
Mercoledì scorso, dopo una lunga malattia, è morto a 59 anni Roberto “Freak” Antoni, storico leader degli Skiantos, un gruppo musicale che viene classificato come “rock demenziale” e che nacque nella turbolenta Bologna del ’77, quella degli “indiani metropolitani” e di un’Italia che poi affogò negli anni di piombo.
Freak Antoni, un artista divertente e poliedrico, rappresenta il rivolo creativo e surreale di quella stagione che a Bologna mise con le spalle al muro “da sinistra” il monolitico Pci di Zangheri e a Roma la Cgil di Lama. Freak era così ironico, dissacrante, cinico, poetico che non è possibile inquadrarlo negli schemi.
D’altra parte quella rivolta giovanile dava voce alla delusione delle rivoluzioni mancate, al disgusto per gli apparati e finiva per esprimere sogni e utopie impolitiche, un grido di “felicità subito” che aveva natura inconsapevolmente religiosa.
Tornò in quei giorni un motto del ’68 francese ricavato dal “Caligola” di Albert Camus. Diceva: “Soyez réalistes, demandez l’impossibile”. Era perfetto anche per la Bologna del ’77.  Ma era lo slogan meno politico e più religioso che si potesse coniare.
Infatti era stato un grande padre di cuori giovani, don Luigi Giussani a riprendere e valorizzare quelle parole di Camus: “Non è realistico che l’uomo viva senza agognare l’impossibile, senza questa apertura all’impossibile, senza nesso con l’oltre: qualsiasi confine raggiunga. Il Caligola di Camus – scrisse Giussani – parla di ‘luna’ o ‘felicità’ o ‘immortalità’. L’insaziabile non può che derivare da un inestinguibile. Un Destino di immortalità si segnala nell’umana esperienza di insaziabilità”.
A Bologna è rimasto qualcosa di quella ventata creativa del ‘77. Io stesso ho letto a volte, qua e là, sui muri, delle scritte che mi ricordavano “Freak Antoni”.
Vicino alla chiesa dei Servi – e a Nomisma – campeggiava un versetto biblico: “l’abisso chiama l’abisso”. E più in là, su un muro dell’Università, un memorabile: “Basta fatti, vogliamo parole”. Che – a ben pensarci – è geniale.
La morte prematura di Freak Antoni naturalmente ha richiamato a Bologna tanti amici e colleghi. Venerdì scorso, quando il Comune ha allestito una camera ardente per rendergli omaggio, nella sala Tassinari, a Palazzo D’Accursio, si sono visti molti personaggi noti dello spettacolo: c’erano Elio e Rocco Tanica delle “Storie Tese”, Luca Carboni, Samuele Bersani, Gaetano Curreri, Andrea Mingardi, Fabio De Luigi, il comico Vito, Milena Gabanelli e poi è arrivato il sindaco Virginio Merola.
Il quale ha detto alcune parole di commemorazione, in quell’atmosfera surreale e obiettivamente disperata, tipica di queste “camere ardenti”, tra volti tristi e straniti. Subito dopo si è fatta avanti una ragazza, una giovane studentessa di liceo.
Era Margherita, la figlia di “Freak”. Con dolcezza e fermezza ha detto alcune cose che hanno fatto sentire a tutti un brivido.
Un brivido di verità profonde che tutti conoscono in fondo al cuore, ma che tutti anche hanno rimosso e nascosto. Pure a se stessi.
La ragazza ha ringraziato i presenti, ha ricordato come suo padre vivesse per quel suo lavoro, per il palco, per i concerti che in tanti giorni di festa lo hanno strappato alla famiglia.
Margherita ha confessato di aver sofferto questa sua assenza, ma “adesso forse ho capito. Non so” ha detto guardando quei volti “se vi è mai capitato di sentirvi tristi. Ma tristi tristi, tanto tristi da chiedervi qual è il senso della vita, il perché delle cose. A me a volte capita. A mio padre capitava sempre. Siete tristi perché vi manca qualcosa, non è così? Altrimenti avreste l’animo appagato, soddisfatto. Ma che cosa manca?”.
La domanda della ragazza per un istante ha fatto sentire tutti come messi a nudo. Poi ha proseguito: “Ognuno cerca di colmare il vuoto che sente. Mio padre lo colmava con la droga, con i concerti, con storie d’amore improponibili. Mio padre era uno triste, uno senza speranza, un infelice, un irrequieto”.
Erano parole dette con profonda compassione e pietà. Margherita ha poi raccontato di aver trovato, l’altro giorno, nel portafoglio del padre, un biglietto dove aveva annotato questa frase: “perciò io non terrò la bocca chiusa, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore”.
Era una frase della Bibbia, del libro di Giobbe. Chissà quando e come Freak Antoni l’aveva sentita o letta e se l’era annotata, perché di certo la sentiva sua, perché esprimeva il suo dolore, la sua solitudine, le sue domande e il suo grido.
Infatti Margherita l’ha commentata così: “mio padre era un grande perché gridava, perché non si accontentava, perché il suo desiderio di felicità era più grande di qualsiasi concerto, droga o storia d’amore”.
Così, con una grazia che incantava e una pietà commossa, la giovane figlia ha descritto il senso religioso di questo padre artista irrequieto e scapigliato. E ha colto più e meglio di chiunque altro il suo genio. E il suo dolore.
Ricordando una delle sue memorabili battute (“Dio ci deve delle spiegazioni”) Margherita ha concluso con la speranza che davvero “lassù gliele dia”.
Poi, in tutta semplicità, a quella platea improbabile e sbigottita ha detto che voleva dire una preghiera per suo padre. E chi voleva poteva unirsi a lei. Ha recitato con alcuni amici l’Eterno riposo e un’Ave Maria e in quel momento una Misericordia infinita è scesa su tutti, in quella stanza, come un immenso e bellissimo panorama pieno di azzurro.
E come sono sembrate goffe e ridicole le chiacchiere di certi intellettuali e di certi notabili dell’industria sui giovani di oggi.
Se questo Paese ha una speranza, bisogna riconoscere che questa speranza ha il volto di Margherita e dei ragazzi e delle ragazze come lei. Che ci sono e sono molti più di quanto si immagini.
Nei loro volti s’intravede una speranza, una certezza, una pietà che oggi sembrano impossibili. Come quella pace di Margherita davanti al dolore della morte. Talora l’impossibile per grazia accade.

Antonio Socci

Da “Libero”, 18 febbraio 2014
Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”

martedì 18 febbraio 2014

CHE GRANDE MARGHERITA !!! la figlia di Roberto “Freak” Antoni, il cantante degli Skiantos

CHE GRANDE MARGHERITA !!!
la figlia di Roberto “Freak” Antoni, il cantante degli Skiantos
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Margherita, la figlia di Roberto “Freak” Antoni, il cantante degli Skiantos recentemente scomparso, ieri è intervenuta in apertura del Consiglio comunale di Bologna. La ragazza – ha solo 15 anni – ha ricordato il genitore con parole simili, ma non uguali a quelle che aveva usato venerdì, durante la veglia funebre (come si vede nel video in pagina). Oggi su Libero, in un bell’articolo che riprende la vicenda, Antonio Socci scrive: «Se questo paese ha una speranza ha il volto di Margherita e dei ragazzi e delle ragazze come lei. Che ci sono e sono molti di più di quanto si immagini. Nei loro volti si intravede una speranza, una certezza, una pietà che oggi sembrano impossibili. Come quella pace di Margherita davanti al dolore della morte. Talora l’impossibile per grazia accade».
Di seguito riportiamo le parole di Margherita pronunciate ieri al Consiglio comunale:

«Mi chiamo Margherita, ho 15 anni e sono la figlia di Roberto “Freak” Antoni. Oggi sono qui per riprendere quello che ho detto quando ho preso la parola venerdì scorso. La mia è una piccola testimonianza su chi era mio padre per me. Lui non è stato un padre molto presente, ma non perché non volesse, semplicemente perché non ne era capace. Io, quindi, sono cresciuta con mia madre, e mio padre lo vedevo solo di domenica, come era stato prestabilito in sede di separazione.
Crescendo ho sentito sempre di più la mancanza di una figura paterna nella mia vita e ho iniziato ad accumulare sentimenti, frustrazione, rabbia, odio. Non pensavo affatto che fosse colpa mia, se i miei genitori si erano separati, pensavo fosse colpa di mio padre, che non era stato capace di amare la sua famiglia.
Ma adesso che non c’è più, non posso dire più niente: perché lui ha passato una vita intera a cercare qualcosa e quel che cercava lui lo cerco anch’io. Lui cercava qualcosa da amare che durasse per sempre: chiamatela anima gemella, chiamatelo iPhone, chiamatelo Dio o X, potete chiamarlo come volete, ma il fatto non cambia. Mio padre era un grande perché lui continuava a cercare quel qualcosa e non si accontentava.
Vorrei citare Leopardi, in un pezzo a me caro, tratto dallo Zibaldone: “Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena (…) e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio (…) e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità e patire mancamento e voto (…) pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga nella natura umana”.
Mio padre era un grande proprio perché era non era soddisfatto dalle piccole cose insufficienti, ma aveva l’animo così grande che niente e nessuno poteva appagarlo».

L’occhio di Bauman sull’interregno

L’occhio di Bauman sull’interregno
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el sociologo anglo-polacco è da poco uscito «Cose che abbiamo in comune». Secondo il teorico della modernità liquida, che nei giorni scorsi ha preso parte al Festivaletteratura di Mantova, ci troviamo oggi nella situazione descritta da Gramsci, quando «il vecchio muore e il nuovo non può nascere» Sempre più lucido, sempre più indignato, Zygmunt Bauman, 87 anni, è arrivato a Mantova portando da solo la sua valigia, con l’inseparabile pipa e un fascio di carte che gli servono per il pamphlet sulla disuguaglianza che uscirà tra qualche mese dal suo tradizionale editore, Laterza. Il grande sociologo inglese di origine polacca, che i lettori del manifesto conoscono bene, è diventato celebre per i suoi libri sul mondo moderno, «un mondo che chiamo liquido perché come tutti i liquidi non può restare immobile a lungo. In questo nostro mondo tutto, o quasi, è in continua trasformazione: le mode che seguiamo, gli oggetti che richiamano la nostra attenzione, ciò che sognamo o temiamo, che suscita in noi speranza o preoccupazione». A questa fluidità, però, si accompagna un grandissimo aumento della disuguaglianza e una forte resistenza al cambiamento e questo sembra essere il suo nuovo interesse di ricerca: l’iniquità del sistema e la sua capacità di resistere ai tentativi di regolarlo. Ne abbiamo parlato con lui durante una lunga conversazione a Mantova, in occasione del Festival Letteratura e dell’uscita del suo nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (Laterza 2012, pp. 212, euro 15).
Lei è il teorico della «modernità liquida» e ha scritto mille volte che tutti noi «veniamo trascinati via senza posa». Ma non ha l’impressione che il mondo in cui viviamo stia però diventando sempre più solido, immodificabile?
Se per «solidità» lei intende che è diventato più resistente al cambiamento, ha ragione. Negli ultimi anni ci sono stati molti movimenti, gli indignados spagnoli, Occupy Wall Street e altri. Molte spinte, grandi manifestazioni di massa e tuttavia non accade nulla. Prendiamo Occupy Wall Street: è stato trattato bene dai giornali, la televisione ne ha parlato, l’unica forza che non ha prestato alcuna attenzione è stata la Borsa di Wall Street. Non è cambiato assolutamente nulla. 
. C’è solidità nel senso di resistenza al cambiamento, il sistema sembra immune a tutte le pressioni. Tuttavia, se prendiamo una bistecca, vogliamo tagliarla e non ci riusciamo, dobbiamo chiederci se è la carne che è davvero troppo dura o se è il coltello che stiamo usando che non è abbastanza affilato.La mia teoria è che il sistema non è solido di per sé: ha sviluppato efficaci meccanismi di autoriproduzione ma ha delle fragilità incorporate. Diventa più iniquo ogni giorno che passa: oggi negli Stati Uniti, un amministratore delegato guadagna in media 531 volte più del lavoratore medio; nel 1960 il rapporto era 1 a 12. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo tradizionale funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro: l’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri. Questo significa che il sistema ha accentuato la sua tendenza interna ad autodistruggersi, ma non potrà continuare a lungo. Se la resistenza umana non sarà in grado di mettervi fine ci penserà la natura. Ci sono ovviamente limiti precisi alle risorse del pianeta e una società basata sulla crescita illimitata della produzione e del consumo incontrerà questi limiti molto presto.
Proprio qui a Mantova lei ha detto che la politica è locale, delimitata dai confini degli Stati nazionali, mentre il potere è globale: è questo che rende il sistema così indifferente alle manifestazioni di resistenza alle sue logiche?
Certamente, il potere è globale, il suo spazio è il pianeta, mentre le elezioni americane sono una competizione attorno agli interessi degli Stati Uniti: è questo che mette il potere in grado di fluire liberamente ovunque, senza prestare troppa attenzione a ciò che succede qua e là.  
A causa di questa fluidità ci troviamo in quello che Antonio Gramsci chiamava un interregno, una situazione nella quale «il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Il vecchio ordine fondato sulla stretta associazione di territorio, Stato e nazione sta morendo. La sovranità non è più associata ad alcuno degli elementi della triade territorio/Stato/nazione: tutt’al più è legata in modo blando a alcune loro componenti. Oggi essa è difficile da definire e controversa, porosa e scarsamente difendibile, disancorata e in balia delle correnti. Ciò che dà un’impressione di solidità del sistema è il fatto che il potere si è liberato dal controllo politico mentre la politica ha un deficit di potere. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica è la capacità di prendere decisioni vincolanti. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione perché la globalizzazione ha trasferito il vero potere al di là dei territori, scavalcando la politica. Gli Stati nazionali sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo. Ogni singolo potere si fa beffe delle regole e del diritto locali, e anche dei governi ovviamente. I governi europei dovrebbero fare ciò che gli elettori chiedono, cioè agire contro la disoccupazione di massa, ma naturalmente non lo possono fare: sono costretti ad ascoltare quanto le corporation e i banchieri dicono loro. Si trovano in quella situazione che uno psichiatra definirebbe di double bind. I governi sono eletti per quattro anni e possono agire solo su un territorio limitato, le corporation sono permanenti e hanno come teatro d’azione il mondo. Non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di rispettare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati.
 Fonte: il manifesto | Autore: Fabrizio Tonello