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giovedì 31 marzo 2022

 E mi piace la notte ascoltare le stelle.

Sono come cinquecento milioni di sonagli.

(Antoine De Saint Exupèry)


 Occorre ricordare a noi stessi questo:

"Nel fondo del cuore 

di ogni uomo, 

ovunque trascorra la sua vita, 

c’è un male di vivere 

che è nobile, 

un sacro scontento".

Si sacro! Nobile!

Alto! Immenso come ciò che unicamente ci può fare felici!


G. K. Chesterton

mercoledì 30 marzo 2022

 La Pace dell’Anima.


Troppo spesso le persone hanno una sicurezza patetica, con cui quindi non fanno altro che sciocchezze. 

È meglio essere insicuri, perché così si diventa più modesti e più umili. 

Indubbiamente il complesso di inferiorità comporta sempre il rischio di diventare eccessivo e di compensare il presunto difetto con una fuga nel suo contrario. 

Un complesso di inferiorità ha sempre la sua brava ragione; c’è sempre realmente qualcosa di “inferiore”, ma non là dove ci si mette in testa che sia. 

Modestia e umiltà non implicano alcun complesso di inferiorità. 

Sono virtù preziose, anzi ammirevoli, e non dei complessi. 

Esse dimostrano che il loro felice possessore non è un pazzo presuntuoso, ma conosce i propri limiti e non si avventurerà mai alla cieca oltre i confini della sua natura abbagliato ed ebbro della sua presunta grandezza. 

Le persone che si credono sicure sono quelle veramente insicure. 

La nostra vita è insicura, e perciò un certo senso di insicurezza corrisponde al vero molto più dell’illusione e del bluff della sicurezza. 

Nel lungo periodo vince chi ha raggiunto il migliore adattamento, e non colui che presume di essere sicuro di sé e si espone a ogni sorta di pericolo, interno ed esterno.

Non ci si misura solo col denaro o col potere! 

La pace dell’anima conta di più»


Da «Un colloquio con C. G. Jung sulla psicologia del profondo e la conoscenza di sé»


Risposte ,date presumibilmente a voce, alle domande di Jolande Jacobi, pubblicato in “DU. Schweizerische Monatsschrift”, vol. 3, N. 9 (settembre 1943). Non esiste un manoscritto-grazie Antonella Micheli

martedì 29 marzo 2022

Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai»

 «, così si è aperto il periodo dell’anno in cui ci troviamo, la Quaresima, i quaranta giorni che culminano nella Pasqua, la Resurrezione. Credenti o meno, in questo cammino c’è la verità di come la vita avanza: morti e resurrezioni continue. È infatti grazie alle prime tombe che nel Paleolitico compare qualcosa di «nuovo». L’archeologia e l’antropologia quando scoprono un animale che restituisce la polvere alla polvere, componendola «con cura» (inumare, da in più humus, terra, significa infatti in-terrare), sono costrette a dire «qui c’è l’uomo», un animale per il quale la polvere non è solo polvere. Proust lo dice così in Alla ricerca del tempo perduto: «I miei ricordi, i miei difetti, il mio carattere non si rassegnavano all’idea di non esistere più e non volevano saperne, per me, né del nulla, né di un’eternità da cui rimanessero esclusi». Sono nulla o vita eterna già adesso? Questa domanda ci raggiunge in momenti drammatici, quando, spogliati dalle certezze delle abitudini quotidiane e dalle maschere dei ruoli che ci rendono riconoscibili agli altri, siamo nudi di fronte al destino. Non dimenticherò mai il momento in cui ho toccato questa dolorosa nudità in una persona: un pianto disperato al telefono, nel cuore della notte, mi portò a rivestirmi e a uscire, per abbracciare un corpo che, scosso dai singhiozzi, ripeteva: «Ma a me chi mi ama?». La polvere ha paura di essere solo polvere. Ma è anche altro?

Adamah in ebraico significa terreno fertile, per questo, nel racconto biblico, il nome dell’uomo è Adamo. Se i Greci mettono l’uomo «sul chi vive», cioè davanti al suo destino, chiamandolo «Mortale», gli Ebrei fanno lo stesso dicendolo «Terra di campo»: i primi gli ricordano di non essere un dio, i secondi di essere terra e soffio di Dio, mortale e divino, finito e infinito, un desiderio infinito che porta una terra finita a chiedersi «ma a me chi mi ama?». Senza amore infatti «cadiamo nella polvere», «ci sentiamo a terra». Pochi giorni fa ero a cena da amici che, prima di mettere i figli a letto, li hanno riuniti per recitare insieme l’Avemaria. Mi sono reso conto che l’aver imparato sin da piccolo a dire prega per noi, adesso e nell’ora della nostra morte mi ha non solo protetto da tante illusioni ma anche fatto capire che due sono i momenti che contano nella vita e in cui incontriamo il destino: «l’ora presente» e «l’ora della morte». Ma come si fa «esserci» veramente in questi momenti, che poi sono tutti (di adesso in adesso sino all’ultimo adesso)? 

Rispondendo alla domanda della polvere: «ma a me chi mi ama?». Provate a rispondere, appunto, adesso, ad alta voce, e avrete la misura del vostro essere vivi, di quanta vita eterna soffia nella vostra polvere. Anche in italiano la parola uomo (latino homo) viene da humus, la parte del terreno fatta di sostanze organiche, esito di decomposizione, necessarie alla vita altrui (morte e resurrezione). L’uomo è humus, terra resa feconda dalla morte. Ce lo ricorda ogni giorno il sonno, che ci obbliga all’orizzontalità del terreno: quando ci corichiamo infatti torniamo «umili», un’altra parola che viene da humus. L’umiltà non è la modestia, ma la verità: un giorno riposerò per sempre. L’umiltà, in quanto presa di coscienza di questa verità, sono terra ma feconda, richiede la seconda parte della domanda: «ma io chi amo?». «Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai» è sinonimo di «ricordati che sei fatto per essere amato e per amare». Ora però la polvere, per vincere la paura di essere solo polvere, alla impegnativa strada dell’amore spesso preferisce la scorciatoia del potere, che aiuta a dimenticare che siamo terra e alla terra ritorneremo: l’uomo di potere è infatti rappresentato sempre in piedi, egli ha dimenticato chi è. La differenza tra potere e amore la vedi infatti nel senso dell’umorismo: anche humour viene da humus come letizia viene da letame. Chi sa di essere polvere amata e amante ride di sé, invece chi cerca il potere non ride mai: è sempre «teso»… a conquistare la vita eterna con le sue sole forze. La gioia è sul viso degli amati e degli amanti, la serietà è invece il volto del potere. Per questo «ricordati che polvere sei e polvere ritornerai» non è un triste monito ma un promemoria salutare: sono fatto per essere amato e per amare. Il resto è tempo perduto — come ricorda il titolo del capolavoro di Proust — a cercare di costruire una corazza di terra, a fare un guerriero d’argilla, ma Adamo, terra fertile, non è chiamato alla guerra ma a dar frutto nella cura ricevuta e data, come recita, in Giardino della gioia, una poesia di Maria Grazia Calandrone intitolata «Come si dice amore nella tua lingua» nella quale, quasi come in un saggio filosofico-poetico, ripercorre la parola amore in molteplici lingue per poi tradurla in modo universale: «“Le lingue non hanno confini, i confini sono solo politici” “Esiste una lingua invisibile alla quale attingiamo tutti” “Ogni scrittura è traduzione di un mondo” “Io attraverso le lingue che conosco in cerca della lingua universale”. Questa è la vera avanguardia, la vera profezia per il futuro della specie. // Fekrì, hubùn, dashùri/ sirèl, bhalabasa, agàpi/ uthàndo, ài, jeclahày/ süyüü, obichàm, aròha/ lyubòv’, hkyithkyinnmayttàr/ khairtài, cariàd, upéndo/ amour, is bràe, snehàm/ maxabbàt, szerelém, rudo,/ adaràya, fitiavàna/ liebe, evîn, miq’vàrs. // Continuate in settenari chiari / con questi suoni, nuovi come il mondo / che dicono da prati / e da foreste, igloo, capanne / e palafitte, grattacieli e canoe: / io, questo niente / caduto nel sogno della materia, avrò cura di te / fino alla fine del mondo». Vien allora da dire: polvere sei e solo in amore ritornerai


 28 marzo 2022


«Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai», così si è aperto il periodo dell’anno in cui ci troviamo, la Quaresima, i quaranta giorni che culminano nella Pasqua, la Resurrezione. Credenti o meno, in questo cammino c’è la verità di come la vita avanza: morti e resurrezioni continue. È infatti grazie alle prime tombe che nel Paleolitico compare qualcosa di «nuovo». L’archeologia e l’antropologia quando scoprono un animale che restituisce la polvere alla polvere, componendola «con cura» (inumare, da in più humus, terra, significa infatti in-terrare), sono costrette a dire «qui c’è l’uomo», un animale per il quale la polvere non è solo polvere. Proust lo dice così in Alla ricerca del tempo perduto: «I miei ricordi, i miei difetti, il mio carattere non si rassegnavano all’idea di non esistere più e non volevano saperne, per me, né del nulla, né di un’eternità da cui rimanessero esclusi». Sono nulla o vita eterna già adesso? Questa domanda ci raggiunge in momenti drammatici, quando, spogliati dalle certezze delle abitudini quotidiane e dalle maschere dei ruoli che ci rendono riconoscibili agli altri, siamo nudi di fronte al destino. Non dimenticherò mai il momento in cui ho toccato questa dolorosa nudità in una persona: un pianto disperato al telefono, nel cuore della notte, mi portò a rivestirmi e a uscire, per abbracciare un corpo che, scosso dai singhiozzi, ripeteva: «Ma a me chi mi ama?». La polvere ha paura di essere solo polvere. Ma è anche altro? 

Chi sa di essere polvere amata e amante ride di sé, invece chi cerca il potere non ride mai: è sempre «teso»… a conquistare la vita eterna con le sue sole forze. La gioia è sul viso degli amati e degli amanti, la serietà è invece il volto del potere. Per questo «ricordati che polvere sei e polvere ritornerai» non è un triste monito ma un promemoria salutare: sono fatto per essere amato e per amare. Il resto è tempo perduto — come ricorda il titolo del capolavoro di Proust — a cercare di costruire una corazza di terra, a fare un guerriero d’argilla, ma Adamo, terra fertile, non è chiamato alla guerra ma a dar frutto nella cura ricevuta e data, come recita, in Giardino della gioia, una poesia di Maria Grazia Calandrone intitolata «Come si dice amore nella tua lingua» nella quale, quasi come in un saggio filosofico-poetico, ripercorre la parola amore in molteplici lingue per poi tradurla in modo universale: «“Le lingue non hanno confini, i confini sono solo politici” “Esiste una lingua invisibile alla quale attingiamo tutti” “Ogni scrittura è traduzione di un mondo” “Io attraverso le lingue che conosco in cerca della lingua universale”. Questa è la vera avanguardia, la vera profezia per il futuro della specie. // Fekrì, hubùn, dashùri/ sirèl, bhalabasa, agàpi/ uthàndo, ài, jeclahày/ süyüü, obichàm, aròha/ lyubòv’, hkyithkyinnmayttàr/ khairtài, cariàd, upéndo/ amour, is bràe, snehàm/ maxabbàt, szerelém, rudo,/ adaràya, fitiavàna/ liebe, evîn, miq’vàrs. // Continuate in settenari chiari / con questi suoni, nuovi come il mondo / che dicono da prati / e da foreste, igloo, capanne / e palafitte, grattacieli e canoe: / io, questo niente / caduto nel sogno della materia, avrò cura di te / fino alla fine del mondo». Vien allora da dire: polvere sei e solo in amore ritornerai


domenica 27 marzo 2022

L'amore

Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l'opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica:soddisfazione senza lavoro,guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo,conoscenza senza un processo di apprendimento. L'amore invece richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l'altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l'amore. Non troveremo l'amore in un negozio.L'amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana, ha bisogno  di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno.

Zygmunt Bauman, Amore liquido 

L'amore liquido


Zygmunt Bauman, Amore liquidoBY GABRIELLA


Quattro lezioni su Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi [Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds, Cambridge-Oxford, 2003], trad. it., Bari-Roma, Laterza, 2003.


 


 


Che cos’è l’amore liquido


L’eroe di questo libro, dice Bauman nella Prefazione, è «l’uomo senza legami». Così come il celebre personaggio di Musil (l’Ulrich de L’uomo senza qualità) era un soggetto alla ricerca di una identità, senza che nessuna delle qualità acquisite avesse garanzia di durata in un mondo sconcertante e mutevole, il protagonista del saggio di Bauman è l’uomo della modernità liquida, cioè di quella fase dell’età contemporanea che si caratterizza per lo stato mutevole e instabile di ogni sua forma organizzativa (famiglia instabile, ricomposta, multipla, informale; denatalità – lavoro precario, a chiamata, intermittente; ecc.).


Ulrich, l’uomo moderno, è un individuo che può cambiare più identità, senza essere mai davvero “qualcuno”


l’uomo contemporaneo è invece l’uomo senza legami


Secondo Bauman, dunque, se l’uomo senza qualità è il perfetto ritratto dell’uomo moderno, l’uomo senza legami è l’individuo plasmato dalla «modernità liquida», termine con cui l’autore indica quel periodo che dagli anni ’60 in poi è stato indicato da altri studiosi come postmodernità, tarda modernità, capitalismo maturo, modernità riflessiva ecc. [questo dibattito, che qui non affrontiamo, concorda sul riconoscimento di forti cambiamenti sociali ed economici intervenuti a ridosso del secondo dopoguerra, ma si divide sulla prognosi di tale cambiamento e in particolare sull’interpretazione delle trasformazioni nel segno della continuità con il moderno (ipermodernità, tarda modernità) o della rottura con esso, con i suoi fini e ideali (postmodernità)].


Il tema principale della riflessione di Bauman è dunque


«la relazione umana» e la sua sorte in un’età in cui «gli uomini e donne disperati perché abbandonati a se stessi, che si sentono degli oggetti a perdere, che anelano la sicurezza dell’aggregazione e una mano su cui poter contare nel momento del bisogno, e quindi ansiosi di “instaurare relazioni” [sono] al contempo timorosi di restare impigliati in relazioni “stabili”, per non dire definitive, poiché paventano che tale relazione possa comportare oneri e tensioni che non vogliono né pensano di poter sopportare e che dunque possa fortemente limitare la loro tanto agognata libertà di … si, avete indovinato, di instaurare relazioni» (p. VI).


La relazione è dunque il terreno contemporaneo della più grande ambivalenza: deve essere leggera e flessibile per potersi rompere facilmente e dare la possibilità all’individuo contemporaneo di ricostituirsi, ritessersi, mantenendo intatta tutta la potenzialità relazionale di ognuno. In questo modo, ognuno è molto più solo che in passato, ma libero molto più che in passato di tentare forme e sistemi per uscire da questa solitudine.


Sembra, commenta Bauman, che le cose vadano come aveva osservato Heidegger:


«esse si manifestano alla nostra coscienza solo attraverso la frustrazione che provocano (allorché vanno in malora, svaniscono, tradiscono le nostre aspettative o la propria natura)».


Oggi l’attenzione dell’uomo contemporaneo tende a concentrarsi sulle soddisfazioni che le relazioni si spera arrechino, proprio perché per qualche ragione esse sono frustranti (sono fragili e deludono le aspettative di eternità) o sono temute (perché si scopre che quando soddisfano pienamente, il prezzo da pagare per questo appagamento è eccessivo in termini di perdita di libertà, cioè di quel potenziale che si congela ogni volta che inizia una relazione).


Bauman trova conferma nella centralità di interesse per le relazioni nel boom di consulenze che si occupano di curare i legami (counseling, terapia familiare), agenzie matrimoniali, rubriche rosa o per cuori solitari ecc. Secondo l’autore tutte queste consulenze hanno lo scopo di aiutare i singoli a «quadrare il cerchio», cioè a riuscire nel compito impossibile di costringere la relazione a


«dare senza prendere, a offrire senza chiedere, ad appagare senza opprimere» (p. VIII).


Viviamo tra i resti delle “cose nuove e diverse” che abbiamo amato


È qui che Bauman paragona l’individuo contemporaneo all’abitante di Leonia, una delle Città invisibili di Calvino, i cui abitanti dichiarano che la loro passione è di «godere di cose nuove e diverse», consegnando al lavoro dello “spazzaturaio”, i resti delle “cose nuove e diverse” di ieri (Cfr. pp. IX-X). La Leonia sprecona sembra a Bauman una metafora calzante dell’ambiguità con la quale si dichiara oggi di desiderare più di ogni altra cosa la relazione, mentre in realtà ci si preoccupa soprattutto di evitare che questi rapporti si stabilizzino e si condensino.


Lo scenario liquido-moderno si presenta così come quello in cui si spera che


«le possibilità romantiche si susseguano a ritmo crescente e in quantità sempre copiosa facendo a gara nel superarsi a vicenda e nel lanciare promesse di essere più soddisfacenti e appaganti» (p. XII).


in questo modo, Amore liquido è dedicato ai rischi e alle angosce del


«vivere insieme e in disparte nel nostro mondo liquido-moderno» [vedi l’intervento di Massimo Recalcati sul tema].


Innamorarsi e disamorarsi [primo capitolo]


Eric Fromm (1900 – 1980)


Che cos’è l’amore? Si chiede allora Bauman. Si tratta di un’esperienza che si può apprendere, un sapere che si può imparare? O forse si tratta di un’esperienza irripetibile e dunque impossibile da imparare?


È una domanda chiave, già affrontata da Fromm. I due autori concordano nel ritenere che una società malata disincentivi i sentimenti di amore e solidarietà umana, ma mentre Fromm, da filosofo, ne propone un’interpretazione antropologica, Bauman, da sociologo, ammette implicitamente che il comportamento umano, incluso quello amoroso, è una costruzione storica, legata alla cultura e alle esigenze sociali del tempo in cui si vive.


Piuttosto che una domanda su che cos’è l’amore, dunque, bisogna chiedersi a quale dinamica risponde il bisogno di amare nel tempo presente? E qui ritrova Fromm:


«la soddisfazione, nell’amore individuale, non può essere raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede, coraggio», ma «in una cultura in cui queste qualità sono rare, l’acquisizione della capacità di amare è condannata a restare un successo raro» (p. 11).


Perciò, osserva Bauman, «in una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazione immediata, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicurazione contro tutti i rischi e garanzie del tipo “soddisfatto o rimborsato”, quella di imparare ad amare è la promessa (falsa, ingannevole, ma che si spera ardentemente essere vera) di rendere l’esperienza dell’amore simile ad altre merci, che attira e seduce sbandierando tutte queste qualità e promettendo soddisfazioni immediate e risultati senza sforzi» (p. 11).


Ma l’eros, come ha notato Emmanuel Levinas, è diverso dal possesso e dal potere,


«è una relazione con l’alterità, con il mistero, vale a dire con il futuro, con ciò che è assente dal mondo che contiene ogni cosa che c’è […]», «il pathos dell’amore consiste nell’insormontabile dualità degli esseri». I tentativi di superare tale dualità, di rendere l’ignoto prevedibile, di domare il bizzoso e incatenare il girovago, tutte queste cose sono la campana a morte dell’amore». «L’amore si sforza costantemente di eliminare le proprie fonti di precarietà e di apprensione, ma qualora ci riesca inizia rapidamente ad avvizzire, svanisce» (p. 12).


Inteso in questo modo, l’amore è desiderio. Il desiderio è impulso ad assimilare, possedere, consumare, qualcosa che è fuori di noi e che svanisce non appena tale movimento si realizza. Nella sua essenza è un impulso di distruzione. Al contrario, l’amore è invece il desiderio di prendersi cura e di preservare l’oggetto della propria cura, è espansione e dono di sé.


«L’amore consiste nella sopravvivenza dell’io attraverso l’alterità dell’io. E dunque amore significa prepotente desiderio di proteggere, nutrire, riparare, coccolare, accudire, oppure difendere gelosamente. Insomma, anche l’amore, come il desiderio, «è una minaccia per il proprio oggetto. Il desiderio distrugge il proprio oggetto, distruggendo nel processo se stesso; la rete protettiva che l’amore tesse amorevolmente intorno al proprio oggetto amato schiavizza l’oggetto stesso» (p. 16).


Con questa analisi della fenomenologia dell’amore, Bauman sembra avanzare la tesi che il tempo attuale, il liquido-moderno, è sfavorevole all’amore, mentre sembra più adatto al desiderio.


[Mappa]


La voglia prende il posto del desiderio


Solo apparentemente, però: il desiderio ha, infatti, bisogno di distanza, di tempo da consumare per essere messo in scena e vissuto. Il tempo attuale invece celebra l’istante e la soddisfazione, ottenuta prima ancora di desiderare. La voglia, prende così il posto del desiderio.

Bauman analizza allora gli interventi di due psicologhe sulla rubrica settimanale del Guardian che gli sembrano rappresentativi del tipo di consigli si offrono ai cuori solitari nella modernità liquida:


«ogni volta che ti impegni sentimentalmente, per quanto alla leggera, ricordati che stai probabilmente chiudendo la porta ad altre opportunità romantiche (vale a dire che stai abdicando al diritto di “rimetterti a caccia”, almeno fino a quando il partner non reclami per primo tale diritto)» (p. 17).


Desiderio e amore qui si escludono a vicenda. Ma forse, osserva il sociologo, quando si deve commentare il breve flirt, la conquista di una sera, parlare di desiderio è eccessivo.


«Come per lo shopping: oggi chi va per negozi non compra per soddisfare un desiderio […] ma semplicemente per togliersi una voglia. Ci vuole tempo, (un tempo insostenibilmente lungo per gli standard di una cultura che aborre la procrastinazione e postula invece il soddisfacimento immediato) per seminare, coltivare, nutrire, il desiderio.


Il desiderio ha bisogno di tempo per germogliare, crescere e maturare. Via via che il “lungo termine” diventa sempre più breve, la velocità con cui il desiderio giunge a maturazione resiste ostinatamente all’accelerazione; il tempo occorrente per ottenere il ritorno dell’investimento della coltivazione del desiderio appare sempre più lungo, lo si avverte esasperante e insopportabile» (p. 17).


«Oggi i centri commerciali tendono ad essere progettati pensando a desideri facili da nascere e rapidi a estinguersi, non all’onerosa e protratta creazione e coltivazione dei desideri. L’unico desiderio che una visita al centro commerciale deve instillare e instilla è quello di reiterare all’infinito l’eccitante momento del lasciarsi andare, del dare briglia sciolta alle proprie voglie senza un copione prestabilito» (p. 18).


«Togliersi una voglia, diversamente dall’esaudire un desiderio, è soltanto un atto estemporaneo, che si spera non lasci conseguenze durevoli che potrebbero ostacolare ulteriori momenti di estasi gioiosa. Nel caso delle relazioni, e delle relazioni sessuali in particolare, seguire le voglie anziché i desideri significa lasciare la porta bene aperta “ad altre opportunità romantiche” le quali, come sostengono le psicologhe del Guardian potrebbero rivelarsi più soddisfacenti e appaganti» (p. 18) (Già André Gide aveva osservato che “scegliere è privarsi”, privarsi cioè delle possibilità non scelte).


«Mentre il principio del togliersi-le-voglie è inculcato a fondo nella condotta quotidiana dai poteri forti del mercato dei beni di consumo, il coltivare un desiderio sembra inquietantemente, inopportunamente, fastidiosamente, propendere dalla parte dell’impegno amoroso. Il desiderio va curato, coltivato, implica una cura prolungata, un difficile negoziato senza soluzioni scontate, qualche scelta difficile e alcuni compromessi dolorosi […] nella sua radicalizzata reincarnazione sotto forma di voglia, il desiderio ha perso gran parte dei suoi attributi fastidiosi […]. Come recitava il messaggio pubblicitario di una famosa carta di credito, oggi “ è possibile eliminare l’attesa dal desiderio”.


Quando è pilotata dalla voglia, la relazione tra due persone segue il modello dello shopping e non chiede altro che le capacità di un consumatore medio, moderatamente esperto. Al pari di altri prodotti di consumo, è fatta per essere consumata sul posto (non richiede addestramento ulteriore o una preparazione prolungata) ed essere usata una sola volta. Innanzitutto, la sua essenza è quella di potersene disfare senza problemi. Se ritenute scadenti o non di piena soddisfazione le merci possono essere sostituite con altri prodotti che si spera più soddisfacenti […] ma anche se mantengono le promesse, nessuno si aspetta da esse che durino a lungo; dopo tutto, automobili, computer o telefoni cellulari in perfetto stato e ancora funzionanti vengono gettati via senza troppo rammarico nel momento stesso in cui le loro versioni nuove e aggiornate giungono nei negozi e divengono l’ultimo grido. Perché mai le relazioni dovrebbero fare eccezione alla regola?» (pp. 19-20).


Tuttavia, si decide ancora di investire nelle relazioni: chi lo fa fa si aspetta prima di tutto sicurezza,


«una mano nel momento del bisogno, un sostegno nel dolore, compagnia nella solitudine, soccorso nei guai, consolazione nella sconfitta e plauso nella vittoria» (p. 21).


Ma avendo abolito l’eternità nelle relazioni affettive e avendola sostituita con l’idea di un investimento remunerativo (in termini di sicurezza, piuttosto che di interesse monetario), la relazione non dà più ciò che promette: cerchiamo sicurezza da qualcuno che ha il nostro stesso obiettivo ma che, come noi, può decidere in qualunque momento di spostare altrove l’oggetto del suo investimento. Per questo


«la relazione amorosa vista come una transazione d’affari non è certo una cura per l’insonnia […] la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto sembra fare la relazione sentimentale. In una relazione puoi sentirti altrettanto insicuro di quanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che dai alla tua ansia» (p. 22).


viviamo l’amore secondo la cifra del nostro tempo, come un investimento temporaneo che deve essere massimamente remunerativo


Quando le persone si sentono insicure, osserva Bauman citando uno psicologo esperto matrimonialista,


«tendono a comportarsi in modo non costruttivo, tentando o di compiacere o di controllare o forse addirittura venendo alle mani – tutti sistemi che probabilmente non fanno altro che allontanare la persona amata. Una volta insinuato il tarlo dell’insicurezza, la navigazione non è mai sicura, ragionata, tranquilla. Senza timone, la fragile zattera della relazione ondeggia sui due nefasti scogli su cui tanti rapporti si infrangono: sottomissione totale e potere totale, accettazione supina e prevaricazione arrogante, rinuncia alla propria autonomia e distruzione dell’autonomia del partner. L’infrangersi contro uno qualsiasi di questi scogli farebbe affondare finanche una nave in perfette condizioni e con un equipaggio esperto, figuriamoci una zattera con a bordo un marinaio inesperto che, cresciuto nell’epoca dei pezzi di ricambio, non ha mai imparato l’arte della riparazione. Nessuno dei marinai di oggi perderebbe tempo a riparare la parte danneggiata, ma la sostituirebbe con un’altra identica. Sulla zattera delle relazioni tuttavia non ci sono ricambi disponibili» (pp. 23-24).


L’analisi di Bauman prosegue qualche pagina oltre intorno alle cosiddette coppie semi-libere,


«questi rivoluzionari delle relazioni che hanno fatto esplodere la bolla soffocante della coppia. Si tratta di coppie nelle quali i due partner preferiscono mantenere i loro appartamenti, conti in banca e cerchia di amici e nelle quali il matrimonio vecchio stile è sostituito da un modello flessibile, part-time di stare insieme. Su questo fenomeno, gli esperti sono divisi: si oscilla da una entusiastica approvazione del modello visto come la realizzazione della “quadratura del cerchio” di un genuino dare e avere senza pagare il pedaggio della perdita di indipendenza, all’accusa di codardia: il rifiuto di affrontare le prove e le difficoltà che la creazione di una coppia stabile comporta» (p. 52).


 


Dentro e fuori la cassetta degli attrezzi della socialità [secondo capitolo]


soggetti fallici


La tesi che Bauman difende a proposito delle forme contemporanee della sessualità è che, così come la modernità liquida sembra aver sgretolato la relazione sentimentale, così ha anche snaturato la sessualità fino a farla diventare problema, piuttosto che opportunità di piacere e soddisfazione per l’uomo moderno.


Come osserva Bauman,


«il desiderio sessuale era e resta […] sociale. Esso si protende verso un altro essere umano, esige la presenza di un altro essere umano e si sforza di forgiare tale presenza in un’unione. Anela l’aggregazione, rende ogni essere umano, per quanto completo e per alti aspetti autosufficiente, incompiuto e monco – a meno che non sia unito a un altro essere umano» [p. 53].


E’ perciò soprattutto a partire da questo capitolo che il sociologo getta una sguardo preoccupato sulle forme della socialità che si esprimono nell’età contemporanea, forme che tradiscono un’incapacità crescente degli individui di uscire da sé e trovare modi gratificanti di aggregazione. Di tale disagio è indice anche la sessualità che


«non compendia più l’ideale di piacere e felicità. Non è più mistificato, in senso positivo come estasi e trasgressione, quanto piuttosto, in senso negativo, come causa di oppressione, ineguaglianza, violenza, abuso e infezione letale» [p. 54].

Il sesso sembra diventato il regno non più di Eros, ma del suo vendicativo fratello Anteros, il dio dell’amore respinto. Sotto gli auspici di questa divinità – prosegue Bauman, insistendo nella metafora mitologica – le passioni devono essere messe al bando e il sesso viene proclamato un’azione razionale, calcolata, dettata da regole ferree: il risultato?:


uomini e donne oggetto nella pubblicità della Diesel


«Oggi tutti sono al corrente e nessuno ha la più pallida idea» [p. 54].


L’uomo contemporaneo è orfano di Eros. Proprio per questo, il sesso è medicalizzato e fa si che ci si rivolga sempre più spesso al terapeuta. Ci si cura per le patologie della propria vita sessuale e della propria fecondità.


«Oggi la medicina compete con il sesso per la responsabilità sulla “riproduzione”». L’affascinante prospettiva, appena dietro l’angolo – ironizza Bauman – «di scegliere un figlio da un catalogo di attraenti donatori, allo stesso modo in cui i consumatori contemporanei sono abituati a fare ordinativi tramite le aziende di vendita per corrispondenza o le riviste di moda e avere quel figlio scelto da loro nel momento scelto da loro» [p. 56].


un tempo i figli erano un ponte sull’immortalità


C’è stato un tempo in cui i figli erano ponti tra mortalità e immortalità, tra la vita dell’individuo orribilmente breve e una durata auspicabilmente infinita della stirpe. Morire senza figli voleva dire non costruire mai più tale ponte. Con la nuova fragilità delle strutture familiari, con l’aspettativa di vita di molte famiglie più breve di quella dei suoi singoli membri, fare un figlio diventa sempre più spesso una questione di scelta – ma di una scelta revocabile – un figlio può essere un ponte verso qualcosa di più durevole. Ma di cosa? Di un rapporto genitore-figlio più stabile di quello della coppia genitoriale?


si possono scegliere da catalogo le caratteristiche del donatore e della madre surrogata


Secondo Bauman i figli oggi «sono prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo» [p. 58]. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore e altrettanto fanno i figli. I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno, il tipo di gioie che nessun altro oggetto, per quanto ingegnoso o sofisticato, può offrire.


I figli sono probabilmente gli acquisti più costosi che i consumatori medi compiono in tutta la loro vita. Cosa ancora peggiore, è probabile che il costo totale aumenti nel corso degli anni e il suo volume non può essere determinato anticipatamente, né calcolato con qualche grado di certezza. Ma, in un mondo che non offre più carriere sicure e lavori stabili, per tutti quelli che passano da un progetto all’altro e che in questo modo si procurano da vivere, firmare un contratto ipotecario con termini di pagamento di entità segreta e durata indefinita significa esporsi a un rischio altissimo e a una prolifica fonte di ansie e di paure. Inoltre, oggi avere figli è una questione di libera scelta, non una casualità, circostanza questa che accresce ancora di più l’ansia.


«”Mettere su famiglia” è come tuffarsi testa in giù in acque sconosciute di cui non si conosce la profondità: Abbandonare o posticipare altre seducenti gioie di un’attrazione consumistica ancora mai provata»,


ma non è l’unica conseguenza. Avere figli significa assumersi la responsabilità del benessere di un’altra creatura più debole e indifesa. L’autonomia delle proprie scelte è destinata ad essere compromessa, reiteratamente, anno dopo anno, quotidianamente:


«si corre il rischio di diventare, orrore degli orrori, “dipendente”» [vedi Massimo Recalcati, Incubi della modernità: madri narciso e madri coccodrillo].

Avere figli potrebbe comportare l’esigenza di ridurre le proprie ambizioni professionali, di “sacrificare al carriera”, in quanto chi è chiamato a giudicare il rendimento professionale di una persona, non vedrebbe di buon occhio il benché minimo segnale di fedeltà separate. Ma la cosa più grave e dolorosa di tutte per l’uomo contemporaneo è accettare questa dipendenza per un tempo indefinito, assumere un impegno irrevocabile a tempo indeterminato: è il tipo di obbligo che mal si confà al modo di vivere liquido-moderno.

«Acquisire la consapevolezza di un tale impegno può rivelarsi un’esperienza traumatica: depressione post-parto e crisi coniugali (o di convivenza) dopo la nascita di un figlio appaiono mali prettamente liquido-moderni, allo stesso modo dell’anoressia, della bulimia e di innumerevoli forme di allergia. Le gioie dell’essere genitori, fanno insomma parte di un pacchetto tutto compreso, contenente anche le pene dell’autosacrificio e le paure di ignoti pericoli»:

né la clausola soddisfatti o rimborsati, né la promessa di un servizio di assistenza post-vendita fanno parte dell’evento nascita-di-un-figlio.

«In conclusione: l’ormai ampiamente riconosciuta separazione del sesso dalla funzione riproduttiva è assistita dal potere. E’ un prodotto congiunto dello scenario di vita liquido moderno e del consumismo quale strategia scelta e unica disponibile di “cercare soluzioni biografiche a problemi prodotti dalla società”. È la mescolanza di questi due fattori che sottrae le questioni della riproduzione e del parto all’ambito sessuale e le consegna ad una sfera affatto diversa, guidata da una logica e da regole totalmente avulse dall’attività sessuale». «Come a voler anticipare il modello che avrebbe prevalso ai nostri tempi, Erich Fromm tentò di spiegare l’attrattiva del “sesso in quanto tale” (sesso fine a se stesso, sesso praticato separatamente dalle sue funzioni ortodosse), definendo la sua qualità una risposta (fuorviante) all’umanissimo “desiderio di una fusione completa” attraverso una “illusione di unione” [p. 62].

Unione: è esattamente ciò che uomini e donne cercano, cercando disperatamente di sfuggire alla solitudine.

Illusione: perché l’unione raggiunta nel breve momento dell’apice orgasmico

«lascia gli estranei distanti esattamente come lo erano prima» cosicché «essi avvertono il loro estraneamento in modo ancora più marcato di prima» (le citazioni sono di Fromm). In tale modo, secondo Fromm, l’orgasmo sessuale «assume una funzione che lo rende non molto diverso dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza». Al pari di questi, esso è intenso, ma «transitorio e periodico». L’unione è illusoria, secondo Fromm, e il sesso destinato a rivelarsi frustrante, a causa della separazione dall’amore (ovvero, sottolinea Bauman, da una dedizione intenzionalmente duratura, a tempo indefinito, verso il benessere del partner). Ancora per Fromm, «il sesso può essere solo uno strumento di genuina fusione, anziché essere un’effimera, ingannevole e in ultima analisi autodistruttiva impressione di fusione, grazie alla sua comunione con l’amore. Qualunque capacità di generare unione il sesso possa possedere, deriva dalla sua stretta connessione con l’amore» [p. 63]».

«Come a voler anticipare il modello che avrebbe prevalso ai nostri tempi, Erich Fromm tentò di spiegare l’attrattiva del “sesso in quanto tale” (sesso fine a se stesso, sesso praticato separatamente dalle sue funzioni ortodosse), definendo la sua qualità una risposta (fuorviante) all’umanissimo “desiderio di una fusione completa” attraverso una “illusione di unione” [p. 62].

Secondo Bauman, però,

«dai tempi di Fromm, l’isolamento del sesso dagli altri regni della vita è progredito più rapidamente che mai» [p. 63].

 la merce e il consumo sono il quadro simbolico entro cui viviamo ogni aspetto della nostra vita moderna, come aveva intuito già Marx

Per questo ci si attende oggi che il sesso sia autonomo e autosuffciente, che la performance sessuale il più alto grado di perfezione e che arrechi il più alto grado di soddisfazione. Ma in questo modo, esso è diventato paradossalmente sempre più insoddisfacente: non regge al’esame delle alte aspettative ed è esso stesso fonte di frustrazione e ansia. La vittoria del sesso nella «guerra di indipendenza» dalle altre relazioni umane è dunque una vittoria di Pirro. E’ una vittoria nella quale il sesso si presenta come aspirazione alla felicità senza legami, libera da effetti collaterali, una felicità del genere «soddisfatti o rimborsati», ovvero una felicità che è la massima incarnazione della libertà liquido-moderna: una libertà di consumare (dopo quella del “sapiens” siamo all’era dell’homo consumens).

«La vita del consumatore predilige la leggerezza e la velocità, nonché la novità e la varietà che si spera leggerezza e velocità stimolino e facilitino. Di norma, l’utilizzabilità di un prodotto dura ben più a lungo dell’attrattiva che esercita agli occhi del consumatore. Ma se usato troppo a lungo, il prodotto acquistato ostacola la ricerca di varietà e a ogni successivo utilizzo la vernice della novità si deteriora e si scrost[p. 69].

Il matrimonio è la negazione di un uso ottimale delle proprie risorse sessuali in quanto costituisce un patto di esclusiva e di durevolezza della relazione. In questo clima, emergono nuove abitudini e nuovi modi di coniugare l’esclusività della relazione e la massima soddisfazione nella variazione del partner: lo scambismo, la pratica di scambiarsi il partner per una sera, sembra andare per la maggiore nelle grandi metropoli del nord. Esso infatti, sembra avere tutti i vantaggi e nessuno degli svantaggi della nuova relazione liquido-moderna: non è un adulterio (che minerebbe la stabilità della coppia incrinando la fiducia reciproca dei coniugi) poiché i coniugi sono informati e consenzienti dell’azione del partner e la riproducono nel medesimo tempo: il ménage à quatre sembra più efficace del ménage à trois.

Freud

Sigmund Freud (1856 – 1939)

A questo punto la riflessione di Bauman si sofferma sulla definizione del rapporto tra sesso e civiltà di Freud. Come si ricorderà, secondo Freud, sessualità e civiltà, libido e società, sono incompatibili: la civiltà sorge sulle energie sublimate degli uomini che rinunciano a scaricare sulla sessualità la loro energia vitale. Questa lettura freudiana era alla base della critica radicale che lo studioso muoveva alla società moderna, vista come una società essenzialmente repressiva, i cui luoghi di controllo e dominio sono stati individuati molto più tardi, dagli studiosi degli anni ’70 (tra cui Foucault, Deleuze e Lyotard) nella fabbrica, nella scuola, nel carcere (cioè nelle foucaultiane istituzioni disciplinari). E’ a questo insieme di studi che Bauman fa implicitamente riferimento quando osserva:

«dopo l’era in cui l’energia sessuale doveva essere sublimata per tenere in funzione la catena di montaggio della fabbrica di automobili, è giunta l’era in cui c’è stato bisogno che l’energia sessuale venisse nutrita, lasciata libera di scegliere qualsiasi canale di sfogo disponibile e incoraggiata a dilagare, di modo che le automobili che lasciavano la catena di montaggio potessero essere desiderate come oggetti sessuali».

«Sembra che il legame tra la sublimazione dell’istinto sessuale e la sua repressione, da Freud ritenuto una condizione indispensabile di qualunque ordinamento sociale regolato, si sia spezzato. La società liquido moderna ha trovato un modo di sfruttare la propensione/disponibilità dell’uomo a sublimare gli istinti sessuali senza ricorrere affatto alla loro repressione. Ciò si è verificato grazie alla progressiva deregolamentazione dei processi di sublimazione che mutano perpetuamente direzione, guidati dalla seduzione degli oggetti del desiderio sessuale in offerta anziché da qualsiasi pressione coercitiva» [p. 80].

La diagnosi di Bauman si accorda su questo punto, con quella dei filosofi post-modernisti quali Deleuze e Lyotard, secondo i quali a partire dalla frattura socio-economica dei primi anni ‘60, staremmo abbandonando le foucaltiane società disciplinari per entrare nelle società di controllo: il postmoderno si qualifica infatti per l’allentamento del controllo-dominio centralizzato a vantaggio di un controllo capillare, reticolare e decentralizzato di cui la rete internet rappresenta la metafora per eccellenza, a cavallo tra l’onnipresenza della telecamera (il grande fratello, ovvero il massimo controllo del panottico ovunque) e la moltiplicazione delle possibilità espressive (dunque di libertà) di ognuno.

Conclusione [mia]

Jacque Lacan

Jacques Lacan (1901 – 1981)

Il superamento postmoderno della dinamica edipica di costruzione dell’Io e dell’epoca delle nevrosi (l’epoca di Freud e della psicanalisi), ha aperto l’epoca delle psicosi, in cui gli individui non riescono più a costituirsi come soggetti e non soffrono più dunque, della repressione del desiderio, ma dell’inesistenza del principio di senso della realtà, cioè dell’Io. E’ l’individuo lacaniano del discorso del capitalistaè l’uomo senza inconscio di Recalcati. 

[Elaborazione dagli atti di un convegno dell’Università di Bergamo] L’espressione «discorso del capitalista» è dello psicanalista Jacques Lacan. La sua tesi è che il fondamento ideologico e culturale del capitalismo sia un discorso dello slegame, della proliferazione della frammentazione e della precarietà della condizione esistenziale e sociale.

Egli rovescia l’ipotesi di Max Weber, che trova la genesi spirituale del capitalismo nell’ascetismo protestante, nella rinuncia e nel sacrificio di sé. Il «discorso del capitalista» esalta il godimento a scapito di ogni forma di legame. Il sacrificio di sé tipico dei primi capitalisti, è annullato dall’imperativo del consumismo, inteso come consumo di consumo. Dopo due secoli di incontrastato sviluppo, Lacan intuisce che il capitalismo non è solo uno dei modi più potenti di trasformare la società, da feudale a industriale, da contadina a urbana, da nazionale a globale, ma è un discorso che frantuma le relazioni affettive e solidali.

Massimo Recalcati

Massimo Recalcati

Il «discorso del capitalista», più di ogni altro, impoverisce la complessità del presente e le nostre qualità mentali. Pone dei forti limiti a quell’immaginazione creativa necessaria per interpretare in modo evolutivo le trasformazioni in corso. Il «discorso del capitalista» è una manifestazione del pensiero positivista monocausale. Espressione di una visione dell’agire sociale unidimensionale, esso rimanda agli schemi dualistici tipici della modernità (comunità/società, civiltà/cultura, Stato/società civile, normale/patologico), che hanno operato una riduzione drastica della complessità sociale e culturale.

Il «discorso del capitalista» è dunque immediatamente produttore di realtà, della quale si osservano le derive dell’utilitarismo, della crisi della gerarchia, della mercificazione, della “liquefazione” dei rapporti e delle regole, dei processi di normalizzazione e standardizzazione, ecc. Ipervertimento dell’utile, ad esempio, indica che, nell’attribuire un valore all’azione sociale, l’utile è il singolo parametro, che annichilisce qualsiasi altra dimensione dell’agire. Bellezza, giustizia, solidarietà, evaporano, assumendo la fumosità retorica delle buone intenzioni. Nella relazione con l’altro diventa prioritario avere un congruo tornaconto e le relazioni sociali tendono ad assumere un valore strumentale. Non solo l’utilità è assunta a valore, ma anche l’idea di performance efficiente è centrale, nel senso della velocità con cui si deve ottenere ciò che serve [da vent’anni la scuola sta cambiando in questa direzione: smettendo di preoccuparsi della crescita integrale degli studenti e adottando criteri di mera misurazione dell’adeguatezza a singoli compiti. NDR]. I contesti sociali richiedono una velocità di esecuzione degli obiettivi imposti o sollecitati che lascia poco tempo per ritardi, eventi gratuiti, momenti di socialità, di ascolto e di condivisione, ecc. Oltre all’utilità, e alla velocità, è richiesto di rispondere a standard rigorosi, che stabiliscono criteri universali per essere più veloci ed efficienti nel raggiungimento dei risultati.

Amelia,. la segretaria artificiale

Amelia,. la segretaria artificiale

La metafora millsiana del “docile robot” rende immediatamente il significato che si tende ad attribuire all’ottimizzazione dei processi produttivi.

È l’inumano tecnologico riproducibile in modo seriale, dove la dimensione sociale e artigianale del lavoro rischia continuamente di essere ridotta a procedura standardizzabile e anonima. L’umano del gesto tende trasformarsi in una componente meccanica riproducibile, impersonale, volta alla veloce precisione di un gesto utile e puntuale, che non si può permettere approssimazioni o improvvisazioni fuori dagli schemi protocollati. Restano forse spazi e tempi nuovi, inesplorati, in cui l’umano possa esprimersi con tutta la sua spontaneità, fragilità, consapevolezza. Al di fuori del gergo dell’ossessivo, dell’utile, del performativo, gli ambiti generativi della socialità, della giustizia, della prossimità forse possono ancora essere frequentati. Un forse che non è semplicemente avverbio dubitativo, ma è – come disse una volta André Neher – un “teologumeno”, appiglio sottile ma sublime su cui il discorso del capitalista si infrange, pietra d’inciampo su cui provare a modulare un’andatura nuova. Non pascersi nel vittimismo significa anche mantenere vigile l’attenzione, la “preghiera spontanea dell’anima”, verso le occasioni di riscatto, di nuovo inizio.

sabato 26 marzo 2022

HERMANN HESSE SULL'AMORE

 HERMANN HESSE  SULL'AMORE.


 Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che da valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire. Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciati per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla.C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere; vuole soltanto amare.”

Figliolanza

 Figliolanza


«Quando l'allievo non fa che ripetere non la stessa risonanza ma un miserabile ricalco del pensiero del maestro; quando l'allievo non è che un allievo, fosse pure il più grande degli allievi, non genererà mai nulla. Un allievo non comincia a creare che quando introduce egli stesso una risonanza nuova (cioè nella misura in cui non è un allievo). Non che non si debba avere un maestro, ma uno deve discendere dall'altro per le vie naturali della figliazione, non per le vie scolastiche della discepolanza».

Questo è il bisogno della nostra compagnia, perché essa sia sorgente di missione in tutto il mondo: non discepolanza, non ripetitività, ma figliolanza. L'introduzione di un'eco e di una risonanza nuova è propria del figlio che ha la natura del padre. Ha la stessa natura, ma è una realtà nuova. Tant'è vero che il figlio può far meglio del padre e il padre può guardare tutto felice il figlio che è diventato più grande di lui. Ma quello che il figlio fa è più grande proprio e solo in quanto realizza di più quello che il padre ha sentito. Perciò, per l'organicità vivente della nostra compagnia, non esiste niente di più contraddittorio che, da un lato, l'affermazione della propria opinione, della propria misura, del proprio modo di sentire e, dall'altro, la ripetitività. È la figliazione che genera: il sangue dell'uno - del padre - passa nel cuore dell'altro - del figlio - e genera una capacità di realizzazione diversa. Così si moltiplica e si dilata il grande mistero della Sua presenza, affinché tutti lo vedano dando gloria a Dio.


L'avvenimento cristiano, pag. 49

venerdì 25 marzo 2022

 «Alla fine degli anni Sessanta andai a specializzarmi in cardiochirurgia negli Stati Uniti. In reparto mi rimproveravano: "Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c'entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti". Decisero di mandarmi a lavorare in rianimazione, "così può attaccarsi a loro finché vuole"... ecco, stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore. C'è anche dell'altro, però».


Che cosa?

«In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l'idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».


Enzo Jannacci, 6 febbraio 2009

alla base di tutte le virtù umane c'è il più terribile egoismo

 "Mi accusate di avere dei vizi, di essere dissoluto, immorale, mentre io forse sono colpevole solo di essere più sincero degli altri e basta; di non nascondere ciò che gli altri nascondono persino a sé stessi. Facendo così faccio male, ma ora voglio così.

C'è un godimento tutto speciale in quell'improvviso smascherarsi, in quel cinismo col quale un uomo si svela davanti ad un altro, senza neppure vergognarsi difronte a lui. Che posso fare se so con sicurezza che alla base di tutte le virtù umane c'è il più terribile egoismo?... 

e più un'azione è virtuosa, più grande è l'egoismo. 

"Ama te stesso", ecco l'unica regola che riconosco. Sono d'accordo con tutto, purché io stia bene, e ce ne sono a legioni di uomini che la pensano come me, e tutti stiamo veramente bene... Tutto può andare in rovina in questo mondo, soltanto noi esisteremo sempre. 

Esistiamo da quando esiste il mondo".

(Umiliati e offesi)

giovedì 24 marzo 2022

Quante poco sono le persone, Quasi non ce ne sono più.



Quante poco sono le persone,
Quasi non ce ne sono più.
Che vogliono rivelarsi ! ..
-Passano -passano-
Si spingono,
Ballando fra di loro o  nel gioco
Segreto, mentono  con scioltezza,
Si ingannano cordialmente :
Né contemporanei, né vicini,
Né conosciuti l'uno all'altro.
Prendendosi le mani,
Si sbavano in uno stretto abbraccio.
L'abisso fra di loro ribolle e gli oceani,

E sulle onde - loro;
Vicini perché?... per il nome!
Il mondo invece dice:
-«Sono familiari - è questo un focolare,
Sono dei nostri !» -
Più sinceramente, il Cielo azzurro unisce
Mille popoli, che si massacrano

Attraverso i secoli, perché
Almeno uno, più sinceramente d'altri,
Crede nel comune Cielo.
- Essi invece ballano: petto contro petto,
Glacialmente incoscienti di se stessi, e separati;
Basta che su di loro brilli una lampada accesa,
Ed un'unica moda li faccia tutti fra di loro uguali
-«Sono dei nostri!»-Se dall'alto
. Si tracciasse - una mappa
Come la mappa-della terra?...
Monti e deserti
SI trasferirebbero in un breve battito
Di ciglia e l'Oceano sarebbe,invece, là

Dove una piccola lacrima trascorre. !

                C. K.Norwid, Kofko ( Cerchio )

Gli ultimi due uomini

 Perchè non posso considerare il mio servo come un parente, e non posso accoglierlo finalmente con gioia nella mia famiglia? Questo è realizzabile anche oggi, ma in futuro varrà come base per una meravigliosa unione fra gli uomini, quando l’uomo non si cercherà più dei servi, nè vorrà più convertire in servi altri uomini uguali a lui, come fa ora, ma vorrà invece con tutto il cuore diventare lui stes­so il servo di tutti, secondo il Vangelo. È possibile che sia un sogno il credere che l’uomo finirà col trovare la sua gioia solo nelle opere di civiltà e di carità, e non nei piaceri brutali come fa ora, nella gola e nella fornicazione, nell’orgoglio e nella vanità, nella supremazia invidiosa degli uni sugli altri? Io credo fermamente che non sia un sogno, e che quel tempo sia vicino. La gente ride e domanda: ma quando verrà quel tempo e vi sembra proprio che possa mai venire? Io però penso che con l’aiuto di Cristo riusciremo a concludere questa grande opera. Quante idee ci sono state sulla terra, nella storia umana, che solo dieci anni avanti sembravano inconcepibili, e poi appar­vero di colpo, quando giunse misteriosamente la loro ora, e si diffusero in tutto il mondo? Così succederà anche per noi, e il nostro popolo farà luce al mondo, e tutti gli uomini diranno: «La pietra che i costruttori hanno respinta è diventata la pie­tra angolare». Quanto a quelli che ridono, si potrebbe chie­dere loro: se il nostro è un sogno, voi, allora, quando lo costrui­rete il vostro edificio? Quand’è che vi darete un ordinamento giusto col solo aiuto della vostra intelligenza, senza Cristo?

E se diranno che, anzi, loro sono proprio sulla strada dell’unione, è certo che solo i più ingenui di essi possono credere a una cosa simile, e c’è perfino da stupirsi di tanta ingenuità. Davvero hanno più fantasia e più voglia di sognare di noi! Pensano di ordinarsi secondo giustizia, ma una volta respinto Cristo finiranno con l’inondare il mondo di sangue, perchè sangue chiama sangue, e chi sguaina la spada perirà di spada. Se non fosse la promessa di Cristo, si sterminerebbero davvero l’uno con l’altro fino agli ultimi due uomini. E anche gli ultimi due, con la loro superbia, non riuscirebbero a frenarsi, così che l’ultimo sopprimerebbe il penultimo, e poi sopprimerebbe se stesso. È proprio quello che accadrebbe, se non ci fosse la promessa di Cristo di abbreviare quei giorni per amore degli umili e dei mansueti

martedì 22 marzo 2022

  Noi tutti vogliamo aiutarci vicendevolmente. Gli esseri umani sono fatti così. Vogliamo vivere della reciproca felicità, ma non della reciproca infelicità. Non vogliamo odiarci e disprezzarci. Al mondo c'è posto per tutti. E la buona terra è ricca e in grado di provvedere a tutti.

La vita può essere libera e bella, ma noi abbiamo smarrito la strada: la cupidigia ha avvelenato l'animo degli uomini, ha chiuso il mondo dietro una barricata di odio, ci ha fatto marciare, col passo dell'oca, verso l'infelicità e lo spargimento di sangue. Abbiamo aumentato la velocità, ma ci siamo chiusi dentro. Le macchine che danno l'abbondanza ci hanno lasciato nel bisogno. La nostra sapienza ci ha resi cinici; l'intelligenza duri e spietati. Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che d'intelligenza abbiamo bisogno di dolcezza e di h

Soldati! Non combattete per la schiavitù! Battetevi per la libertà! Nel Vangelo di san Luca è scritto che il regno di Dio è in ogni uomo: non in un uomo o in un gruppo di uomini ma in tutti gli uomini! In voi! Voi, il popolo, avete il potere di rendere questa vita libera e bella, di rendere questa vita una magnifica avventura. E allora, in nome della democrazia, usiamo questo potere, uniamoci tutti. Battiamoci per un mondo nuovo, un mondo buono che dia agli uomini la possibilità di lavorare, che dia alla gioventù un futuro e alla vecchiaia una sicurezza.

Promettendo queste cose i bruti sono saliti al potere. Ma essi mentono! Non mantengono questa promessa. Né lo faranno mai! I dittatori liberano se stessi ma riducono il popolo in schiavitù. Battiamoci per liberare il mondo, per abbattere le barriere nazionali, per eliminare l'ingordigia, l'odio e l'intolleranza. Battiamoci per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso conducano alla felicità di tutti. Soldati uniamoci in nome della democrazia!

Hannah, mi senti? Ovunque tu sia, alza gli occhi! Alza gli occhi, Hannah! Le nubi si disperdono! E torna il sole! Usciamo dalle tenebre alla luce! Entriamo in un mondo nuovo, un mondo più buono, dove gli uomini saranno superiori alla loro ingordigia, al loro odio e alla loro brutalità. Alza gli occhi, Hannah! L'anima dell'uomo ha messo le ali e finalmente egli comincia a volare. Vola nell'arcobaleno, nella luce della speranza. Alza gli occhi, Hannah! Alza gli occhi! »

(da C. Chaplin, La mia autobiografia, Milano 1977, pp. 424-25).

LA MIA ANIMA HA FRETTA

 LA MIA ANIMA HA FRETTA


Ho contato i miei anni e ho scoperto che ho meno tempo per vivere da qui in poi rispetto a quello che ho vissuto fino ad ora.

Mi sento come quel bambino che ha vinto un pacchetto di dolci: i primi li ha mangiati con piacere, ma quando ha compreso che ne erano rimasti pochi ha cominciato a gustarli intensamente.

Non ho più tempo per riunioni interminabili dove vengono discussi statuti, regole, procedure e regolamenti interni, sapendo che nulla sarà raggiunto.

Non ho più tempo per sostenere le persone assurde che, nonostante la loro età cronologica, non sono cresciute.

Il mio tempo è troppo breve: voglio l’essenza, la mia anima ha fretta. Non ho più molti dolci nel pacchetto.


Voglio vivere accanto a persone umane, molto umane, che sappiano ridere dei propri errori e che non siano gonfiate dai propri trionfi e che si assumano le proprie responsabilità. Così si difende la dignità umana e si va verso la  verità e l' onestà.

È l’essenziale che fa valer la pena di vivere.

Voglio circondarmi di persone che sanno come toccare i cuori, di persone a cui i duri colpi della vita hanno insegnato a crescere con tocchi soavi dell’anima.

Sì, sono di fretta, ho fretta di vivere con l’intensità che solo la maturità sa dare.

Non intendo sprecare nessuno dei dolci rimasti. Sono sicuro che saranno squisiti, molto più di quelli mangiati finora.

Il mio obiettivo è quello di raggiungere la fine soddisfatto e in pace con i miei cari e la mia coscienza.

Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo una.


Mario de Andrade

La bellezza

Quando le chiesero di rivelare i suoi segreti di bellezza, Audrey Hepburn scrisse questo bellissimo testo che venne poi letto al suo funerale. 
 "Per avere labbra attraenti, pronuncia parole gentili. 
Per avere uno sguardo amorevole, cerca il lato buono delle persone. 
Per avere un aspetto magro, condividi il tuo cibo con l'affamato. 
Per avere capelli bellissimi, lascia che un bimbo li attraversi con le proprie dita una volta al giorno. 
Per avere un bel portamento, cammina sapendo di non essere mai sola, perchè coloro che ti amano e ti hanno amato, ti accompagnano. 
Le persone, ancora più che gli oggetti, hanno bisogno di essere riparate, viziate, risvegliate, volute e salvate: non rinunciate mai a nessuno. 
Ricorda, se mai avrai bisogno di una mano, le troverai alla fine di entrambe le tue braccia. 
Quando diventerai anziana, scoprirai di avere due mani, una per aiutare te stessa, la seconda per aiutare gli altri.
 La bellezza di una donna non è nei vestiti che indossa, nel suo viso o nel suo modo di sistemare i capelli. 
La bellezza di una donna si vede nei suoi occhi, perchè quella è la porta aperta sul suo cuore, la fonte del suo amore.
La bellezza di una donna non risiede nel suo trucco, ma la vera bellezza in una donna è riflessa nella propria anima.
È la tenerezza che da' l'amore, la passione che essa esprime. La bellezza di una donna cresce con gli anni"

lunedì 21 marzo 2022

 L'altro giorno un giornalista, mi ha fatto una strana domanda: " Anche lei va a confessarsi?" —"Si, vado a confessarmi ogni settimana, ho risposto". E lui ha detto: " Dio deve essere più che esigente se anche lei va a confessarsi".

A mia volta gli ho detto : "Capita a volte al vostro proprio figlio di sbagliare. Cosa succede quando vi dice : "Babbo mi dispiace!" Che cosa fate? Prendete vostro figlio tra le braccia e lo baciate. Perché? Perché è il vostro modo di dirgli che lo amate. Dio fa la stessa cosa. Egli vi ama teneramente. Se noi abbiamo peccato o abbiamo commesso un errore, facciamo in modo che ciò ci aiuti ad avvicinarci a Dio. Diciamogli umilmente: So che non avrei dovuto agire così, ma anche questa caduta, te la offro.

Se abbiamo peccato, se abbiamo commesso degli errori, andiamo verso di lui e diciamogli

Mi dispiace! Ne sono pentito!" Dio è un padre che ha pietà. La sua misericordia è più grande dei nostri peccati. Egli ci perdonerà.


S.Madre Teresa 

di Calcutta

Amare i nemici

 «Pur vivendo in comunità, molto spesso noi perdiamo la grazia, poiché non abbiamo imparato ad amare i nostri fratelli secondo il comandamento del Signore. Se tuo fratello ti offende, e tu vai in collera, lo condanni o lo detesti, ti accorgerai che la grazia è fuggita da te e la pace se n’è andata. Per avere pace nell’anima noi dobbiamo imparare ad amare chi ci ha offeso … Non può esserci pace per l’anima se essa non prega il Signore con tutte le sue forze per il dono dell’amore verso tutti gli uomini. (...) Chi non ama i suoi nemici non troverà mai pace, nemmeno se fosse posto in paradiso».


(San Silvano del Monte Athos, santo cristiano ortodosso russo, 1866-1938)

San NICOLA DI FLUE

 UN SANTO AL GIORNO TOGLIE LA TRISTEZZA DI TORNO


21 marzo, San NICOLA DI FLUE   Padre di famiglia, eremita

Flueli, Svizzera, 1417 - Sachseln, Svizzera, 21 marzo 1487

Martirologio Romano: Sul dirupo montano di Ranft presso Sachseln in Svizzera, san Nicola di Flüe: chiamato da divina ispirazione a più grandi opere, lasciati la moglie e dieci figli, si ritirò tra i monti a condurre vita eremitica; celebre per lo stretto rigore di penitenza e il disprezzo del mondo, una sola volta uscì dalla sua piccola cella, sotto la minaccia di una guerra civile, per riconciliare con una breve esortazione le parti avverse.


Nicola nacque nel marzo del 1417 nel piccolo abitato di Flùeli, sopra Sachseln, nella regione dell’Obwald. Nello stesso anno, l’11 novembre, il concilio che si svolgeva a Costanza, capoluogo della diocesi, poneva fine al grande scisma d’Occidente, suscitando speranze di riforma che sarebbero state però di breve durata.

Nella nuova costruzione europea che lentamente andava sostituendosi alla feudalità, la piccola Confederazione elvetica era alla ricerca di una propria identità e di un proprio ruolo all’incrocio delle grandi vie commerciali d’ Europa. Le comunità montane e le borghesie cittadine erano interessate alla prosperità derivante dallo sviluppo dei traffici commerciali, ma le loro divergenti ambizioni politiche creavano antagonismi che giungevano spesso al limite della rottura. La vocazione di Nicola e il suo cammino alla ricerca di Dio si collocano dunque in un’epoca e in una terra attraversate da gravi crisi. Con la sua preghiera, l’influenza della sua presenza, la pace interiore che irradiava come risultato del suo abbandono a Dio, Nicola ottenne che comunità rivali e divise da interessi economici e politici giungessero ad accettarsi e a convivere su un piano di solidarietà.

Cinquantenne, laico, sposato da venti anni e padre di dieci figli, ex soldato, contadino rispettato che poteva ritenersi pago del suo stato, magistrato e giudice impegnato negli affari del suo Cantone (ma che aveva abbandonato la carica per non essere riuscito a ottenere l’abolizione di una sentenza da lui ritenuta ingiusta), Nicola si lasciò condurre dalla chiamata di Dio là dove non avrebbe mai pensato di arrivare. La decisione presa fu il risultato di una lotta interiore, circa la quale egli fu sempre molto discreto: essa dovette pero essere dura, poiché Nicola la paragonò alla «lima che purifica e al pungolo che stimola».

Un giorno, mentre pregava per chiedere a Dio la grazia di una fervida adorazione, vide una nuvola dalla quale uscì una voce che gli ordinò di abbandonarsi interamente alla volontà divina. Comprese allora che Dio, desiderando portare a termine in lui l’opera che aveva iniziato, lo invitava ad abbandonare la sua terra, i beni e la famiglia, per poter giungere fino a Lui. Egli chiese allora tre grazie: ottenere il consenso della moglie Dorotea e dei figli più grandi (il maggiore aveva allora 20 anni e poteva diventare capofamiglia, ma l’ultimo nato era di appena 13 settimane), non provare in seguito la tentazione di tornare indietro e infine, se Dio lo avesse voluto, poter vivere senza bere e mangiare. Tutte le sue richieste furono esaudite. Il 16 ottobre 1467, nella festa di S.Gallo, dopo aver salutato definitivamente Dorotea che egli avrebbe chiamato sempre «sua carissima sposa» e i figli, si pose in cammino, pellegrino dell’assoluto, «quasi volesse andare da solo nella miseria», come osservò Heini am Grund, un parroco delle vicinanze che sarebbe diventato suo confidente e amico. Voleva forse raggiungere una delle comunità degli «Amici di Dio» (Gottesfreunde) che fiorivano allora in Alsazia? È possibile, ma di fatto non arrivò oltre la piccola città di Liestal, nel cantone di Basilea: un contadino, al quale aveva parlato dei suoi progetti, lo persuase che in nessun luogo Dio lo voleva al suo servizio che non fosse in mezzo ai suoi. Umilmente Nicola accolse quel discorso come un segno. La notte successiva, mentre stava per addormentarsi, «vennero dal cielo una luce e un raggio che gli trafissero le viscere, come se un coltello lo avesse colpito». Sconvolto, ritornò con discrezione nei luoghi da cui era venuto, e decise di vivere in solitudine sullo scosceso prato del Ranft, all’estremità della foresta, in una valletta non lontana da casa sua. Dimorò in quel luogo per venti anni, abitando in una piccola cella fatta di assi, alla quale gli abitanti del villaggio aggiunsero ben presto una cappella.

Così, sorvegliato e protetto, Nicola si trovò a vivere nel deserto pur in mezzo ai suoi. Nulla lasciava allora immaginare il ruolo che avrebbe ben presto svolto a vantaggio del suo paese. Colpiti dalla fama della sua santità e anche dal suo digiuno assoluto (si nutriva solo dell’eucarestia, come fu verificato) ben presto molti ricorsero a lui per averlo come consigliere o arbitro. Fu grazie a questi incontri e a qualche breve lettera dettata alle autorità che lo avevano consultato, che Nicola trasmise il suo messaggio politico, che era quello di un operatore di pace secondo il vangelo. Per lui «in tutte le cose la misericordia vale più della giustizia», ed essa costituisce il miglior cemento per unire città e stati fra di loro. Nicola pone in guardia contro lo spirito di conquista, di guadagno e di possesso che genera solo risentimenti e conflitti. A lui, come ad estrema speranza, ricorse in tutta fretta Heini am Grund la notte fra il 21 e il 22 dicembre 1481 per cercare una parola di riconciliazione che potesse sia pure all’ultimo momento evitare una guerra fratricida fra i confederati. Senza l’intervento di Bruder Klaus la Confederazione elvetica non sarebbe sopravvissuta ai contrasti che allora la laceravano, e per questo Nicola è unanimemente venerato in Svizzera come «padre della patria», l’uomo che ne ha salvato le fondamenta nel momento più critico. «Sforzatevi di essere ubbidienti gli uni verso gli altri», scrisse alle autorità di Berna il 4 dicembre 1482, e aggiunse: «Custodite nel vostro cuore il ricordo della passione del Signore», rivelando così l’intima fonte della sua unione a Dio.

A un visitatore che gli chiedeva: «Come si deve meditare sulla passione del Signore?» Nicola rispose: «È buona qualunque via tu voglia scegliere», ma subito precisò: «Dio sa rendere la preghiera così dolce per l’uomo che questi vi si immerge come se andasse a ballare. Ma Dio sa anche far si che essa sia per lui come una lotta». E ripeté davanti al suo ascoltatore allibito: «Sì! Come se andasse a ballare!» Un altro eremita, venutosi a stabilire nelle vicinanze, avrebbe detto ammirato di Nicola: «Il mio compagno ha ormai varcato il Giordano. Io, miserabile peccatore, ne sono ancora al di qua».

Nicola è «passato in Dio». Autentico mistico, nella sua solitudine si ritrova nel cuore del mondo, testimone di quella presenza divina da cui è irradiato. Non stupisce allora che non abbia più avuto bisogno di nutrimento, che la sua mirabile sposa abbia, condividendone la fede, accettato la sua assenza come compimento di una vocazione; che i suoi compatrioti l’abbiano chiamato «fratello» e che forze politiche pronte ad affrontarsi abbiano trovato alla sua scuola un modo di vivere in comunione di intenti nel rispetto delle reciproche libertà. Quello di Nicola fu il cammino di un’avventura interiore senza ritorno. Egli non conosce spiegazioni o distinzioni erudite: la sua conoscenza di Dio è quella del cuore, intima, non trasmissibile. Egli sa tradurre la sua esperienza spirituale solo nel linguaggio dei «sogni» simbolici, i cui elementi sono tratti dalle fonti bibliche e dagli archetipi e dalle tradizioni delle sue montagne. Nicola li confida solo ad alcuni amici particolarmente discreti, che li riferiranno dopo la sua morte.

Nel suo ritiro del Ranft, in una data che si può collocare fra il 1474 e il 1478, l’eremita ricevette da Dio una visione così intensa da restarne come annientato. Da allora, come confermano alcune testimonianze, «tutti coloro che lo avvicinavano erano presi da timore. Egli affermava di aver visto una volta una luce che lo aveva trafitto e nella quale si mostrava un volto d’uomo. Di fronte a questa visione aveva pensato che il suo cuore sarebbe scoppiato. Preso da spavento, aveva distolto lo sguardo e si era gettato a terra».

Quando Nicola, che non sapeva leggere, voleva mostrare il suo libro di meditazione, presentava una figura disegnata al centro di una grande ruota, dalla quale partivano dei raggi che rappresentavano le vie di abbassamento e di misericordia scelte da Dio per venire fino a noi, i diversi cammini di umiltà - l’incarnazione, la passione, i sacramenti - che ci rivelano la grandezza e la tenerezza divina. «Nicola - annoterà un visitatore - deve aver appreso alla scuola dello Spirito Santo questa figura della ruota che egli fece dipingere nella sua cappella e nella quale brilla lo specchio risplendente di tutta la divinità».

Nicola di Flùe morì nel suo eremo il 21 marzo 1487, all’età di 70 anni.

Già mentre era ancora in vita Nicola fu considerato, dentro e fuori i confini della piccola nascente Svizzera, il santo della sua terra, un «profeta in patria». Per i suoi compatrioti, che non ebbero difficoltà a riconoscere in lui un saggio, un artefice di pace e un inviato di Dio, egli fu soprattutto uno di loro, un loro fratello: Bruder Klaus.

Nicola fu un montanaro dell’Unterwald e un attivo cittadino della giovane Confederazione degli otto Cantoni della Svizzera centrale, ma per la sua esperienza spirituale appartiene alla famiglia dei grandi mistici della Chiesa universale. I suoi contemporanei non si sbagliarono in questo e furono assai più colpiti da quanto emanava dalla sua persona che dal digiuno assoluto che egli osservò negli ultimi 20 anni della sua vita. Pur avendo conosciuto alcune delle opposizioni che inevitabilmente incontrano tutti coloro che prendono sul serio le parole del vangelo, la sua lotta fu sostanzialmente quella che tutti gli uomini alla ricerca di Dio conducono contro le oscurità, i dubbi e le contraddizioni che si manifestano dentro di loro. Così, rifiutandosi di circoscrivere la sua avventura umana nei limiti propri dell’uomo, Nicola si lasciò trascinare da Dio fino alla totale rinuncia di se stesso, con una progressione la cui originalità e austerità rimangono ancora oggi incomprensibili a molti. Un uomo che non sapeva né leggere né scrivere divenne così la più alta coscienza morale e spirituale del suo paese. Il suo radicale impegno in una vita di solitudine e di preghiera mise in evidenza come ogni alleanza umana, per essere solida, debba radicarsi nella pace che viene soltanto da Dio, poiché, come il santo amava ricordare, «Dio è la pace, e questa pace non potrà mai essere distrutta».

Il suo culto fu approvato da Clemente IX nel 1669. Venne canonizzato nel 1947 da Pio XII, che lo proclamò patrono della Svizzera. La più antica raffigurazione di Nicola è del 1492, cinque anni solamente dopo la sua morte. Il quadro fu commissionato per l’altare della chiesa di Sachseln, dove è sepolto. Nicola è raffigurato in piedi, scalzo, vestito del panno grezzo dei pellegrini e con il rosario in mano. La statua più antica, del 1504, oggi al municipio di Stans, conferma questa immagine del santo, ormai entrata nell’iconografia tradizionale.

La sua data di culto per la Chiesa Cattolica è il 21 marzo, mentre in Svizzera viene ricordato il 25 settembre.