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mercoledì 30 dicembre 2015

“…due fattori da non perdere di vista: la preghiera e l’amicizia”


Da “Vita di don Giussani” di Savorana, Pag. 420

“La risoluzione definitiva del problema del mondo passa attraverso il rapporto Dio-singolo, cioè passa attraverso il fenomeno della persona: La persona è il punto in cui cala il bolide divino per mettere a soqquadro o per mettere a posto il terremoto del mondo.”. E’ perciò “nel cambiamento della persona che opera l’avvenire più giusto e più sano. E’ il concetto cristiano di conversione”. Ma ci sono due fattori da non perdere di vista: la preghiera e l’amicizia.
Della preghiera Giussani dice che è il tempo in cui la persona prende coscienza, riconosce e accetta, grida a questo aculeo divino che penetra dentro la sua esistenza, perciò è solo da essa che può si può sprigionare una azione reale, indomabile, inesauribile anche se nessuno ti capisce, anche se le cose non vanno bene come avresti pensato. Non ti può fermare nessuno. Ti rendi sicuro  di fronte all’ universo, sicuro di un Altro.
Quanto all’amicizia (…) “Non boicottiamo, come normalmente facciamo, questo termine alterandolo nel suo valore autentico”, perché l’amicizia è ” il rapporto che ti richiama alla presenza che ti è venuta dentro, come se si fosse sprigionata tutta l’energia atomica dell’universo”.
(…)”Noi, amici miei, dopo tanta compagnia dobbiamo riconoscere che sono questi due fattori che non abbiamo. Abbiamo tutto; ma non questi due fattori perché è personale il primo ed è assolutamente personale il secondo”.
 da: https://annavercors.wordpress.com

martedì 29 dicembre 2015

Il primato assoluto della verità di ROMANO GUARDINI

Il primato assoluto della verità  
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di ROMANO GUARDINI  
Il medioevo  lo si può ben affermare, ha prevalentemente risolto la questione dei rapporti tra i due valori  fondamentali, ponendo, almeno teoricamente, la cono scenza al di sopra dell'azione. Per esso il  Logos  (la  verità) aveva il primato sull'  Ethos  (l'etica).  L'età moderna portò in questo riguardo una profonda  mutazione. Il problema dell'essenza del conoscere,  prima  posto a preferenza in modo costruttivo, assunse ora , in conseguenza di profondi sconvolgimenti spirituali, la sua  forma propriamente critica. Il conoscere divenne problematico, di conseguenza il punto di sostegno ed  il baricentro  della vita spirituale passò poco alla volta nel volere. L'azione della persona, che si fondava su se s tessa, divenne  sempre  più  importante.  Così  la  vita  attiva  venne  anteponendosi  a  quella  contemplativa,  la  volontà  alla conoscenza.  Questa preminenza del volere e dei suoi valori comunica all'epoca presente la sua peculiarità. Di qui  la sua  insonne spinta in avanti, la folle velocità del suo  lavoro, la furia del suo godere; di qui la venerazione del successo,  della forza, dell'azione; di qui la sua aspirazione  alla potenza; di qui, in genere, lo spiccato senso  del valore del  tempo e la tendenza a sfruttarlo attivamente fino a ll'ultimo. Da qui viene anche che istituzioni spirituali come gli  antichi ordini contemplativi, già viste come qualche cosa di ovvio nel complesso della vita religiosa,  oggetto di  predilezione  per  tutto  il  mondo  credente,  ora  non   rovano  spesso  comprensione  neppure  presso  cattolici ,  e  debbono essere di continuo difese dai loro amici dalla taccia di ozioso perditempo.  Un accentuato attivismo domina tutto;  l'Ethos  ha la netta preminenza sul  Logos,  l'aspetto attivo della vita su  quello contemplativo.  Questa spiccata preminenza della volontà sulla conoscenza"dell'Ethos  sul  Logos,  contraddice allo spirito del  cattolicesimo.  Il protestantesimo nelle sue forme diverse, dalla tendenza ortodossa all'estremo appiattimento della libera  critica, rappresenta l'espressione più o meno religioso-cristiana di questo spirito.  Questo spirito ha progressivamente sacrificato la salda verità religiosa, ed ha fatto della convinzione religiosa,  sempre più di giorno in giorno, un mero oggetto del  giudizio, del sentimento, dell'esperienza personale. La verità  scivolò così dal dominio dell'oggettivamente saldo  a quello del soggettivamente fluttuante. In tal mod o venne da  sé che la volontà assumesse la funzione direttiva.  Dal momento che il credente in fondo non aveva più  una «vera  fede», bensì solo un'esperienza della fede del tutto personale, l'unica cosa salda diveniva logicamente non più un  contenuto di fede professabile e insegnabile, bensì  la dimostrazione della rettitudine dello  spirito mediante la  rettitudine dell'azione. Qui non si può più parlare  ormai di una cristiana affermazione dell'essere in  senso proprio. Il  credente si era radicato non più nell'eternità, ma  nel tempo, e l'eternità prendeva figura ed entrava  in relazione col  tempo solo per la mediazione del sentimento, non in  via immediata. In tal modo la religione prese un o rientamento  sempre più mondano.  Essa  divenne  sempre  più  la  consacrazione  dell'esistenza  umana  temporale  nei  suoi  aspetti  più  vari,  una santificazione dell'attività terrena: del lavoro professionale, della vita sociale, della famiglia e s imili. Ma chiunque  abbia  considerato  per  un  certo  tempo  queste  cose,  rileva  quanto  inadeguata  sia  questa  spiritualità,  quanto  contraddica  alle  leggi  supreme  dell'esistenza  e  dell'anima.  Essa  è  falsa  e  perciò  innaturale  nel  più  profondo  significato di questa parola. Qui sta la fonte specifica dell'angustia dell'età nostra. Essa ha infatti invertito il santo  ordine della natura. Goethe ha realmente toccato l' intimo nucleo della situazione quando fece scrivere  al suo  Faust, preso dal dubbio, le parole: «In principio era l'azione» al posto della frase: «In principio era il Verbo».  Passando il centro di gravità della vita dalla conoscenza al volere, dal  Logos  all'  Ethos,  la vita si fece sempre   più instabile.   Alla persona singola si richiese di reggersi su se  stessa. Ma questo può farlo solo una volontà che sia   realmente creativa nel senso più assoluto della parola; proprietà questa che è soltanto della volontà  divina. Si pretese dall'uomo un contegno che   presuppone l'uomo essere Dio.  E siccome egli non lo è; s'insinua nel suo essere una specie di convulsione spirituale, un atteggiamento di  violenza impotente che talvolta appare tragico, ma  negli spiriti dalle piccole proporzioni riesce strano, anzi ridicolo.  Su questa mentalità ricade la colpa del fatto che l 'uomo d'oggidì assomiglia tanto spesso ad un cieco  che brancola  nel buio; giacché la forza fondamentale su cui egli  ha poggiato la sua vita, vale a dire il volere, è  cieca. La volontà  può volere, agire e creare, non, però, vedere. Di qui procede anche tutta quella irrequietudine che non trova riposo  in nessun luogo. Nulla perdura, nulla rimane saldo,  tutto si muta, e la vita è un perenne divenire, un  anelare, un  ricercare, un pellegrinare senza posa.  La  religione  cattolica  si  oppone  con  tutta  la  sua  forza  a  questa  mentalità.  La  Chiesa  perdona  ogni  altra  mancanza più facilmente che un attentato alla verità. Essa sa bene che, se uno manca ma non intacca la  verità,  egli può ritrovarsi e riprendersi. Ma s'egli intacca il principio, in tal caso è lo stesso santo ordine della vita che è  levato dai cardini.  La Chiesa ha pure guardato sempre con profonda diffidenza ad ogni concezione moralistica della verità,  del  dogma. Ogni tentativo infatti di fondare il valore  di verità del dogma sul suo valore per la vita, è nel suo intimo,  anticattolico.  La  Chiesa  pone  la  verità,  il  dogma  come  un  dato  assoluto,  riposante  su  se  stesso,  che   on  abbisogna di nessuna fondazione sulla base dell'ambito morale o pratico.  La verità è verità, perché è la verità. È in sé e per sé indifferente ciò che la volontà le dice o se  essa possa  dare inizio con la verità a qualche intrapresa. Il  volere non deve giustificare la verità, né essa ha  bisogno di  giustificarsi dinanzi ad esso, bensì quello deve riconoscersi del tutto incompetente di fronte a questa. Il volere non  crea la verità, ma la trova; deve riconoscersi cieco e perciò bisognoso della luce, della guida, della  potenza  ordinatrice e formatrice della verità. Il volere deve fondamentalmente riconoscere il primato della conoscenza sulla  volontà, del  Logos  sull'  Ethos.  Nell'ambito complessivo della vita il primato definitivo deve averlo non l'agire, bensì l'essere. In fondo non si  tratta dell'agire, ma del divenire: non ciò che si  fa, bensì ciò che è costituisce il valore supremo.  Ed il valore  definitivo non sta nella visione del mondo moralistica, ma in quella metafisica, non nel giudizio sul  valore, ma in  quello sull'essere, non nello sforzo, ma nella adorazione. Non appena questo primato venga ristabilito, si offre anche il fondamento della sanità spirituale. L'anima infatti abbisogna di un terreno assolutamente saldo su cui reggersi. Essa abbisogna di un appoggio da cui possa spingersi oltre se stessa, di un punto sicuro fuori di essa, e questo punto non può essere che la verità. Il riconoscimento della verità oggettiva è il fatto fondamentale della liberazione spirituale: «la verità vi farà liberi». L'anima abbisogna di quella liberazione interiore in cui la concitazione del volere si placa, l'irrequietudine dell'anelito si calma, il grido della brama tace; e questo si verifica fondamentalmente ed in prima linea nell'atto intenzionale in cui il pensiero riconosce la verità , lo spirito ammutolisce dinanzi alla maestà sovrana della verità.

da: lo spirito della liturgia,   edizioni Morcelliana, Brescia 1987
 

domenica 27 dicembre 2015

presepio

Er presepio – Trilussa
***
 

Ve ringrazio de core, brava gente,
pé 'sti presepi che me preparate,
ma che li fate a fa? Si poi v'odiate,
si de st'amore non capite gnente.
..

Pé st'amore sò nato e ce sò morto,
da secoli lo spargo dalla croce,
ma la parola mia pare 'na voce
sperduta ner deserto, senza ascolto.


La gente fa er presepe e nun me sente;
cerca sempre de fallo più sfarzoso,
però cià er core freddo e indifferente
e nun capisce che senza l'amore
è cianfrusaja che nun cià valore.
da PensieriParole

CHARLIE CHAPLIN, IL GRANDE DITTATORE – DISCORSO ALL’UMANITA’

CHARLIE CHAPLIN, IL GRANDE DITTATORE – DISCORSO ALL’UMANITA’



«Mi dispiace, ma io non voglio fare l’imperatore. Non voglio né governare né comandare nessuno. Vorrei aiutare tutti: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo unirci, aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell’odio, condotti a passo d’oca verso le cose più abiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto. L’aviazione e la radio hanno avvicinato la gente, la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell’uomo, reclama la fratellanza universale. L’unione dell’umanità. Persino ora la mia voce raggiunge milioni di persone. Milioni di uomini, donne, bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di segregare, umiliare e torturare gente innocente. A coloro che ci odiano io dico: non disperate! Perché l’avidità che ci comanda è soltanto un male passeggero, come la pochezza di uomini che temono le meraviglie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. Il potere che hanno tolto al popolo, al popolo tornerà. E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi comandano e che vi disprezzano, che vi limitano, uomini che vi dicono cosa dire, cosa fare, cosa pensare e come vivere! Che vi irregimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Voi vi consegnate a questa gente senza un’anima! Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore. Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate l’amore dell’umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l’amore altrui. Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel Vangelo di Luca è scritto: «Il Regno di Dio è nel cuore dell’Uomo». Non di un solo uomo, ma nel cuore di tutti gli uomini. Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, il progresso e la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare si che la vita sia bella e libera. Voi che potete fare di questa vita una splendida avventura. Soldati, in nome della democrazia, uniamo queste forze. Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità ed alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l’avidità e l’odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!»
(Charlie Chaplin, Il grande dittatore)

sabato 26 dicembre 2015

La passione delle pazienze

La passione delle pazienze 
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Madeleine Delbrel, La gioia di credere, Gribaudi
La passione, la nostra passione, sì, noi l'attendiamo. Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che ne scocchi l'ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover essere consumati. Come un filo di lana tagliato dalle forbici, così noi dobbiamo essere separati. Come un giovane animale che viene sgozzato, così noi dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l'attendiamo. Noi l'attendiamo, ed essa non viene.
Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
E' l'autobus che passa affollato;
il latte che trabocca,
gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gli invitati che nostro marito porta in casa e quell'amico che, proprio lui, non viene;
E' il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
E' la voglia di tacere e il dover parlare,
E' la voglia di parlare e la necessità  di tacere;
E' voler uscire quando si è chiusi
e rimanere in casa quando bisogna uscire;
E' il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
E' il disgusto della nostra parte quotidiana,
E' il desiderio febbrile di tutto quanto non ci appartiene.
Così vengono le nostre pazienze, in ranghi serrati o in fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando - per dare la nostra vita - un'occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci son rami che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci sono fili di lana tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno per giorno si consumano sul dorso di quelli che l'indossano.
Ogni riscattto è un martirio, ma non ogni martirio èsanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all'altro della vita.
E' la passione delle pazienze

venerdì 25 dicembre 2015

Povero per i poveri. Dono di Dio per tutti

Povero per i poveri. Dono di Dio per tutti

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«Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare Betlemme. / Benedetto l’infante, che oggi ha ringiovanito l’umanità. / Benedetto il frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. / Benedetto il Buono, che in un istante ha arricchito tutta la nostra povertà e ha colmato la nostra indigenza. / Benedetto colui che è stato piegato dalla sua misericordia a prendersi cura della nostra infermità».
Con queste parole sant’Efrem affida alla poesia l’esaltazione del mistero del Natale, in un inno composto nel IV secolo. Le parole sono semplici e profonde, venate di palpabile commozione. Al cuore della lode, il segreto di un Bambino svelato al mondo: egli è motivo di gioia per tutta la terra, di cui è virgulto eletto, primizia di salvezza. Di questo Bambino il santo siriaco celebra la condiscendenza, il suo chinarsi «piegato dalla misericordia», il suo farsi prossimo della nostra miseria sino a colmarla di abbondanza.

Natale è il mistero di un dono: non di un dono qualunque, non uno dei tanti che si assiepano sotto l’albero, spesso per onorare più un "dovere" di circostanza che una reale necessità. «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (Isaia 9,5). Egli è davvero per noi.

Nel Natale Dio è più che mai rivolto a noi: ci sorride nel sorriso di un Bambino, accoglie le nostre premure come il più fragile e bisognoso degli uomini. È un’immagine che la nostra tradizione ha molto cara, non mancando mai nei presepi che si illuminano nelle nostre case. È, però, anche un’immagine che ne richiama molte altre. E invita a non dimenticare.

Nel volto del Bambino di Nazaret la fede ci invita a ritrovare quello, forse meno serafico, di tanti bambini altrettanto bisognosi e fragili. Nel profilo del figlio di Maria dovremmo scoprire, non senza costernazione, quello di tanti figli che vengono al mondo nella precarietà, nell’indigenza più stringente. Nei primi, travagliati giorni del Redentore in fasce dovremmo rivedere l’affannosa lotta per sopravvivere di intere famiglie che pure non rinunciano alla gioia di dare al mondo una nuova vita, la drammatica ricerca di alloggio, di sicurezza e di protezione, che spesso le costringe a spostarsi oltre i confini delle loro terre e a cercare lontano.

Nel mistero del Dio Bambino non è forse riflesso lo strazio dei bambini naufraghi sulle nostre coste? Li vediamo riversi, abbandonati dai flutti sulla sabbia, traditi dalla disperazione che ha spinto i loro cari a portarli con sé in cerca di serenità. Eppure il Natale ci sembra, a volte, un’altra cosa. Non dovrebbe forse suscitare lo stesso, venerante tremore il mistero della sofferenza di chi, innocente, deve pagare per colpe non sue il prezzo per venire al mondo?

Dovrebbe indignare la facilità con cui l’odierna attenzione mediatica si sposta dalle tragedie del Mediterraneo alle opulenze dei cenoni. Si piange, ci si irrita per l’abuso, per la violenza di cui sono oggetto i piccoli, ma si tratta spesso di un effetto "a tempo determinato". Il mistero del Natale, invece, ci invita a una memoria perenne, a non dimenticare. Perché «un bambino è nato per noi», a noi, a ciascuno di noi «è stato dato un figlio».

Sulla scia del Giubileo straordinario inaugurato da Papa Francesco, il Bambino di Nazaret ci addita la via della prossimità. In lui – ci dice sant’Efrem – risplende l’esempio di una misericordia che non si accontenta del candore dei buoni propositi, ma scende in campo per farsi azione, reazione, riscatto. Quel Bambino, misero tra i miseri, si è chinato sulla nostra indigenza, «piegato dalla misericordia», Impariamo da lui a chinarci anche noi gli uni verso gli altri, Impariamo a non ritenerci mai così poveri da non poter dare, e mai così ricchi da non dover ricevere. Perché un Bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio.
card. ANGELO BAGNASCO

E’ GESU’ LA VERA “GIOVENTU’ BRUCIATA” (CE LO DICE IL NATALE…)

E’ GESU’ LA VERA “GIOVENTU’ BRUCIATA” (CE LO DICE IL NATALE…)

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Forse “Via delle storie infinite” sarebbe la giusta dislocazione per “il caffè della gioventù perduta” di cui parlava Guy Debord. La vedo ogni giorno questa generazione di venticinquenni e di trentenni. Volti che fanno tenerezza. Destini incerti come le foglie nei boschi di dicembre. Proprio nell’età che dovrebbe essere quella della fioritura, della fecondità, dell’energia.
Silenziosi, pur trovandosi a pagare tutti i conti degli errori della generazione precedente.
Sembrano naufraghi in una terra di nessuno. Ci sono fra loro anche i “pirla”, come in ogni compagnia, ma perlopiù è una generazione di ragazzi bravi, intelligenti, col segreto dolore di chi si sente fuori luogo, senza definizione, anonimo, senza un posto nel presente e forse nel futuro: “non c’era posto per loro in quell’albergo”.
Così – col versetto evangelico riferito a Maria e Giuseppe (due altri giovani di duemila anni fa, con un figlio che doveva nascere) – con quelle parole del Vangelo, si può descrivere la condizione di questa generazione.
IL SENSO DELLA VITA
Non c’è “un posto” per loro. Non solo un posto di lavoro (e il lavoro è tanto per un uomo). Ma non hanno un posto nel mondo: una dimora, una patria, una terra che abbia un perché, una bellezza e un futuro. Non hanno padri che dicano loro chi sono e per cosa vale la pena vivere.
Abbandonati. Perduti. Senza sapere da chi sono stati fregati. Smarriti come solo si può smarrire un figlio all’aeroporto. In una terra di nessuno, che non è più il tuo Paese e non è nemmeno una terra straniera. E’ un non-luogo. Sembra (ma non è così) che per loro non sia in partenza nessun volo. Non sentono chiamate.
Sono spaesati. Si dice che il nostro non è un Paese per giovani. Ma è perduta questa gioventù o è perduto un tale Paese?
Guy Debord – ricordate il Situazionismo e la “Società dello spettacolo”? – fece una suggestiva parafrasi dell’incipit della Divina Commedia, che sembra un affresco di oggi: “Nel mezzo del cammino della vera vita, eravamo circondati da una malinconia oscura, che tante parole tristi e beffarde hanno espresso, nel caffè della gioventù perduta”.
Stava in un libro strano con un titolo misterioso: “In girum imus nocte et consumimur igni”. Questo bizzarro titolo latino, un vero palindromo (si può leggere egualmente da sinistra a destra e viceversa) è in realtà una citazione dell’esametro imperfetto che è stato attribuito a Paolo Silenziario, un poeta bizantino del VI secolo d.C.
Pare sia dedicato alle falene o alle torce (ma vale per tutte le gioventù bruciate) e significa: “Andiamo in giro di notte e veniamo consumate dal fuoco”.
Da quale fuoco? Dalla vita come passione inutile, come diceva Sartre? L’uomo deve ardere, ma per cosa? Consumarsi per nulla è la dissipazione e la disperazione. Una gioventù bruciata (dagli altri o da se stessi) è l’opposto dell’ardore.
Guardo i bei volti dei miei figli e mi chiedo: quale giovinezza è veramente perduta e bruciata? Non è forse quella che non conosce il suo significato?
Bisogna donare la propria vita (e così farne un capolavoro) prima che il tempo ce la rubi. Questo è il vero fuoco, così la giovinezza non sfiorisce mai. Sapere per cosa (per chi) si vive. E si muore.
Toni Negri ha scritto un libro autobiografico di 600 pagine. C’è una frase che colpisce: “‘Papà, che cosa vuol dire morire?’, chiede mia figlia”. La risposta non arriva, in 600 pagine. E allora voglio raccontarvi una storia di ardore, cioè di amore. Una storia di vita che vince la morte.
LA GRANDE AVVENTURA
Era giovane anche Robert Southwell. Era un poeta. Nasce a Horsham St Faith in Inghilterra, viaggia per l’Europa, va a Parigi e poi a Roma (e non c’era l’Erasmus). A 19 anni, nel 1580, entra nella Compagnia di Gesù. A 23 anni è ordinato sacerdote. A 25 anni viene mandato, con Henry Garnett, in Inghilterra.
Era la sua patria, ma la corona aveva imposto l’anglicanesimo e perseguitava i cattolici. Un feroce decreto della regina Elisabetta comminava la pena di morte ai sacerdoti cattolici che fossero trovati sul suolo inglese.
Era un bagno di sangue terribile. Un martirio che fece molte vittime illustri. Così Robert entrò clandestinamente nel suo Paese. A quel tempo i gesuiti erano un po’ i “marines” della Chiesa.
Si trovavano sempre nelle imprese più ardimentose, che si trattasse delle foreste amazzoniche (si ricorda il film “Mission”) o dei Paesi sotto tirannie anticattoliche, si trattasse di solcare gli oceani fino all’India e al Giappone, come Francesco Saverio, o di entrare alla corte degli imperatori cinesi come Matteo Ricci.
Il giovane padre Robert svolse in Inghilterra il suo lavoro missionario, in segreto, per nove anni. Poi, nel 1592, a 31 anni, fu denunciato, arrestato e accusato di far parte di un complotto per assassinare la regina Elisabetta.
Durante la prigionia fu brutalmente torturato, ma lui sempre si dichiarò innocente sostenendo che dovevano giudicarlo il popolo inglese e Dio. Nel 1595, a 34 anni, fu condannato a morte per tradimento (come si vede non ci sono solo gesuiti troppo amici dei potenti anticattolici, ma anche dei grandi gesuiti martiri).
Gli fu tagliata la testa e il corpo fu fatto a pezzi. Ma quando il boia sollevò il suo capo mozzato, quel 21 febbraio, a Tyburn, il popolo non gridò “Traditore!”, come di consueto. Il giudizio del suo popolo era contenuto in un triste silenzio di sgomento.
E il giudizio di Dio? Robert Southwell fu beatificato nel 1929 e fu proclamato santo nel 1970 da Paolo VI. E’ uno dei quaranta martiri d’Inghilterra e del Galles. Un giovane santo e martire.
Una gioventù bruciata, la sua, si direbbe. Ma bruciata per amore, per il grande Amico, per il vero Re dell’universo, un Re croficisso.
Così Robert Southwell conquistò un’eterna giovinezza. E’ sua una memorabile poesia su quel fuoco, su quell’ardore, su questa giovinezza bruciata (vedi sotto il testo integrale).
Southwell fu un grande poeta ed ebbe un’influenza decisiva sulla letteratura inglese, a cominciare da William Shakespeare di cui fu amico: c’è chi sostiene che proprio grazie a lui Shakespeare sia morto (segretamente) da cattolico.
Southwell appartiene a quel fiume di poesia metafisica che comprende anche John Donne e arriva a Thomas S. Eliot, passando per quello straordinario poeta che fu Gerard Manley Hopkins (1844-1889), un convertito al cattolicesimo diventato anche lui gesuita.
CUORI ARDENTI
Dunque, dicevo, fra le poesie di Southwell ce n’è una, strana e struggente, intitolata “The Burning Babe” (Il bambino che brucia), una poesia apprezzata da due artisti apparentemente così lontani da Southwell, come Dylan Thomas e Ben Jonson. E’ stata recentemente trasformata in canzone dal violinista folk  inglese Chris Wood ed è stata cantata da Sting nella cattedrale di Durham.
Inizia in una sorta di foresta oscura, che è la vita di tutti, dove accade qualcosa: “Una bianca notte d’inverno, tremando nella neve,/ Fui sorpreso da un improvviso calore che m’infiammava il cuore”.
L’ “everyman” che racconta questa situazione allegorica si accorge che il calore gli viene da un “bambino raggiante”, lì vicino, che soffre per essere avvolto nelle fiamme e versa fiumi di lacrime che quasi le spengono.
Il fanciullo parla: “appena nato mi consumo in fiamme ardenti,/ eppure nessuno si avvicina a riscaldarsi il cuore o a sentire il mio fuoco!”.
Ma da dove vengono quelle fiamme? Lo spiega il bimbo: “Il mio petto innocente è la fornace, la legna ha rovi laceranti,/ Amore è il fuoco, il fumo son sospiri, le ceneri insulti e scherno;/ Giustizia porta la legna e misericordia soffia sui carboni”.
E’ un fuoco che trasforma il duro metallo delle “anime degli uomini”, piene di sozzura, per rinnovarle, e dopo le fiamme “mi scioglierò in un bagno per lavarle nel mio sangue”.
Conclude il poeta: “Dette queste parole sparì alla mia vista dissolvendosi d’improvviso,/ e subito mi ricordai che era il giorno di Natale”.
E’ venuto al mondo per dare la sua vita per te, una follia d’amore, perché tu fossi felice per sempre.
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Antonio Socci
(da “Libero”, 24 dicembre 2015)

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(nella foto: Robert De Niro nel film “The Mission”)
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The Burning Babe (Il bambino che brucia)
Una bianca notte d’inverno, tremando nella neve,
Fui sorpreso da un improvviso calore che m’infiammava il cuore;
E alzando gli occhi timorosi per vedere quale fuoco avessi vicino
Un bel bambino raggiante mi apparve nell’aria
Che arso dall’eccessivo calore, versava fiumi di lacrime
E sembrava che quei fiotti potessero spegnere la fiamma che alimentava il suo pianto.
“Ahimé” disse “appena nato mi consumo in fiamme ardenti,
eppure nessuno si avvicina a riscaldarsi il cuore o a sentire il mio fuoco!
Il mio petto innocente è la fornace, la legna ha rovi laceranti,
Amore è il fuoco, il fumo son sospiri, le ceneri insulti e scherno;
Giustizia porta la legna e misericordia soffia sui carboni;
il metallo lavorato in questa fornace sono le profanate anime degli uomini;
e come ora io sono per esse infiammato per modellarle al loro bene,
così mi scioglierò in un bagno per lavarle nel mio sangue”.
Dette queste parole sparì alla mia vista dissolvendosi d’improvviso,
e subito mi ricordai che era il giorno di Natale.

di Robert Southwell (1561-95)

"Il pargolo ardente"

"Il pargolo ardente"

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Robert Southwell (1561-95) fu uno dei martiri della fede cattolica durante le persecuzioni della regina Elisabetta I d’Inghilterra. Discendente da una famiglia cattolica studiò a Douai e a Roma ed entrò nella Compagnia di Gesù. Tornato in Inghilterra nel 1586 divenne cappellano della contessa di Arundel, ma fu arrestato nel 1592, per una presunta collaborazione in un complotto contro la regina, mentre si recava a celebrare la Messa. Dopo tre anni di prigionia, durante i quali fu ripetutamente torturato, venne giustiziato”.
Cosi il grande anglista Giorgio Melchiori(sui cui testi questo bibliomane ha studiato) sintetizza la drammatica esistenza di questo poeta metafisicoinglese della seconda metà del cinquecento. Ad un attento esame del testo che vi propongo in versi alternati con la traduzione del Melchiori, si intravede una piramide di immagini, tutte di stringente aderenza intellettuale alla figura centrale della poesia: il piccolo“nato di fuoco”, il bambino Gesù. Una visione nel tempo di Natale decisamente antimoderna e che risente delle influenze manieristiche o (pre-barocche) italiane. Gli studi prolungati del poeta in Italia confermano questa impressione.




As I in hoary winter’s night stood shivering in the snow,.
Mentre in una bianca notte invernale rabbrividivo nella neve,
Surprised I was with sudden heat which made my heart to glow;
fui sorpreso da un subito calore che mi infiammava il cuore;
And lifting up a fearful eye to view what fire was near,
e quando levai l’occhio timoroso per vedere qual fuoco avessi accanto,
A pretty babe all burning bright did in the air appear;
un Pargoletto avvolto in viva fiamma nell’aria apparve;
Who, though scorched with excessive heat, such floods of tears did shed,
bruciato dall’eccessivo ardore, ei versava fiumi di lacrime,
As though his floods should quench his flames, which with his tears were fed.
quasi che tali fiumi dovessero soffocare le fiamme alimentate dalle sue lacrime.
“Alas,” quoth he, “but newly born, in fiery heats I fry,
“Ahimè!” diss’egli, “appena nato brucio in cocenti ardori,
Yet none approach to warm their hearts, or feel my fire but I!
ma nessuno si approssima a riscaldarsi il cuore o a provar la fiamma; io solo
My faultless breast the furnace is, the fuel wounding thorns,
il mio seno innocente è la fornace, combustibile con laceranti rovi;
Love is the fire, and sighs the smoke, the ashes shame and scorns;
amore è il fuoco, sospiri il fumo, e le ceneri vergogna e insulti;
The fuel justice layeth on, and mercy blows the coals,
giustizia porta la legna, e misericordia soffia sui carboni;
The metal in this furnace wrought are men’s defiled souls,
il metallo lavorato in questa fornace sono le anime immonde degli uomini;
For which, as now on fire I am to work them to their good,
e come ora son per esse infiammato onde operare il loro bene,
So will I melt into a bath to wash them in my blood.”
così mi dissolverò in un bagno per lavarle nel mio sangue”.
With this he vanished out of sight and swiftly shrunk away,
Con ciò ei svanì alla vista e ratto si dissolse,
And straight I called unto mind that it was Christmas Day.
e d’un subito mi rammentai che era il giorno di Natale.


Il “Burning Babe” è alla base della visione poetica dell’ epifània di un giorno di Natale. Una notte fredda, bianca, ma di un bianco particolare, “hoary”, che sa di antico, canuto, brizzolato, venerabile, venerando. Il tutto contrasta con “burning” l’elemento infuocato che caratterizza il “Bambino”. Il che, non a caso, fa “glow” - illuminare, accendere, avvampare il cuore di chi assiste all’evento. Il poeta dà una spiegazione ironica di come e perchè accade ciò. Il “nuovo nato”, egli esclama, “fries” - “brucia, frigge” in queste“fiere” fiamme. Tutto ciò anticipa quello che accadrà al bambino di Betlemme. Egli dovrà affrontare le pene dell’inferno per essere venuto a salvare gli uomini. Si susseguono le immagini che descrivono la redenzione. Il fuoco è quello dell’amore, la fornace è quella del suo cuore che ama con “faultless breast” -“petto incolpevole”. I peccati bruciano e consumano, le ceneri sono “shames”“scorn” - “vergogna”.
Poi il poeta continua con la similitudine, il metafisico “conceit” che ci ricorda diJohn Donne, nella personificazione della grazia che “arde” su questi carboni e la giustizia che fa da combustibile. Il processo, a dire il vero, è piuttosto macabro e duro al confronto con il freddo della notte invernale. Ma egli assicura che l’effetto avrà i suoi vantaggi. Le anime corrotte degli uomini saranno purificate, lavate dal sangue di questo “burning Babe”. L’oscuro ed ignoto spettatore avrà modo di riflettere su questa visione che sembra confonderlo, ma solo per rendersi poi conto che questo giorno non come tutti gli altri giorni. Egli ha potuto assistere contemporaneamente alla visione del Natale ed al miracolo della Pasqua fusi in una notte davvero speciale. Anche a distanza di tanto tempo questa poesia conserva la sua particolare forza narrativa ed immaginifica vivificata da una incredibile fede. Non a caso la Chiesa Cattolica lo annovera tra i suoi santi. Infatti Robert Southwell fu dichiarato santo da Paolo VI nel 1970.