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sabato 31 marzo 2012

La donna che si specchiava

 negli occhi di Francesco

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chiara-e-francescoIn occasione dell’Anno clariano (16 aprile 2011 – 11 agosto 2012),
commemorativo della consacrazione e della conversione di santa Chiara d’Assisi, Benedetto XVI ha inviato a monsignor Domenico Sorrentino,
arcivescovo-vescovo di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino, il seguente messaggio, che sarà letto la sera di sabato 31 marzo, nella cattedrale di
San Rufino, durante i primi Vespri della Domenica delle Palme.

Al Venerato Fratellostemma ratzinger
DOMENICO SORRENTINO
Vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino

Con gioia ho appreso che, in codesta Diocesi, come tra i Francescani e le Clarisse di tutto il mondo, si sta ricordando Santa Chiara con un «Anno Clariano», in occasione dell’VIII centenario della sua «conversione» e consacrazione. Tale evento, la cui datazione oscilla tra il 1211 e il 1212,  completava, per così dire, «al femminile» la grazia che aveva raggiunto pochi anni prima la comunità di Assisi con la conversione del figlio di Pietro di Bernardone. E, come era avvenuto per Francesco, anche nella decisione di Chiara si nascondeva il germoglio di una nuova fraternità, l’Ordine clariano che, divenuto albero robusto, nel silenzio fecondo dei chiostri continua a spargere il buon seme del Vangelo e a servire la causa del Regno di Dio.

Questa lieta circostanza mi spinge a tornare idealmente ad Assisi, per riflettere con Lei, venerato Fratello, e la comunità affidataLe, e, parimenti, con i figli di san Francesco e le figlie di santa Chiara, sul senso di quell’evento. Esso infatti parla anche alla nostra generazione, e ha un fascino soprattutto per i giovani, ai quali va il mio affettuoso pensiero in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, celebrata quest’anno, secondo la consuetudine, nelle Chiese particolari proprio in questo giorno della Domenica delle Palme.

Della sua scelta radicale di Cristo è la Santa stessa, nel suo Testamento, a parlare in termini di «conversione» (cfr FF 2825). E’ da questo aspetto che mi piace partire, quasi riprendendo il filo del discorso svolto in riferimento alla conversione di Francesco il 17 giugno 2007, quando ebbi la gioia di visitare codesta Diocesi. La storia della conversione di Chiara ruota intorno alla festa liturgica della Domenica delle Palme. Scrive infatti il suo biografo: «Era prossimo il giorno solenne delle Palme, quando la giovane si recò dall’uomo di Dio per chiedergli della sua conversione, quando e in che modo dovesse agire. Il padre Francesco ordina che nel giorno della festa, elegante e ornata, si rechi alle Palme in mezzo alla folla del popolo, e poi la notte seguente, uscendo fuori dalla città, converta la gioia mondana nel lutto della domenica di Passione. Giunto dunque il giorno di domenica, in mezzo alle altre dame, la giovane, splendente di luce festiva, entra con le altre in chiesa. Qui, con degno presagio, avvenne che, mentre gli altri correvano a ricevere le palme, Chiara, per verecondia, rimase immobile e allora il Vescovo, scendendo i gradini, giunse fino a lei e pose la palma nelle sue mani» (Legenda Sanctae Clarae virginis, 7: FF 3168).

Erano passati circa sei anni da quando il giovane Francesco aveva imboccato la via della  santità. Nelle parole del Crocifisso di San Damiano – «Va’, Francesco, ripara la mia casa» –, e nell’abbraccio ai lebbrosi, volto sofferente di Cristo, aveva trovato la sua vocazione. Ne era scaturito il liberante gesto dello «spogliamento» alla presenza del Vescovo Guido. Tra l’idolo del denaro a lui proposto dal padre terreno, e l’amore di Dio che prometteva di riempirgli il cuore, non aveva avuto dubbi, e con slancio aveva esclamato: «D’ora in poi potrò dire liberamente: Padre nostro, che sei nei cieli, non padre Pietro di Bernardone» (Vita Seconda, 12: FF 597). La decisione di Francesco aveva sconcertato la Città. I primi anni della sua nuova vita furono segnati da difficoltà, amarezze e incomprensioni. Ma molti cominciarono a riflettere. Anche la giovane Chiara, allora adolescente, fu toccata da quella testimonianza. Dotata di spiccato senso religioso, venne conquistata dalla «svolta» esistenziale di colui che era stato il «re delle feste». Trovò il modo di incontrarlo e si lasciò coinvolgere dal suo ardore per Cristo. Il biografo tratteggia il giovane convertito mentre istruisce la nuova discepola: «Il padre Francesco la esortava al disprezzo del mondo, dimostrandole, con una parola viva, che la speranza in questo mondo è arida e porta delusione, e le instillava alle orecchie il dolce connubio di Cristo» (Vita Sanctae Clarae Virginis, 5: FF 3164).

Secondo il Testamento di Santa Chiara, ancor prima di ricevere altri compagni, Francesco aveva profetizzato il cammino della sua prima figlia spirituale e delle sue consorelle. Mentre infatti lavorava per il restauro della chiesa di San Damiano, dove il Crocifisso gli aveva parlato, aveva annunciato che quel luogo sarebbe stato abitato da donne che avrebbero glorificato Dio col loro santo tenore di vita (cfr FF 2826; cfr Tommaso da Celano, Vita seconda, 13: FF 599). Il Crocifisso originale si trova ora nella Basilica di Santa Chiara. Quei grandi occhi di Cristo che avevano affascinato Francesco, diventarono lo «specchio» di Chiara. Non a caso il tema dello specchio le risulterà così caro e, nella IV lettera ad Agnese di Praga, scriverà: «Guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto» (FF 2902). Negli anni in cui incontrava Francesco per apprendere da lui il cammino di Dio, Chiara era una ragazza avvenente. Il Poverello di Assisi le mostrò una bellezza superiore, che non si misura con lo specchio della vanità, ma si sviluppa in una vita di autentico amore, sulle orme di Cristo crocifisso. Dio è la vera bellezza! Il cuore di Chiara si illuminò a questo splendore, e ciò le diede il coraggio di lasciarsi tagliare le chiome e cominciare una vita penitente. Per lei, come per Francesco, questa decisione fu segnata da molte difficoltà. Se alcuni familiari non tardarono a comprenderla, e addirittura la madre Ortolana e due sorelle la seguirono nella sua scelta di vita, altri reagirono violentemente. La sua fuga da casa, nella notte tra la Domenica delle Palme e il Lunedì santo, ebbe dell’avventuroso. Nei giorni seguenti fu inseguita nei luoghi in cui Francesco le aveva preparato un rifugio e invano si tentò, anche con la forza, di farla recedere dal suo proposito.
A questa lotta Chiara si era preparata. E se Francesco era la sua guida, un sostegno paterno le veniva anche dal Vescovo Guido, come più di un indizio suggerisce. Si spiega così il gesto del Presule che le si avvicinò per offrirle la palma, quasi a benedire la sua scelta coraggiosa. Senza l’appoggio del Vescovo, difficilmente si sarebbe potuto realizzare il progetto ideato da Francesco ed attuato da Chiara, sia nella consacrazione che questa fece di se stessa nella chiesa della Porziuncola alla presenza di Francesco e dei suoi frati, sia nell’ospitalità che ella ricevette nei giorni successivi nel monastero di San Paolo delle Abbadesse e nella comunità di Sant’Angelo in Panzo, prima dell’approdo definitivo a San Damiano. La vicenda di Chiara, come quella di Francesco, mostra così un particolare tratto ecclesiale. In essa si incontrano un Pastore illuminato e due figli della Chiesa che si affidano al suo discernimento. Istituzione e carisma interagiscono stupendamente. L’amore e l’obbedienza alla Chiesa, tanto rimarcati nella spiritualità francescano-clariana, affondano le radici in questa bella esperienza della comunità cristiana di Assisi, che non solo generò alla fede Francesco e la sua «pianticella», ma anche li accompagnò per mano sulla via della santità.
Francesco aveva ben visto la ragione per suggerire a Chiara la fuga da casa agli inizi della Settimana Santa. Tutta la vita cristiana, e dunque anche la vita di speciale consacrazione, sono un frutto del Mistero pasquale e una partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo. Nella liturgia della Domenica delle Palme dolore e gloria si intrecciano, come un tema che si andrà poi sviluppando nei giorni successivi attraverso il buio della Passione fino alla luce della Pasqua. Chiara, con la sua scelta, rivive questo mistero. Il giorno delle Palme ne riceve, per così dire, il programma. Entra poi nel dramma della Passione, deponendo i suoi capelli, e con essi rinunciando a tutta se stessa per essere sposa di Cristo nell’umiltà e nella povertà. Francesco e i suoi compagni sono ormai la sua famiglia. Presto arriveranno consorelle anche da lontano, ma i primi germogli, come nel caso di Francesco, spunteranno proprio in Assisi. E la Santa resterà sempre legata alla sua Città, mostrandolo specialmente in alcune circostanze difficili, quando la sua preghiera risparmiò ad Assisi violenza e devastazione. Disse allora alle consorelle: «Da questa città, carissime figlie, abbiamo ricevuto ogni giorno molti beni; sarebbe molto empio se non le prestassimo soccorso come possiamo nel tempo opportuno» (Legenda Sanctae Clarae Virginis  23:  FF 3203).

Nel suo significato profondo, la «conversione» di Chiara è una conversione all’amore. Ella non avrà più gli abiti raffinati della nobiltà di Assisi, ma l’eleganza di un’anima che si spende nella lode di Dio e nel dono di sé. Nel piccolo spazio del monastero di San Damiano, alla scuola di Gesù Eucaristia contemplato con affetto sponsale, si andranno sviluppando giorno dopo giorno i tratti di una fraternità regolata dall’amore a Dio e dalla preghiera, dalla premura e dal servizio. E’ in questo contesto di fede profonda e di grande umanità che Chiara si fa sicura interprete dell’ideale francescano, implorando quel «privilegio» della povertà, ossia la rinuncia a possedere anche solo comunitariamente dei beni, che lasciò a lungo perplesso lo stesso Sommo Pontefice, il quale alla fine si arrese all’eroismo della sua santità.

Come non proporre Chiara, al pari di Francesco, all’attenzione dei giovani d’oggi? Il tempo che ci separa dalla vicenda di questi due Santi non ha sminuito il loro fascino. Al contrario, se ne può vedere l’attualità al confronto con le illusioni e le delusioni che spesso segnano l’odierna condizione giovanile. Mai un tempo ha fatto sognare tanto i giovani, con le mille attrattive di una vita in cui tutto sembra possibile e lecito. Eppure, quanta insoddisfazione è presente, quante volte la ricerca di felicità, di realizzazione finisce per imboccare strade che portano a paradisi artificiali, come quelli della droga e della sensualità sfrenata! Anche la situazione attuale con la difficoltà di trovare un lavoro dignitoso e di formare una famiglia unita e felice, aggiunge nubi all’orizzonte. Non mancano però giovani che, anche ai nostri giorni, raccolgono l’invito ad affidarsi a Cristo e ad affrontare con coraggio, responsabilità e speranza il cammino della vita, anche operando la scelta di lasciare tutto per seguirlo nel totale servizio a Lui e ai fratelli. La storia di Chiara, insieme a quella di Francesco, è un invito a riflettere sul senso dell’esistenza e a cercare in Dio il segreto della vera gioia. E’ una prova concreta che chi compie la volontà del Signore e confida in Lui non solo non perde nulla, ma trova il vero tesoro capace di dare senso a tutto.

A Lei, venerato Fratello, a codesta Chiesa che ha l’onore di aver dato i natali a Francesco e a Chiara, alle Clarisse, che mostrano quotidianamente la bellezza e la fecondità della vita contemplativa, a sostegno del cammino di tutto il Popolo di Dio, e ai Francescani di tutto il mondo, a tanti giovani in ricerca e bisognosi di luce, consegno questa breve riflessione. Mi auguro che essa contribuisca a far riscoprire sempre di più queste due luminose figure del firmamento della Chiesa. Con un particolare pensiero alle figlie di santa Chiara del Protomonastero, degli altri monasteri di Assisi e del mondo intero, imparto di cuore a tutti la mia Benedizione Apostolica.

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© Osservatore romano - 1 aprile 2012

Quel primato degli umili che rovesciò il mondo

Il messaggio cristiano, 

il primato degli umili e la rivoluzione sociale

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Quando il quotidiano “Il Giornale” arresta per qualche giorno la sua guerra personale contro ogni decisione del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia o il ministro Andrea Riccardi, è anche interessante darvi una lettura. Allo stesso modo si può dire del principale quotidiano italiano, “Il Corriere della Sera”. Quando interrompe l’opera di divulgazione dell’omosessualità, l’attacco ininterrotto (aldilà della cronaca) a Roberto Formigoni e alla Lombardia, allora si può tornare ad apprezzarlo.

Si scoprono così pagine culturali davvero interessanti, come quella dedicata qualche giorno fa al Vangelo e all’opera di rivoluzione culturale operata da Gesù. La firma è di Pietro Citati, noto scrittore e critico letterario italiano, il quale commenta questo brano del Vangelo di Matteo, dove Gesù dice: «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli». Questo viene definito da Citati il «cuore del paradosso cristiano». La rivelazione cristiana viene nascosta ai sapienti e agli intelligenti, cioè ai filosofi, agli scienziati, ai maestri di sapienza e di cultura, che ebraismo e classicismo hanno da sempre esaltato. La storia del mondo, dice Civati, è rovesciata, il cristianesimo si offre ai népioi, cioè nel greco classico ai bambini, agli indifesi, agli stolti, agli inesperti, agli ultimi (“che saranno i primi”), ai semplici di cuore.  Il Dio cristiano dona sapienza ad essi, li protegge, li difende e concede loro la luce della rivelazione. Il vero népios, afferma lo scrittore, «è sopratutto Gesù, che ci ha fatto conoscere quel Dio che nessuno aveva mai visto, e che ha scorto tutti i misteri della natura e della storia e i cuori degli uomini, che prima di lui restavano avvolti dalla tenebra».

Così il rovesciamento è compiuto, la condizione di népios, lo spirito di innocenza e di umiltà, che ai nostri occhi sembra insignificante, contiene una saggezza profondissima e ineffabile, alla quale la sapienza tecnica degli intelligenti non si potrà mai adeguare. Lo scrittore parla poi del capovolgimento assoluto della storia, cioè la stessa Incarnazione di Dio: non è più l’uomo che si umilia, o che viene umiliato: ma Dio che umilia se stesso, assumendo il corpo di un uomo, sia pure quello di un néuios , accettando di salire con questo corpo sulla croce, come scandalo e follia per gli uomini e per l’universo, e vivendo secondo umiltà (e mitezza e mansuetudine) nei suoi pochi anni di vita.

Il cristianesimo donò questa una nuova dignità agli indifesi, a donne e bambini. Eliminò, oltretutto, il concetto di proprietà: essendo innanzitutto figli di Dio, i bambini e la donna non potevano più essere trattati come un mero possedimento da parte del maschio. Questa rivoluzione sociale è la spiegazione più convincente di come da 12 apostoli si sia passati in 350 anni a 32 milioni di cristiani. Lo riconoscono gli stessi detrattori del cristianesimo, come gli italiani Corrado Augias Mauro Pesce«Non si può apprezzare la forza di queste parole [le parole di Gesù verso i bambini, Nrd] se non si considera che i bambini, in una società contadina primitiva, erano nulla, erano non persone, proprio come i miserabili. Un bambino non aveva nemmeno diritto alla vita. Se suo padre non lo accettava come membro della famiglia, poteva benissimo gettarlo per la strada e farlo morire, oppure cederlo a qualcuno come schiavo» (C. Augias e M. Pesce, “Inchiesta su Gesù”, Mondadori 2006, pag. 90).
Luca Pavani

Quel primato degli umili che rovesciò il mondo

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Il paradosso del Vangelo: la verità negata ai sapienti


In quel tempo Gesù rispondendo disse: «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così piacque al tuo cospetto. Ogni cosa mi è stata rivelata dal Padre mio. E nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e gravati, e io vi ristorerò. Prendete su voi il mio giogo, e imparate da me, poiché io sono mite e umile di cuore. E troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero».
(Vangelo di Matteo 11,25-30; i primi versetti sono, quasi nella stessa forma, nel Vangelo di Luca, 10, 21-22)
Il frammento del Vangelo di Matteo, che vorrei commentare, comincia con una nota solenne. «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra»: vale a dire, io confesso il mio peccato, e insieme ti lodo, ti ringrazio, ti esalto, invoco il tuo nome, professo la mia fede in te, ti prometto solennemente come tu mi prometti. In queste parole risuona l'eco di un passo di Enoc: «In quel giorno, tutti ad una voce cominceremo a lodare, esaltare, glorificare, magnificare nello spirito della fede, della sapienza, della misericordia, della giustizia, della pace e della bontà, e tutti quanti diranno con una sola voce: "Lodatelo, e il nome del Signore degli spiriti sia glorificato per ogni eternità"». Questa solenne glorificazione promette, a tutti quanti confessano che Gesù è il Signore, la salvezza alla fine dei tempi.
Perché il lettore di Matteo glorifica Dio con queste parole solenni? La spiegazione potrebbe essere molto semplice: egli glorifica Dio perché ha creato l'universo, o perché è buono, o perché ci soccorre, o perché ci ama.
In realtà, il testo dice tutt'altro: Dio ha nascosto qualcosa (che per ora resta indeterminato) agli uni e lo ha rivelato agli altri. Se ci chiediamo chi sono gli uni, penetriamo di colpo nel cuore del paradosso cristiano. Gli uni, ai quali la rivelazione viene nascosta, sono i sapienti e gli intelligenti, cioè i maestri professionali di sapienza e di cultura, che specialmente l'ebraismo ha tanto esaltato, e tutti i sapienti e gli intelligenti che nei secoli cristiani educheranno i popoli e i re, e pretenderanno di conoscere, essi soli, il vero segreto della realtà e della verità. San Paolo insiste con grandioso estremismo: «Disperderò la sapienza dei sapienti e renderò vana l'intelligenza degli intelligenti», sviluppando un passo di Isaia. Con queste parole, la storia del mondo è rovesciata: la luce non illumina più chi dovrebbe ricevere e diffondere la luce in tutto il mondo. Né sapienti né intelligenti: il cristianesimo ha sempre avuto scarsa tenerezza per loro, se non ricevono dal cielo un altro dono.
A chi va dunque la rivelazione? Con immenso scandalo del mondo greco-latino, Gesù risponde: ai népioi . Nel greco classico népioi significa: i bambini, i figli, i figli degli animali, gli indifesi, gli stolti, gli inesperti, coloro che mancano di discernimento e non comprendono né la realtà né la volontà degli dei né i segni del destino. Tutto cambia con Isaia, i salmi e gli scritti di Qumran: népios è il pio che sta sotto la protezione di Dio, il quale dona sapienza ai semplici, li protegge, li difende e concede loro la luce della rivelazione. Dopo la distruzione del Tempio, un Rabbi disse: «Dal giorno in cui fu distrutto il tempio, la profezia venne tolta ai profeti e data ai folli e ai bambini». Il vero népios è sopratutto Gesù, che ci ha fatto conoscere quel Dio che nessuno aveva mai visto, e che ha scorto tutti i misteri della natura e della storia e i cuori degli uomini, che prima di lui restavano avvolti dalla tenebra.
Così il rovesciamento è compiuto, la vera filosofia sta al di sopra della filosofia razionale: la condizione di népios , lo spirito di innocenza e di umiltà, che ai nostri occhi sembra insignificante, contiene una saggezza profondissima e ineffabile, alla quale la sapienza tecnica degli intelligenti non si potrà mai adeguare.
Non sappiamo ancora, fino a questo momento, quale sarà il contenuto della rivelazione, indicato con un generico «queste cose». Sappiamo soltanto che tutto ci sarà rivelato, perché, come dice un altro passo di Matteo, «non c'è nulla di nascosto che non sarà rivelato, né nulla di occulto che non sarà conosciuto». Se Eraclito aveva detto che dio non dice apertamente né nasconde, ma accenna, Matteo parla di rivelazione piena e completa, che ci viene offerta già in questo momento, quando il percorso di Gesù non è ancora compiuto, e noi non conosciamo le verità della fine dei tempi.

Esempio
• Questo dipinto si trova in una delle celle del Convento di San Marco a Firenze. Raffigura il «Discorso della Montagna» e fu affrescato da Beato Angelico fra il 1438 e il 1450 circa.
• Giovanni da Fiesole (Vicchio, 1395 circa – Roma, 1455), detto Beato Angelico, fu un pittore beatificato da papa Giovanni Paolo II nel 1984. Già dopo la sua morte venne chiamato Angelico (dal Vasari) per la religiosità delle sue opere e per le sue personali doti di umanità e umiltà.

Il Vangelo procede ora per paradossi e capovolgimenti, ora per riprese. Qui abbiamo una ripresa. Il contenuto della rivelazione annunciata è una nuova rivelazione, promulgata in una grande formula. Noi, dunque, possediamo la conoscenza del Padre, ottenuta esclusivamente attraverso la mediazione del Figlio; e la conoscenza del Figlio, ottenuta esclusivamente attraverso la mediazione del Padre. C'è una corrispondenza perfetta tra le due conoscenze, che si sommano in una sola: «queste cose» sono il mistero di Dio, nel quale sono nascosti tutti i misteri della sapienza. E non basta. C'è una ulteriore rivelazione: perché il Figlio vuole confidare a coloro che egli ha scelto (non sappiamo chi) il cuore del suo messaggio, cioè la corrispondenza perfetta tra il Padre e il Figlio, nella quale ogni figura è specchio perfetto dell'altra.
Gli uomini, che in questo momento stanno ascoltando la rivelazione, subiscono tutti un giogo e sono tutti «affaticati e gravati». Il giogo è, in prima linea, quello di Dio: il giogo della sapienza, dei cieli, del Santo, della Torà, dei comandamenti, della penitenza, che il fedele deve ad ogni costo accollarsi. Ma ci sono altri gioghi: quello della sapienza rabbinica, che viene applicato alla vita quotidiana e diventa onerosissimo: quello delle nostre passioni regolate o sregolate, delle nostre fantasticherie e dei nostri pensieri, di cui noi stessi ci graviamo; tutto quel peso intollerabile che è l'esistenza di ogni essere umano, condotta di giorno in giorno, passo dopo passo, sotto una cappa che ci affatica, ci grava, ci spossa, ci sfinisce, ci esaurisce.
Non possiamo pretendere che quello di Gesù non sia un giogo né un peso: Gesù stesso non lo pretende; per sua natura, ogni religione è un giogo e un peso, che l'anima irradia intorno a sé. La differenza tra le altre religioni e quella annunciata da Gesù è che il giogo cristiano è dolce e soave e che il suo peso è lievissimo e imponderabile; tanto che non sembra gravare né affaticare, e noi finiamo per non avvertirlo. C'è una sola religione così lieve: quella taoista, che muta come la nuvola, la pioggia, l'arcobaleno; e ama la cedevolezza, la molteplicità, la flessibilità, le contraddizioni, e sopratutto il vuoto che attraversa e colma le cose, quasi fossero diafane e tenui come l'aria.
Con una breve escursione, il discorso ritorna a Gesù: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore». È l'unica volta nei Vangeli che Gesù dice «imparate da me»; perché egli, che è il Modello, rifugge dal presentarsi come modello. Qui c'è la parola fondamentale del nostro passo, e forse di tutti i Vangeli, e forse di tutto il cristianesimo: «Sono umile di cuore» dice Gesù. Nella grecità classica tapeinós significa: misero, insignificante, basso, debole, umile, povero. Con i salmi e la traduzione dei Settanta comincia il rovesciamento del significato. «Il Signore protegge i piccoli: ero umiliato, ed egli mi ha salvato». Gli adepti di Qumran si definiscono: i poveri, gli umili. I rabbini sanno che Dio esalta chi si umilia e umilia chi si esalta, anticipando la frase dei Vangeli: «chi si innalza sarà abbassato, e chi si abbassa sarà innalzato», frase che ricorre tre volte. Rabbi Hillel dice stupendamente: «la mia umiliazione è la mia esaltazione, e la mia esaltazione è la mia umiliazione».
Infine giungiamo al capovolgimento assoluto. Non è più l'uomo che si umilia, o che viene umiliato: ma Gesù che umilia se stesso, assumendo il corpo di un uomo, sia pure quello di un néuios , accettando di salire con questo corpo sulla croce, come scandalo e follia per gli uomini e per l'universo, e vivendo secondo umiltà (e mitezza e mansuetudine) nei suoi pochi anni di vita.
Tutto è mutato: le parole, i simboli e i valori si sono trasformati; e con il suo tocco lieve, Matteo, che a nome di Gesù aveva già annunciato: «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli», dice con la voce profondissima di Gesù: «io sono umile di cuore».
L'ultima parola di questa figura mite e umile, che proprio per questo ascende sul culmine della storia, è anapáusis : cessazione, tregua, riposo, pace, ristoro, quiete. Non è una parola nuova, perché già i testi sapienziali, apocalittici e gnostici avevano annunciato il ristoro delle anime affaticate e gravate. Ma questa volta anapáusis è incommensurabile: suppone una quiete dell'anima così intima e profonda come non era mai stata conosciuta, perché tutti i pensieri, le sensazioni, le passioni, le inquietudini, le beatitudini, le sofferenze, i pesi e i gioghi sono caduti lasciando l'anima vuota e pura; e poi la quiete si estende lontano, sempre più lontano, come dice san Paolo, nel riposo infinito dell'eone futuro.
Pietro Citati13 marzo 2012 | 17:18

Sindone: la verità sul carbonio 14

Sindone: la verità sul carbonio 14

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Un documentario-inchiesta svela gli errori e le menzogne della datazione medioevale

di Luca Marcolivio
ROMA, sabato, 31 marzo 2012 (ZENIT.org) - Prodotto dalla Polifemo SRL e da Rai Trade, il documentario-inchiesta La notte della Sindone, cerca di chiarire, con documenti inediti, i tantissimi dubbi sulla datazione della Sindone per mezzo del carbonio 14.
Nell’intervista rilasciata a ZENIT, Francesca Saracino, regista del documentario, ha spiegato come è stato realizzato questo studio, in grado di smascherare le sleali ed antiscientifiche manovre di chi, surrettiziamente, ha preteso di collocare la datazione della Sindone ad un’epoca medioevale.
Sig.ra Saracino, come è arrivata alle conclusioni illustrate nel suo documentario?
Saracino: Sono otto anni che mi occupo della Sindone. La notte della Sindone è il terzo documentario di una trilogia: il primo fu La Sacra sindone la storia che fu distribuito dalla Mimep-Docete ed ebbe un discreto successo, con 2000 copie vendute. Il secondo documentario è una versione allungata del primo documentario con delle interviste in esclusiva, tra cui quella alla dott.ssa Barbara Frale, che aveva fatto nuove scoperte in merito. Il secondo documentario piacque molto alla redazione di TG2 Dossier che lo mandò in onda nel 2009 in una puntata speciale. Vi è poi un quarto documentario, di cui abbiamo presentato un premontato al Meeting di Rimini nel 2010, che presto andremo a terminare.
Quello appena presentato, l’ho lasciato volutamente per ultimo, poiché sapevo sarebbe stato il più complicato da realizzare. In questo terzo episodio mi occupo esclusivamente del Carbonio 14 ma in una maniera diversa da come è stato affrontato finora. Di norma si parla molto del Carbonio 14 nei documentari ma, dal mio punto di vista, non si è mai approfondito abbastanza. Quello che mi ero prefissata era addentrarmi nelle più “oscure profondità” del tema, visto che la datazione è una delle questioni più controverse sulla Sindone. Oltre a nuovi documenti inediti, siamo riusciti ad ottenere delle interviste in esclusiva da studiosi, riconosciuti a livello internazionale, che non ne rilasciavano da più di vent’anni. Così da documentario, come si prefiggeva di essere, è diventata un’inchiesta vera e propria.
Abbiamo impiegato due anni e mezzo per completare il documentario e di certo non mi aspettavo che avremmo conseguito dei risultati così importanti. Sul carbonio 14 in tutti questi anni sono state fatte tantissime ipotesi: ad esempio che il risultato possa essere stato “pilotato” per far risultare che la sindone avesse una datazione medioevale. Alla fine ci siamo accorti che tali ipotesi avevano un fondo di verità. Sono emerse una serie di problematiche che rimettono in discussione tutte le certezze sul carbonio 14. Ci sono stati anche dei soggetti “esterni” che non c’entravano nulla con la datazione, che sono intervenuti, dando un contributo negativo a quella che doveva essere un’analisi da svolgere nelle maniera più scrupolosa possibile. E questo è tutto provato da documenti inediti.
Vogliamo provare che l’analisi al carbonio 14 non è stata condotta in modo corretto. Il nostro obiettivo non è dimostrare che la Sindone sia vera o falsa: saranno le persone, vedendo il documentario a trarne da sole le conclusioni.
È vero che ci sono persone che hanno paura della verità sulla Sindone?
Saracino: Quando nel 1988 fu fatta l’analisi al carbonio 14, il relativo documentario mostra che molti studiosi erano interessati alla Sindone come oggetto, mentre altri erano interessati a una questione di prestigio personale o, quantomeno, al prestigio che avrebbe acquisito il dipartimento per cui lavoravano. Addirittura al laboratorio di Oxford sembra furono elargiti un milione di sterline, da 45 uomini d’affari, per aver dimostrato che la Sindone era un falso medioevale. È evidente che qualcosa non andava…

Ritiene che si arriverà mai ad una verità sulla Sindone? O, quantomeno, a che livello di veridicità potranno arrivare le indagini?
Saracino: È chiaro che la Sindone è un oggetto difficile da analizzare. Durante una proiezione mi è stato chiesto perché la Chiesa non fa riesaminare l’oggetto. Perfino l’inventore del radiocarbonio, Libby, quando venne a sapere che la Sindone sarebbe stata sottoposta a Carbonio 14, disse che sarebbe stata un’operazione fallimentare. Lo STURP aveva proposto una serie di 25 esami preliminari proprio per rilevare tutti i tipi di inquinanti possibili e fare la più corretta analisi possibile. Tutti questi esami preliminari - tranne il carbonio 14 - sono stati aboliti, nonostante l’allora cardinale Ratzinger li avesse sempre incoraggiati. Se oggi volessimo sottoporre la Sindone ad una nuova datazione, sarebbe necessario, prima di tutto, effettuare queste 25 analisi preliminari per scoprire gli inquinati, per poi procedere seguendo una protocollo scrupoloso. Certo è che le tante esposizioni pubbliche e il recente restauro della Sindone potrebbero in qualche modo aver alterato un eventuale nuovo risultato.
Che riscontri sta avendo il documentario sia a livello di critica che di pubblico?
Saracino: Il riscontro finora è stato molto positivo. Abbiamo tenuto una proiezione privata cui ha assistito Barry Schwortz, membro dello STURP, il team che studiò la sindone nel 1978. Il commento di Schwortz è stato molto entusiasta e ha detto che finalmente, per la prima volta dopo tanti anni era stato fatto un documentario che non aveva paura di illustrare la verità sul Carbonio 14 e sui retroscena di ciò che è avvenuto prima della datazione. Schwortz ne ha parlato in America e ci ha fatto sapere che lì c’è grande attesa per il nostro documentario. Già alcuni libri americani ne parlano.
Il documentario è stato presentato in anteprima all’interno del Roma Fiction Fest nel settembre 2011 e anche alla proiezione di mercoledì scorso all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, i riscontri sono stati entusiasti: ci è stato detto che quelle che prima erano solo ipotesi, adesso sono state verificate.
La novità del nostro documentario è che tratta il carbonio 14 come mai era stato fatto prima. Non aveva alcun senso fare un nuovo documentario sul carbonio 14 che fosse uguale agli altri: anche a livello commerciale non avrebbe affatto pagato come strategia.
Vedremo presto il documentario in televisione?
Saracino: C’è un accordo in fase di definizione con una casa distributrice. Non posso dare ancora dettagli, salvo anticipare che è uno dei più importanti distributori d’Italia e che garantirà al documentario una diffusione piuttosto capillare. Adesso il documentario sta girando molto – anche all’estero - per convegni e proiezioni private, come quella dell’UPRA.
In televisione abbiamo incontrato più ostacoli, non tanto sull’aspetto economico, quanto sui contenuti definiti “forti” da alcuni produttori che, quindi, si sono presi del tempo per decidere. Il nostro è un documentario ricco di informazioni e complesso da seguire: mandarlo in onda in seconda serata non sarebbe proprio il massimo. Puntiamo alla fascia oraria della prima serata che, però, notoriamente, è sempre molto affollata. Speriamo entro l’autunno di trovare un accordo.

mercoledì 28 marzo 2012

I figli sono come gli aquiloni,

I figli sono come gli aquiloni
***
 I figli sono come gli aquiloni,
passi la vita a cercare di farli alzare da terra.
Corri e corri con loro
fino a restare tutti e due senza fiato…
Come gli aquiloni, essi finiscono a terra…
e tu rappezzi e conforti, aggiusti e insegni.

Li vedi sollevarsi nel vento e li rassicuri
che presto impareranno a volare.
Infine sono in aria:
gli ci vuole più spago e tu
seguiti a darne.
E a ogni metro di corda
che sfugge dalla
tua mano
il cuore ti si riempie di gioia
e di tristezza insieme.
Giorno dopo giorno
l’aquilone si allontana sempre più
e tu senti che non passerà molto tempo
prima che quella bella creatura
spezzi il filo che vi unisce e si innalzi,
come è giusto che sia, libera e sola.
Allora soltanto saprai
di avere assolto il tuo compito.
(Erna Bombeck)

Don Giussani e Card.Woitjlya anno 1973




Don Giussani e Card.Woitjlya anno 1973


   




   

martedì 27 marzo 2012

CECHOV/ "O si sa perché si vive, o è uno scherzo idiota"


CECHOV/

 "O si sa perché si vive, o è uno scherzo idiota"

martedì 27 marzo 2012
CECHOV/ O si sa perché si vive, o è uno scherzo idiota 
 Ernesto Treccani (1920-2009), I musicanti (immagine d'archivio)

Mi sono caricato sulle spalle questo peso, e la schiena ha ceduto. A vent’anni siamo già tutti eroi, ci buttiamo in qualsiasi impresa, possiamo tutto, e verso i trenta siamo già stanchi, non siamo più buoni per niente. Perché, perché, spiegamelo, tutta questa stanchezza? Per altro, forse, non è questo… Non è questo, non è questo!”. Così si esprime Ivanov, personaggio protagonista del dramma di Anton Pavlovic Cechov. Parole, personaggi, situazioni, quelle dello scrittore russo, che è più che mai utile mettere a fuoco oggi: non tanto per l’indiscutibile qualità letteraria, quanto per la loro capacità di scandagliamento della condizione umana attuale. 
Il dramma dei personaggi di Cechov è infatti quello di una strutturale (e progressivamente cosciente) inadeguatezza della realtà così com’è rispetto alla statura del desiderio umano, alla “capacità” del suo ideale. Anche il subitaneo e tuttora inalterato successo di Cechov sulla pagina come sulle scene è dato, del resto, da questa sua capacità di fornire, meglio di chiunque altro, all’uomo contemporaneo la sua più intima tragedia. Come dice Treplev, protagonista del Gabbiano: “Non capisco perché sono tanto inquieto… io vagolo ancora nel caos di chimere e immaginazioni, senza sapere per che cosa e a chi questo sia necessario. Io non ho fede e non so quale sia la mia vocazione”. Parole a cui fa eco il personaggio di Astrov, in Zio Vanja: “Soltanto Dio sa quale sia la nostra vocazione”. Ed è proprio questa distanza, questa “differenza di potenziale” a costituire la natura intimamente tragica del suo teatro. Le sue figure dispiegano una parabola drammatica in cui viene svelandosi in maniera sempre più catastroficamente chiara la tragicità intrinseca alla propria condizione: “Mi pare che la verità, qualunque essa sia, non sarà mai così terribile come l’incertezza” dice Elena Andreevna in Zio Vanja. E Anna Petrovna, sempre in Ivanov, si pone una domanda struggente come quella di un bambino: “I fiori ritornano ad ogni primavera, e la gioia no?”; per poi aggiungere, poco dopo: “Comincio a pensare che il destino mi abbia truffata”. 
Emerge in questi testi tutto il tramestio di un affaticarsi privo di senso, o per un senso che continuamente sfugge, si rende inafferrabile, si delocalizza nel tempo, nello spazio, nelle idee: incapaci di vivere il presente, i personaggi di Cechov situano la realizzazione di sé stessi in un viaggio a Parigi, nella vita mondana di Mosca, nella realizzazione dell’arte o nelle chimere del progresso: fino alla definitiva mortificazione del proprio progetto. Essi si trovano a vivere una perenne e spasmodica ansia di cambiamento, senza tuttavia mai sapere quale, né con quali mezzi: “…Ma la mia anima, nonostante tutto, in ogni singolo istante, di giorno e di notte, è sempre stata colma di inspiegabili attese”, dice Trofimov nel Giardino dei ciliegi. “Sento che arriva la felicità, Anja, riesco già a vederla (…) Eccola la felicità, eccola che viene, si fa sempre più vicina, ne sento già i passi. E se noi non la vedremo, non la riconosceremo, che importa? La vedranno gli altri!”.
Battute come queste, spogliate da tutta la loro amarezza e dal loro rassegnato sapore autoconsolatorio, hanno portato alcuni a ipotizzare una sorta di velleitario “progressismo cechoviano”. Ma neanche questo frequente ed elusivo guardare al futuro va trascurato: esso esprime in qualche modo una speranza, sia pure rassegnata e senza forma, una “nostalgia del presente” che si realizza nell’ipotizzare un orizzonte in cui le pene incomprensibili dell’oggi trovino una loro compiutezza. Così il personaggio di Savva, nell’atto unico Sulla strada maestra: “I santi erano luminosi… E capivano ogni dolore… Anche senza dirglielo, capiscono lo stesso… Ti guardano negli occhi e capiscono… E tu provi una tale consolazione dopo che ti hanno capito, come se il dolore non ci fosse stato: cancellato per miracolo!” – ricordando qualcosa che pare non potersi più realizzare, irriducibilmente collocata nel mondo del passato, o in quello altrettanto irrecuperabile dell’elegia, del sogno, dell’ideale.  
Ma attenzione: il tragico cechoviano non è dichiarato né tantomeno esplicito: sua intenzione era, piuttosto, quella di scrivere dei vaudevilles, la cui disarmante semplicità, tutta esteriore e distaccata, è dettata invece da un desiderio di rappresentare e conoscere la realtà così come essa è: “Vorreste che quando dipingo ladri di cavalli dicessi: è male rubare cavalli. Ma lo sanno tutti da molto tempo, senza che debba dirlo io. Questo è affare dei giudici. Il mio lavoro consiste nello spiegare che cosa essi sono…”, scrive egli stesso. “Mai si deve mentire. L’arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna. Si può mentire in amore, in politica, in medicina; si può ingannare la gente, persino Dio; ma nell’arte non si può mentire”. E dirà, in una famosa lettera a D. P. Gorodeckij: “Il pubblico vuole che ci siano l’eroe, l’eroina, grandi effetti scenici. Ma nella vita ben raramente ci si spara, ci si impicca, si fanno dichiarazioni d’amore. E ben raramente si dicono cose intelligenti. Perlopiù si mangia, si beve, si bighellona, si dicono sciocchezze. Ecco che cosa bisogna far vedere in scena. Bisogna scrivere un lavoro in cui i personaggi entrano, escono, pranzano, parlano del tempo, giocano a vint… Non perché questo sia necessario all’autore, ma perché così avviene nella vita reale”. 
Tuttavia, il grande merito di Čechov non è tanto quello di aver appunto perfettamente fotografato questa banale (e a suo parere cattiva, guasta) quotidianità del vivere, quanto quello di averne intuito e catturato tutta la portata tragica. Nei suoi testi, infatti, ogni circostanza, anche la più piccola e banale, ha un’enorme potenzialità drammatica; ogni gesto, anche minimo, tenta un rapporto con la sostanza della vita. Nel teatro di Čechov, anche spostare una tazza o raccontare una barzelletta sono “un dramma” (anche e soprattutto in senso teatrale) – ogni circostanza pratica costituisce il racconto di una vita, è un dialogo incessante con il proprio destino, nell’ansia e nella costante attesa che quel destino si riveli. Perché, come dice Trofimov, ancora nel Giardino, “almeno una volta nella vita bisogna guardare la verità dritto negli occhi”. Pertanto ogni movimento, ogni pausa, ogni parola, essendo sempre in bilico tra una salvezza sempre attesa e un precipizio imminente, sono assolutamente decisivi. L’attesa della salvezza è un travaglio che non si deve “pensare” o ipotizzare, a cui non si giunge tramite un ragionamento astratto: ma che è già presente, anzi coincide con la persona stessa – essi sono quel travaglio, di esso è fatta la consistenza delle loro azioni, dei loro pensieri. 
Tutto questo è come perfettamente emblematizzato in quella che è forse la più riuscita opera dello scrittore russo: Tre sorelle. Scritto nel 1900 e messo in scena dal Teatro d’Arte di Mosca all’inizio dell’anno successivo, è un testo in cui apparentemente non accade quasi nulla. È la storia, appunto, di tre sorelle – Olga, Maša e Irina – orfane del padre generale dell’esercito, che vivono la progressiva distruzione di tutte le loro aspettative giovanili. I quattro atti, dislocati a distanza di diversi anni l’uno dall’altro, fotografano come, man mano che il tempo passa, cresce nei tre personaggi la domanda che quel tempo, forse perduto, apparentemente sprecato, acquisti un significato: “Vivere e non sapere perché volano le gru, perché nascono i bambini, perché ci sono le stelle… O si sa perché si vive, o è uno scherzo idiota”. dice Maša. E Irina, non a caso la più giovane: “Dov’è andato, quello che eravamo? Dov’è andato a finire?”. La vecchiezza non è data da una situazione anagrafica, ma dall’ammutolimento dell’attesa – senza un significato, non esiste giovinezza. Questa sembra essere l’amara constatazione che le tre sorelle acquistano nel corso del dramma. Ma è singolare, ed estremamente significativo, che il fallimento dei propri progetti e delle proprie personali aspirazioni non annichili, ma anzi esalti, ed esasperi l’attesa e il desiderio di qualcosa che dia significato al vivere, al soffrire, al morire. Al punto che Čechov così fa chiudere la scena e l’intero testo – con le parole, strazianti e bellissime, di Olga: “Oh, sorelle care, non è finita, la nostra vita! Vivremo! La banda suona allegra, festosa, e sembra che da un momento all’altro sapremo perché viviamo, perché soffriamo… Poterlo sapere, poterlo sapere!”. 
È una chiusa che sancisce, tuttavia, l’ennesimo differimento, l’estrema e forse definitiva sospensione del desiderio. Come se quel doppio, struggente “Poterlo sapere!” finale volesse chiudere quella che era invece la promessa della battuta precedente: “Vivremo”. Ed è nella distanza tra il grido di quel “Vivremo” e il sospiro di quel rassegnato “Poterlo sapere!” che si esplica la cifra del dramma, e si gioca la sfida che da Čechov si ripercuote identica – e ugualmente drammatica – nel presente di tutti


 

lunedì 26 marzo 2012

Amici dottori, curare significa abbracciare l'altro»

Aldo Trento: 

«Amici dottori, curare significa abbracciare l'altro»

Appunti da uno strano incontro tra il missionario e un gruppo di famosi psichiatri. «Non so nulla di tecniche psichiatriche. Quelle vengono di conseguenza a un metodo che ha curato la mia depressione: l'abbraccio di Cristo. Lui al centro cambia tutto. Lui è la cura che fa morire i malati cantando nella clinica della Divina Provvidenza»
in Attualità
26 Mar 2012
Milano, lunedì 26 marzo. Le aule del seminario “Malattia e Cura” della facoltà di Medicina dell'Università Bicocca aprono le porte a un sacerdote per spiegare cosa significhino la malattia e la cura in ambito psichiatrico. Davanti a padre Aldo Trento, missionario in Paraguay, dove il sacerdote ha fondato una clinica per moribondi, anziani, bambini violentati e malati di mente, ci sono diversi studenti e più di una decina di psichiatri, alcuni fra i più famosi d'Italia (Italo Carta, Cesare Cornaggia, Lorenzo Calvi, Leo Nahon, Rodolfo Reichmann, Massimo Clerici). «Conoscendo la sua esperienza - dirà ad un certo punto uno di loro - ho ritrovato un modo di guardare al malessere profondo che è positivo. Padre Trento, ma lei come riesce a stare davanti alla sofferenza altrui in questo modo?».
Per saperne di più
Racconta il missionario: «Non so nulla delle teorie psichiatriche. Ho passato 15 anni della mia vita a cercare di farmi curare e, mentre qualcuno mi stava a fianco, la Provvidenza faceva crescere la clinica di cui oggi sono il vice-direttore. Perché il direttore è il Santissimo Sacramento». Gli occhi degli studenti strabuzzano e gli sguardi si catalizzano sull'uomo che racconta della sua «depressione, di cui Dio ha usato per salvarmi». Padre Trento narra la vicenda che nel 1968, già prete, lo portò alla follia: «Non capivo più nulla. Solo una cosa sapevo: non potevo fuggire da quello che mi stava accadendo. Non è che se scappi dai problemi, andando nella Terra del Fuoco, le cose si risolvono. Perché il problema è nell'Io. La mia unica risorsa fu l'urlo, la richiesta d'aiuto, la confessione e l'abbraccio fisico, prima di don Luigi Giussani (quando tutti volevano ricoverarmi, mi mandò ad Asunción) poi di un prete che passava le giornate con me, volendomi bene anche quando ero una larva lamentosa».

Per lui è vero quello che diceva don Giussani e che lo psichiatra Eugenio Borgna ripete sempre: «C'è in tutti noi della follia. Chi può dire di essere completamente equilibrato? Forse un morto». Secondo padre Trento l'unico modo per stare davanti al disagio altrui è un metodo «di cui nessuno parla più: l'abbraccio all'altro. Una carne che ti stia a fianco. È stato fissando una presenza fisica che mi amava che, nel tempo, ho iniziato ad accettare me stesso, a guardare a questo bene anziché alla mia pochezza. A ironizzare sul nulla che sono. Oggi tanti si odiano perché non riconoscono questo sguardo misericordioso su di sé».

Per padre Trento il nocciolo della questione non è la malattia, ma l'uomo: «Io non conosco la patologia, ma so chi è l'uomo e di cosa ha bisogno. Solo per questo posso cercare di curare la malattia». Il sacerdote si ostina a parlare di un “Io” bisognoso di una compagnia che lo abbracci. «Solo questo rende grande la vostra arte medica e la tecnica. Solo se al centro c'è l'uomo guardato così: come un essere in relazione al Padre, che poi è la persona di Cristo. Pensate a chi ha inventato la medicina e le tecniche moderne. Sono i grandi santi come san Camillo de Lellis che, amando il malato come Cristo, rivoluzionò la medicina».

Il punto per il sacerdote è offrire un abbraccio «che risponde a questo grido. Un abbraccio che non è il mio, ma quello di Cristo attraverso di me. Il metodo nella mia clinica è fissare il Santissimo: tutti i medici, gli operatori, io, dobbiamo inginocchiarci davanti al Corpo di Cristo ogni giorno. Così portiamo il suo sguardo ai pazienti e accadono miracoli. Gente che muore cantando, bambine violentate che crescono e diventano buone mamme».

In aula non vola una mosca. Padre Trento racconta dei propri malati, di mille storie di umanità sfibrate e poi redente «perché se non ci fosse l'abbraccio di Dio risorto l'uomo dovrebbe maledire chi lo ha messo al mondo». Si sofferma sulla vicenda di una piccola undicenne, appena arrivata nella sua clinica, violentata per due mesi e poi gettata su una strada: «Stando con me, certo del bene che Cristo vuole a me e a lei, la bimba ha cominciato a volermi al suo fianco, a chiamarmi "papà" e a dirmi che mi vuole bene. I miei pazienti? Alcuni muoiono felici, altri tristi ma sorridenti. C'è chi ringrazia della malattia per aver incontrato Cristo e chi si converte, come accaduto a un musulmano di recente». Padre Trento dice di non avere altro metodo per curare se non quello che cura anche lui. «E allora porto loro il Santissimo e li abbraccio perché loro sono Cristo sofferente nel Getsemani che chiede di non essere abbandonato».

Uno psichiatra chiede come deve essere organizzato il luogo della cura: «Questa è una conseguenza, come la tecnica - risponde il missionario -. La clinica esiste per fare compagnia a Gesù “nevrastenico nel Getsemani”, come scrive Charles Péguy. Allora la pizzeria, allora la ricerca delle cure migliori, allora la confessione. Come i viados che vengono da me e con la confessione si riconoscono amati a tal punto da ritrovare la loro identità nell'amore di Dio».
Quindi viene la tecnica migliore, le medicine più adeguate e tutto il resto: «Perciò ho scelto il lavoro in équipe settimanali dove ciascun operatore (siamo più di 20) deve prima parlare di quello che vive con ogni paziente. Solo poi si fa l'analisi clinica e si pensa al miglior farmaco o modo per curarlo. Anche i soldi arrivano di conseguenza perché chi conosce la nostra clinica si affeziona e dona. E, poi, in modo inaspettato, arrivano sempre anche i farmaci in un paese dove non si trovano quelli basilari».

«Capite quale responsabilità avete voi, dottori? Per curare dovete riunire quello che si è separato». Padre Trento chiude così il suo intervento. Un gruppo di studenti lo segue, pieno di domande, sin fuori dalle porte dell'aula.

domenica 25 marzo 2012

GUENDALINA
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Gino Girolomoni


 L’uomo che ha riportato la vita sulle colline

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venerdì 23 marzo 2012
PROTAGONISTI/ L’uomo che ha riportato la vita sulle collineMonastero di Montebello (Foto: Dario Benetti)
Così Gino Girolomoni concludeva l’editoriale dell’ultimo numero (estate 2011) del periodico Mediterraneo, di cui era direttore: «Non bisogna arrendersi mai e continuare a sperare: non tanto per salvare il mondo, che è una operazione troppo difficile, ma, semplicemente, per non stare dalla parte di quelli che il mondo lo distruggono». Non si è mai arreso e ha sempre sperato. Sabato 17 marzo doveva condurre una tavola rotonda al monastero di Montebello sul tema: “Lazzaro risorto, tra Betania, Magdala e Cipro”. Resterà un simbolico messaggio del suo destino.
Venerdì mattina è stato infatti stroncato da un infarto, una morte imprevedibile e improvvisa, a 65 anni, senza scampo. Del resto ricordando Tullia, morta due anni fa, Gino diceva che “ci sono dei defunti che sono più vivi dei viventi”; ed è questo certo il caso suo. Domenica una folla è accorsa da tutta Italia, stringendosi intorno ai figli, a Samuele, a Giovanni Battista e a Maria, a piangere sulla sua bara, accompagnandolo per l’ultima volta fuori dal monastero, la sua casa, un complesso architettonico imponente restaurato in tanti anni di fatica e di debiti; e solo due anni fa il salone del monastero aveva ospitato la camera ardente di Tullia, la moglie di Gino, custode e protagonista con lui della rinascita di questi luoghi.
Ho conosciuto Gino nel 1977 grazie a una intervista di Franco Cesetti su La voce delle Marche. Non si poteva restare indifferenti a quell’articolo: duramente Girolomoni attaccava Alberto Moravia per il quale tutti i problemi e i guai del mondo contemporaneo avevano origine nella “putrefazione” della società contadina. Gino non poteva accettare quei giudizi: la tradizione rurale e contadina era quella dei padri, era la saggezza di un mondo ricco di conoscenze e capace di esprimere un significato nel lavoro, di vivere un equilibrato rapporto con l’ambiente e il paesaggio. Non era, il suo, un messaggio passatista. Girolomoni aveva capito che dalla tradizione delle comunità di villaggio passava il segreto di un mondo diverso, il testimone di una speranza per il mondo di oggi. Cancellando la tradizione contadina si cancellava anche il fuoco che, sotto la cenere, era l’unica prospettiva per il nostro futuro.
Nel 1978 organizzammo con lui a Sondrio un incontro sul tema: “Per una nuova società rurale”. Fu l’inizio di una storia, di una amicizia e di una serie continua di appuntamenti culturali che ci hanno unito profondamente. Grazie a lui abbiamo avuto modo di capire che il mondo può cambiare, non inseguendo impossibili utopie, ma riconoscendo la realtà per quello che è, per quello a cui è chiamata. Senza risorse, («la scelta di partenza già assurda di per sé e cioè quella di fare investimenti per due miliardi con quarantacinquemila lire di capitale sociale») solo con la passione per la verità, Gino ha riportato la vita sulle colline di Isola del Piano; ma non è stata una strada facile: a vent’anni, già innamorato di Tullia, dovette partire emigrante in Svizzera sul lago di Ginevra, nelle ferrovie della Confederazione, lontano dalla sua gente e dalla sua cultura. Non era il lavoro e il posto per lui e ben presto se ne tornò a casa.
Tra i campi abbandonati dalle famiglie contadine nel secondo dopoguerra, tra le colline destinate a monocolture indifferenti all’ambiente, svettavano tra le alture più alte delle Cesane i ruderi del monastero di Montebello, dove il beato Pietro Gambacorta –insieme a dodici compagni- intraprese la vita eremitica nel 1380, fondando così la Congregazione ei poveri eremiti di san Girolamo e dei Girolamini. Questo luogo fu per Gino il punto di partenza di una avventura durata tutta la vita.
«Durante il cammino verso l’altura mi sono sentito spesso rivolgere molti rimproveri –così in Terre, monti e colline!-sull’assurdità dell’impresa, sulla stoltezza di portare in quella solitudine una famiglia, su come una persona intelligente potesse scegliere di isolarsi così dai contatti con la società, con la cultura, con la normale comunicatività di tutti i giorni. Questi amici, parenti, conoscenti, non sapevano, non potevano immaginare che, in realtà, io non andavo ad isolarmi, ma andavo a cercare di ricominciare daccapo la ricostruzione di un luogo, e riempirlo di significato». In Ritorna la vita sulle colline (Jaca Book, 1980 – Edizioni Il Metauro, 2006) ritroviamo il diario di questi primi anni.
E sarà per la posizione strategica, nel cuore dell’Italia, sarà per il fascino della sua proposta, sta di fatto che l’eremo di Montebello ben presto da eremo si trasforma in polo attrattore di innumerevoli personalità del mondo culturale: da Ivan Illich ad Alex Langer, da Sergio Quinzio (che abiterà diversi anni a Isola del Piano) a Vittorio Messori, da Guido Ceronetti (a Montebello ha festeggiato i 70 e gli 80 anni) a Sante Bagnoli, a Leo Moulin e tanti altri. Oggi, a distanza di quarant’anni da quella prima coraggiosa scelta, Montebello è un esempio, una testimonianza unica. Non solo il monastero è completamente restaurato, l’ultimo tassello è stato il tetto della chiesa della Trinità, completato nell’estate del 2011, ma nei pressi del monastero un grande pastificio produce pasta biologica e ha raddoppiato negli ultimi anni la produzione e le superfici utilizzate, mentre un agriturismo ospita tutti i giorni decine di visitatori, offrendo qualità culinarie difficilmente imitabili. La Valle del falco, l’ampia area di proprietà della Cooperativa Alce Nero, è un vero e proprio eco-museo (nel monastero –tra l’altro- è visitabile una piccola, quanto significativa collezione di oggetti etnografici e archeologici dell’area dei monti delle Cesane) ove protagonisti sono i soci che hanno seguito il fondatore, creando luoghi di ospitalità e segni di una nuova civiltà.
Ai tanti che ricordano in questi giorni, giustamente, il ruolo di Girolomoni nella politica locale e nazionale a difesa e promozione dell’agricoltura biologica (fu sindaco indipendente di Isola del Piano dal 1970 al 1980, collaborò con il movimento Verde, candidandosi per le elezioni europee ed entrando nell’esecutivo nazionale del partito, fu consigliere nazionale dell’associazione ambientalista “L’Umana Dimora”) va ricordato come il collante di questa esperienza, ciò che l’ha fatta crescere è l’esperienza della fede. Una fede incrollabile nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, nel fatto storico della rivelazione. Da sempre, ogni settimana, i soci della cooperativa si ritrovano, la sera, a recitare il santo rosario e questo non è un gesto secondario ma un aspetto fondamentale di questa realtà.
Per questo Gino, dopo aver conosciuto Emmanuel Anati ai convegni di Sondrio del 1981 e del 1986 (“La montagna un protagonista nell’Italia degli anni ‘90”), si decise a seguire l’archeologo valorizzatore delle incisioni rupestri della Valcamonica, in un’impresa epica, la spedizione alla ricerca del vero Sinai, Har Karkom. A Girolomoni non bastava la parola rivelata, aveva bisogno di camminare nel deserto seguendo la strada di Mosè e dei profeti, per dialogare direttamente con Dio: aveva ereditato la forza e il coraggio di Federico da Montefeltro, di cui scrisse una memorabile ricostruzione storica, interpretata da Giorgio Albertazzi a Urbino in piazza del Rinascimento, davanti a seimila persone, in occasione del Meeting di Rimini del 1982. Al contrario di quanto forse qualcuno possa pensare, se Gino fosse vissuto al tempo delle crociate non si sarebbe tirato indietro e sarebbe partito per difendere il luoghi santi. Del resto col furore divino di un cavaliere medievale viveva le sue battaglie per l’agricoltura biologica, il lavoro nei campi e la vita quotidiana: incriminato dallo stato perché macinava a pietra il grano o perché spandeva il letame nei campi!
Tre metri di neve quest’anno hanno impedito l’ormai consueto incontro di febbraio, la cena valtellinese che inaugura la stagione dell’agriturismo da alcuni anni a questa parte. Quella serata era anche l’occasione per l’incontro tra due periodici nati dalla stessa attenzione per la storia e la cultura locale, con la stessa convinzione che questo rapporto sia decisivo per una corretta apertura sul mondo: Quaderni Valtellinesi eMediterraneo. Quest’anno c’era una novità: la gestione dell’agriturismo passava nelle mani dell’amata Maria, la figlia più piccola a cui domenica è toccato di leggere le strazianti parole dell’ultimo addio ma anche le parole di speranza: «verranno giorni duri, molto duri, ma siamo pronti a portare avanti i tuoi ideali».



cloruro di magnesio


IL CLORURO DI MAGNESIO
Padre Beno J. Schorr del Collegio di Santa Caterina Prof. di fisica, chimica e biologia (10.09.1985)
IMPORTANZA DEL CLORURO DI MAGNESIO
Il cloruro produce l'equilibrio minerale che anima gli organi nell'espletamento delle loro funzioni. Il cloruro di magnesio elimina l'acido 
urico dai reni. Il cloruro decalcifica fino alle più sottili membrane nelle articolazioni e nelle sclerosi calcificate. Evita infarti purificando il 
sangue, ringiovanisce il cervello, restituisce o mantiene la gioventù fino alla vecchiaia. Di tutti gli elementi il magnesio è il meno 
somministrato. Dopo i 40 anni l'organismo assorbe sempre meno magnesio, producendo vecchiaia e dolori perciò, deve essere preso 
secondo l'età. Dai 40 ai 55 anni: mezza dose (una dose = una tazzina da caffè). Dai 55 anni ai 70: una dose al mattino. Dai 70 ai 100 
anni: una dose al mattino ed una alla sera. 
PREPARAZIONE
Sciogliere in una bottiglia d?acqua da un litro 33,3 grammi di cloruro di magnesio. Dopo aver ben mescolato, conservare in recipienti di 
vetro, non in contenitori di plastica. Una dose equivale ad una tazzina da caffè. Le persone ormai senza speranza di guarire dal 
cosiddetto male "becco di pappagallo", dal male al nervo sciatico, mali alla colonna vertebrale e calcificazioni, hanno ora una cura 
efficace, indolore, semplice e non cara. Nel contempo la cura è valida anche per tutti i dolori causati dalla carenza di magnesio, 
trascurati fino all'artrosi.
LA MIA CURA
All'età di 61 anni, vale a dire, dieci anni prima di iniziare la cura, sentii delle fitte acute alla regione lombare. Si trattava di un "becco di 
pappagallo", incurabile secondo il medico. A quel dolore reumatico rimediai, curandomi con Ketacil. Dopo cinque anni, nonostante le 
cure, la gamba destra mi fece sempre più male. Ricordai infine l'origine del dolore: alzandomi dal letto, sentii un formicolio scendere 
lungo la gamba fino al piede. Se mi sedevo il formicolio cessava, se mi alzavo riprendeva. Poteva trattarsi solo del cosiddetto becco di 
pappagallo" che affliggeva il nervo sciatico alla terza vertebra. Ad eccezione della Messa, per anni svolsi le mie attività rimanendo 
seduto il più possibile. Fu un vero tormento. Dopo molti rinvii, mi decisi di intraprendere il viaggio per l'isola di Harajo per completare 
una rete di radio-telefonia. Sull'isola dall'eterna primavera, sperai in un miglioramento, ma non fu così, peggiorai ancora. Senza indugio 
ritornai a Florianopolis da uno specialista. Frattanto i "becchi di pappagallo"progredirono dolorosamente. Le applicazioni di microonde e 
la tensione alla colonna vertebrale non arrestarono il dolore. Non riuscii a dormire nemmeno disteso. Stetti seduto fin quasi a cadere 
dalla sedia per il sonno. In seguito scoprii che potevo dormire rannicchiato nel letto come un gatto. Il dolore aumentò al punto da non 
poter dormire né seduto né rannicchiato, chiesi aiuto al buon Dio; solo Lui mi poteva raddrizzare. Più tardi mi recai a Porto Alegre per 
recarmi ad un convegno di scienziati gesuiti. Padre Suarez mi disse che la cura con il Cloruro di Magnesio era semplice e mi mostrò il 
libretto scoperto da Padre Puig, un gesuita spagnolo. Mi raccontò che sua madre era calcificata come me. Con l'applicazione di questo 
sale diventò agile come una ragazza. Rientrato a Florianopolis, presi una dose tutte le mattine. Tre giorno più tardi, presi una dose al 
mattino ed una alla sera. Al ventesimo giorno mi svegliai non più rannicchiato, ma disteso nel letto e senza dolori. Se camminavo, il 
dolore era ancora presente. Al trentesimo giorno mi alzai  sbalordito: non mi faceva male più niente. Al quarantesimo giorno camminai 
per tutta la giornata sentendo appena un leggero peso alla gamba. Sono ormai trascorsi dieci mesi, mi sento agile e mi piego quasi 
come un serpente. Il magnesio porta via il calcio dai punti indebiti e lo fisso solidamente alle ossa. Le mie pulsazioni, che prima furono 
inferiori ai 40 battiti, sono ritornate normali. Il mio sistema nervoso è ristabilito e molto più lucido. Il sangue, decalcificato, è fluido. Le 
frequenti acute fitte  al fegato sono scomparse. Molti chiedono cosa mi stia succedendo poiché, a giudicare dall'aspetto, sembro 
ringiovanito. Infatti, ho riacquistato la gioia di vivere. Centinaia di persone, dopo anni di sofferenze per dolori vertebrali, artrosi, acidi 
urici, ecc..., sono guarite al Collegio di Santa Caterina.
IL CLORURO DI MAGNESIO AIUTA NELLA CURA DI MOLTE AFFEZIONI
Sia nel mondo vegetale che in quello animale il magnesio è un elemento necessario per lo svolgimento delle funzioni vitali. Può capitare 
che l'organismo, per malattie o carenze di diversa natura necessiti di questo minerale. In questi casi il magnesio può essere assunto, 
oltre che condeterminati alimenti, anche diluito in acqua sotto forma di cloruro di magnesio Il magnesio è un elemento naturale 
importantissimo, sia per gli organismi animali che per quelli vegetali. Nel mondo vegetale il magnesio è il nucleo attorno al quale è 
costruita la clorofilla, il pigmento verde indispensabile per la vita della stragrande maggioranza delle piante. Grazie alla clorofilla (e 
quindi al magnesio) possono avvenire quelle trasformazioni che permettono alla pianta di vivere e di svilupparsi. Si consideri poi che la 
clorofilla è anche dotata di una buona azione deodorante e di varie proprietà farmacologiche: cicatrizzante, batteriostatica (blocca le 
infezioni da batteri) tonica generale.
PER IL NOSTRO ORGANISMO E' INDISPENSABILE
Anche per l'organismo animale il magnesio e indispensabile. Esso è infatti essenziale per l'attivazione di centinaia di reazioni chimiche. Il 
nostro corpo contiene circa 25 grammi di magnesio per la maggior parte localizzato nelle ossa nei muscoli, nel cervello e in altri organi 
come il fegato, i reni e i testicoli. La sua carenza si manifesta con una serie di sintomi molto variabili: si va dall'ansia all'ipereccitabilità 
muscolare (con tetania e riflessi neuro-muscolari patologicamente rapidi), dalla cefalea alle vertigini, dall'insonnia all'asma, dalle alterazioni del ritmo cardiaco alla stanchezza eccessiva fino ai disturbi del ciclo mestruale. A più riprese, nell'ultimo secolo, la ricerca 
medica si e interessata agli impieghi terapeutici del magnesio e, a questo proposito, sono state condotte interessanti esperienze. Si è 
recentemente accertato, ad esempio, che l'assunzione di magnesio nelle prime due settimane dopo un infarto cardiaco può ridurre del 
55% la mortalità. Donne sofferenti di osteoporosi hanno visto arrestarsi la perdita della massa ossea nell'87% dei casi dopo due anni di 
somministrazione di magnesio.
LE CARENZE DI MAGNESIO SONO FREQUENTI
Oggi purtroppo non è affatto raro che l'organismo sia carente di questo prezioso nutriente. Alcune condizioni (come le coliti, le diarree, i 
malassorbimenti, le diete dimagranti condotte in modo eccessivamente drastico, gli sforzi muscolari prolungati, l'assunzione di alcol e di 
farmaci, la gravidanza, la menopausa, lo stress) determinano una perdita di magnesio oppure un aumento dei fabbisogni organici. 
D'altra parte gli alimenti oggi disponibili, ottenuti spesso con un impiego eccessivo di concimazioni minerali (che non sono in grado di 
restituire al terreno tutte le sostanze assorbite dalle piante) e successivamente trasformati e raffinati (cioè impoveriti) contengono 
decisamente poco magnesio. La stessa cottura dei vegetali in piena acqua determina una perdita di magnesio che può arrivare fino al 
70 per cento. L'organismo umano contiene intorno ai 25 grammi di magnesio localizzati per lo più nelle ossa, nei muscoli, nel cervello e 
in altri organi come il fegato, i reni e i testicoli. Il fabbisogno giornaliero di magnesio per un adulto di circa 70 kg si aggira attorno ai 420 
milligrammi (cioè meno di mezzo grammo). Il magnesio è un metallo. Il magnesio (simbolo chimico Mg) è un elemento chimico 
appartenente al gruppo dei metalli. Tra i più abbondanti in natura, costituisce all'incirca il 2,3% della crosta terrestre. Nell'ambiente il 
magnesio non si trova mai allo stato puro, ma sempre in composti con altri elementi chimici come il carbonio, l'ossigeno, lo zolfo, il 
silicio, il cloro. I composti più interessanti e noti sono diversi. L'ossido di magnesio è usato come antiacido nei bruciori di stomaco. 
L'idrossido di magnesio è un lassativo.Il cloruro di magnesio, presente in abbondanza nell'acqua di mare alla quale dà il caratteristico 
sapore amaro, ha le speciali proprietà esaminate nell' articolo. Il solfato di magnesio, conosciuto anche come "sale inglese" è noto a 
tutti come efficace lassativo. Tra i più importanti minerali che contengono significative quantità di magnesio occorre ricordare la 
dolomite (carbonato doppio di calcio e magnesio) che costituisce interi massicci montuosi.
I FABBISOGNI
La scienza medica ritiene oggi che il fabbisogno di magnesio Si aggiri, per un adulto di 70 kg. intorno ai 420 mg al giorno (cioè meno di 
mezzo grammo). A questo proposito non si può non riandare ai risultati di una indagine condotta tra i contadini egiziani nel 1932 dal 
ricercatore Schrunipf-Pierron. Fu accertato in quella occasione che la dieta usuale delle popolazioni rurali dell'Egitto forniva ben 1.500-
1.800 mg al giorno di magnesio, cioè quasi due grammi. Tra i contadini egiziani l'incidenza del cancro era 10 volte inferiore a quella 
delle popolazioni europee e statunitensi e quella del cancro allo stomaco ben 50 volte minore. Inoltre, secondo le osservazioni del 
ricercatore, quei contadini non soffrivano di raffreddori, influenze, polmoniti e pleuriti, le loro donne partorivano con estrema facilità e 
allattavano i bambini per oltre due anni e gli anziani conservavano una andatura elegante e armoniosa anche in età molto avanzata.
IL MAGNESIO SI TROVA IN MOLTI ALIMENTI
Il magnesio è contenuto soprattutto nei seguenti alimenti: i cereali integrali, la soia, i fagioli, i vegetali in genere se coltivati con metodo 
biologico, i frutti di mare e, per la gioia dei golosi, il cacao e la cioccolata. Anche il sale marino integrale (reperibile presso tutti i negozi 
di alimenti integrali e biologici) èmolto ricco di magnesio.
PER FORTUNA ESISTE IL CLORURO DI MAGNESIO
Uno dei sali di magnesio (precisamente il cloruro di magnesio) può essere utilizzato non solo come integrazione alimentare, ma anche 
come importante strumento terapeutico nei confronti soprattutto delle malattie infettive. Nel 1915, il prof. Pierre Delbet (medico 
chirurgo socio dell'Accademia di medicina di Parigi) comunicava ai colleghi l'esito dei suoi esperimenti tesi a trovare una sostanza che 
aumentasse la protezione dell'organismo nei confronti delle aggressioni batteriche e virali e che contemporaneamente rafforzasse il 
sistema immunitario. Questa sostanza era appunto il cloruro di magnesio, preparato da Delbet in una soluzione di 20 grammi per litro di 
acqua.
Delbet e i suoi allievi curarono con il cloruro di magnesio infiammazioni della gola, asma e malattie allergiche, broncopolmoniti, 
influenze, intossicazioni alimentari, gastroenteriti, ascessi e foruncoli,febbri puerperali, parotiti. Delbet si dedicò anche allo studio dei 
rapporti fra magnesio e cancro e, dopo molte esperienze cliniche e di laboratorio, concluse che il magnesio esercitava anche un' azione 
preventiva nei confronti dei tumori. Tra l'altro, queste asserzioni vennero successivamente confermate anche da studi geologici che 
stabilirono l'esistenza di una relazione tra la scarsa quantità di magnesio presente nel terreno (e quindi negli alimenti) e il numero dei 
casi di cancro individuati in quella stessa zona. Ricordiamo che l'assunzione giornaliera di un bicchiere (circa 100-120 millilitri) della 
soluzione di Delbet sopra ricordata può contribuire in modo efficace ad integrare la quantità di magnesio introdotta con gli alimenti. 
Potete usare il cloruro di magnesio in caso di malattie acute.
La soluzione di cloruro di magnesio da utilizzare per gli utilizzi elencati successivamente è quella ottenuta sciogliendone 20 grammi in un 
litro di acqua.Per il trattamento delle malattie acute (influenza, raffreddore,bronchite, raucedine, mal di gola, rosolia, morbillo) è opportuno che le 
dosi di seguito indicate vengano inizialmente somministrate ogni 6 ore. In reazione a miglioramento ottenuto si potrà poi somministrare 
la dose sogni 8-12 ore. La somministrazione deve, continuare per 5-6 giorni anche dopo scomparsa dei sintomi più fastidiosi (febbre, 
arrossamento, dolore alla gola, secrezioni nasali, ecc.) 
Per i bambini fino ai 2 anni: 60 ml (circa 3 cucchiai da minestra). Per i bambini di 3 anni: 80 ml (circa 4 cucchiai da minestra)Per i 
bambini di 4 anni: 100 ml. Per gli adulti e i bambini sopra i 5 anni: 125 ml (circa due tazzine da caffè). È possibile che la 
somministrazione frequente (come quella necessaria nelle fasi più acute della malattia) determini un leggero effetto lassativo. A parte il 
fatto che la pulizia dell'intestino, nella maggior parte dei casi, influisce favorevolmente sull'evoluzione della malattia, il fenomeno è 
comunque transitorio. Potrà in ogni caso essere utile ridurre la quantità di ogni singola dose, mantenendo invece invariata la frequenza. 
Un altro problema, specialmente se il cloruro di magnesio è destinato ai bambini, è costituito dal sapore molto amaro della soluzione. Si 
potrà tentare di rammentare loro che la Fata Turchina, nel somministrare a Pinocchio un farmaco, diceva espressamente che "la 
medicina più è amara e più fa bene". Ma probabilmente un intervento più efficace per rendere meno sgradevole la pozione consisterà 
nella sua diluizione con acqua addizionata con succo di limone, zuccherata a piacere. La dose di cloruro di magnesio si può anche 
assumere bevendone piccoli sorsi ogni 15/20 minuti. Esistono in commercio anche le compresse, più facilmente ingeribili da parte di 
bambini ed anziani, dato il sapore del cloruro di magnesio. In genere le compresse (es. SANTIVERI distribuito da IBERSAN costo circa 7 
?) sono di 1 grammo cadauno.