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lunedì 31 gennaio 2022

Il ballo dell’obbedienza

 Il ballo dell’obbedienza

Noi abbiamo suonato il flauto

e voi non avete danzato!

È il 14 Luglio,
tutti si apprestano a danzare.
Dappertutto, dopo mesi, dopo anni, il mondo danza.
Ondate di guerra, ondate di ballo.

C’è proprio molto rumore.
La gente seria è a letto.
I Religiosi recitano il Mattutino di Sant’Enrico, Re.
E io, penso all’altro Re.
Al Re Davide, che danzava davanti all’Arca.

Perché, se ci sono molti Santi che non amano danzare,
ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,
tanto erano felici di vivere:
Santa Teresa con le sue nacchere,
San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia,
e San Francesco, davanti al Papa.

Se noi fossimo contenti di te, Signore,
non potremmo resistere
a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo,
e indovineremmo facilmente
quale danza ti piace farci danzare,
sposando i passi che la tua Provvidenza ha segnato.

Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza
della gente che, sempre, parla di servirti
con l’aria da capitano,
di conoscerti con aria da professore,
di raggiungerti con regole sportive,
di amarti come ci si ama in un matrimonio invecchiato.

Un giorno, in cui avevi un po’ voglia d’altro,
hai inventato San Francesco,
e ne hai fatto il tuo giullare.
Spetta a noi ora di lasciarci inventare,
per essere gente allegra, che danza la propria vita con te.

Per essere un buon danzatore, con te come con tutti,
non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire,
essere gioioso,
essere leggero,
e soprattutto non essere rigido.

Non occorre chiederti spiegazioni
sui passi che ti piace fare.
Bisogna essere come un prolungamento,
vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo, che l’orchestra scandisce.

Non bisogna volere avanzare a tutti i costi,
ma accettare di girarsi, di andare di fianco.
Bisogna sapersi fermare e sapere scivolare,
invece di camminare.
Ma non sarebbero che passi senza senso,
se la musica non ne facesse un’armonia.

Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,
e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica;
dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,
che la tua Santa Volontà
è di una inconcepibile fantasia,
e che non c’è monotonia e noia,
se non per le anime vecchie,
che fanno tappezzeria,
nel ballo gioioso del tuo amore.

Signore, Vieni a invitarci!
Siamo pronti a danzarti questa corsa da fare,
questi conti, il pranzo da preparare, questa veglia
in cui avremo sonno.
Siamo pronti a danzarti la danza del lavoro,
quella del caldo, e quella del freddo, più tardi.
Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo
che sono tristi;
se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo
che sono logoranti.
E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere;
sapendo bene che questo capita sempre, quando si danza.

Signore, insegnaci il posto
che tiene, nel romanzo eterno,
avviato fra te e noi,
il ballo singolare della nostra obbedienza.

Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni;
in essa, quel che tu permetti
dà suoni strani,
nella serenità di quel che tu vuoi.

Insegnaci a indossare ogni giorno
la nostra condizione umana,
come un vestito da ballo che ci farà amare, da te,
tutti i suoi dettagli,
come indispensabili gioielli.

Facci vivere la nostra vita,
non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come un match dove tutto è difficile,
non come un teorema rompicapo,
ma come una festa senza fine,
in cui l’incontro con te si rinnova,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica universale dell’amore.

Signore, Vieni a invitarci!

MADELEINE DELBREL, 1949

Gli strani cari amici

 Gli strani cari amici

Martella: “Guardali, i bei palazzi, i giardini, i gioielli. Divertiti, se sei capace. Ma non capisci che abbiamo perso tutto? Ma non hai ancora capito che…”, qui le parole furono soffocate, come gli avessero importo un bavaglio.

La frase terminò in un borbottio informe che il Martella non potè decifrare. Non importava, oramai; una voce sottile, estremamente precisa, gli diceva ciò che l’altro non era riuscito. “Ma non hai ancora capito” diceva questa voce “che noi siamo all’inferno?”
L’inferno? Con quei palazzi, quei fiori, e tante leggiadre creature? Quello, l’inferno? Che assurdità! Eppure Stefano Martella si guardava intorno smarrito, sentendosi rovesciare il cuore. Si guardava intorno come invocando una smentita. Ma intorno gli stavano sei sette volti impeccabili, dalla pelle liscia, ben nutrita, volti misteriosi che lo fissavano, le labbra socchiuse a una regolamentare letizia. Un servitore si avvicinò, porgendogli un altro bicchiere. Lui bevve un sorso con disgusto; si sentiva orribilmente solo, abbandonato dal genere umano: poi lentamente si riprese, fissò anche lui in faccia i cari amici, unendosi alla disperata congiura. E tutti insieme, con fatica miseranda, tentavano di sorridere.
D. Buzzati

VENI CREATOR

 VENI CREATOR

Vieni, Spirito Santo,
curvando (oppure non curvando) l’erba,
apparendo (oppure no) sul capo come lingua di fuoco,
al tempo delle fienagioni, o quando il trattore esce per la prima aratura
nella valle dei boschetti di noci o quando la neve seppellisce gli
abeti storpi nella Sierra Nevada.
Sono soltanto un uomo, ho dunque bisogno di visibili segni,
il costruire scale di astrazioni mi stanca presto.
Ho pregato spesso (Tu lo sai) perché la statua in chiesa
sollevasse per me la mano, una volta, un’unica volta.
Ma lo capisco, i segni possono essere solamente umani.
Desta dunque un uomo, in un posto qualunque della terra,
(non me: perché ho comunque il senso della decenza)
e permetti che – guardandolo – io possa ammirare Te.

Czeslaw Milosz (Premio Nobel per la poesia)

«Se vi toccasse di fare gli spazzini

 Se vi toccasse di fare gli spazzini

«Se vi toccasse di fare gli spazzini, dovreste andare e spazzare le strade nello stesso modo in cui Michelangelo dipingeva le sue figure; dovreste spazzare le strade come Handel e Beethoven componevano la loro musica. Dovreste spazzarle nello stesso modo in cui Shakespeare scriveva le sue poesie. Dovreste insomma spazzarle talmente bene da far fermare tutti gli abitanti del cielo e della terra per dire: “Qui ha vissuto un grande spazzino che ha svolto bene il suo compito”»

 (Discorso di Martin Luther King nella New Covenant Baptist Church, 9/4/1967)

domenica 30 gennaio 2022

padre Aleksandr Men

 


La copertina del volume di M. Kunin.

Oggi, a distanza di più di trent’anni dalla sua morte, in un contesto ben diverso da quello in cui padre Aleksandr è vissuto, ma contraddistinto da una non minore estraneità tra la società civile e il mondo culturale e gli ambienti ecclesiastici, è una casa editrice laica a pubblicare la sua prima biografia sistematica (che si aggiunge alla precedente, più scarna biografia di  Yves Hamant, del 1993, e ai numerosi testi di memorie usciti in seguito), nella prestigiosa collana «Vite di persone straordinarie».
Una biografia «laica» ma senza ambiguità, proprio come l’apertura di padre Aleksandr al mondo, alla realtà in tutti i suoi aspetti, vissuta come partecipazione allo sguardo di Dio sul reale, in un cammino di sequela, di amicizia a Cristo iniziato fin dalla tenera età.
L’autore, Michail Kunin, economista di formazione, legato al sacerdote da vincoli familiari di vecchia data oltre che personali, ha il merito di intessere un ricchissimo materiale (lettere e scritti di padre Aleksandr, memorie e testimonianze in parte già pubblicate e in parte inedite) nella trama del tempo con grande onestà, nelle vesti di «testimone di un dialogo – come ha detto lui stesso presentando il volume alla “Biblioteca dello spirito” – che si svolge via via tra padre Aleksandr e le persone a lui più intime – la madre Elena, la zia Vera Vasil’evskaja, gli amici del tempo degli studi e del sacerdozio».

«La stella della vocazione»

Filo conduttore della narrazione, che si sviluppa in quasi 600 pagine, è la consapevolezza di una «chiamata» che il dodicenne Alik avverte distintamente il 7 settembre 1947, quando, vedendo nell’aria un gigantesco pallone aerostatico con il ritratto di Stalin, si rende conto che «solo il cammino verso Dio e l’amore di Cristo potevano diventare per gli uomini la stella che li guidava, nonostante il terrore e l’ideologia che si era insediata nel paese come fondamento della visione del mondo, ed era un surrogato, una caricatura della religiosità autentica».

Questo episodio, collocato dall’autore in apertura del testo, sarebbe stato poi così commentato dallo stesso padre Aleksandr: «È successo ad un certo punto, al passaggio dall’infanzia all’adolescenza, quando sentivo molto acutamente il non senso e la distruttività del mondo.

Riempivo i quaderni di versi quantomai tetri, che non erano dettati da un pessimismo innato, ma dalla scoperta della “verità della vita” come si presenta se si mette “tra parentesi” il Significato supremo. E allora apparve Cristo. Apparve interiormente, ma con una forza tale che non la si può chiamare altrimenti che forza della salvezza.

Fu allora che udii un richiamo che mi chiamava a servire, e feci voto di fedeltà a questa vocazione. Da quel momento ha determinato tutti i miei interessi, contatti e occupazioni. Insieme a questo è nata la decisione di diventare sacerdote. Ho riconosciuto un numero incalcolabile di volte la Mano che mi guidava. Il suo agire si manifestava anche nelle piccolezze. Mi ricordava le tessere di un mosaico, che va componendosi su un disegno già preparato. E su tutto – se vogliamo usare un linguaggio alato – rifulgeva la stella della vocazione».


Un momento della presentazione del libro alla «Biblioteca dello spirito»: al centro il fratello Pavel Men’, a destra l’autore .

In questa chiave l’autore delinea le fasi principali della vita del sacerdote. Dopo il battesimo e i primi passi nella vita cristiana all’interno della comunità catacombale di padre Serafim Batjukov, nel 1945, quando la Chiesa ortodossa ha la possibilità di eleggere un patriarca e si ricompone il doloroso scisma creatosi in epoca sovietica, Elena Men’ e i due figli, Alik e Pavel, ritornano in qualche modo alla normalità della vita religiosa; i due fratellini restano sbalorditi «vedendo la chiesa piena di gente e ascoltando i fedeli che cantavano tutti in coro il Credo – ricorda la zia Vera, che li aveva accompagnati la prima volta alla liturgia. – Non avevano mai visto né sentito niente del genere».

Si rende ben presto evidente, tuttavia, la precarietà della situazione, perché con l’accusa di «attività antisovietica» vengono arrestati molti amici appartenenti alle comunità frequentate dalla famiglia Men’; ricorderà anni dopo Pavel, che all’epoca non aveva neppure dieci anni: «In casa c’era un’apposita scatola, dove la mamma metteva i soldi per i prigionieri, i poveri, i malati. Ma anche noi bambini sapevamo a che cosa serviva. Con quei soldi comperavamo generi alimentari, indumenti, e poi spedivamo pacchi nei lager e ai luoghi di confino. Siccome a Mosca non accettavano i pacchi con alimentari, io andavo a Mytišči a spedirli… Infatti, a nessuno sarebbe venuto in mente di chiedere a un bambino: dove vai, che cosa porti?».

I due ragazzini avrebbero sempre ricordato le parole della mamma: «Se qualcuno ti chiede qualcosa, sappi che è come se Cristo fosse venuto da te, e cerca di fare tutto quello che puoi».




La famiglia Men’: da sin. il padre Vladimir, i piccoli Alik e Pavel, e la madre Elena. (alexandrmen.ru)

Dell’adolescente Aleksandr sono rimasti molti ricordi impressi nella mente dei suoi familiari e amici: la sua vivida intelligenza, il suo interesse per tutto lo scibile, ma in particolare per le scienze naturali e la filosofia, e il suo desiderio di condividere le proprie scoperte, letture, esperienze.

Ad esempio, una volta la mamma va a trovarlo in ospedale, dov’era ricoverato per una forma acuta di tonsillite, ed entrando nella sua camera, piena zeppa di pazienti e personale, assiste a questa scena: «Alik in piedi sul letto, teatralmente avvolto in un lenzuolo, con la gola fasciata e il lenzuolo addosso, sta parlando animatamente ai suoi spettatori non so più se di Ponzio Pilato o di qualche eroe dell’antichità classica, mentre il “pubblico”, dimentico di tutto, ascolta trattenendo il fiato».

Il suo desiderio di mettersi al servizio del «mondo» è segnato, in particolare, da un episodio avvenuto intorno ai 15 anni. Era il 31 dicembre, tutt’intorno la città rumoreggiava preparandosi a festeggiare il capodanno; Alik era rimasto in chiesa, assorto in preghiera, dopo la liturgia, quando si sentì chiamare sommessamente dal sacerdote:

«È un bene che tu ami Dio, la chiesa e la liturgia. Ma non sarai mai un vero pastore se le gioie e i dolori di quanti vivono nel mondo ti resteranno estranei…».

«Da quel momento – ricorda Sofija Rukova, sua amica e futura direttrice del coro della sua parrocchia a Novaja Derevnja – fu come se Alik rinascesse a nuova vita, facendosi tutto a tutti, ma in primo luogo ai sofferenti, tribolati, a chi aveva perso la fede, la speranza, l’amore».








Nell’agosto 1951, al centro, con gli amici Igor’ e Vitja. (alexandrmen.ru)

Agli inizi del 1954, iscrittosi alla facoltà di biologia, Aleksandr incontra Natal’ja Grigorenko, che qualche anno dopo sarebbe divenuta sua moglie. Riandando a quei primi mesi, Natal’ja l’avrebbe dipinto come un ragazzo «piuttosto strano, con un cappello a tesa larga e l’immancabile borsa a tracolla. E per di più si faceva crescere la barba, cosa quantomai esotica a quei tempi. A me non dispiaceva, ma i ragazzi del nostro gruppo mi dicevano: “Ma che ti sei messa a fare con quello lì? Sta’ attenta, è un tipo strano”. La borsa non la lasciava mai, aveva dentro la Bibbia, se la portava in giro e la leggeva dappertutto. In istituto l’avevano addirittura battezzato “il borsa”. E alle feste, se qualcosa non gli andava, scivolava sotto il tavolo e dormiva, con la borsa sotto la testa come cuscino. Mi aveva avvisato fin dall’inizio che era credente, mi aveva detto: “Ho in progetto di farmi prete”. E io gli ho risposto: “Se è quello che vuoi, fallo”».

La consapevolezza della missione a cui era chiamato, senza nulla togliere al calore e alla simpatia dei rapporti umani, spingeva Aleksandr a custodire il rapporto privilegiato con Dio anche a costo di sacrifici, dettandogli concretamente tempi e modi della vita quotidiana, ad esempio un ben preciso «regime di vita» che prevedeva studio, letture e preghiere.

«In gioventù, in qualunque compagnia, per quanto interessante, a un certo punto dicevo: “Bene, io vado”. A volte per questo mi guardavano come un mostro…», avrebbe ricordato in seguito. In realtà, i suoi compagni di università a Mosca e poi a Irkutsk, pur stupiti da questo ragazzo che nel tempo libero non faceva che «leggere, prendere appunti, scrivere», si schierano decisamente dalla sua parte quando l’occhio vigile del KGB intuisce in Aleksandr un elemento «estraneo» e cerca di ottenere informazioni su di lui: «…Venimmo così a sapere che Men’ era credente e legato alla Chiesa ben più seriamente dei normali parrocchiani – ricorda una sua compagna di studi, Valentina Bibikova. – La reazione fu unanime: sono questioni sue, noi comunque gli vogliamo bene.
Anzi, cominciammo a essere ancora più cordiali con lui, non perché fosse credente, ma perché lo vedevamo così intelligente e determinato. E inoltre volevamo salvarlo dal pericolo, per questo diventammo ancora più amici.

Lui non faceva alcuna propaganda religiosa, semplicemente smise di nascondere che era credente».

Sono gli anni in cui Aleksandr porta a termine la prima redazione del libro su Gesù Cristo che lo accompagnerà per tutta la vita, Il Figlio dell’Uomo.











Con la fidanzata Natal’ja, negli anni ’50. (alexandrmen.ru)

La stessa determinazione traspare nella corrispondenza con la fidanzata Natal’ja: Aleksandr vede possibile per sé il matrimonio unicamente dentro una dedizione comune a Dio.
Scrive, il 7 novembre 1955: «…Dopo lunghe riflessioni e osservazioni ho preso la decisione definitiva: dopo essermi diplomato, più o meno, voglio dedicarmi ufficialmente alla cosa che mi ha attratto per tutta la vita. La biologia resterà come un interesse personale. Se vogliamo vivere insieme in futuro, sorgono queste difficoltà (in caso contrario, tutto è risolto): innanzitutto, voglio avere in te una compagna che condivida le mie idee, convinzioni e ideali. Inoltre, tieni conto che, naturalmente, il mio passaggio a uno status ufficiale si ripercuoterà sulla tua posizione. Infine, qualunque genere di difficoltà io possa incontrare, si riverseranno anche su di te.

La soluzione di questi tre problemi può essere, secondo me, una delle seguenti: puoi subito tirarti indietro, in tal caso la tua lettera di risposta sarà l’ultima, e noi smetteremo di vederci. Oppure, sei già d’accordo su tutto, cosa che mi sembra difficile.
Infine, terza variante, se sei d’accordo in linea di massima, puoi prenderti il tempo di pensarci su e di riflettere con calma su tutto, almeno finché non tornerò quest’estate.
Perché prendo così di petto la cosa? Perché ho deciso definitivamente che il nostro rapporto esige un impegno da subito, che ormai non possiamo più accontentarci di dire “vedremo”… Aspetto con impazienza che tu mi risponda, carissima. Ti bacio, Alik».

Aleksandr e Natal’ja si sarebbero sposati nel 1956. Dopo alterne vicende, tra cui l’espulsione dall’università alla vigilia della laurea, a causa delle sue convinzioni, Aleksandr Men’ sarebbe stato ordinato sacerdote il 1° settembre 1960.

Nei trent’anni del suo ministero pastorale (fino al mattino del 9 settembre 1990, quando sarà ucciso da ignoti poco dopo essere uscito di casa per recarsi a celebrare nella sua parrocchia, a Novaja Derevnja), padre Aleksandr vive realmente al cuore della Chiesa, travagliata da pesanti ingerenze dello Stato che a tratti si trasformeranno in vere e proprie repressioni, da crisi e problemi al proprio interno, ma anche animata da un processo di rinascita che nel tempo assumerà forme e modalità diverse.

La paternità che il giovane sacerdote sperimenta nel rapporto con vescovi-confessori della fede come Ermogen Golubev e Afanasij Sacharov; il rapporto con il gruppo di giovani progressivamente riunitosi intorno ad Anatolij Vedernikov, uno dei pilastri della rinascita delle strutture patriarcali dopo il ’45; la fedeltà all’amicizia con due sacerdoti suoi coetanei, Gleb Jakunin e Nikolaj Ešliman, che si fanno promotori di una coraggiosa denuncia dei mali della Chiesa, e il tentativo di aprire un dialogo reale e rispettoso con le autorità ecclesiali; l’impegno pastorale ed educativo non solo nelle parrocchie dove viene inviato, ma anche nei confronti di un numero sempre maggiore di persone che gli si rivolgono per un consiglio e un aiuto nella vita spirituale; il lavoro di redattore e autore di strumenti catechetici, di testi di teologia e di biblistica; l’aiuto a tradurre e far circolare autori letterari cristiani come Chesterton, Lewis, Cronin, Graham Greene; l’apertura ecumenica e la rete di amicizie in ambito cattolico e protestante, possono essere ricondotti all’unico intento di rispondere alla missione a cui era chiamato, e che aveva così formulato agli inizi del suo ministero, ad Alabino:

«Dopo essere diventato sacerdote, ho sempre cercato di unire la parrocchia, di farne una comunità, e non un’accolta casuale di persone che si conoscono appena. Ho cercato di far sì che ci si aiutasse, si pregasse insieme, insieme si imparassero la Scrittura e i fondamenti della fede, insieme ci si accostasse alla comunione.

Volevo che la fede non distogliesse nessuno dalla vita, non spegnesse gli interessi intellettuali e culturali, che diventando cristiane, le persone si arricchissero, e non si impoverissero spiritualmente, che non


Padre Men’ con alcuni giovani. (Facebook alexandrmenfond)

Aggrappati al cielo

Si ha l’impressione, sfogliando le pagine della biografia, che pur lavorando sempre in parrocchie sperdute, di provincia, padre Aleksandr abbia in qualche modo incrociato la vita di innumerevoli personalità del suo tempo, della vecchia e della nuova generazione, tanti sono i nomi che ne emergono – Solženicyn, Aleksandr Galič, Nadežda Mandel’štam, Marija Judina, Ljudmila Ulickaja – per non citarne che alcuni, più noti al lettore occidentale.

Per molti, come il cantautore Galič, l’incontro con lui segnò una svolta: «Nel samizdat mi capitò un testo di padre Aleksandr, e mentre lo leggevo ebbi l’impressione non fosse semplicemente un uomo di straordinaria intelligenza e talento, ma avesse il “dono della presenza”… Ad esempio, narrando la vita del profeta Isaia, non scriveva da storico, ma da testimone, partecipe. Era lì, al tempo, nelle città in cui predicava Isaia. Lo udiva, gli camminava accanto per strada… Ed ecco che un bel giorno decisi di andare da lui, volevo vedere com’era fatto…
Assistei alla liturgia, ascoltai l’omelia, poi insieme a tutti i fedeli andai a baciare la croce. E qui avvenne un piccolo miracolo. Forse esagero, forse non era un miracolo, ma in fondo all’anima mi piace pensare che fosse proprio un miracolo. Mi avvicinai, mi chinai a baciare la croce. Padre Aleksandr mi poggiò la mano sulla spalla e disse: “Buongiorno, Aleksandr Arkad’evič. È tanto che la stavo aspettando. Che bello che sia venuto”».

Di lì a poco, Galič avrebbe ricevuto il battesimo e poi – nell’emigrazione – avrebbe  ricordato quella chiesetta sperduta come la sua casa natale, in una canzone divenuta famosa, Quando tornerò.

«Quando tornerò… Tu non ridere / quando io tornerò, quando senza sfiorare la terra coi piedi, correrò sulla neve di febbraio seguendo tracce lievi, verso il tepore, un tetto per dormire,
e tremando di felicità mi volterò alla tua voce, richiamo di tortora.
Quando tornerò, oh, quando tornerò…» (A. Galič)

 

Ai nomi più noti si aggiunge la massa delle persone semplici, dei parrocchiani, dei lettori dei suoi libri, che ben presto cominciarono a circolare in tutta l’URSS sotto forma di samizdat o tamizdat. A pubblicare in Occidente con pseudonimo i testi di padre Aleksandr e a farli avere fortunosamente in Unione Sovietica fu principalmente la casa editrice belga La vie en Dieu.

Così ricordava l’inizio della loro collaborazione la direttrice, Irina Posnova: «Ricevuto il suo primo dattiloscritto, non eravamo sicuri che fosse destinato a noi, e gli chiedemmo conferma delle sue intenzioni. Gli facevamo presente che la nostra editrice era cattolica, e univa insieme, prendendo a modello Vladimir Solov’ëv, la fedeltà a Roma alla fedeltà alle tradizioni della Chiesa orientale e alla collaborazione fraterna con gli ortodossi. Ricevemmo questa risposta:

Sappiamo che siete cattolici, ma questo non ci preoccupa affatto, al contrario ci rallegra, perché è venuto il momento di liberarsi dagli steccati confessionali, che ci ostacolano nell’adempiere la volontà di Cristo che i cristiani siano uniti”».

È sterminata la messe di testimonianze di parrocchiani e figli spirituali che ricordano colloqui e confessioni con lui. «…Sorrideva, mi abbracciava e diceva: “Come sono contento che sia venuto. Preghiamo insieme” – scrive uno di loro. – E poi, prima che aprissi bocca diceva quello che avrei dovuto dire io. Non che io tacessi, ma lui mi leggeva nell’anima come in un libro aperto. E così capitava anche agli altri».
E un altro, che gli chiedeva come fare per non avere paura, in tempi in cui ai cristiani si richiedeva una risolutezza che lui si sentiva ben lungi dall’avere, il padre risponde:

«Solo l’asino non ha paura, non vede i pericoli e va avanti alla cieca. Il coraggio invece deve avere gli occhi aperti».
Ma questo coraggio lo si può ottenere «“solo così”, continuava padre Aleksandr indicando con il gesto della mano l’alto. Un gesto più eloquente di qualunque discorso. “State aggrappati al Cielo”, ci ripeteva spesso».

A una parrocchiana che in confessione si era attardata a parlare delle mancanze di una conoscente, e si aspettava una replica che le tappasse la bocca, del tipo «impara a pensare a te stessa», padre Aleksandr dà invece una risposta che non lascia scampo, urge alla carità: «Tutto vedere, tutto comprendere e tutto perdonare».

Infine, in un’altra occasione, esorta un neofita pieno di sacro zelo: «Mi sembra che oggi il compito principale dei cristiani non sia combattere l’ateismo… Sarebbe una battaglia


(alexandrmen.ru)

Anche i «piccoli gruppi», da lui costituiti per dare ai fedeli la possibilità di ritrovarsi nelle case e vivere un’esperienza di preghiera e condivisione di vita, rispondono all’esigenza di aprirsi al mondo e di irradiarvi l’annuncio cristiano: «Oggi – spiegava – spirano venti gelidi, e la fede non può essere un caldo, comodo rifugio in cui mettersi al riparo dalle tempeste e dai disagi del mondo. Ed è giusto che sia così, perché i cristiani hanno ricevuto in dono la forza della vita e la forza della speranza, e non l’ennesimo anestetico con cui proteggersi… Se non dimostriamo a Marx che la religione per noi non è oppio, siamo dei cattivi cristiani».

«Nella mia vita tutto è sempre ruotato intorno a Cristo Dio, che dialoga perennemente con noi. Non ho mai provato il desiderio di voltarmi indietro, una volta messo mano all’aratro. Dio mi ha aiutato in maniera chiara e impercettibile. Del bagaglio per il mio futuro servizio è entrato a far parte tutto: ciò che ho appreso nel campo dell’arte, della scienza, della letteratura, del sociale. Perfino difficoltà e prove si sono rivelate provvidenziali.

Sebbene dall’esterno potesse sembrare che da ragazzo avessi un ampio spettro di interessi, di fatto erano tutti subordinati a un unico scopo… È sbagliato pensare che non abbia mai avuto la tentazione di vivere un cristianesimo chiuso nel proprio recinto, bastante a se stesso, che abbia fatto le mie scelte seguendo semplicemente l’inclinazione del carattere.
Al contrario, più di una volta ho dovuto farmi forza, superare me stesso per rispondere alla chiamata che sentivo dentro di me. Ho veduto più volte come siano reali le forze della luce e delle tenebre, e sono ben consapevole di non essere altro che uno strumento, che il merito di ogni successo è di Dio. Ma per l’uomo non esiste felicità più grande di essere uno strumento nelle sue mani, di essere fatto partecipe dei suoi disegni».

Queste parole, con cui padre Aleksandr esprime in qualche modo il suo «credo», illustrano con particolare efficacia l’ultimo decennio della sua vita, che assume tinte drammatiche sullo sfondo delle recrudescenze nella repressione dei credenti sotto Andropov: per anni il sacerdote viene convocato sistematicamente a colloquio presso il KGB; all’interno della parrocchia si susseguono arresti, e viceversa persone che sembrano amici e fidati collaboratori si rivelano informatori dei servizi segreti, ricattati a motivo di vicende personali o facendo leva su rivalità, gelosie e così via.

In questa atmosfera di paure e sospetti, padre Aleksandr mantiene la sua calma e serenità, ripetendo: «Se siamo necessari al Signore, ci custodirà anche se siamo appesi a un filo». Quando gli chiedono cosa prova varcando la porta dell’ufficio in cui viene interrogato, risponde: «No, non ho paura. Solo che, ogni volta che entro, non so se uscirò di lì oppure no».

Viene salvato, letteralmente a un passo dall’arresto dopo l’uscita sulla stampa di due durissimi articoli di denuncia nei suoi confronti, nel marzo 1986, dall’intervento di Raisa Gorbačëva, colpita dai suoi volumi Storia della religione, ricevuti in dono dall’accademico Lichačëv insieme alla notifica che l’autore era in grave pericolo. Da quel momento il sacerdote non sarà più convocato dal KGB.


solo esteriore. È molto più utile combattere il


Padre Men’ in una foto degli ultimi anni. (Facebook alexandrmenfond)

Gli ultimi anni della vita di padre Aleksandr, segnati da una frenetica serie di interventi pubblici sulla stampa, alla televisione e nei centri culturali, che nell’euforia della perestrojka fanno a gara per invitarlo, sono anche, in un certo senso, i più misteriosi. Non sapremo mai che percezione avesse delle minacce che incombevano su di lui da parte delle «forze delle tenebre» e che avrebbero trovato il loro tragico epilogo nell’assassinio (un assassinio che attende ancora di conoscere esecutori e mandanti), e come avesse maturato in cuor suo la decisione di restare fedele alla sua missione fino all’ultimo respiro, senza cercare in nessun modo di sottrarsi alla sua sorte.

Poche ore prima della morte, tenendo una lezione pubblica alla Casa della scienza e della tecnica in via Volchonka, aveva detto: «Dal momento in cui il Figlio dell’Uomo ha preso su di sé le nostre debolezze e infermità, le nostre gioie e le nostre sofferenze, la nostra creatività, il nostro amore, il nostro lavoro, ha assunto il nostro destino umano – da allora la natura, il mondo, tutto ciò che in Lui consiste, in cui Egli è nato come uomo e come Dio fatto uomo, non è più negletto, vilipeso, ma innalzato a nuova dignità, santificato.
Il cristianesimo è la santificazione del mondo, la vittoria sul male, sulle tenebre. Una vittoria che è iniziata la notte della Resurrezione, e non avrà mai fine, finché durerà il mondo».

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Giovanna Parravicini

Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.

 Se non puoi essere un pino sul monte,

sii una saggina nella valle,

ma sii la migliore piccola saggina

sulla sponda del ruscello.

Se non puoi essere un albero,

sii un cespuglio.

Se non puoi essere una via maestra

sii un sentiero.

Se non puoi essere il sole,

sii una stella.

Sii sempre il meglio

di ciò che sei.

Cerca di scoprire il disegno

che sei chiamato ad essere,

poi mettiti a realizzarlo nella vita.


(Martin Luther King)

Il Nazismo è figlio di Lutero!

 

Le conseguenze politiche di Lutero

Due cartine tratte dal libro Libertà o uguaglianza? di Erik von Kühnelt-Leddihn. In entrambe è raffigurata la Germania tra le due guerre mondiali.

La prima cartina si riferisce alle elezioni del 31 luglio 1932: le zone sono tanto più nere quanto maggiore è la percentuale di votanti a favore del NSDAP, il partito di Hitler.


La seconda cartina si riferisce alla presenza dei cattolici in Germania secondo il censimento del 1934: le zone sono tanto più nere quanto maggiore è la percentuale dei cattolici.

È sorprendente la complementarietà delle due cartine. Il che ovviamente non significa che non ci siano stati cattolici nazisti e protestanti antinazisti. Ma sui grandi numeri il nazismo ha attecchito maggiormente dove maggiormente era diffuso il protestantesimo.

DINO BUZZATI SENSO RELIGIOSO

 



Dino Buzzati

IL PROBLEMA RELIGIOSO IN DINO BUZZATI

CIVILTA' CATTOLICA


Ferdinando Castelli

Quaderno 3649


Quando Dino Buzzati morì, esattamente il 28 gennaio 1972 (era nato a Belluno nel 1906), il quotidiano francese Combat gli dedicò un articolo intitolato «Dino Buzzati morto e vivo». «La morte di uno scrittore — vi si leggeva — è l’occasione per dimostrare che la sua opera vive sempre anche se l’uomo non è più. Il giornalista Buzzati lo sapeva. I suoi libri sono sempre vivi, e di quale vita!». A distanza di 30 anni, il giudizio di Combat si rivela profetico. Mentre altri autori del suo tempo — e a noi più vicini — svaniscono nell’ombra, Buzzati si afferma come una presenza viva e inquietante. La ristampa delle sue opere avviene con ritmo preciso e la critica non smette di approfondirne l’originalità, la bellezza formale e la ricchezza di contenuto. L’«Associazione Internazionale Dino Buzzati», costituita a Feltre nel 1988, ha come struttura permanente il Centro Studi Buzzati che pubblica la rivista Studi buzzatiani e la collana «Quaderni del Centro Studi».

Quali le ragioni della vitalità dello scrittore bellunese? In uno stile semplice, lineare, limpido, egli mette il lettore dinanzi al mistero della vita: l’ignoto che la circonda, la morte che la incalza, l’angoscia che l’assedia. Questo mistero sguscia dalla quotidianità del vivere, apparentemente banale; anzi ce lo portiamo dentro, senza saperlo, e quando ne diventiamo consapevoli lo sgomento ci assale per il premere delle domande ultime: ha un senso la vita? che cos’è il mistero? siamo pellegrini o sventurati? il cielo è muto e vuoto? «Romanziere della solitudine e dell’assurdo» definiva Buzzati Le Figaro, in occasione della sua morte, e così concludeva: «Alla sua eterna ricerca dell’assoluto, alla sua patetica ricerca di una certezza, Buzzati apportava una chiarezza e una precisione che l’avevano fatto soprannominare il Kafka di cristallo».

Incontrammo Buzzati, nei lontani anni Sessanta, al Centro San Fedele di Milano, in occasione di una tavola rotonda sulla sua opera. Parlammo della dimensione religiosa della sua narrativa e così concludemmo: nella sua opera ci sono notevoli squarci religiosi, e la sua ispirazione letteraria rivela un’anima naturaliter christiana. Il suo dio però è vago, nebuloso, equivoco; la sua religione si confonde col sentimento; il suo al di là ha il sapore di una bella favola; la sua ricerca approda al mistero, espressione più di un nostro bisogno che di una realtà trascendente. Talvolta però questo bisogno è così vivo da configurarsi come verità del nostro essere.

Buzzati sottoscrisse la nostra analisi, ringraziando. Ricordiamo il suo sguardo: fondo, quasi smarrito nel tentativo di scrutare il mistero che si annida in ogni persona; e la sua bontà, la sua signorilità e timidezza, la sua modestia. Dava l’impressione di una persona che faccia fatica a muoversi in questo mondo, che cerchi altre terre dove abitare. Quali?

Buzzati scrittore religioso?

L’interrogativo ci introduce nell’analisi della sua religiosità. Eugenio Montale lo definì «un favolista essenzialmente cristiano»[1]. Giovanna Ioli parla di una sua «religiosità incombente» affermando che «Dio esiste nei luoghi di Buzzati più che in molti autori che lo dichiarano»[2]. Giorgio Pullini nota che «la realtà rimane per Buzzati un fatto trascendentale, al di fuori e al di sopra della sua ricerca personale, un dato di partenza mitico»[3]. Fausto Gianfranceschi sostiene che non è possibile comprendere Buzzati prescindendo dalla dimensione religiosa della sua opera[4]. Anche Domenico Porzio insiste sulla nascosta anima religiosa buzzatiana, che egli scorge soprattutto nel linguaggio simbolico e metaforico dello scrittore[5]. Altri studiosi trattano l’argomento ma in termini piuttosto vaghi e frettolosi, quasi si trattasse di un tema marginale.

Si può definire Buzzati uno scrittore religioso? Per evitare ogni equivoco, diciamo subito che egli non ha una religione, nel senso che non accetta un credo, cristiano o cattolico che sia, strutturato di dogmi, di riti, di verità rivelate. Egli ha un forte sentimento religioso che gli deriva dalla sua anima profonda e che si manifesta come presentimento, nostalgia, attesa, malessere interiore, intelligenza metaforica e mitica. Tale sentimento costituisce la religione naturale o religiosità. Essa ha una triplice origine. In primo luogo è originato dal sentimento del numinoso, universalmente avvertito ed espresso in una varietà di modi. Secondariamente dalla struttura dell’uomo: essere finito con un’apertura all’infinito; ora, essendo la realtà che lo circonda limitata e finita, egli avverte un malessere che lo induce a cercare, in altre direzioni, altre realtà. Infine, dinanzi all’evento della morte, l’uomo sente un prepotente bisogno di sopravvivenza per non morire del tutto e per incontrare le persone care. Bisogno vano o presagio d’immortalità? La religione naturale pertanto comporta la ricerca di altre realtà e il bisogno di oltrepassare i confini dell’umano per raggiungere quelle terre dove l’inquietudine possa placarsi.

Di queste altre terre Buzzati è cercatore appassionato e originale. Da autentico scrittore, ha una peculiare capacità di farcene percepire la nostalgia e il bisogno. La loro percezione, che va oltre il quotidiano e l’immediato, può configurarsi col meraviglioso, col diverso e con lo strano, ma anche col misterioso, col metafisico, col soprannaturale. Egli è tutto proteso a captare e comprendere questa realtà, perché in essa è in gioco il nostro destino e si condensa il senso della nostra vita. «La differenza, l’originalità assoluta di Buzzati — afferma Geno Pampaloni — è la seguente: […] per Buzzati la metafisica è un’etica, è una morale; se il reale e il tempo è spesso menzogna, la verità sta altrove, sta al di là, e cercarla e conoscerla con pazienza e coraggio è la vera moralità dell’uomo»[6].

Cercare la verità altrove: senza perdersi nei meandri dell’inconscio considerandolo fonte di conoscenza essenziale, attenti a scorgere la verità nascosta sia nella realtà quotidiana, sia nel sogno, nella fantasia e nel presentimento di un assolutamente Altro. In merito la Ioli cita tre versi di Alano di Lilla per il quale ogni creatura è un libro: Omnis mundi creatura / quasi liber et pictura / nobis est et speculum, e rimanda al testo paolino: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in maniera imperfetta, ma allora conoscerò perfettamente»[7].

Buzzati ha il dono di percorrere i sentieri della vita e di scorgere segni e voci che a noi sfuggono e che rimandano a qualcos’altro, che sta dietro. «Ogni manifestazione del reale è il segno di qualche cosa che sta dietro, ogni avvenimento ha una controparte ideale. Come un libro non si esaurisce nei segni impressi nelle sue pagine, così la vita umana non si esaurisce nei suoi accadimenti […]. Ciò indica il modo tradizionalmente corretto di leggere il gran libro del mondo. Il simbolo, la metafora […] diventano la realtà, quella non immediatamente visibile e tangibile, e quella da decodificare; e a sua volta la realtà diventa simbolo»[8].

I luoghi del mistero

Ci sono luoghi nei quali, secondo Buzzati, il mistero del mondo si rivela con maggiore intensità: le montagne e il deserto. «Le montagne sono nascoste ma si sentono vicine; sono immobili e solitarie, sprofondate nelle nubi», ora «cariche di notte» ora ammantate di luce; attraggono, ma fanno anche paura. Regno del silenzio, «massimo simbolo della suprema quiete a cui l’uomo è tratto per vocazione e tentazione invincibile»[9]; simbolo anche della trascendenza, dell’immobilità e del bisogno di tendere verso l’alto. Con la montagna, il deserto. Sconfinato regno dell’ignoto, dei miraggi e dei presagi. «Secondo me quello che soprattutto fa impressione nel deserto è il senso dell’attesa. Uno ha la sensazione che debba succedere qualche cosa, da un momento all’altro. Proprio lì, scaturito dalle cose che si vedono»[10]. Che cosa cela l’orizzonte? È un termine o l’inizio di altri spazi? Che cosa, o chi, ci attende laggiù? Quali verità nasconde? Il protagonista di Ombra del Sud racconta di un suo viaggio in Africa; costeggia il deserto senza mai addentrarsi in esso. A Porto Said scorge un uomo, un arabo forse. Mentre lo addita al compagno, l’uomo scompare, ma per riapparire in altre località, in modo enigmatico e insistente. «Non cercava nulla, lo sapevo perfettamente. Di carne ed ossa o miraggio, egli era comparso per me, miracolosamente si era spostato da un capo all’altro della città indigena per ritrovarmi e fui consapevole (per una voce che mi parlava dal fondo) di una oscura complicità che mi legava a quell’essere». Lo strano è che è soltanto lui a vederlo; gli appare e poi svanisce nel nulla. Che cosa vuole? «Non so chi tu sia, se uomo, fantasma, o miraggio, ma temo che ti sia sbagliato. Non sono, ho paura, colui che tu cerchi. La faccenda non è molto chiara ma mi pare di aver capito che tu vorresti condurmi più in là, ogni volta più in là, sempre più al centro, fino alle frontiere del tuo incognito regno […]. Tu vuoi soltanto farmi capire — mi sembra — che il tuo monarca mi aspetta in mezzo al deserto, nel palazzo bianco e meraviglioso, vigilato da leoni, dove cantano fontane incantate […], dove probabilmente sarei felice»[11].

Sarebbe felice perché il deserto rivela verità occulte e incantate meraviglie. Quali non dice. Non dice neanche chi è il monarca che lo attende nel palazzo bianco e meraviglioso, in mezzo al deserto. Le montagne e il deserto, ma anche il bosco e il mare sono luoghi privilegiati del mistero. Esso però, a uno sguardo attento, si rivela in ogni luogo e in ogni circostanza, ora freddo e spietato, ora rasserenante e benefico. Di fronte a quali verità ci mette?

Innanzitutto di fronte al fluire del tempo: mostro che tutto corrode, tutto livella, tutto getta nell’ombra. Corre il tempo. «Il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce che è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento, ma non si ferma mai»[12].

Col passare degli anni la solitudine incalza fino a renderci estranei agli altri e a noi stessi. Estranei e fastidiosi. Gli amici? Non vi conoscono più. Voi vi affannate a cercarli, ma i vostri «passi riecheggiano misteriosi da una casa all’altra dicendo: “Che fai? Che vuoi? Non ti accorgi come tutto è inutile?». I nipoti? Nel racconto La polpetta tre «carissimi ragazzi», stufi di sopportare il vecchio nonno, decidono di avvelenarlo. Gli piacciono le polpette? Bene, ne preparano una al cianuro. «Garantito che la mangerà». Il vecchio scopre l’inganno. Non si ribella, non accusa: «Ciao, ragazzi, ho capito. Me ne andrò senza fare troppo rumore. Graziosi, siete, assomigliate maledettamente a un tipo che esisteva tanti anni fa; e che portava il mio nome. (Per fortuna vostra non sapete. Non sospettate. Poveri figlioli. Neanche il tempo di riderci su. Tra un secolo, o tra un anno, o tra un mese. O tra un giorno. O tra un’ora. Tra un minuto, o meno, sarete esattamente come me. Vecchi. Pensionati. Rugosi, da sbattere nella spazzatura!) […] Seduto allo scrittoio, aiutandomi col tagliacarte d’ottone dorato, comincio a mangiare. E a morire, come desiderate voi, ragazzi cari»[13].

Si allontanano anche i figli, trascinati da altri interessi, da diversa mentalità, da nuovi affetti. Il tempo ci ha consumato; non solo, ci ha anche tradito, sbandierandoci la sottile tentazione dell’attesa. Abbiamo creduto che lo scorrere del tempo fosse la condizione per la concretizzazione di un’attesa di felicità, ma l’attesa è rimasta attesa. Ci siamo così trovati al traguardo della vita con le mani vuote e l’anima spenta.

L’attesa e la morte

Il tema dell’attesa nella poetica buzzatiana è ricorrente. Presentato nelle sue svariate sfaccettature, ha come sfondo comune la delusione, l’inganno e la morte. Esso è sviluppato in molti racconti, ma ne Il deserto dei Tartari ha la sua più piena espressione. È un romanzo che richiama Franz Kafka: azione esteriore ridotta, sfondi grigi e desolati, atmosfere rarefatte, impregnate di sensi reconditi, uomini che giocano col loro destino.

Il tenente Giovanni Drogo è destinato alla Fortezza Bastiani, posta ai margini di una pianura desertica, i cui confini si perdono all’orizzonte. Dal deserto potrebbero giungere i barbari invasori; gli uomini della Fortezza li affronterebbero e annienterebbero, conquistandosi quella gloria che avrebbe aureolato la loro esistenza. «Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno». Passano gli anni, diventano vecchi i fucili, vecchi gli ufficiali, tramonta l’amore, ma l’attesa dell’«ora miracolosa» resta, incatenando Giovanni Drogo alla Fortezza. Proprio quando sembra che i Tartari spuntino davvero dal deserto, Drogo è malato. Entra nella sua camera il comandante e gli dice: «Ho una buona notizia: oggi verrà una magnifica carrozza a prenderti». Prima di raggiungere la sua città, verrà anche la morte a prenderlo, in una squallida locanda.

Questa è la vita? Illusione e inganno? Gioco ironico e funereo? Il finale del romanzo ci orienta verso altre interpretazioni. Quando Drogo si rese conto della prossimità della morte volle affrontarla con dignità. «E subitamente gli antichi terrori caddero, gli incubi si afflosciarono, la morte perse l’agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e conforme a natura. Il maggiore Giovanni Drogo, consunto dalla malattia e dagli anni, povero uomo, fece forza contro l’immenso portale nero e si accorse che i battenti cadevano, aprendo il passo alla luce»[14]. Si entra nella luce — nella vita — attraverso la morte (il portale nero), attraverso cioè il superamento del tempo e delle vane attese. «La “luce” di Buzzati — nota Giovanna Ioli — non è altro che il simbolo di quella fede mai dichiarata, eppure sempre offerta in dono al lettore»[15].

Il tema della morte, in Buzzati, oltre che ricorrente, è ossessivo, quasi un ritornello che scandisce la sua opera, ora in ritmi beffardi e desolati, ora in note aperte a un’ipotesi di speranza ultraterrena. Lo scrittore la scorge dappertutto, accovacciata negli angoli più impensati, gli occhi fissi sui mortali, protesa a ghermirli, incurante di tutto. Talvolta essa è capace anche di misericordia, come avviene nel racconto Il mantello. Il soldato Giovanni torna a casa, accolto con grida di gioia dalla madre e dai fratellini. Pallido e sfinito, fa fatica anche a sorridere. Nonostante il caldo, rifiuta di togliersi il mantello perché deve uscire. Un tale lo aspetta fuori, deve andare con lui. Inutile ogni insistenza. Quando sta per uscire, un fratellino gli solleva un lembo del mantello che scopre una ferita sanguinante. «[…] aprì il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio […]. E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso che mai e poi mai nei secoli sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa. Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato»[16].

Un interrogativo assilla Buzzati: la morte è una fine o un inizio? un uscio che immette in un altro mondo o che sconfina nel nulla? la realizzazione delle nostre speranze o il loro naufragio? Talvolta gli appare come la porta del nulla, altre volte come la rivelazione, sia pure opaca e incerta, di un altro mondo. Ne I due autisti ricorda il trasporto del feretro materno in un lontano cimitero. Durante il tragitto i due autisti del furgone si raccontavano frivolezze, ridevano, con la rabbia in corpo per non potersi fermare alle migliori trattorie. Il figlio si struggeva nel rimorso di non aver assistito la vecchia madre ammalata per assecondare il proprio «schifoso egoismo». Troppo tardi, ora, per rimediare alla sofferenza e alla solitudine della madre. Lei non vede e non sente. Morta e distrutta. «Niente? Proprio niente rimane. Di mia mamma non esiste più nulla? Chissà. Di quando in quando, specialmente nel pomeriggio, se mi trovo solo, provo una sensazione strana. Come se qualcosa entrasse in me che pochi istanti prima non c’era, come se mi abitasse un’essenza indefinibile, non mia eppure immensamente mia, e io non fossi più solo, e ogni mio gesto, ogni parola, avesse come testimone un misterioso spirito. Lei! Ma l’incantesimo dura poco, un’ora e mezzo, non di più. Poi la giornata ricomincia a macinarmi con le sue aride ruote»[17].

L’incantesimo è una rivelazione? Forse, ma la vita con il frastuono delle sue «aride ruote» ci macina. Ci stordisce e aliena. Ci rendiamo così incapaci di comprendere — o almeno di sospettare — che, se il tempo è illusione e menzogna, la verità potrebbe essere altrove, oltre la morte, e che occorre cercarla con pazienza e coraggio. In merito, è sintomatico Il colombre. Narra di uno squalo che quando sceglie la sua vittima la insegue per anni finché non riesce a divorarla. Stefano Roi crede di essere stato scelto come vittima. Ossessionato dalla presenza del mostro, prima si allontana dal mare, poi vi ritorna, deciso ad affrontarlo per il combattimento estremo. Prende il largo e all’improvviso lo squalo emerge di fianco alla barca.

«“Eccomi a te, finalmente”, disse Stefano. “Adesso, a noi due!”. E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l’arpione per colpire. “Uh”, mugolò con voce supplichevole il colombre, “che lunga strada per trovarti. Anch’io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi. E non hai mai capito niente”. “Perché?”, fece Stefano, punto sul vivo. “Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l’incarico di consegnarti questo”. E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente. Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore e pace dell’animo. Ma era ormai troppo tardi. “Ahimè”, disse scuotendo tristemente il capo. “Come tutto è sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua”. “Addio, pover’uomo”, rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre»[18].

Il colombre è metafora della morte; meglio, è un messaggero della morte; ciò che esso ci porta o ci annuncia non è l’annientamento, è la felicità. Noi non lo sappiamo e sciupiamo la vita in fughe inutili e in sterili paure.

Pietà per l’uomo

Stordito com’è dal frastuono e dai miraggi della vita, l’uomo raramente riesce a percepire l’annuncio del cielo e resta prigioniero dell’illusione, della paura e degli eventi. Descrivendo questa prigionia, Buzzati avverte sentimenti di pietà. Pietà per Giuseppe Corte che si nutre di illusioni fino alla morte, e quando questa sopraggiunge si accorge che «le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce»[19]. Pietà per la ragazza che, «la testa eretta, cammina fieramente […]. Tutta la sua vita sembra concentrarsi nella volontà di avanzare. Ma dove? […] Si direbbe che lei […] sappia dove porti la via — dopo brevi finti splendori trovarsi malata, sfinita e sola in mezzo all’avidità del mondo — ma ugualmente avanzi imperterrita, giocando per una bizza di donna l’intera vita»[20]. Pietà per noi stessi. «Che cosa sei, creatura mia? Un grazioso granellino di polvere sperduto nell’universo»[21]. Pietà per la signora Maria che, pur nell’imminenza del crollo della villa, si ostina a non voler credere alla catastrofe. Unica sua preoccupazione è conservare intatta la maschera mondana e salvo il suo raffinato fascino, anche quando gli spiriti dell’altro mondo battono alla porta e annunciano l’arrivo della morte[22].

Tutti gli scrittori percepiscono la sostanziale limitatezza e miseria dell’uomo, e assumono dinanzi ad esse atteggiamenti diversi: chi si ribella proclamando l’assurdo, chi si rassegna passivamente, chi tenta impossibili superamenti. In merito, F. Gianfranceschi istituisce un confronto tra Kafka e Buzzati: «Mentre Kafka è l’uomo dell’angoscia totale, perennemente perseguitato e perennemente in stato di accusa di fronte a un misterioso tribunale, Buzzati è anche l’uomo della pietà e della speranza di riscatto, dell’amore e della sincera partecipazione alla vita in tutte le sue manifestazioni. Mentre Kafka è chiuso nel suo bossolo di dolore, nel suo mondo di sofferenza ineluttabile, Buzzati si apre alla comprensione del prossimo, all’intuizione del numinoso. Insomma, ciò che diversifica i due autori è la sottile linea di separazione fra la tradizione ebraica e il completamento cristiano»[23].

Anche Un amore è percorso dal sentimento della pietà. È la storia grigia, insistita, narrata con crudo realismo, dell’amore del cinquantenne architetto Antonio Dorigo per una ragazza-squillo quindicenne, di nome Laide. Storia d’amore? Più esatto è dire storia di passione cieca, di schiavitù erotica, d’infatuazione degradante. Antonio sa che lei non lo ama, che lo tradisce, lo sfrutta, lo umilia, lo usa, ma una forza misteriosa, annidata nel suo profondo, gli impedisce di comportarsi con ragionevolezza e dignità. Pensa che sia la forza dell’amore, che domina e trasfigura la vita, che resisterle è impossibile poiché vivere è amare.

Dell’amore però non riesce a comprendere il vero significato; lo inventa con la sua mente malata. In tal modo viene a trovarsi in balìa delle forze oscure del suo io. La conseguenza è fatale. Laide diventa, per lui, il caos che lo attira e annienta, il veleno che gli brucia i visceri ma di cui non sa fare a meno, l’abisso in cui si è dovuto buttare per scoprirne i segreti, l’incanto, l’orrore. Si è dovuto buttare? Preferibile credere che sia stato in esso buttato da un «disperato e drammatico vento» che gli ha obnubilato la mente. Questo è l’amore? Una maledizione che piomba addosso e resistere non è possibile? La storia di Dorigo si conclude con la riscoperta della morte. «Nella notte si guarda intorno. Dio che cos’è quella torre grande e nera che sovrasta? La vecchia torre che gli era rimasta sempre sprofondata nell’animo da quando era ragazzo. Della terribile torre però poco fa, nel turbine, si era completamente dimenticato, la velocità e il precipizio gli avevano fatto dimenticare l’esistenza della grande torre inesorabile nera. Come aveva potuto dimenticare una cosa così importante, la più importante di tutte le cose? Adesso era là di nuovo, si ergeva terribile e misteriosa come sempre, anzi sembrava alquanto più grande e più vicina. Per quasi due anni non ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola, proprio lui che ne aveva sempre avuto l’ossessione nel sangue. Tanta era la forza dell’amore. E adesso all’improvviso gli era ricomparsa dinanzi, dominava lui la casa il quartiere la città del mondo con la sua ombra e avanzava lentamente»[24].

E Laide? Nell’ultima pagina del libro Dorigo la vede, per un attimo, che «sta al di sopra di tutti, è la cosa più bella, preziosa e importante della terra». Gli ha confidato di attendere una bambina. «Eccola dunque la ragazzina tremenda e senza cuore che doveva portarlo alla rovina. Che cosa le è successo? Chi l’ha cambiata? Che cosa le ha fatto nascere quel desiderio così diverso dal frastuono dei nights e dagli amori a pagamento?». In lei non ci sono soltanto i germi della corruzione; «trasmessi per recondite vie da antiche vene di sangue, in lei stavano nel fondo dell’animo i desideri per le gioie semplici ed eterne, domestiche, rassicuranti, banali forse, che sono il sale della terra».

Chi è Dio?

In Buzzati il termine «Dio» ricorre con frequenza e con diverse accezioni: semplice esclamazione, espressione di stupore, invocazione di aiuto, riferimento al mistero che ci avvolge, denominazione di un ipotetico essere trascendente, ignoto e fascinoso. Capita anche che il termine rifletta un genuino bisogno di fede, intesa come salvezza dalla solitudine e dalla morte. Esaminiamone alcuni.

«I Santi hanno ciascuno una casetta lungo la riva con un balcone che guarda l’oceano, e quell’oceano è Dio. D’estate, quando fa caldo, per refrigerio essi si tuffano nelle fresche acque, e quelle acque sono Dio»[25]. Così inizia il racconto I Santi che mette in scena due santi: Gancillo, poco venerato e quasi sconosciuto, e Marcolino, universalmente invocato. Un bel giorno Marcolino si reca a visitare Gancillo, quasi per giustificarsi. «Vedi? Io sono un tipaccio, eppure mi assediano dalla mattina alla sera. Tu sei molto più santo di me, eppure tutti ti trascurano. Bisogna aver pazienza, fratello mio, con questo mondaccio cane». Gioia dell’incontro, e invito a cenare insieme. In attesa che la pentola bolla, siedono sulla panca, scaldandosi e chiacchierando. «Dal camino cominciò a uscire una sottile colonna di fumo, e anche quel fumo era Dio». Chi è Dio? La felicità dell’Eden? La bellezza e la bontà della natura? La gioia dell’amicizia e della fraternità? L’anima del mondo?

Forse Dio è la salvezza dalla solitudine. «Isole solitarie siamo, seminate nell’oceano, e immenso spazio le separa». Gettarci a nuoto per raggiungere altre isole? Follia. Ci troveremo stanchi, gelati e tristi nel gregge infinito delle onde, senza più forze per ritornare. «Tutto inutile dunque? Tentiamo, tentiamo. Laggiù all’orizzonte sulle acque amare, deserte, naviga certe sere Dio con una sua barchetta, invisibile passerà accanto a te che nuoti disperato (può darsi benissimo) e ti toccherà con la sua mano»[26].

Certamente Dio non è proprietà dei «galantuomini», di quanti cioè non conoscono il male e il peccato. Il disco si posò racconta di due marziani che fermano il loro disco volante sul tetto di una chiesa e sono invitati dal parroco a entrare nella sua camera e a dichiararsi. Di noi — dicono — sanno tutto; soltanto non riescono a capire che cosa siano quelle croci, disseminate dappertutto. Il parroco, Bibbia alla mano, spiega la creazione, l’Eden, il peccato, la redenzione. Ha la percezione che quei due appartengano a gente che non conosce il peccato: pura, come gli angeli del cielo. Quando uno dei due chiede se la morte del Figlio di Dio sia servita a qualche cosa, don Pietro — il parroco — «si limita a fare un gesto con la destra, sconsolato, come per dire: che vuoi? siamo fatti così, peccatori siamo, poveri vermi peccatori che hanno bisogno della pietà di Dio. E qui cadde in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani». Quando i marziani se ne vanno, così brontola: «Oh, poveretti […]. Voi non avete il peccato originale con tutte le sue complicazioni. Galantuomini, sapienti, incensurati. Il demonio non lo avete mai incontrato. Quando però scende la sera, vorrei sapere come vi sentite! Maledettamente soli, presumo, morti di inutilità e di tedio […]. Oh, Dio preferisce noi di certo. Meglio dei porci come noi, dopo tutto, avidi, turpi, mentitori, piuttosto che quei primi della classe che mai gli rivolgono la parola. Che soddisfazione può avere Dio da gente simile? E che significa la vita se non c’è il male, e il rimorso, e il pianto?»[27].

Dio? Forse è «uno che ti aspetta», per renderti felice, per toglierti ogni pena, liberarti dalla fatica, dall’odio e dagli spaventi della notte. «Ma tu, uomo, non sai. Continui qui a stentare la vita, ti intristisci, le prime rughe si sono formate sul volto, ti lasci ormai portare via dagli anni». Dove ti aspetta? Forse in qualche lontana terra d’Oriente? Ma no. Forse in una delle nostre città, forse tra le mura della tua stessa casa, forse è di là dalla porta, nella stanza accanto. «Se ne sta quieto ad aspettarti, non parla, non tossisce, non si muove, non fa nulla per richiamare l’attenzione. A te scoprirlo. Ma tu, uomo, non ti alzi nemmeno, non apri la porta, non accendi la luce, non guardi. Oppure, se vai, non lo vedi. Egli siede in un angolo, tenendo nella destra un piccolo scettro di cristallo, e ti sorride. Però tu non lo vedi. Deluso, spegni, sbatti la porta, torni di là, scuoti il capo infastidito da queste nostre assurde insinuazioni: fra poco avrai dimenticato tutto. E così sprechi la vita»[28].

Dio non fa nulla per richiamare la tua attenzione? Sembrerebbe. In realtà non è così. In una stupefacente nota, dopo aver ringraziato Dio per le meraviglie della creazione, Buzzati così prosegue:

«Ringrazio anche per le innumerevoli paure, delusioni, penose attese, malattie, di avermi insomma evitato la possibilità di essere felice allo scopo che l’esistenza a poco a poco mi appaia sempre più ingrata; e che io impari a lasciarla senza eccessivi rimpianti.

«Meravigliosa sollecitudine! Tutto è stato studiato in modo — catena sterminata di tragedie, di viltà, di scelleratezze, di mortali indifferenze — in modo che a poco a poco questa casa mi piaccia un po’ meno. E io cominci invece a desiderarne un’altra, precisamente quella che mi aspetta, forse.

«[…] Tutto e tutti intorno a me, fissandomi negli occhi, senza mai lasciar prevalere la mia astuzia avidissima, mi additano col loro esempio la vanità delle cose, o mi fanno cadere perché io senta come è ruvida la terra; con pazienza infinita disfano, via via che le tento, le trame della mia attesa. Non basta, vi dico. Cieco, io rialzo ogni volta la testa spregiando tanta sapienza che dilaga nell’universo.

«Ogni mattino ricomincio, stupidamente mi accingo a godere questo palazzo misterioso. Il coro giornaliero di pene, di singhiozzi e di morti mi minaccia invano. Io non voglio capire. L’ospite sorridendo non si stanca di additarmi la porta, invitandomi a guardare più in là, verso il regno felice. Ma io stupido mi ostino, resto seduto a giocherellare, aspettando, trastullandomi con delle pietruzze. Incaponito, me ne sto fermo, e trasalgo a ogni scricchiolio, nella solitudine del giardino»[29].

Se non ne conoscessimo l’autore, verrebbe da pensare che questa pagina sia stata scritta da un padre del deserto o da un asceta del Medioevo. E invero talune pagine di Buzzati, quando descrivono la miseria della vita e l’anelito alla liberazione, hanno sapore ascetico. Soltanto manca in esse il conforto della Grazia e la gioiosa consapevolezza della speranza cristiana.

Come conclusione riportiamo due testi nei quali Buzzati esprime il suo atteggiamento dinanzi alla religione. In un’intervista a Yves Panafieu, pochi mesi prima della morte, così si espresse: «Rimpiango di non avere la fede… Vorrei credere in Dio… Perché la fede in Dio (non dico nel Dio cattolico, ma in qualsiasi Dio) è una tale forza che ti cambia la vita! Non pretendo che ti possa fare felice, ma ti può fare assolutamente sereno di fronte a qualsiasi avversità… Quindi, questa nostalgia io ce l’ho! E chi è che può non averla?… Però io non credo più nel Dio che mi hanno insegnato, perché è una cosa assurda, crudele e ingiusta…»[30]. Non credeva — come anche noi non crediamo — nel Dio che punisce, nel Dio della legge ferrea, nel Dio freddo e lontano, dei filosofi e dei giansenisti. Il secondo testo è tratto dal suo libro più rivelatore In quel preciso momento: «Dio, pazientissimo, giorno e notte c’insegue, dove meno si pensa ci attende all’agguato, non ha bisogno di croci o di altari, anche nei vestiboli di marmo sterilizzato che non si possono nominare egli viene a tentarci proponendoci la salvezza dell’anima»[31]. Questi testi non definiscono un credente, ma uno spirito aperto alla fede che, a tentoni, cerca Dio perché ne percepisce l’esistenza e la presenza.

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Riproduzione riservata

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[1] In Corriere della Sera, 21 marzo 1951.

[2] G. IOLI, Dino Buzzati, Milano, Mursia, 1988, 56. Segnaliamo questo volume della Ioli per acutezza di analisi e completezza di apparato critico.

[3] G. PULLINI, Il romanzo italiano del dopoguerra, Milano, Schwarz, 1961, 347.

[4] Cfr F. GIANFRANCESCHI, «Buzzati: la sua religiosità e i suoi critici», in A. FONTANELLA (ed.), Dino Buzzati. Atti del Convegno internazionale di Venezia, 3-4 novembre 1980, Firenze, Olschki, 1982, 75.

[5] Cfr D. PORZIO, «L’interpretazione religiosa nell’opera di Dino Buzzati», ivi, 68.

[6] G. PAMPALONI, «Lo scrittore», in Omaggio a Dino Buzzati. Atti del Convegno di Cortina d’Ampezzo, 18-24 agosto 1975, Milano, Mondadori, 1977, 61.

[7] G. IOLI, Dino Buzzati, cit., 34, e nota 94 (p. 62). Il testo paolino è in 1 Cor 13,12.

[8] G. GIANFRANCESCHI, Dino Buzzati, Torino, Borla, 1967, 150.

[9] D. BUZZATI, Barnabo dalle montagne, Milano, Mondadori, 1992, 99.

[10] Dino Buzzati: un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu, ivi, 1973, 48.

[11] D. BUZZATI, «Ombra del Sud», in I sette messaggeri, ivi, 1942, 74 s.

[12] ID., Il deserto dei Tartari, ivi, 1983, 216 s.

[13] ID., Le notti difficili, ivi, 1993, 169.

[14] ID., Il deserto dei Tartari, cit., 254.

[15] G. IOLI, Dino Buzzati, cit., 149.

[16] D. BUZZATI, «Il mantello», in ID., La boutique del mistero, Milano, Mondadori, 1968, 70 (edizione fuori commercio per i lettori de «Il Sabato»).

[17] Ivi, 223.

[18] Ivi, 176.

[19] Ivi, 52.

[20] ID., In quel preciso momento, Venezia, Pozza, 1955, 17.

[21] Ivi, 35.

[22] ID., «Eppure battono alla porta», in ID., La boutique del mistero, cit., 53-65.

[23] F. GIANFRANCESCHI, Dino Buzzati, cit., 137.

[24] D. BUZZATI, Un amore, Milano, Mondadori, 1963, 344.

[25] ID., La boutique del mistero, cit., 150-154.

[26] ID., In quel preciso momento, cit., 36.

[27] ID., La boutique del mistero, cit., 142.

[28] ID., In quel preciso momento, cit., 74.

[29] Ivi, 23 s.

[30] Il testo riferisce un passaggio dell’intervista di Buzzati a Yves Panafieu. Lo riporta Pietro Biaggi in Avvenire del 24 gennaio 2002. P. Biaggi è autore dell’interessante volumetto Buzzati. I luoghi del mistero (Padova, Messaggero, 2001).

[31] ID., In quel preciso momento, cit., 158.

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FERDINANDO CASTELLI

sabato 29 gennaio 2022

le persone che brillano

 le persone che brillano

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C'è una leggenda che racconta di un serpente che inseguiva una lucciola per divorarla.
Il piccolo insetto faceva l'impossibile per fuggire dal serpente.
Per giorni fu una persecuzione intensa. Dopo un po' di tempo, la lucciola stanca ed esausta si fermò e disse al serpente:
Posso farti tre domande?
Il serpente le rispose: - "Non sono abituato a rispondere a nessuno però siccome ti devo mangiare, puoi chiedere!" -
- "Domanda numero 1: appartengo alla tua catena alimentare?" - chiese la lucciola.
"- No!" - rispose il serpente.
- "Domanda numero 2: Ti ho fatto qualcosa di male?" - disse la lucciola
- "No, assolutamente!" - Tornò a rispondere il serpente.
"Domanda numero 3: E allora.... perché vuoi mangiarmi?"
- "Perché non sopporto vederti brillare!"
Morale: In varie occasioni può capitare di incontrare persone che ti criticano,
condannano, etichettano, sebbene tu non abbia mai fatto loro qualcosa di male,
e malgrado tu ti sia dimostrato gentile con loro. E tutto ciò avviene perché,
così come la lucciola, possiedi la tua luce interiore, illumini il tuo cammino
e il cammino di molti che camminano nell'oscurità. Brilli più degli altri,
come fa la lucciola di notte e questo è difficile da sopportare per alcune persone,
perché non hanno quella luce interiore, quel brillìo proprio e soffrono vedendoti brillare.
Sono persone che vivono nell'infelicità. Tu non smettere mai di essere te stesso,
di illuminare con quella tua luce, anche se questo dà fastidio a coloro che vivono nella totale penombra.
“I serpenti che mangiano le lucciole non capiscono che poi rimangono al buio per sempre.


 Sònja

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C'era un'altra domanda alla quale non sapeva rispondere:

perché tutti avevano imparato a voler bene a Sònja? Lei non

cercava di ingraziarseli; la incontravano di rado: solo quando

andava sui posti di lavoro per incontrarsi con lui.

Eppure tutti la conoscevano, sapevano che lei lo aveva seguito,

sapevano come viveva e dove viveva. Lei non regalava soldi a

nessuno, non faceva a nessuno piaceri di particolare rilievo.

Solo una volta, a Natale, aveva portato in dono a tutti i

carcerati dei panini bianchi e delle pagnottine dolci. Ma a poco

a poco, tra Sònja e i forzati si erano stabiliti dei rapporti più

stretti: lei scriveva per loro le lettere ai parenti e le portava alla

posta. E i parenti, arrivando in città, consegnavano a Sònja, su

consiglio degli stessi reclusi, oggetti e perfino denaro. Le loro

mogli e le loro amanti la conoscevano e la frequentavano. E

quando Sònja compariva sui posti di lavoro, per far visita a

Raskòlnikov, o incontrava un gruppo di detenuti che andavano

al lavoro, tutti si levavano il berretto, tutti la salutavano:

 «Màtuška, Sòfja Semënovna, sei la nostra mammina, dolce e

brava!» dicevano quei rozzi, incalliti forzati alla piccola e

gracile creatura. Lei sorrideva, rispondendo al loro saluto, e a

loro piaceva molto vedere il suo sorriso. Piaceva loro perfino

l'andatura di Sònja; si voltavano a guardarla camminare, e la

lodavano; la lodavano perfino perché era così piccola: proprio

non sapevano più per che cosa lodarla. Andavano da lei perfino

per farsi curare qualche malanno.

DOSTOEVSKIJ Delitto e Castigo