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mercoledì 30 maggio 2018

Vivere nel socialismo dell'armonia

 Ho fatto un sogno

***




di Zygmunt Bauman



  Vivere nel socialismo dell'armonia


Guardo il mondo globalizzato. È pieno di uomini costantemente in cerca di qualcosa d'altro. Sembra che corrano e invece sono fermi, in una condizione di angosciante staticità. Credono di intercettare, di interpretare il cambiamento. Stanno bene solo quando arrivano prima degli altri, e questo indipendentemente da quale sia la meta. Ma pensiamoci un attimo: in realtà non progrediscono mai. Inseguono qualcosa che è fuori da sé, un modello che non esiste e che non possono raggiungere, perché non ha radici nella propria identità: un nuovo taglio o un nuovo colore di capelli, una nuova macchina, un nuovo lavoro, un nuovo corpo, una casa nuova. Una volta conquistati, sono già vecchi. E la corsa non finisce mai. È un movimento circolare, un falso progresso che non produce nulla, perché non poggia su nulla. Il risultato è il trionfo dell'individualismo, che ha generato relazioni interpersonali in frantumi, rituali religiosi ridotti a parate carnascialesche. Un polverone di contraddizioni. Crescono l'ansia, la paura, l'inquietudine, e nascono dalla consapevolezza dell'impermanenza. Il disagio è capillare, diffuso. Le ragioni di questa crisi sono varie. Troppo lungo e difficile enumerarle tutte insieme. Certamente, la fisionomia effimera che ha assunto il mondo ha spiazzato tutti quanti. La velocità di cambiamento che investe l'economia e informa di sé ogni aspetto della realtà ha creato nella gente una condizione di continua incertezza, il terrore di essere sempre colti alla sprovvista e di rimanere indietro. È il trionfo della società liquida. "Una società - ho scritto nel mio ultimo libro 
( Bauman, La vita liquida, Laterza, 2006, ndr) - può essere definita liquido-moderna se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. La vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma, o di tenersi in rotta a lungo". Mi accorgo che siamo di fronte al declino dell'Occidente, del suo senso di competitività esasperato, del suo liberismo selvaggio, del suo progressivo ridimensionamento delle strutture sociali. E penso che il mito del cambiamento e della velocità, che pure ha causato una crisi di valori senza precedenti, porta con sé gli anticorpi che serviranno a ricomporre il mondo. Sono un ottimista e credo che proprio adesso ci sia spazio per una rivoluzione in cui la sociologia si riapproprierà di un ruolo centrale: guidare chi sta cercando una nuova morale. L'individualismo, il culto di se stessi, la ricerca esasperata della felicità sono le ragioni della crisi, ma insieme offrono opportunità straordinarie. L'idea che l'altro è solo un oggetto funzionale alla nostra auto-realizzazione andrà in frantumi. Tutto questo inseguire la realizzazione dell'io ci ha alienati ma anche responsabilizzati. E a questa nuova consapevolezza della responsabilità individuale, che pian piano stiamo introiettando, potrà nascere una nuova morale, adatta ai nostri tempi. Il mio collega britannico Anthony Giddens ha cercato di tratteggiare un possibile percorso di rinnovamento etico e spirituale. E per primo ha parlato di relazioni pure, non più cioè contraddistinte da rapporti gerarchici e da patti di convenienza, ma basate sul rispetto reciproco e su una comunicazione emozionale. È un ragionamento che lui ha applicato alla famiglia, ma che vale anche per la società nel suo complesso. Una comunità che insegue il culto dell'io è decadente, ma è anche capace di valorizzare una consapevolezza nuova, e di notevole portata etica. Se io sono il fine, sono anche il mezzo, lo strumento del cambiamento. Ecco, il mio sogno è che tutto ciò pian piano si strutturi nella mente. Nelle aspirazioni di ognuno di noi. Siamo chiamati in causa tutti quanti. Oggi più che mai è importante capire che la frammentarietà della realtà ha una potenza creativa di notevole portata. Fin qui è accaduto che, abbattuti dogmi e valori, piuttosto che liberarci ci siamo conformati a modelli culturali da spot. L'individualismo è stata una falsa liberazione: ha solo alimentato il conformismo. Ma, partendo da questo individualismo, potremo abbattere il conformismo. Bisogna solo agganciare e sviluppare in senso positivo il culto della responsabilità individuale. Ecco perché credo che ancora oggi si debba lavorare per dar vita a un nuovo socialismo. Non quello delle dittature, certamente, ma quello che traccia le linee guida di una società eticamente sana. Contro il consumismo ossessivo, i legami fragili e mutevoli, lo stress e la paura che tutto ciò genera, c'è l'antidoto. Proviamo a riflettere su un concetto semplice: la globalizzazione ci ha alienati ma ci ha fornito anche conoscenze fino a qualche anno fa insospettabili. E la conoscenza è di per se stessa libertà. Le nostre possibilità di scelta sono cresciute a dismisura. Adesso tocca capitalizzare questa libertà: invece di uniformarci a comportamenti sociali stereotipati abbiamo tutte le carte in regola per trovare una morale fatta di solidarietà e capacità di comprendere che ciascuno gioca un ruolo insostituibile. Il meccanismo della delega a autorità sociali e religiose altre, da noi è crollato? Bene, fatta tabula rasa di tutto ciò, possiamo dare alla modernità una valenza positiva. Non sta nei diktat eterodiretti la nostra possibilità di riscatto, né in una religiosità da hooligans, capaci di dichiararsi cristiani e devoti di Giovanni Paolo II e anche di uccidere, ma in un nuovo socialismo. Abbiamo inseguito il mito dell'io. Non
 dimentichiamo che la portata etica di una società si misura nella sua capacità di offrire a tutti pari opportunità di scelta e pari libertà, di proteggere i deboli, gli emarginati. Io ce l'ho un sogno, è quello di perseguire l'ideale rinascimentale di armonia. Per Leon Battista Alberti la bellezza era strettamente connessa all'equilibrio fra le parti. La centralità dell'individuo è una risorsa. Felicità non è correre e poi fermarsi di botto. Ma saper star fermi, progredire, lentamente, consapevolmente. È una felicità solo all'apparenza più difficile da perseguire. In realtà sta lì, alla nostra portata. E riguarda tutti.

sabato 26 maggio 2018

Quella carezza 
del Nazareno
*** 

"La "carezza del Nazareno" è quella che si augura chiunque consideri la vita importante, sempre. 
Può sembrare retorica ma non lo è. Voglio che sia chiaro: quando ho parlato di Cristo e di Eluana non era una battuta, ma esprimevo convinzioni veramente intime, come faccio di rado e come sto facendo ora. 
Ho cercato di descrivere quello che penso e che provo di fronte alla sofferenza e alla morte. Perché io non sono mai stato ateo". 

"Quando diciamo al Signore: «Se sapevi che sarei finito così, limitato e sofferente, non mi dovevi creare», stiamo rivolgendoci a Lui. Del resto, qualcuno disse che non c'è persona più credente di chi insiste di non capire il significato della fede" .

Enzo Jannacci lo ha  capito?
"Sì, leggendo la Bibbia e i Vangeli; ovviamente, è una ricerca che continua. Dopo il caso Eluana sono stato alla Biblioteca Vaticana. Volevo approfondire la conoscenza di fatti sui quali subisco una costante dialettica interna. Ho un gran bisogno di proseguire questa ricerca e non perché prima fossi ateo; semmai, da giovane ero stupito di queste cose, un po' come Einstein era stupito di fronte alle sue stesse scoperte: dentro di me c'era il seme di questa fede ma come per il talento musicale quel seme bisogna alimentarlo. 
Uno non nasce con la fede dentro, in qualche interstizio della propria anima o dell'ipotalamo. Quando ha la fortuna di riconoscerla e di alimentarla, prova le stesse situazioni emotive dell'amore, vede la luce attraverso uno spettro diverso, ha voglia di parlare con gli altri, di cantare; sì, di cantare come ho fatto io la scorsa settimana, in auto, a squarciagola. Quando parlo con un prete, o con i miei familiari, che sono molto attenti a queste problematiche, sento dentro di me qualcosa di molto speciale".

Come definirebbe quello che le sta capitando?
"Sto vivendo una maturazione del mio credo religioso. Vado avanti con i piedi di piombo, anche se non potrei permettermelo perché non ho tanti anni davanti. Sento di non avere più il tempo per occuparmi di cose troppo terrene; ora guardo al cielo, all'interscambiabilità degli spazi, dove andiamo a picchiare tutti prima o poi. Anche se ho scoperto di avere meno paura dell'eterno".

Cosa fa paura oggi al medico, all'artista, insomma all'uomo Jannacci?
"Questa gloriosa indifferenza che ci circonda e che mio padre aborriva. Era l'opposto di quello che mi insegnava, l'altruismo. Una gloriosa indifferenza che è così comoda, un egoismo ricco, per il quale va tutto bene, anche ribaltare i clandestini in mare: invece, come ho detto nel caso di Eluana, una vita va salvata sempre, prima la si accoglie e la si rianima e poi magari si gioca con il diritto internazionale per il rimpatrio. 
Come medico, io dico che la vita - passatemi l'espressione - è una condanna a morte: è inevitabile, sono stato per anni intorno ai letti della terapia intensiva e dei reparti di rianimazione per averne un'idea diversa, ma sempre come medico e come uomo dico anche che salvare una vita è come salvare il mondo. E allora prima viene la vita, prima si corre, si salva l'esistenza della gente poi si analizzano i meccanismi dell'asilo politico, dell'immigrazione, ecc. Prima si fa ribattere il cuore, tirandoli fuori dall'acqua. Certo, è difficile amare il prossimo, ancor più difficile amarlo come se stessi. Ma è la via per arrivare a Dio". 

Al Meeting qualcuno potrebbe parlarle dell'incontro con Cristo. L'ha mai provato?
"Ho visto la sua carezza e, per quanto mi riguarda, ho visto Gesù. 
Ero piccolo, mi trovavo su un tram, c'era un signore che era talmente stanco che il braccio gli cadeva, una, due, tre volte. Portava gli occhiali, di quelli da vista, ma da povero, di quelli che non sono stati valutati da un oculista e neanche un ottico. Un povero operaio stanco. Gli caddero quegli occhiali e non sapevo se raccoglierglieli o meno, così nell'esitazione sono andato oltre, attratto dal tranviere che era alla guida. Quando mi sono girato quell'uomo aveva di nuovo gli occhiali ed era sveglio. Insomma, aveva un'altra faccia, come se avesse ricevuto una carezza, rincuorato. Amo credere che sia stato Lui. Altri penseranno diversamente, ma io ci credo molto. Lo cerco, parlo con Dio e non ho bisogno di dirgli nulla perché sa già cosa faccio e cosa farò, dove finirò... sa già tutto". 

"Anche nella mia ricerca religiosa vedo il dolore del Nazareno, la tremenda sofferenza e la sua fatica prima della crocifissione, sotto quella croce enorme che viene messa addosso a uno scheletro, perché quando va verso il Golgota è ridotto così, il Nazareno. Mi sembra quasi che la crocifissione divenga una liberazione dal male, da tutti i mali". 

"Jannacci: così ho visto la carezza del Nazareno", 
Paolo Viana, "Avvenire", mercoledì 26 agosto 2009

sabato 19 maggio 2018

AL CONTE CARLO PEPOLI

 AL CONTE CARLO PEPOLI
***

Questo affannoso e travagliato sonno
Che noi vita nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di che speranze il core
Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
O gioconde o moleste opre dispensi
L'ozio che ti lasciàr gli o la vita,
Se quell'oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all'intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi
Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,
Se oziosa dirai, da che sua vita
E' per campar la vita, e per se sola
La vita all'uom non ha pregio nessuno,
Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
Sudar nelle officine, ozio le vegghie
Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;
E il mercatante avaro in ozio vive:
Che non a se, non ad altrui, la bella
Felicità, cui solo agogna e cerca
La natura mortal, veruno acquista
Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Pure all'aspro desire onde i mortali


Già sempre infin dal dì che il mondo nacque
D'esser beati sospiraro indarno,
Di medicina in loco apparecchiate
Nella vita infelice avea natura
Necessità diverse, a cui non senza
Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
Poi che lieto non può, corresse il giorno
All'umana famiglia; onde agitato
E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Così de' bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,
Nè men vano che a noi, vive nel petto
Desio d'esser beati; a quello intenta
Che a lor vita è mestier, di noi men tristo

Condur si scopre e men gravoso il tempo,
Nè la lentezza accagionar dell'ore.
Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano
Provveder commettiamo, una più grave
Necessità, cui provveder non puote
Altri che noi, già senza tedio e pena
Non adempiam: necessitate, io dico,
Di consumar la vita: improba, invitta
Necessità, cui non tesoro accolto,
Non di greggi dovizia, o pingui campi,
Non aula puote e non purpureo manto
Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno
I vóti anni prendendo, e la superna
Luce odiando, l'omicida mano,
I tardi fati a prevenir condotto,
In se stesso non torce; al duro morso
Della brama insanabile che invano
Felicità richiede, esso da tutti
Lati cercando, mille inefficaci
Medicine procaccia, onde quell'una
Cui natura apprestò, mal si compensa.
Lui delle vesti e delle chiome il culto
E degli atti e dei passi, e i vani studi
Di cocchi e di cavalli, e le frequenti
Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
Lui giochi e cene e invidiate danze
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
Nell'imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote
Vigor di giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante,
Di due nere pupille, il caro sguardo,
La più degna del ciel cosa mortale.

Altri, quasi a fuggir volto la trista
Umana sorte, in cangiar terre e climi
L'età spendendo, e mari e poggi errando,
Tutto l'orbe trascorre, ogni confine
Degli spazi che all'uom negl'infiniti
Campi del tutto la natura aperse,
Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside
Su l'alte prue la negra cura, e sotto
Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
Felicità, vive tristezza e regna.

Havvi chi le crudeli opre di marte
Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno
Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
Chi d'altrui danni si conforta, e pensa
Con far misero altrui far se men tristo,
Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
E chi virtute o sapienza ed arti
Perseguitando; e chi la propria gente
Conculcando e l'estrane, o di remoti
Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,
La destinata sua vita consuma.

Te più mite desio, cura più dolce
Regge nel fior di gioventù, nel bello
April degli anni, altrui giocondo e primo
Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
A chi patria non ha. Te punge e move
Studio de' carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel che più benigna
Di natura e del ciel, fecondamente
A noi la vaga fantasia produce
E il nostro proprio error. Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d'anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
Che nella ferma e nella stanca etade,
Così come solea nell'età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva. A te conceda
Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo
La favilla che il petto oggi ti scalda,
Di poesia canuto amante. Io tutti
Della prima stagione i dolci inganni
Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
Amai, che sempre infino all'ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, nè degli aprichi
Campi il sereno e solitario riso,
Nè degli augelli mattutini il canto
Di primavera, nè per colli e piagge
Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d'arte,
Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch'io riponga
L'ingrato avanzò della ferrea vita,
Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell'eterne cose; a che prodotta,
A che d'affanni e di miserie carca
L'umana stirpe; a quale ultimo intento
Lei spinga il fato e la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti o giovi:
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi, io d'ammirar sono pago.

In questo specolar gli ozi traendo
Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti il vero. E se del vero
Ragionando talor, fieno alle genti
O mal grati i miei detti o non intesi,
Non mi dorrò, che già del tutto il vago
Desio di gloria antico in me fia spento:
Vana Diva non pur, ma di fortuna
E del fato e d'amor, Diva più  cieca. 

G. LEOPARDI

martedì 15 maggio 2018

Il vero Amore

Il vero Amore
***
«Ieri mia madre mi ha detto: “Ho avuto un solo uomo, tuo padre”. All’improvviso si sono sgretolati anni e anni di liberazione sessuale, di convincimenti libertari, di mentalità radicale. Tutto quel che avevo creduto una conquista civile si è ridimensionato di fronte a quella semplice affermazione: “Ho avuto un solo uomo, tuo padre”. Sono stato messo di fronte alla debolezza di ciò che credevo essere la modernità, con la forza di chi afferma un principio antico, senza la consapevolezza di essere, lei sì, la vera rivoluzionaria. Mi sono domandato: sono più avanti io che ho vissuto e teorizzato il rifiuto del matrimonio, l’amore libero e i rapporti aperti o lei che per una vita intera è rimasta fedele ad un solo uomo? Senza essere Gesù Cristo mi sono sentito il figlio di Dio e mia madre mi è apparsa come la Madonna: in modo naturale, come se fosse la più ovvia delle cose, lei ha impostato tutta la sua vita su concetti che oggi ci appaiono sorpassati, ridicoli: la felicità, l’onestà, il rispetto, l’amore. Mentre penso che non c’è mai stata in lei ombra di rivendicazioni nei confronti del potere maschile mi rendo conto che non esiste nessuno più autonomo di lei. Nessun senso di inferiorità l’ha mai sfiorata, perché le fondamenta della sua indipendenza erano state scavate nei terreni profondi della dirittura morale, della lealtà, della giustizia, dell’onore e non sulla superficie di ciò che si è abituati a considerare politicamente corretto. Il rispetto e la timidezza con cui guardava mio padre e l’educazione che mi ha dato a rispettarlo non avevano niente a che vedere con le rivendicazioni dei piatti da lavare.
Mia madre non si è mai sentita inferiore perché ci serviva in tavola un piatto cucinato per il piacere di accontentarci e di farci piacere; o perché lavava e stirava per farci uscire “sempre in ordine”. Sono consapevole che sto esaltando il silenzio e quella che le femministe hanno drasticamente definito sottomissione. Ma non posso fare a meno di interrogarmi sui veri e falsi traguardi dell’emancipazione, su ciò che appartiene ai convincimenti profondi e su ciò che non è altro che sterile battibecco. Nella ricerca dei valori che dovrebbero educarci a un’etica meno degradata di quella improntata al principio del così fan tutti, mia madre è un esempio di anticonformismo e di liberazione: lei è davvero affrancata dagli stereotipi e dai bisogni indotti della società massificata. Per conquistare obiettivi importanti e sicuramente oggi irrinunciabili siamo stati costretti ad abdicare alla nostra integrità. Noi abbiamo perso la “verginità”, non lei».
(Oliviero Toscani, "Non sono obiettivo" Feltrinelli 2001)

domenica 6 maggio 2018

Tolentino, il poeta contrabbandiere che sfida il mondo come Idea


Dicembre 22, 2005 Boffi Emanuele
L’AVVENTURA DI UNA VITA PASSATA TRA TANTE METAMORFOSI (PROFESSORE A OXFORD, SPACCIATORE, CARCERATO, MERCANTE D’ARMI, DISCEPOLO DI UNGARETTI…) E DELLA SUA UNICA METàNOIA («AMICO MIO, GESù è VENUTO DI PERSONA, ALTRIMENTI CI AVREBBE INVIATO UN’E-MAIL»)
Tempi.it
A dargli un’occhiata non pare proprio abbia le fattezze spigolose e l’aria romantica dei poètes maudits. Un po’ curvo, occhiali a lenti spesse, capelli stropicciati sul capo smagrito e smunto. Di spleen nemmeno l’ombra, al massimo un principio di influenza di cui la sciarpa di lana e la giacca pesante, mentre per strada circolano passanti con le camicie avvoltolate sopra i gomiti, paiono un indizio. Eppure quando il poeta brasiliano Bruno Tolentino, intellettuale e contrabbandiere, docente a Oxford e spacciatore, racconta di sé, usa parole demodè che anche il credente navigato avverte nella loro antica freschezza: conversione, peccato, Dio. Quest’uomo che ha vagato per quarant’anni nel deserto del postmoderno per concludere infine che avrebbe tirato il collo a quella sua vita sbadigliando, oggi parla con la radicalità e l’irrequietezza tipica dei convertiti. Tante le sue metamorfosi, ma unica la metànoia.
Dice: «La realtà è a posto solo nei nostri schemi, nelle nostre proiezioni, nella nostra arte concettuale», come nella figura che mette sotto il naso a chi lo ascolta. A destra e a sinistra, su cavalli bianchi e bruni, i cacciatori convergono verso il centro sulle tracce di una preda scomparsa all’orizzonte. Anche i musi e i corpi lunghi dei cani mirano verso il punto di fuga centrale, forse un cervo, che permette a Paolo Uccello di rappresentare la dinamicità dell’inseguimento ubbidendo a rigorose costruzioni prospettiche. La scena si svolge all’aperto, ma la rigida geometria cui tutto risponde dà l’idea di uno spazio architettonico. Tolentino ha deciso che quest’opera del pittore italiano del ‘400 sarebbe stata l’immagine di copertina della sua raccolta di poesie O mundo como Idéia. Quando insegnava a Oxford gli capitava spesso di vederla esposta all’Ashmolean Museum e ciò lo convinse a farne l’emblema di quello che è il focus della sua poetica. Si racconta che i primi critici cui il pittore sottopose la sua fatica gli fecero notare che i cavalieri non avrebbero mai potuto rimanere in sella in quella foresta, perché i bassi arbusti avrebbero impedito ai cavalli di sorreggersi sugli zoccoli. Nella realtà i cacciatori sarebbero stati presto disarcionati. E, più in generale, che l’ambiente da lui raffigurato era un locus ideale, non reale. Uccello tagliò tutta la parte bassa della tavola, estirpando così gli arbusti bassi e lasciando inalterato il resto. Tolentino vede nell’episodio la metafora perfetta per indicare il rapportarsi dell’uomo moderno con la realtà che «presume di poter correggere in anticipo, secondo un proprio progetto, eliminando una parte affinché il parziale, spacciato per tutto, corrisponda all’idea che noi ci siamo prefigurati». Il titolo originale della raccolta di poesie è About the hunt (“A proposito di caccia”), ma oggi la copia che Tolentino tiene sottobraccio porta impresso il titolo O mundo como Idéia, che egli vuole sia tradotto in “Il mondo come concetto”. «La pretesa prometeica dell’uomo moderno di sostituire il reale con il concetto è sempre stata al centro della mia riflessione lirica. Credo che un poeta sia un uomo inutile e io che sono un poeta cristiano non servo a nulla due volte, tuttavia ho due volte lo stesso compito: comunicare la totalità dell’essere. E questa totalità può stare solo in una persona viva, in due occhi che incontrano due occhi».
Roma dormiva colle vene aperte, / la stupenda carogna dell’abbandono / sembrava fatta a pezzi; / nei piazzali deserti, / sulle strade persino sgomberate / dal solito frastuono / delle macchine, ogni tanto una figura, due occhi senza vita / ci guardavano in faccia / e scomparivano fra le mura.
(B. Tolentino, “Il gorgo e le città”, O mundo come Idéia. Anche i corsivi che seguono sono tratti dalla medesima poesia).
Il tema della ricerca dei “due occhi” si ritrova anche in un testo della sua raccolta, l’unico che Tolentino ha steso in italiano. Si intitola “Il gorgo e la città” ed è una lunga passeggiata notturna per le vie urbane di Roma, Ravenna, Recanati cercando una non meglio specificata “figura” che possa offrire una via d’uscita. Come il Montale dei “Limoni” si sente chiuso da mura che portano in cima vetri aguzzi che impediscono di scavalcare, come il Montale alla ricerca «dell’anello che non tiene» e del «miracolo, del fatto che non era necessario», anche per Tolentino il tema della liberazione grazie a una via di fuga e di angelo che la possa offrire è il fuoco da cui divampano i versi. Eppure la sagoma salvifica di un angelo sembra proprio non arrivare, non presentandosi nemmeno come l’ondeggiante andatura di qualche ubriaco o l’imprevisto pericolo di un furto.
In tutto quel deserto / neanche un solo paio d’ubriachi, / un ladro, niente! Una qualsiasi minaccia / ci avrebbe almeno offerto / una via d’uscita.
Tutto questo vagare per il mondo e le sue rappresentazioni sembra non portare a niente. «è per questo che Gesù è venuto di persona, altrimenti ci avrebbe inviato un’e-mail», ghigna serafico.
SARTRE, UNGARETTI, AUDEN, MONTALE
Bruno Tolentino non ha sempre parlato così, con questa radicalità tipica dei convertiti. Stranocristiano lo è diventato solo dopo un avventuroso percorso personale che lo ha portato dal Brasile all’Italia, dall’Inghilterra al Libano a contatto con i grandi poeti del Novecento (Ungaretti, Auden, Montale, Quasimodo), nei lindi salotti dell’élite intellettuale e nelle sudice gattabuie del Marocco e della Bolivia. Stranocristiano lo è diventato a quarant’anni dopo aver attraversato i luridi gironi infernali dei bassifondi di Beirut e Varsavia, i fallimenti famigliari di tre donne e tre figli che sparsi in giro per il mondo faticano a ricordarlo come padre e marito.
Stranocristiano lo è diventato in questi anni, dopo quarant’anni di lontananza è tornato spesso in Italia per curare la traduzione della sua opera, ospite per lo più ma non solo, di circoli culturali vicini a Comunione e liberazione, movimento ecclesiale che Tolentino ha imparato ad apprezzare e con cui collabora (ha tradotto nella sua lingua alcune opere di don Luigi Giussani). Stranocristiano si diventa, ma stranopoeta Tolentino lo è sempre stato, sin da giovanissimo quando nel 1960, ventenne, vinse il premio “Revelação” con il libro Anulação e outros reparos (Annullamento e altre osservazioni). Un poeta particolare perché in un momento in cui gli intellettuali brasiliani si convertivano alle idee progressiste francesi, lui rimaneva legato a quei valori che aveva appreso nell’ambito famigliare. Valori “tradizionali” che, precisa Tolentino, «non sono quelli della “Dama Idea”, l’ideologia». «Non sono diventato – prosegue – un poeta migliore con la mia conversione, non sono nemmeno diventato un uomo migliore. Credo di aver sempre ancorato le mie parole al reale, anche prima del mio cammino nella Chiesa, contrapponendomi sin da giovane a qualsiasi forma di pensiero che presumesse di sostituirsi a ciò che l’evidenza ci mostra come dato di fatto. Ho sempre lottato perché nessuno dicesse: “Gli arbusti bassi? Tagliamoli”».
Sorpreso, quell’amico / sorride e mi rispose: / “Dormono tutti, le case, le cose / la gente.” / Sen’altro; ma quel sonno era dipinto / sulla pelle del nulla! Non mi sono convinto: / “Davvero non ti fa senso tutto questo?”.
L’Età dell’oro brasiliana
Cresciuto in una ricca famiglia aristocratica di Rio de Janeiro, fin da bambino studia letteratura e lingua in inglese e francese e vede aggirarsi per casa i maggiori poeti e scrittori carioca. Un predestinato con un talento per le rime che gli permetterà di pubblicare più volte nel corso della vita le sue opere in ogni angolo del mondo. In Francia dà alle stampe Le Vrai Le Vain (Il vero il vano) e Au Colloque dês Monstres (Nel colloquio dei mostri), in Inghilterra il già citato About the Hunt. Rientrato in Brasile nel 1993 riceve il premio “Jabuti” per il libro As horas de Katarina (Le ore di Katarina). Nel 1998 si trasferisce a San Paolo dove dirige la rivista di cultura Bravo fino al 2000. Vince nuovamente il “Jabuti” nel 2003 con il libro O mundo como Idéia (il premio “Jabuti” è il più importante riconoscimento letterario brasiliano e Tolentino è l’unico ad averlo vinto due volte per la poesia). Infine, due anni fa, gli è stata conferita la benemerenza “José Erminio de Moraes – Intellettuale dell’anno 2003”.
Oggi il Brasile considera Tolentino fra i suoi maggiori poeti viventi, ma non è sempre stato così. Dal suo paese deve scappare nel 1964 per la guerra civile, e lui ricorda bene come si soffocava in patria negli anni precedenti. «Dopo l’età dell’oro degli anni Cinquanta iniziarono a giungere nel paese numerosi esponenti francesi del pensiero prometeico, dell’arrogante rifiuto della realtà». In Brasile vengono fondate università, crescono circoli culturali, sono chiamati dall’Europa quegli intellettuali che meglio sanno illustrare al popolo il nuovo concetto del mondo. Fra questi Jean-Paul Sartre che nel 1952 così sintetizzava la situazione del pianeta dopo averlo percorso in longitudine e latitudine alla ricerca del “buon comunismo”: «I comunisti sono colpevoli perché hanno torto nella loro maniera di avere ragione, e ci rendono colpevoli, perché hanno ragione nella loro maniera d’aver torto». Per Tolentino, senza troppi ricami, «i comunisti hanno torto e basta».
«E’ rimasto solo il nulla»
Con il filosofo della nausea Tolentino s’incontra di persona. è il 1960, va ad accoglierlo all’aeroporto di Rio perché incaricato dall’università di fargli da cicerone e traduttore durante un ciclo di conferenze. è allora Sartre il filosofo più acclamato e celebre del mondo, solo tre anni dopo rifiuterà sdegnosamente il premio Nobel per la letteratura giustificando il gesto con ragioni personali («Ho sempre declinato le distinzioni ufficiali») e con ragioni ecumeniche («Io sto lottando per avvicinare la cultura orientale a quella occidentale, svuoterei la mia azione se accettassi onoreficenze da Est o da Ovest»). Questo Zeus che non ha bisogno degli uomini durante il viaggio si rende protagonista di una scenata olimpica. Accanto a lui è seduto un sacerdote in abito talare. Lui, schifato, insiste con gli assistenti di volo finché ottiene di cambiare posto. Racconta Tolentino: «Quando il portellone dell’aereo si aprì tutta la gente lì radunata per il pensatore si lasciò sfuggire un sospiro di disapprovazione». Compare prima il prete e solo poi il pontefice laico dell’essere e del nulla. «Quell’ometto, ho scoperto solo di recente, era don Giussani». Il sacerdote di Desio è in Brasile per trovare alcuni suoi studenti del liceo Berchet di Milano che, poco tempo prima, erano giunti in Sudamerica per fondare una missione fra le favelas di Belo Horizonte. «Lo conobbi solo molti anni dopo – prosegue – ma l’episodio mi è rimasto impresso nella memoria anche perché ricordo un Sartre inviperito. Quarant’anni dopo quei fatti il vento della storia ha spazzato via tutto quel che ha scritto Sartre: l’essere non c’era, è rimasto solo il nulla».
Se l’anima invaghita delle stelle / va inghiottita anche lei nel gorgo muto, / ciò che non si rammenta, / ciò che a lungo s’annera (s’annoia, forse) e poi / s’allontana da noi. / Ogni posto da molto / lasciato da se stesso s’impietrisce / e in quel silenzio secco l’assoluto / pian pianino diventa / lo squallore in cui l’anima infelice / non vede più che il vuoto.
IL NIENTE PIENO DI COSE DEI POETI
In Brasile il vento della storia spazza via anche Tolentino. «Allora non ero cristiano, pensavo alla religione come a qualcosa di totalmente irrazionale. Per me Dio era un curioso extraterrestre. D’altronde la Chiesa allora non seppe contrastare il nuovo pensiero che si diffondeva nel paese, anzi, in qualche modo lo incoraggiò». Non solo allora, sembra dire Tolentino, che più di un anno fa alla rivista Tracce ha dichiarato: «Basta guardare ad alcune scuole cattoliche; per trasformarle in quello che abbiamo davanti agli occhi è stato necessario prima di tutto svuotare il cristianesimo del suo contenuto, riducendolo a un’ottima idea (la lotta per i poveri, l’unione per risolvere i problemi del paese, etc.), così la scuola è diventata un’istituzione. Perché questo potesse succedere si è dovuto far sparire tutto ciò che nel cristianesimo ha il profumo di pura umanità: Maria e i santi. Per fare in modo che la “Dama Idea” possa controllare il gioco è necessario relegare il cristianesimo nel regno del pensiero, trasformarlo nella millesima idea che l’umanità non ha posto in pratica».
La mano che lo trascina via è quella di Giuseppe Ungaretti che tra il 1936 e il 1942 aveva vissuto in Brasile insegnando letteratura italiana all’università di San Paolo. Ce lo aveva spedito il duce e lui era solito frequentare casa Tolentino, legato in amicizia con uno zio di Bruno. Ma nel 1942 era dovuto ritornare in Italia perché il Brasile aveva dichiarato guerra all’Asse. Quando Bruno decide di fuggire dal paese natale, tramite l’aiuto di altri amici di famiglia, Ugo La Malfa e Amintore Fanfani, approda in Italia. è il 25 luglio 1964, Ungaretti lo invita a casa sua. «A fare cosa?», chiede il giovane. «Niente – gli risponde l’anziano poeta -. Perché? Bisogna sempre fare qualcosa?». «In realtà – sorride oggi Tolentino – il niente dei poeti è sempre denso di avvenimenti». è così che conosce Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Salvatore Quasimodo. «Ma io me ne tenevo alla larga, strinsi amicizia solo con Quasimodo assistendolo sul letto di morte nell’ospedale di Sesto San Giovanni. E poi Ungaretti mi presentava a tutti dicendo: “lui è Bruno Tolentino, un genio deficiente”». «La definizione – conferma oggi – era molto più calzante di quanto lo stesso Ungaretti sospettasse». è una specie di dottor Jekyll e Mr Hyde, con una vita alla luce radiosa di disquisizioni sui massimi sistemi e una vita all’ombra sprofondata in sconcezze malavitose. Nel 1965 insegue fino in Polonia una ragazza che partecipa al concorso di Miss Mondo. «Passai dieci notti con lei senza nemmeno chiederle il nome. Di giorno mi aggiravo per i bassifondi di Varsavia e fu lì che iniziai la vita del contrabbandiere». Tolentino girovaga per mezza Europa superando le frontiere carico di valute e droga e, di tanto in tanto, torna a casa Ungaretti cui sottopone le poesie che continua a scrivere. «Prendeva una penna e iniziava a tracciare lunghi solchi su molti dei miei versi. Mi diceva: “Questo toglilo, non è essenziale. Tu frequenti troppi chiacchieroni”. Poi mi chiedeva: “Ogni volta che torni sei più ricco, come mai?”. Per non rispondergli, fuggii».
Cercavo ancora l’aiuto, la catarsi, / e verso Ferragosto mi trovai / solo sull’Appia Antica, / fra i pini amati da una cara amica; / qualcosa mi diceva di lassù: / “Qui la terra promessa / è scaduta, e lo sai.”.
L’IMPREVISTO NON CAPITAVA
Dopo due anni con Ungaretti e un passaggio in Belgio, la poetessa Elizabeth Bishop lo presenta a Wystan Hugh Auden che, incuriosito da questo strano scavezzacollo giramondo, gli offre un incarico come professore all’università di Oxford dove insegnerà per quindici anni frequentando Thomas Stearns Eliot. «Giocavo da baro. Ero un uomo moderno: prendevo sul serio tutti gli aspetti collaterali della vita (la carriera, il prestigio, i soldi), ma non la vita stessa. Ero la descrizione vivente dell’aforisma di Chesterton: l’uomo che non crede in Dio, non è che non crede in niente; crede a tutto, è un credulone». Racconta che l’avventura era la sua idea fissa, che ne aveva bisogno fisico, per riempire un vuoto che altrimenti non sapeva come colmare, come tracimato da una domanda di cui non intuiva la risposta. Così il dottor Jekyll, che durante l’anno insegna letteratura in cattedra, nei periodi di ferie, a Pasqua, a Natale, d’estate, contrabbanda hashish («quello rosso, ha presente?»), armi («di ogni calibro») e cocaina («a una festa con Frank Sinatra a Palm Springs consegnai 100 mila dollari di roba»). Stati Uniti, Bolivia, Colombia, Egitto, Marocco, Libano.
In Libano si coinvolge nella guerra civile, inizia a finanziare i guerriglieri cristiani, frequenta i bordelli dei bassifondi, fa di tutto, spasmodicamente, per divertirsi. Dice André Gide che «il vizio è monotono» e, aggiunge Tolentino citando la poesia “Prima del viaggio” di Montale, «”L’imprevisto è la sola speranza”. Solo che l’imprevisto non capitava o, forse, io non ero disposto a riconoscerlo. Così mi annoiavo come in spiaggia in un giorno di pioggia». La nascita del figlio lo convince che era ora di smetterla con quella vita. «Ma non riuscivo. Solo contando sulla sua forza di volontà l’uomo non può cambiare, e così tutto quello che potrebbe andare male, finisce peggio». Cerca di darsi dei precetti, delle regole da seguire, delle norme da rispettare. Nessun risultato. La speranza, l’imprevisto, per Tolentino si presenta nella forma e nella fisionomia più inaspettata: la durezza del carcere e l’osservazione dell’amica di una notte. «Andò così: da un pezzo gli agenti di Scotland Yard mi pedinavano, ma non riuscivano a prendermi con le mani nel sacco. Così forzarono la porta della mia abitazione, vi lasciarono una valigetta zeppa di cocaina e poi si presentarono per una perquisizione. Quando mi incastrarono avevo così a noia me stesso che non tentai nemmeno di difendermi. L’arte è una menzogna che dice la verità e io, alla fine, non ero forse sempre stato un artista?».
L’avevo ormai capito, sentivo che il rogo / non s’era mica spento: / in su le vette, fra le cime il vento / cantava come la fenice.
DIVENTA CIO’ CHE SEI
Ventidue mesi di prigione sull’isola del Diavolo nel pantano di Davon, carcere di massima sicurezza con celle singole. Esperienza non certo da tipi sensibili e raffinati, anche criminali famosi «s’aggiravano come fantasmi», ricorda il galeotto poeta.
Scotland Yard non aveva fatto però un lavoro con tutti i crismi, perché se la sfortuna è cieca, i vicini ci vedono benissimo. E i vicini di casa Tolentino li avevano visti forzare la serratura, avevano, addirittura, scattato delle fotografie. Per questo l’imprevisto di Tolentino dura solo ventidue mesi, il tempo per riaprire il processo e scarcerarlo. Nel frattempo si converte. Non è un’illuminazione improvvisa, ma un fatto graduale e lento. Mette in piedi «un’officina letteraria», nome altisonante per indicare una specie di doposcuola con cui Tolentino insegna a un’ottantina di carcerati a leggere e scrivere. Ma l’esperienza è importante perché gli permette di scoprire che «non esiste solo “l’io”, c’è anche “l’altro”. E poi mi tornò alla mente un’osservazione che una prostituta libanese mi aveva fatto un giorno: “Presto o tardi dovrai rendere onore al tuo corpo”». Ecco la parola attorno cui ruota tutta la riflessione a posteriori sulla sua conversione: “integrità”, con cui l’artista contrabbandiere non vuole indicare un cambiamento morale, ma «la consapevolezza di essere uno, integro, tutto intero». Chiede: «Perché essere due persone quando è già così difficile essere una? Il limite dell’uomo moderno non è, come si pensa, un problema di rettitudine morale, di essere buoni. è inutile essere buoni da soli, occorre essere buoni davanti a qualcuno». Per Tolentino la conversione è come il sale, non cambia il sapore, lo esalta; «la carne rimane carne, il pesce rimane pesce. Cristo è come il sale che va messo sull’imperativo di Pindaro, “Diventa ciò che sei” perché ogni uomo si realizzi anche nei suoi lati più oscuri».
Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto (San Paolo, lettera ai Corinzi)
Certificazione del bello
«Io non sono un convertito, ho lasciato che Dio facesse il lavoro al mio posto perché io sapevo di non farcela da solo», dice oggi. Solo dopo Tolentino ha capito che c’era stato sempre qualcosa di vivo sotto la brace e la cenere della sua vita da dongiovanni. «Lo Spirito Santo ha sempre collaborato con me, ma io solo a quarant’anni ho cominciato a collaborare con Lui». Solo oggi, ripensandoci, si accorge di che cosa accomuna tutti i suoi grandi maestri in poesia Manuel Bandeira in Brasile, Ungaretti in Italia, Saint-John Perse in Francia e W. H. Auden in Inghilterra: «Sono tutti cattolici». Solo oggi ripensandoci si accorge che «è entrato in carcere un esteta e ne è uscito un poeta. Come scriveva Auden: ‘La bellezza è una consolazione, ma il nostro compito è certificare che il bello è anche vero”». Tutto risolto, insomma? Al contrario. Come fa dire a un personaggio del suo libro Le ore di Katarina: «Il fatto di credere non ti ha reso migliore». Tolentino confida le difficoltà famigliari, i difficili rapporti coi figli, le donne che ha amato e che ora non lo riamano più, le normali asprezze della quotidianità. Ora però c’è una frase scherzosa che don Giussani scrive nel suo libro Una presenza che cambia a confortarlo: «La prima formula che Gesù ha usato nel rapporto con la gente è stata: vieni e vedi, prova e giudica, soddisfatto o rimborsato».
Tempi.it

BE STILL MY HEARTH

BE STILL MY HEARTH
***
Come un vulcano che si risveglia,
sento che comincia a brontolare.
Stai fermo, mio cuore.
Stai richiuso lì dove ti ho messo,
è per il tuo bene,
stai fermo mio cuore.
Perché se stai fermo non ti brucerai.
E se stai fermo non ti farai male.
Ma se stai fermo,
non saprai mai completamente
perché stai bruciando.
Come un vulcano che si risveglia,
il colpo è inevitabile,
ti prego cuore mio torna indietro,
non volere una catastrofe
ed essere bruciato da troppe cose,
torna indietro cuore mio.
Perché se stai dove sei non ti brucerai,
e se stai dove sei non ti farai male,
ma se stai dove sei
non saprai mai completamente
perché stai bruciando.
Come un vulcano che si risveglia
siamo scoperchiati
e cominciamo a mostrare
che non si può tornare indietro,
cuore mio.
Un desiderio d'amore
che non sarà mai detto,
un amore che può riempire un oceano.
Non si torna indietro,
cuore mio.

Zygmunt Bauman - Il terreno su cui poggiano le nostre prospettive di vita è notoriamente instabile



Zygmunt Bauman - Il terreno su cui poggiano le nostre prospettive di vita è notoriamente instabile

Zygmunt Bauman - Il terreno su cui poggiano le nostre prospettive
Brani scelti: ZYGMUNT BAUMAN, Modus vivendi (Bari, Laterza, 2008).
Il terreno su cui poggiano le nostre prospettive di vita è notoriamente instabile, come sono instabili i nostri posti di lavoro e le società che li offrono, i nostri partner e le nostre reti di amicizie, la posizione di cui godiamo nella società in generale e l'autostima e la fiducia in noi stessi che ne conseguono. Il "progresso", un tempo la manifestazione più estrema dell'ottimismo radicale e promessa di felicità universalmente condivisa e duratura, si è spostato all'altra estremità dell'asse delle aspettative, connotata da distopia e fatalismo: adesso "progresso" sta ad indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua. Il progresso è diventato una sorta di "gioco delle sedie" senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile. Invece di grandi aspettative di sogni d'oro, il "progresso" evoca un'insonnia piena di incubi di "essere lasciati indietro", di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera in fretta.

sabato 5 maggio 2018

Quando si vive con gli altri e si è uniti a loro da un affetto sincero

 

      ✨ "Caro Theo,
      ti scrivo per dirti quanto ti sono grato della tua visita.
      Quando ti ho rivisto e ho preso a camminare con te, ho avuto una sensazione che da tempo non provavo più, come se la vita fosse qualcosa di buono e prezioso da tener caro. Mi sono sentito più vivo e più allegro di quanto non mi sia sentito da molto tempo, poiché man mano la vita è diventata per me meno importante, meno preziosa e quasi indifferente. Almeno, così credevo. Quando si vive con gli altri e si è uniti a loro da un affetto sincero, si è consapevoli di avere una ragione di vita e non ci si sente più del tutto inutili e superflui: abbiamo bisogno l’uno dell’altro per compiere lo stesso cammino come compagni di viaggio, ma la stima che abbiamo di noi stessi dipende molto anche dai nostri rapporti col prossimo"
       Vincent Van Gogh✨

Il ritratto di Oscar Wilde che la vulgata gay nasconde

  • IL FILM

Il ritratto di Oscar Wilde che la vulgata gay nasconde

Il recente film Happy Prince: l’ultimo ritratto di Oscar Wilde ha il grande merito di presentarci gli ultimi giorni di uno dei più celebri scrittori degli ultimi due secoli mostrandocelo in tutta la sua interezza, con tutte le sue contraddizioni, con la sua fragilità di fronte alle tentazioni, ma anche con quel desiderio di Dio che lo portò, prima di morire, a convertirsi al Cattolicesimo e a chiedere i Sacramenti. 
Il recente film Happy Prince: l’ultimo ritratto di Oscar Wilde, scritto, diretto e interpretato da Rupert Everett, uno dei nomi più importanti del cinema britannico, ha il grande merito di presentarci gli ultimi giorni di uno dei più celebri e celebrati scrittori degli ultimi due secoli mostrandocelo in tutta la sua interezza, con tutte le sue contraddizioni, con la sua fragilità di fronte alle tentazioni, ma anche con quel desiderio di Dio che lo portò, prima di morire, a convertirsi al Cattolicesimo e a chiedere i Sacramenti. 
Un aspetto, quello della religiosità di Oscar, che è spesso censurato da chi lo vuole ridurre a semplice icona gay. 
Mentre era detenuto nel carcere di Reading, condannato a due anni di lavori forzati, lesse numerose opere religiose, tra cui tutte le opere di John Henry Newman. In carcere si riconciliò con la moglie: si abbracciarono dopo tanto tempo, parlarono tutto il tempo possibile, soprattutto dei figli e Oscar si raccomandò che la moglie non li viziasse, e li educasse in modo che qualunque cosa facessero, anche la più sbagliata, non mentissero e tornassero comunque da lei per raccontargliela: solo così poteva insegnare loro cosa fosse la redenzione.
Wilde aveva avuto modo di riflettere profondamente sulla sua storia, e sul suo rapporto con Bosie Douglas, il giovane che l’aveva condotto alla rovina. Scrisse una lunga lettera all'ex amico, che anni dopo venne pubblicata col titolo De Profundis. . Era davvero il grido di dolore di Oscar dal profondo delle sua notte più oscura, un’oscurità che tuttavia non aveva preso la sua anima. Anzi: dopo molto tempo Oscar sembrava riuscire a scorgere dentro se stesso, a leggere tra le righe della sua vita.
Scrisse: “Ora trovo nascosto in fondo alla mia natura qualche cosa che mi dice che nel mondo intero niente è privo di significato, e tanto meno la sofferenza. Quel qualche cosa nascosto in fondo alla mia natura, come un tesoro in un campo, è l'umiltà. È l'ultima cosa che mi sia rimasta, e la migliore di tutte; la scoperta finale a cui sono giunto; il punto di partenza per una evoluzione nuova”.
Dopo la scarcerazione, Oscar trascorse due anni di vagabondaggio, di confusione, di solitudine. Rivide purtroppo Bosie, che lo portò con sé in Italia, a Napoli, dove Oscar vide per l’ultima volta la sua natura malvagia in azione, e chiuse definitivamente il loro rapporto. Non rivide più la moglie, che morì a Genova per gli esiti di una lesione alla spina dorsale. Infine trascinò la sua vita, segnata ormai dalla malattia, a Parigi.
Venne raggiunto a Parigi dal vecchio amico Robbie Ross, che era stato il suo primo amante di sesso maschile. Robbie, tuttavia, proprio grazie ad Oscar aveva scoperto il Cattolicesimo, si era convertito e aveva mutato radicalmente la propria vita. Robbie ora era per Oscar “solo” un amico, un’amicizia profonda e preziosa. Con Ross parlava dei suoi figli, che l’amico visitava regolarmente, e fu felice di sapere che uno di loro, Vyvyan, era diventato cattolico.
Ora voleva anche lui compiere finalmente il grande passo, dopo aver atteso tutta la vita. Robbie fu sorpreso e commosso, e sembrava quasi non credergli. Gli chiese se fosse proprio convinto.  “Il cattolicesimo è la sola religione in cui morirei” aveva detto dopo il suo rilascio dal carcere, ed ora, per una volta, voleva essere di parola.
Aveva vacillato tutta la vita, mentre intorno a lui i suoi amici, uno dopo l’altro, si convertivano: Robbie, Gray, Beardsley, e infine suo figlio.
Oscar morì con questa consolazione. Robbie quando vide che stava iniziando l’agonia si precipitò a cercare un sacerdote. Andò presso un vicino convento di padri passionisti, e per quanto incredibile possa sembrare, vi trovò un religioso irlandese, padre Cuthbert Dunne.
Oscar ricevette i Sacramenti dalla mani di un connazionale, un uomo dell’Isola del Destino che la Provvidenza aveva voluto che incontrasse nel momento finale. Perse coscienza mentre nelle sue mani stringeva il rosario di padre Cuthbert.
Era il 30 novembre del 1900, ed Oscar Wilde moriva in pace. 

venerdì 4 maggio 2018

Serrapeptasi

Serrapeptasi. L'”enzima miracoloso” è il più potente antinfiammatorio naturale

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serrapeptasi 14 benefici
“La Serrapeptasi può diventare l’integratore naturale più utilizzato di tutti i tempi a causa della sua efficacia su una vasta gamma di condizioni di salute”.
Scoperto nei primi anni ’70, questo enzima proteolitico è stato isolato dalle specie di Serratia, batteri situati nell’intestino dei bachi da seta. Oggi la Serrapeptasi viene utilizzata in tutto il mondo in ambito clinico e si sta sempre più diffondendo grazie ai grandi benefici mostrati dai pazienti che la assumono. Data la sua particolare azione ed effetti, le è stato attribuito il titolo di “enzima miracoloso”. E’ diffusamente usato in Giappone dove numerose cliniche lo usano con successo per la vasta gamma di benefici che vediamo di seguito, e si sta diffondendo velocemente in tutto il mondo dopo i numerosi studi svolti e i feedback enormemente positivi dei pazienti.
La Serrapeptasi funziona sciogliendo ogni tessuto morto (come ad esempio cicatrici), coaguli di sangue, cisti, la placca arteriosa ed eliminando l’infiammazione. Gli usi sono molto vasti e coprono quasi tutte le condizioni che sono influenzate da infiammazioni e/o da tessuti morti. 
Studi in vitro e in vivo rivelano che la Serrapeptasi ha un effetto antinfiammatorio specifico superiore a quello di altri enzimi proteolitici. Una revisione della letteratura scientifica, compresa una serie di controlli clinici con grandi gruppi di pazienti, dimostra che la Serrapeptasi è utile per una vasta gamma di condizioni infiammatorie. Se si considera che i farmaci antiinfiammatori sono tra i farmaci più prescritti e con una vasta gamma di effetti collaterali (posso causare gastrite ulcerosa, danni ai reni e alla circolazione sanguigna), non sorprende come l’uso di questo enzima come la Serrapeptasi, il più potente antinfiammatoriofra tutti gli enzimi conosciuti, si sta diffondendo velocemente. Originariamente derivata dall’intestino del baco da setaoggi viene riprodotta in laboratorio in modo naturale attraverso un processo di fermentazione

giovedì 3 maggio 2018

ASPETTARE ASPETTARTI

ASPETTARE ASPETTARTI


Aspettare, aspettarti.
Ma un solo presente
presuppone l’attesa: tu.
Se non ci sarai
all’altro capo,
è al nulla che il mio animo
si rivolge.
E allora tutto è vano,
io stessa non ho ragione
e i miei pensieri
mancano di significato e il mondo non esiste,
crollano le persone,
si dissolvono le città
come nuvole e vapore,
muore il sole, vive l’ombra,
tutto è spento, dormono
le ali, cessano di vibrare,
perchè soltanto attenderti
tiene sveglia la mia vita
Allora, aspetto.

                         Kalindi Achala