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sabato 26 febbraio 2022

 LA PACE VERRA'


Se tu credi che un sorriso è più forte di un'arma,

Se tu credi alla forza di una mano tesa,

Se tu credi che ciò che riunisce gli uomini è più importante di ciò che li divide,

Se tu credi che essere diversi è una ricchezza e non un pericolo,

Se tu sai scegliere tra la speranza o il timore,

Se tu pensi che sei tu che devi fare il primo passo piuttosto che l'altro, allora ...


LA PACE VERRA'


Se lo sguardo di un bambino disarma ancora il tuo cuore,

Se tu sai gioire della gioia del tuo vicino,

Se l'ingiustizia che colpisce gli altri ti rivolta come quella che subisci tu,

Se per te lo straniero che incontri è un fratello,

Se tu sai donare gratuitamente un po' del tuo tempo per amore,

Se tu sai accettare che un altro ti renda un servizio,

Se tu dividi il tuo pane e sai aggiungere ad esso un pezzo del tuo cuore, allora ...


LA PACE VERRA'


Se tu credi che il perdono ha più valore della vendetta,

Se tu sai cantare la gioia degli altri e dividere la loro allegria,

Se tu sai accogliere il misero che ti fa perdere tempo e guardarlo con dolcezza,

Se tu sai accogliere e accettare un fare diverso dal tuo,

Se tu credi che la pace è possibile, allora ...


LA PACE VERRA'


Charles de Foucauld

Mascherati

 Che mondaccio, signor Gubbio, che mondaccio è questo! che schifo! Ma pajono tutti… che so! Ma perché si dev’essere così? Mascherati! Mascherati! Mascherati! Me lo dica lei! Perché, appena insieme, l’uno di fronte all’altro, diventiamo tutti tanti pagliacci? Scusi, no, anch’io, anch’io; mi ci metto anch’io; tutti! Mascherati! Questo un’aria così; quello un’aria cosà… E siamo diversi! Abbiamo il cuore, dentro, come… come un bambino rincantucciato, offeso, che piange e si vergogna!

L. Pirandello

martedì 22 febbraio 2022

 

 Bauman: la società liquida e la Deus caritas est di Benedetto XVI. “L’amore non è liquido”

Ripresentiamo on-line sul nostro sito, per il progetto Portaparola, l’intervista concessa da Zygmunt Bauman al giornalista Pierangelo Giovanetti, apparsa su Avvenire del 2 febbraio 2006, con il titolo “L’amore non è liquido”. Z.Bauman è sposato con Janina Bauman, un ebrea sopravvissuta al ghetto di Varsavia (una brevissima introduzione al suo volume di memorie, J.Bauman, Inverno nel mattino, Il Mulino, Bologna, 1994, è disponibile su questo sito, nella sezione dedicata ai ghetti ebrei in Polonia durante il nazismo). Di lei il sociologo polacco ha dichiarato in un’intervista a Rainews24: «Da Janina ho imparato che la 'neutralità' rispetto ai valori è, per quanto riguarda le scienze umane, non solo una vana speranza ma anche un'illusione assolutamente inumana: che fare sociologia ha senso solo nella misura in cui aiuta l'umanità nel corso della vita». Della Shoah Z.Bauman ha scritto in Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992.
Nelle sue ultime opere (vedi, fra le altre, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002; Amore liquido, Laterza, Roma-Bari, 2004; Vita liquida, Laterza, Roma-Bari, 2006; Homo consumens, Erikson, Gardolo, 2007) Z.Bauman ha indicato nella ‘liquidità’ la caratteristica saliente dell’epoca post-moderna. Scrive, ad esempio, nell’Introduzione a Vita liquida, pp.VII-IX: “Una società può essere definita ‘liquido-moderna’ se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure... In una società liquido-moderna gli individui non possono concretizzare i propri risultati in beni duraturi: in un attimo, infatti, le attività si traducono in passività e le capacità in incapacità... La vita liquida è una vita precaria vissuta in condizioni di continua incertezza... La vita nella società liquido-moderna non può mai fermarsi. Deve modernizzarsi (leggi: continuare a spogliarsi quotidianamente di attributi giunti alla propria data di scadenza, e a smontare/togliere le identità di volta in volta montate/indossate) o perire”. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line del testo.

Il Centro culturale Gli scritti (7/7/2007

lunedì 21 febbraio 2022

Andreas Hofer

 

Andreas Hofer

La figura di Andreas Hofer, comandante supremo dell'insurrezione tirolese contro Napoleone, non si può comprendere fino in fondo senza un'adeguata valutazione della sua profonda religiosità. Nello stesso modo anche la sollevazione dei tirolesi del 1809 contro i bavaresi e i francesi non si può capire senza tener presente l'elemento religioso. E' interessante notare che è stato un papa a ricordare l'importanza fondamentale del fattore religioso nel contesto dell'insurrezione tirolese: Giovanni Paolo 1 (1912-1978), quando era ancora patriarca di Venezia, ha sottolineato nel suo famoso testo "Illustrissimi" la grande influenza che ebbe la religione sulle decisioni di Andreas Hofer e dei suoi compaesani.

IL TIROLO UNA ROCCAFORTE DEL CATTOLICESIMO

Il Tirolo di Andreas Hofer era contrassegnato da una profonda tradizione cattolica che permeava tutta la vita privata e pubblica della popolazione. Questa forte impronta cristiana risaliva innanzitutto al 18' secolo durante il quale le missioni popolari dei gesuiti avevano trasformato il Tirolo in un "santa terra". I gesuiti avevano introdotto un'intensa devozione al Sacro Cuore di Gesù che infine avrebbe portato alla consacrazione solenne del Tirolo al Sacro Cuore nel 1796. La profonda religiosità dei tirolesi si manifestava anche in tante tradizioni: si celebravano sante messe in momenti particolari, si indicevano processioni e pellegrinaggi, si veneravano la Madonna, gli angeli e i santi, si fondavano confraternite. Anche nelle famiglie si praticava un'intensa vita religiosa: la preghiera prima e dopo i pasti, la recita dell'angelus e del rosario facevano parte della vita quotidiana. Inoltre si vedevano dappertutto simboli cristiani: ogni piccola frazione aveva la sua chiesa o la sua cappella, su ogni sentiero e in tutte le stuben si vedevano crocifissi. La gente si salutava dicendo "Sia lodato Gesù Cristo!" In questo modo tutta la vita dei tirolesi era segnata da un atteggiamento profondamente religioso.

L'ATTEGGIAMENTO RELIGIOSO DI ANDREAS HOFER

Questo spirito cristiano formò anche la personalità di Andreas Hofer. Il futuro capo dei tirolesi crebbe in una famiglia praticante e ricevette le prime istruzioni religiose da parte dei familiari. Alla sua famiglia risaliva probabilmente la sua abitudine di recitare il rosario e di venerare il Sacro Cuore di Gesù. La sua indole era caratterizzata da un atteggiamento profondamente cristiano. Johann Staffler (1793-1868), un compaesano che lo conobbe di persona, lo descrive come "profondamente onesto e ragionevole, buono, gentile e sereno, delle volte anche spiritoso, ma sempre guidato da un senso pio e cristiano."Anche il grande scrittore e storiografo tirolese Beda Weber (1798-1858), che a lungo si era intrattenuto con diversi contemporanei dell'Hofer in val Passiria, sottolinea la grande religiosità del capo tirolese: "La sua pietà aveva le sue radici in un sentimento religioso che escludeva ogni tipo di elucubrazioni; la consapevolezza dell'onnipresenza di Dio lo accompagnava ovunque e lo rendeva sereno, paziente, misericordioso verso tutti gli uomini. Egli disprezzava la rassegnazione e le chiacchiere critiche nei confronti della morale altrui. L'appartenenza alla Chiesa la sentiva come un bisogno." Significativa per lo spirito religioso dell'Hofer è anche un'iscrizione che si trova sulla parete della stube nel Sandhof: "Nell'anno 1802 si fece il voto di celebrare ogni anno in questo luogo la festa del dolcissimo Cuore di Gesù e la festa di San Francesco Saverio." Sopra questa scritta si trovano le lettere iniziali di Andreas Hofer e di sua moglie, accompagnate dalle lettere "C+M+B" che figurano quali iniziali di una formula di benedizione che si trova sulla porta d'ingresso di tante case tirolesi e che significa "Christus Mansionem Benedicat" ("Cristo benedica questa casa").

I TIROLESI SI OPPONGONO ALL'ILLUMINISMO DELL'IMPERATORE GIUSEPPE II

Dalla seconda metà del 18' sec. in poi s'incominciò a sentire anche nel Tirolo la crescente influenza delle idee illuministiche che mettevano in discussione la fede cristiana e i costumi tradizionali. Ma la popolazione contadina tirolese intuì ben presto la portata di queste idee rivoluzionarie e anticristiane e si oppose fin dall'inizio alle riforme illuministiche.
Il primo confronto avvenne durante il governo dell'imperatore asburgico Giuseppe II (1780-1790). Questo imperatore, figlio della pia imperatrice Maria Teresa, cercava di imporre a tutto l'impero una radicale riforma religiosa che s'ispirava alla filosofia illuministica. Questa riforma prevedeva l'eliminazione di tante feste religiose, vietava le processioni, metteva in discussione vari culti e funzioni religiose e portava alla sospensione degli ordini contemplativi. Essa vietava anche il culto del Sacro Cuore al quale il Tirolo era particolarmente devoto. Questi ed altri provvedimenti presi dal governo viennese indignarono talmente i tirolesi che si dovette temere una sollevazione. L'imperatore poco prima della sua morte si vide costretto a ritirare i suoi ordini e ad ammettere nuovamente le varie forme di culto tanto care ai tirolesi.

LE RIFORME ILLUMINISTICHE DURANTE L'OCCUPAZIONE BAVARESE

Il secondo conflitto per la difesa della religione contro l'lluminismo invadente ebbe luogo durante il governo bavarese nell'epoca napoleonica. Dopo la grave sconfitta di Austerlitz l'Austria con la pace di Presburgo (1805) dovette cedere il Tirolo a Napoleone che lo aggregò alla Baviera, sua fedele alleata. In questo modo il Tirolo (che allora comprendeva anche il Trentino) passò dall'Impero asburgico alla Baviera. Nonostante le promesse solenni del re Massimiliano Giuseppe I di Baviera di rispettare i costumi tirolesi, il governo bavarese incominciò ben presto ad imporre le riforme illuministiche in tutti i settori. L'anima di queste riforme fu il primo ministro bavarese, il barone Massimiliano Montgelas (1759-1838). Questi era il rampollo di una famiglia nobile proveniente dalla Savoia. Suo padre era entrato in servizio presso il re di Baviera. Il giovane Montgelas aveva studiato a Nancy e a Strasburgo dove siera imbevuto delle idee dell'illuminismo. Dopo il suo ingresso nella politica divenne rapidamente primo ministro e legò il destino della Baviera alla Francia. Inoltre il Montgelas era membro di una loggia massonica che aveva dei rapporti particolari con influenti circoli francesi.
Il governo bavarese prese energici provvedimenti contro le usanze religiose: combatté e vietò la recita del rosario in chiesa, le funzioni mattutine del "Rorate" durante l'avvento, la messa cantata di mezzanotte a Natale, l'allestimento del Santo Sepolcro durante la Settimana Santa. Proibì il suonare delle campane e la benedizione contro il pericolo dei temporali, vietò le novene, le processioni, i pellegrinaggi, il suonare le campane a distesa per i defunti. Soppresse tante festività religiose dei contadini e le confraternite. Ai vescovi di Trento, Bressanone e Coira, che allora erano i pastori delle varie parti del Tirolo, vennero imposti i seguenti ordini: tutti i chierici prima della loro ordinazione dovevano essere esaminati e approvati in nome del re dai professori dell'Università dì Innsbruck; i sacerdoti dovevano essere esortati a eseguire "con la più perfetta sottomissione tutte le ordinanze regie che riguardassero 'la polizia della Chiesa"'; i vescovi dovevano passare al re "la collazione di tutti i benefizi ed anche la nomina dei curati delle loro diocesi."
Lo stato bavarese si arrogò il diritto della formazione e dell'ammissione dei preti, della nomina dei professori e della gestione finanziaria della Chiesa. Attraverso la "polizia della Chiesa" controllava l'intera vita ecclesiastica, spiava le prediche domenicali, controllava addirittura il consumo delle candele e dell'olio santo nelle chiese. Gli sbirri non esitavano nemmeno a far finta di confessarsi per sapere come la pensassero i preti e per poterli denunciare.

L'OPPRESSIONE BAVARESE E LA RESISTENZA TIROLESE

I vescovi, il clero e i fedeli compresero ben presto che queste riforme non mettevano in pericolo soltanto la fede, ma anche tutta la vita comunitaria basata in gran parte su valori religiosi. E così essi tentarono di opporsi in tutti i modi a queste riforme che mettevano in discussione la vita religiosa e con essa anche l'identità tirolese. Ma i bavaresi e i loro collaboratori locali - fra i quali sono da nominare innanzitutto il conte d'Arco e il barone Hofstetten - risposero a quest'opposizione con provvedimenti molto drastici: appena i vescovi di Trento e Coira fecero capire che non avrebbero aderito agli ordini del governo, furono mandati in esilio; quando diversi esponenti del clero non si piegavano alla volontà del governo bavarese, venivano minacciati e messi in prigione; se i preti non rispettavano le direttive della riforma, essi venivano sostituiti da "preti del governo"; quando in alcuni comuni si organizzavano dei pellegrinaggi, questi comuni venivano puniti con multe salate.
Vennero arrestati alcuni di quelli che avevano portato i crocifissi durante le processioni, si picchiarono pubblicamente delle ragazze che avevano suonato a distesa le campane. I bavaresi chiusero anche diversi conventi e monasteri, saccheggiarono le biblioteche e portarono le opere d'arte in Baviera. "Ogni soppressione di un monastero era seguita immediatamente da un'asta al pubblico..." Diverse volte ricchi commercianti ebrei comprarono gran parte degli oggetti e fecero dei buoni guadagni. "In tal guisa una grande quantità di oggetti che servivano al culto e tutta l'argenteria della Chiesa caddero nelle loro mani con grande scandalo del popolo."
A quell'epoca sorse una specie di Chiesa clandestina. Allora i parroci mandati in esilio "percorrevano travestiti quelle valli e vi celebravano i santi misteri ora nei granai, ora nelle grotte, ed ora eziandio (= anche) nel più fitto delle selve." I credenti restavano fedeli ai loro preti: "I penitenti facevano molte leghe di viaggio per trovare un confessore, le donne che erano vicino al parto si recavano in qualche villaggio, nel quale si sapeva esser nascosto un vero prete, perché il futuro neonato avesse dalle sue mani il santo battesimo, i malati si facevano trasportare altrove per ricevere il santo viatico...". I fedeli disertavano le sante messe celebrate dai "preti del governo" e li insultavano. Viceversa la popolazione difendeva i sacerdoti contro i soprusi della polizia e delle truppe bavaresi mandate nelle parrocchie. La popolazione implorava il cielo affinché queste tribolazioni finissero. Anche Andreas Hofer, l'oste del Sandhof in val Passiria, era preoccupato. Era ben informato su tutte queste faccende. "Quando gli si parlava delle presenti calamità che sopportava la Chiesa, si contentava di rispondere: "Amici, bisogna pregare, giacché è assai grande il pericolo che corre la fede."

L'OPPRESSIONE RELIGIOSA MISE IN PERICOLO L'IDENTITA' TIROLESE

Per comprendere ancora meglio lo stato d'animo dei tirolesi di allora, vogliamo ricordare che le riforme illuministiche "strappavano al popolo le sue più pure gioie, le sue più care memorie, le sue più antiche tradizioni, e le sue ispirazioni più poetiche." Con tanta sensibilità un autore francese del secolo scorso descrisse la situazione:
"A che cosa si riducevano per esempio dopo tali ordini le feste così animate e rumorose della valle dello Ziller, che erano sempre accompagnate dal canto di alcune canzoni composte dai più abili poeti del paese, dalla musica, dalla danza, e dalla lotta che aveva luogo nella piazza medesima della Chiesa?
Che cosa diventavano nella valle dell'Inn quei drammi rusticani, nei quali quei montanari sopra un palco innalzato sotto la volta del cielo rappresentavano agli occhi di un'immensa moltitudine le vecchie leggende del paese, vari racconti della Bibbia e soprattutto quelli della passione, per mezzo della mimica, di cori e di semplici produzioni?
Che cosa diventava finalmente nei dintorni di Brixen(=Bressanone) quella famosa processione del Corpus Domini, nella quale gli uomini di quella valle, vestiti nei loro costumi pittoreschi, tutti a cavallo, con le bandiere spiegate e la banda musicale alla testa, facevano corteggio al clero, che anch'esso a cavallo apriva la marcia portando il Santissimo Sacramento?"
Questa gente aveva bisogno delle sue festività che le davano una ben precisa identità, ma anche la forza necessaria per affrontare le difficoltà della vita. " ... abbisognavano della loro semplicità patriarcale, della loro allegria, della loro fede per amare il loro paese, del resto sì povero, per sopportare le loro fatiche così penose e per trovare in Dio la forza necessaria per superare tutte le difficoltà della vita..."

ANDREAS HOFER COME FIGURA OPPOSTA DI MONTGELAS

Le varie persecuzioni e tribolazioni subite nel campo della fede contribuirono notevolmente all'indignazione dei tirolesi nei confronti dei bavaresi e dei francesi. Quando i tirolesi nel 1809 insorsero contro i loro oppressori, la soppressione religiosa figurava fra i primi motivi per la loro rivolta. Scrive papa Luciani: "Montgelas non immaginava fin dove potesse arrivare il sentimento religioso del cattolicissimo popolo tirolese. Questo inoltrò al re di Baviera rispettose istanze, perché fosse ritirato il "decreto empio e liberticida". Invano. Allora fu l'insurrezione in massa."
E il simbolo di questa insurrezione divenne Andreas Hofer che in tutto era l'opposto di Montgelas. "Quasi non si conoscono altre due figure più diverse e più opposte di così: l'uno letterato e ostinato riformatore, l'altro senza istruzione superiore e conservatore; l'uno un cortigiano autocompiacente, l'altro un oste gioviale; l'uno formato dall'illuminismo scettico e dalla massoneria, l'altro figlio profondamente credente e pio della Chiesa cattolica-romana; l'uno malaticcio e debole, l'altro esuberante di salute e di rigogliosa forza; Montgelas, il nobile servitore di un re dipendente da Napoleone, Andreas Hofer, un difensore e rappresentante del ceto contadino e del popolo semplice." Questi due personaggi incorporarono i due grandi contendenti: l'illuminismo massonico e il cristianesimo cattolico popolare.

L'IMPRONTA RELIGIOSA DELL'INSURREZIONE TIROLESE

Nella primavera del 1809 i tirolesi insorsero contro i bavaresi e i francesi. Le compagnie tirolesi riuscirono a sconfiggere più volte i nemici. Sul monte Isel nelle vicinanze di Innsbruck Andreas Hofer inflisse tre sconfitte agli eserciti franco-bavaresi. Tutta l'insurrezione fu contrassegnata da una forte impronta religiosa. Ciò si esplicava nel motto scelto dai patrioti tirolesi: "Per Dio, per l'imperatore e per la patria!" e nei vari editti emanati da Andreas Hofer e dai suoi comandanti. In un editto di Hofer alle compagnie di Axams si leggono le seguenti righe: "Se mai vi accorgete che ci avviciniamo... non esitate a prendere le armi. Si tratta di religione e di cristianesimo; non lasciatevi ingannare dai mascalzoni..." Un altro esempio significativo sono le seguenti righe scritte dal comandante Speckbacher: "Prego nel nome di Dio e della SS. Trinità, che tutti gli uomini che possono portare le armi partano coi Landsturm generale ... per combattere per Dio, la patria, l'imperatore."
Più volte Andreas Hofer e gli Schützen tirolesi prima delle battaglie decisive parteciparono alla messa e si comunicarono devotamente. Significativa una frase pronunciata da Hofer prima della terza battaglia al monte Isel: "Tirolesi, siete pronti? Allora diamoci da fare. Avete ascoltato la messa, avete bevuto la vostra grappa, adesso avanti nel nome di Dio!" Andreas Hofer promise anche solennemente che i tirolesi avrebbero celebrato ogni anno la festa del Sacro Cuore di Gesù se il paese fosse stato liberato dal nemico. E subito dopo la seconda vittoria al monte Isel ordinò l'introduzione di questa festa.
Dopo le varie vittorie i tirolesi si ricordarono sempre di ringraziare il Signore per la sua assistenza. Si celebrarono delle messe e si fecero delle processioni. L'Hofer, anche nei momenti del massimo trionfo, non tralasciava di attribuirne il merito a Dio. Molto famosa è la sua frase pronunciata davanti alla folla che lo inneggiava ad Innsbruck: "Non io, non voi, ma quello lassù!" In un suo editto l'Hofer scrisse: "Semmai noi abbiamo sperimentato la bontà indulgente e salvatrice di Dio verso di noi, ciò fu certamente nella prima metà del mese di agosto (1809), quando l'aiuto del Cielo ci strappò così visibilmente dalle mani di un nemico che crudelmente soggioga e che non rispetta né religione, né trattati, né umanità." Anche verso la fine dell'insurrezione, quando le sorti dei tirolesi avevano già preso una brutta piega, Hofer era ancora fiducioso che l'intervento divino potesse assecondare la sua battaglia: " ... voi vedete, cari fratelli, che Dio ci ha scelti come il suo popolo preferito e ci incita a battere una nazione straniera, la più forte che è sulla terra. Noi ci batteremo come i cavalieri antichi, e Dio e la nostra Santa Vergine ci daranno la loro benedizione..." "L'Hofer, come ha affermato abbastanza spesso e insistentemente nei suoi editti, prese le sue decisioni in vista di Dio e della fede. La convinzione religiosa dei tirolesi era in certi casi talmente grande che essi lottavano ad oltranza anche quando la disfatta era ormai evidente. Erano talmente convinti di combattere per la causa giusta che non potevano immaginarsi che il cielo li abbandonasse nella loro "guerra santa". In questo senso la convinzione religiosa troppo emotiva di alcuni capi dell'insurrezione portò anche a conseguenze tragiche.

LE DIRETTIVE RELIGIOSE E MORALI DI ANDREAS HOFER

Molto eloquenti sono anche le direttive religiose e morali che l'Hofer dettò durante il suo governo ad Innsbruck. Dopo la sua terza vittoria al monte Isel l'oste della val Passiria s'insediò nella reggia della capitale tirolese e impartì la sua "ordinanza dei costumi". Nel preambolo di questa ordinanza tenne presente ai cittadini quanto Dio aveva fatto per loro. Esortò la popolazione a comportarsi secondo la volontà di Dio, altrimenti Dio avrebbe punito ancora il paese a causa dei suoi peccati. Poi il testo prosegue: "Noi dobbiamo cercare seriamente di meritarci il suo paterno amore con pari amore mediante una vita edificante, casta e pia, e come Egli comanda qual Padre, mediante un vero e sincero amore del Prossimo; ed in conseguenza bandire l'odio, l'invidia, la rapacità ed ogni altro vizio; e prestare ubbidienza ai Superiori e aiutare per quanto possiamo i nostri concittadini angustiati; in generale poi evitare ogni scandalo." Nella sua ordinanza l'Hofer menziona anche il seguente dettaglio: "Molti dei miei buoni fratelli d'armi, e difensori della patria si sono scandalizzati che le donne d'ogni condizione coprano il loro petto e i loro bracci troppo poco ovvero con pezze trasparenti, ed in conseguenza danno occasione a stimoli peccaminosi, ciò che non può che sommamente dispiacere a Dio, ed ad chiunque pensa cristianamente. Si spera che al fine di tener lontano il castigo di Dio, esse miglioreranno; in caso contrario dovranno ascrivere a se stesse se in un modo loro sgradevole verranno lordate di ..." In una seconda ordinanza Andreas Hofer esprime alcuni divieti: non sono più permessi i balli, tranne in caso di nozze; non si possono consumare bevande e cibi nelle osterie durante le funzioni religiose domenicali, eccetto i forestieri e i carrettieri che arrivassero o che partissero o in caso di estremo bisogno. L'ordinanza non tollera "l'andar vagando di notte tempo, ciocchè disturba così spesso la pubblica tranquillità, ed è tanto pericoloso alla moralità..."
Un particolare interessante della seconda ordinanza emanata da Andreas Hofer è anche il provvedimento riguardo ai padri di figli illegittimi:
"Affinché poi i padri d'illegittimi fanciulli non possano più per l'addietro così facilmente scansarsi dal mantenimento, ed educazione dei medesimi a danno dei fanciulli stessi, e dell'interesse pubblico, ed acciò libertini e seduttori non possano così agevolmente a spese altrui, e persino a spese delle fondazioni destinate al mantenimento dei poveri, degli ammalati ecc. trarre le femmine al male, viene ordinato, che cominciando dal giorno d'oggi, tostoché una donna non maritata diventa madre debba denunziare il padre del fanciullo non solo al parroco, ma ben anche alla rispettiva autorità, la quale farà tantosto chiamare il padre denunziato, lo esaminerà, lo giudicherà, obbligherà il reo ad adempiere i doveri di padre, e lo condannerà secondo la gravità della seduzione esercitata sulla femmina."
Alla fine dell'ordinanza si trova anche un ammonimento di impegnarsi per la fede e la morale: "Finalmente vengono seriamente avvertite tutte le Superiorità ecclesiastiche e civili, che per l'avvenire memori dei loro doveri e dell'autorità loro compartita cooperino unicamente, onde bandire per ogni dove le immoralità, ed i vizi, e promuovere la cristiana religione, e la virtù."
Durante il suo governo ad Innsbruck l'oste del Sandhof condusse una vita molto pia. Si alzava alle cinque e andava a messa nel duomo di San Giacomo. Di sera si soleva pregare a lungo. Un testimone oculare racconta: "Tutte le sere dopo cena recita il rosario con i suoi ospiti e le guardie e infine dice ancora un centinaio di Padre nostro in onore di diversi santi. Chi capita a quest'ora deve associarsi alla preghiera." Al muro dei refettorio fece appendere un crocifisso e un'immagine della Madonna. Non permetteva che si usassero termini ambigui in sua presenza. Una volta fu testimone di un litigio fra due coniugi in presenza di due inservienti che si concluse con lo scambio di volgari espressioni fra i quattro. Allora Andreas Hofer intervenne con un linguaggio piuttosto drastico: "Non vi vergognate, voi porci?! Siete dei porci tutti e quattro! C'è proprio motivo per litigare in questo modo? Siete dei bei cristiani! Siete dei mascalzoni! Come fate voi a confessarvi? Avanti, marsch! E se capitate ancora una volta con simili porcherie, vi faccio arrestare tutti e quattro. Via, marsch! toglietevi dai miei occhi, voi stomaci di troia!" Anche in queste parole piuttosto rudi si manifestava la dirittura inflessibile di Andreas Hofer.

L'ESORTAZONE DELLE TRUPPE TRENTINE

Hofer dovette intervenire anche contro gli abusi di alcune compagnie trentine che lottavano con lui contro i francesi. Queste truppe erano formate in parte da avventurieri che si coprirono di dubbia gloria: i loro comandanti Dal Ponte e Garbini non agirono sempre in sintonia con Hofer e vessarono i comuni e i cittadini tramite requisizioni, saccheggi e l'imposizione di tributi. (62) A causa delle lamentele giunte fino a Innsbruck, l'Hofer redasse un proclama alla popolazione trentina che rispecchia molto bene la rettitudine del suo carattere:
Ai tirolesi italiani tanto amati! Con dispiacere sento che siete stati trattati molto male dalle mie truppe. Ora invio a voi, amati, cari e bravi compaesani e fratelli d'armi, una proclamazione, affinché in futuro, tramite la presentazione di essa, i ben intenzionati sappiano salvaguardarsi dai malintenzionati. Il mio cuore sincero, che pensa in maniera retta e onesta a tutti voi, detesta bande di briganti e saccheggi, detesta le requisizioni e l'impostazione di tributi, e ogni tipo di offese e pretese nei confronti di coloro che hanno ceduto alle truppe i loro alloggi. Nessuna di queste azioni infami trova posto nel mio cuore patriottico.
Ogni bravo e onesto difensore della patria deve guardarsi bene dall'insudiciare e offendere il suo onore e il suo amore verso il prossimo, il che farebbe cadere su di noi la riprovazione di Dio che ci ha protetto così visibilmente e miracolosamente."
Queste righe fanno capire che Hofer non ammetteva nessuna trasgressione che fosse contraria al buon senso umano e alla morale cristiana. Forse questo "selvaggio" - come lo giudicarono gli Illuminati di allora aveva una formazione di cuore e una morale maggiore di tanti "lumi". Inoltre questo testo fa anche capire che Hofer considerava "compaesani" e "fratelli" i "tirolesi italiani".

LA CATTURA DI ANDREAS HOFER

Nell'estate del 1809 Napoleone sconfisse l'esercito austriaco a Wagram. Nel trattato di Schönbrunn il Kaiser dovette firmare un armistizio che imponeva anche la resa e la sottomissione dei tirolesi. Ma siccome l'imperatore poco prima di questo trattato aveva assicurato a Andreas Hofer di voler appoggiare la causa dei tirolesi, questi non volle credere all'armistizio e diede ordine di proseguire con i combattimenti. Allora Napoleone mandò nuove truppe (in tutto 50 mila uomini) per espugnare la regione tirolese. Da tutte le parti il Tirolo fu invaso dai nemici bavaresi e francesi che saccheggiarono interi paesi e incendiarono centinaia di masi. Hofer sperava ancora che l'imperatore austriaco gli mandasse delle truppe in aiuto, ma il Kaiser abbandonò i tirolesi al loro destino. A causa di informazioni contraddittorie e dell'influenza negativa di alcuni oltranzisti fanatici nelle proprie file, Hofer divenne sempre più incerto sul da farsi. Il suo stato d'animo era contrassegnato da momenti di ottimismo e slancio e da momenti di pessimismo e disperazione. Cambiava continuamente il suo parere a seconda dell'influenza momentanea e dava ordini contraddittori. Infine i tirolesi furono sconfitti al monte Isel. La disfatta fu totale e Hofer dovette scappare. Assieme a sua moglie, suo figlio e allo scrivano Sweth si nascose in una malga sopra San Martino in val Passiria. Sarebbe potuto fuggire anche in Austria, ma voleva stare vicino al suo popolo.
A causa dell'inverno le condizioni del soggiorno erano molto dure. Ma più opprimente ancora era lo stato d'animo di Hofer che si sentiva colpevole per la disgrazia dei suoi compaesani. In una lettera indirizzata all'arciduca Giovanni, che era un fratello dell'imperatore e un grande amico dei tirolesi, si avverte tutto il suo tormento interiore. Tra l'altro Hofer scrive che sarà maledetto dai suoi compaesani anche dopo la morte. "Ma anche questo lo sopporterei volentieri; temo soltanto il giudizio severo di Dio, al quale dovrò rispondere per i miei sudditi." La lettera porta la firma "il povero peccatore abbandonato Andere Hofer."
Nella notte fra il 27 e il 28 gennaio 1809 un compaesano di Hofer tradì il supremo comandante tirolese. Per una taglia di 1500 fiorini il contadino Franz Raffl, che poi venne chiamato il "Giuda del Tirolo", condusse i soldati francesi alla Mähderhütte sopra San Martino. Quando i soldati francesi ebbero circondato la capanna per arrestare il comandante tirolese, questi aprì la porta e chiese se qualcuno dei soldati parlasse in tedesco. Allora si avvicinò a lui l'aiutante del generale Baraguey d'Hilliers che sapeva il tedesco. Hofer si rivolse a lui e disse: "Lei è venuto per arrestarmi; eccomi qua. Fate di me quello che volete perché sono colpevole; ma chiedo clemenza per mia moglie, mio figlio e questo giovane uomo (si trattava di Sweth), perché sono veramente innocenti." Hofer "nel momento del pericolo non si era dimenticato di chi gli era caro ed anzi per loro era stato il suo primo pensiero."
Ma i soldati non dimostrarono nessuna clemenza. Si scaraventarono su di lui e lo maltrattarono. Legarono Hofer, suo figlio e lo scrivano Sweth e li trascinarono verso la valle. Durante la marcia i soldati maltrattarono Hofer con pugni e calci e gli strapparono peli dalla barba per aver un ricordo del "generale Barbou".Nelle memorie di Sweth, che l'avrebbe accompagnato fino alla morte, si trovano le seguenti righe: "Appena un quarto d'ora dalla capanna, noi tre, e cioè Hofer, suo figlio e io, lasciammo delle tracce di sangue sul nostro sentiero, perché al nostro arresto non ci fu permesso di metterci le scarpe o gli stivali e gli altri vestiti. Il nobile Hofer, dal volto del quale scendeva il sangue e la cui barba era ridotta a un ghiacciolo sanguinante, c'ispirava coraggio, guardando devotamente verso il cielo stellato: 'Pregate', gridava a noi, siate perseveranti, soffrite con pazienza e offrite le vostre sofferenze a Dio, così potete anche espiare una parte dei vostri peccati.' Così parlava ripetute volte l'eroe cristiano che non era adirato contro i suoi nemici, ma che sopportava con pazienza tutte le sofferenze."
I prigionieri furono portati prima a Merano e poi a Bolzano. A Bolzano Hofer dovette accomiatarsi da sua moglie e da suo figlio.

IN VIAGGIO VERSO MANTOVA

Il trasporto dei prigionieri Hofer e Sweth proseguì verso Mantova dov'era il quartier generale dei francesi. Per una notte i due dovettero, fermarsi ad Ala.
Alcuni ufficiali francesi ammirarono il comportamento semplice dignitoso dell'Hofer. Si ricordavano pure che l'Hofer non aveva mai fatto passare per le armi i prigionieri francesi. Essi cercarono di ottenere la grazia per il comandante tirolese. Addirittura il viceré d'Italia, il figlio adottivo di Napoleone, Eugene Beauharnais, s'interessò personalmente per Hofer. Ma Napoleone decise diversamente: "Figlio mio, ti avevo chiesto di mandarmi Hofer a Vincennes. Ma poiché egli è a Mantova, vi ordino di formare subito una commissione militare per giudicarlo e farlo fucilare non appena l'ordine sarà giunto. Che tutta la questione sia sistemata entro 24 ore." Dopo quest'ordine di Napoleone l'esito del processo ad Andreas Hofer fu chiaro fin dall'inizio. Il suo difensore d'Ufficio fu Gioacchino Basevi, un giovane avvocato ebreo che s'impegnò in tutti i modi per ottenere l'assoluzione per il suo mandante. Ma il tribunale militare condannò a morte l'Hofer.

LA MORTE DI ANDREAS HOFER

Dopo la condanna alla sera del 19 febbraio 1810 Andreas Hofer venne separato dal suo compagno Sweth e condotto in un'altra cella. Si confessò dall'arciprete Don Alessandro Borghi della parrocchia di S. Michele che aveva l'incarico di accompagnare all'esecuzione i condannati. Don Alessandro ebbe però la sensibilità di chiamare un altro sacerdote che sapeva anche il tedesco. Benché l'Hofer sapesse discretamente l'italiano, sembrò giusto all'arciprete che il condannato avesse un'assistenza spirituale nella propria madrelingua. Così all'una di notte subentrò Don Giovanni Battista Manifesti che passò tutta la notte con Hofer e che il giorno successivo lo accompagnò all'esecuzione. Verso le cinque del mattino venne un ufficiale francese che comunicava ufficialmente a Hofer la condanna a morte e l'esecuzione. Hofer ebbe ancora il tempo e la forza psichica per scrivere ad alcune persone. Scrisse anche una lettera al suo amico Pühler a Egna nella quale dava alcune direttive: "Carissimo signor fratello, è stata la volontà di Dio che io debba qui a Mantova fare il cambio del temporale con l'eterno, ma per merito della grazia divina mi sembra una cosa così facile, come se venissi condotto a un'altra meta (non all'esecuzione). Dio mi concederà anche la grazia fino all'ultimo istante, affinché io possa arrivare fin là dove la mia anima con tutti gli eletti potrà rallegrarsi in eterno, e dove potrò intercedere per tutti presso Dio..."
L'Hofer chiede che venga celebrata una messa e che si preghi per lui, ordina il pasto che si deve offrire ai partecipanti al suo funerale. Scrive di aver dato ai poveri tutto il denaro che aveva con sé. Esorta l'amico a regolare bene i conti con i suoi creditori per non dover soffrire nel purgatorio. Infine prega l'amico di consolare sua moglie e si accomiata dall'amico e dalla vita terrena: "Arrivederci in questo mondo finché ci incontreremo nel cielo dove loderemo Dio senza fine. Addio, mio mondo meschino, mi sembra così facile la morte che non mi si bagnano nemmeno gli occhi; scritto alle cinque della mattina, alle nove coll'aiuto di tutti i santi viaggio verso Dio - Mantova, lì 10 februari 1810 - tuo Andere Hofer da Sand in val Passiria che hai amato nella vita - nel nome del Signore voglio intraprendere questo viaggio con Dio."
Erano quasi le undici del 20 febbraio 1810, quando Andreas Hofer venne condotto all'esecuzione. Sulla strada c'era tanta gente che esprimeva la sua simpatia per il "generale Barbone". Fra la folla c'era anche il suo difensore, l'avvocato Basevi:
"Mai ho visto tra il pubblico di un'esecuzione tanta sincera emozione e tanta indignazione. Dalla folla si sono levate grida contro i francesi ed i loro lacchè del cosidetto Regno Italico.
Quando il martire è passato davanti alle casematte di Porta Molina molti compagni di Hofer colò tenuti, e fra gli altri Gaetano Sweth, che ha condiviso con lui gli ultimi e più tristi mesi, si sono inginocchiati invocando la sua benedizione, ma egli si è limitato ad un cenno di saluto ed ha indicato il cielo e il sacerdote al suo fianco, quasi per significare che solo questi aveva il potere di benedire.
L'Hofer si presentò al plotone d'esecuzione. Fra le sue mani teneva un crocifisso ornato da un mazzetto di fiori. Non volle la benda davanti agli occhi, ma guardò coraggiosamente verso i fucili. Pregò i soldati di mirare bene. L'ufficiale Eiffes non ebbe l'animo per dare il comando dell'esecuzione; allora fu lo stesso Hofer a gridare "Fuoco". I soldati, commossi anche loro, spararono male. Infine l'ufficiale Eiffes dette a Hofer il colpo di grazia. Dopo la morte si celebrarono le esequie nella chiesa di San Michele. La sepoltura avvenne nel piccolo cimitero adiacente alla chiesa."


Autore: Marco Andreolli e Peter Egger

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Aggiunto/modificato il 2010-07-01

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domenica 20 febbraio 2022

MadreTeresa Pasolini

 Cosa disse Pasolini di Madre Teresa di Calcutta: «Una donna che dove guarda, vede»

redazionale

www.bergamopost.it – 5 settembre 2016

«Suor Teresa vive in una casetta non lontana dal centro della città, in uno sfatto vialone, roso dai monsoni e da una miseria che toglie il fiato». Erano i primi giorni del 1961, e Pier Paolo Pasolini era in viaggio in India, invitato insieme ad Alberto Moravia ed Elsa Morante, per le celebrazioni per il centenario del grande poeta nazionale Tagore. Allora Teresa aveva 50 anni, in pochi sapevano chi fosse e cosa stesse facendo. Anche in Italia nessuno aveva ancora parlato di lei. Arrivato a Calcutta Pasolini, mosso dalla curiosità, avendo sentito parlare di questa suora, aveva voluto conoscerla. Lei non era ancora “madre” ma semplicemente Suor Teresa. Aveva solo cinque o sei sorelle impegnate con lei nell’assistenza dei lebbrosi. A differenza dei suoi due compagni di viaggio, Pasolini ha un approccio diverso. Vuole vedere e toccare con mano, inoltrarsi nell’India profonda, mentre Moravia «con il suo meraviglioso igienismo», come scrive Pasolini, preferiva stare nelle hall degli alberghi lussuosi.

Lui si definisce invece un «viaggiatore ineconomico», pronto a immergersi nell’India profonda. Ed è questo suo approccio che lo portò a bussare alle porte di quella suora albanese. Il resoconto molto sobrio di quell’incontro oggi si può leggere nel bellissimo libro che Pasolini scrisse al ritorno, intitolato L’odore dell’India. Lo scrittore è colpito in generale dalla mitezza con cui gli indiani, di qualsiasi fede, accostano il tema religioso. «In India, più che alla manutenzione di una religione, l’atmosfera è propizia a qualsiasi spirito religioso pratico», scrive. E Suor Teresa è proprio un campione di questo spirito pratico, anche se si occupa di una causa senza speranza: «Esse hanno un piccolo ospedale dove i lebbrosi vengono raccolti a morire».
Dell’incontro Pasolini non riferisce nessun dialogo. Ma le sue parole valgono più di ogni eventuale virgolettato. «Suor Teresa è una donna anziana [in realtà aveva solo 50 anni, come detto], bruna di pelle perché è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili, e l’occhio dolce, che dove guarda, “vede”». Geniale osservazione quest’ultima, indice di una sensibilità come può essere solo quella di una grande scrittore. Un’osservazione che dice tutto del metodo di Teresa, capace di cogliere immediatamente nelle persone il bisogno. Pasolini poi aggiunge che la suora «assomiglia in modo impressionante a una famosa Sant’Anna di Michelangelo» [in realtà si confonde con Leonardo e la sant’Anna del celebre cartone conservato al Louvre]. E poi continua: «Ha impressa la bontà vera, quella descritta da Proust nella vecchia serva Francesca: bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica».
Pasolini è profondamente colpito. Dice che di fronte all’immenso problema dei lebbrosi in India ha provato «vero impulso di odio contro Nehru e i suoi 100 collaboratori intellettuali educati a Cambridge». Invece Suor Teresa «cerca di fare qualcosa: come lei dice, solo le iniziative del suo tipo possono servire, perché cominciano dal nulla». Infine una bellissima osservazione generale che, letta oggi, fa pensare molto a papa Bergoglio: «Ho conosciuto dei religiosi cattolici: e devo dire che mai lo spirito di Cristo mi è parso così vivido e dolce; un trapianto splendidamente riuscito». Domani, là dove è, anche Pasolini gioirà per la canonizzazione si quella suora incontrata un giorno nell’inferno di Calcutta.


I Fratelli Karamazov

 Sto per terminare i Karamazov», scrive Dostoevskij il 16 agosto del 1880. «Quest'ultima parte, lo vedo e lo sento da me, è cosí originale e diversa da come scrivono gli altri, che non mi aspetto alcuna approvazione dalla critica. Il pubblico, i lettori sono un'altra storia: mi hanno sempre sostenuto.»

«I romanzi di Dostoevskij sono vortici in ebollizione, turbinose tempeste di sabbia, getti d'acqua che sibilano e ribollono e ci risucchiano. Consistono essenzialmente e completamente della materia di cui è fatta l'anima. Contro la nostra volontà, ci troviamo risucchiati al loro interno, costretti a roteare, accecati, soffocati e nello stesso tempo in preda a un vertiginoso rapimento. Tolto Shakespeare, non esiste lettura piú elettrizzante» – Virginia Wolf

«Sto leggendo "I fratelli Karamazov" di Dostoevskij. È la cosa piú stupefacente che mi sia mai capitata fra le mani» – Albert Einstein

«"I fratelli Karamazov" mi ha colpito profondamente. Chiamiamola pure follia, ma proprio in questo potrebbe risiedere il segreto del suo genio. Io preferisco la parola esaltazione, esaltazione che travalica nella follia, magari. Di fatto tutti i grandi uomini ne hanno una vena; è la fonte della loro grandezza; l'uomo ragionevole non approda a nulla» – James Joyce

«"I fratelli Karamazov" è il romanzo piú grandioso che mai sia stato scritto, l'episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile...» – Sigmund Freud

A un secolo e mezzo dalla sua comparsa, dapprima sulla rivista «Russkij vestnik» (Il messaggero russo) e poi in un'edizione in due volumi che andò esaurita nel giro di qualche settimana, questa scrittura diversa e originale, «madre della prosa moderna e che ha portato alla sua intensità attuale » (James Joyce), questi «vortici in ebollizione, turbinose tempeste di sabbia, getti d'acqua che sibilano e ribollono e ci risucchiano » dentro pagine composte «essenzialmente e completamente della materia di cui è fatta l'anima» (Virginia Woolf), questa «vetta della letteratura di ogni tempo » (Albert Einstein), questo «libro che può insegnarti tutto quello che serve sapere sulla vita» (Kurt Vonnegut), questo autore «che sovrasta con la sua statura le nostre letterature e la nostra storia» e che «oggi ancora ci aiuta a vivere e sperare» (Albert Camus), questa lettura «nevrotica » (Vladimir Nabokov) ma umanissima del cristianesimo, non ha perso nulla della sua potenza letteraria. E ancora oggi, mentre assistiamo al parricidio piú famoso delle lettere moderne e ne seguiamo l'esaltante iter giudiziario, siamo costretti a scendere con Ivan, Dmitrij e Alëša Karamazov nelle profondità piú scomode dell'animo umano, a interrogarci sugli istinti peggiori dell'individuo e della società, a incidere come un patologo le cancrene della nostra coscienza, in un percorso in cui realtà e incubo non sempre hanno contorni netti, in cui la tragedia si accompagna alla farsa, e la disperazione si danna per alimentare una pur esile fiammella di speranza. I fratelli Karamazov è il testamento letterario, e non solo, di Dostoevskij, il romanzo di chi guarda al sublime da una pozza di fango, delle idee che prendono fuoco, di coloro che «non respirano mai tranquillamente né mai si riposano (...), di chi vive nella febbre, nella convulsione, nello spasimo» (Stefan Zweig).

sabato 19 febbraio 2022

Metodo Vieri

 

Aceto e colchicina

Il cocktail segreto del dottor Vieri

Aceto e colchicina

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Aceto e colchicina
Pause
200 ml di alcool puro in una boccetta contagocce nuova (per evitare contaminazioni), dalle 3 alle 20 gocce di tintura di colchico e dalle 3 alle 20 gocce di aceto di puro vino. Dopo essere mescolato bene il composto può essere somministrato (da 15 a 20 gocce al giorno) per via linguale.

Queste sono le dosi e la modalità di somministrazione non di uno strano cocktail, bensì della presunta cura per il cancro scoperta da Aldo Vieri, un medico chirurgo che ha lavorato per diversi anni all’Istituto oncologico Regina Elena di Roma, negli anni ’60.

Elemento caratteristico di questo siero era la “colchicina”, detta anche zafferano dei prati, sostanza con proprietà analgesico-antipiretiche e con doti antimitotiche, provata per la terapia dei neoplasmi alla fine dell’800, ma poi abbandonata a causa di risultati contraddittori e per l’alta tossicità.

Inizialmente il dott. Vieri, non vuole rivelare il nome del cocktail con cui cura le decine e decine di malati di cancro che frequentano il suo studio al numero 43 di Via Bergamo, nella capitale. Li assiste gratis - o almeno così riportano i giornali del tempo - facendoli ricoverare anche in una clinica dell’Eur a sue spese. “La mia giornata comincia alle quattro del mattino”, racconta in un’intervista sul settimanale “Il Tempo”, dove il medico viene descritto come un uomo “grigio, livido, con gli occhiali un poco affumicati”.

Il caso monta e nell’autunno del ‘67 il Ministro della Sanità Luigi Mariotti interviene annunciando la sperimentazione della cura di Vieri su 30 pazienti, tutti in fase iniziale e scelti dallo stesso Vieri, al Regina Elena.

Si scopre così la composizione del celebre siero che Vieri enuncia in una conferenza stampa davanti alle telecamere il 14 novembre del 1967, in un affollato salone del Circolo della Stampa di Napoli.

Sei mesi dopo, la Commissione di esperti riferisce che nessun paziente ha risposto al trattamento: la cura è inefficace. 

mercoledì 16 febbraio 2022

La speranza di Clemente Rebora

 

La speranza 

Poesia "La speranza" di Clemente Rebora

***
Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra.
Speravo nel tempo, ma passa, trapassa;
In cosa creata: non basta, e ci lascia.
Speravo nel ben che verrà, sulla terra:
Ma tutto finisce, travolto, in ambascia.

Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato
La Voce d’Amore che chiama e non langue:
Ed ecco la certa speranza: la Croce.
Ho trovato Chi prima mi ha amato
E mi ama e  mi lava, nel Sangue che è fuoco,
Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito,
L’Amore che dona l’Amore,
L’Amore che vive ben dentro nel cuore.

Amore di Cristo che già qui nel mondo
Comincia ed insegna il viver più buono:
Felice amore  di Spirito Santo
Che trasfigura in grazia e morte e pianto, 
D’anima e corpo la miseria buia:
Eterna Trinità, dove alfin belli
-   Finendo il mondo – saran corpi e cuori
In seno al Padre con la dolce Madre
Per sempre in Cristo amandosi fratelli,
Alleluia

martedì 15 febbraio 2022

Galileo Galilei in pellegrinaggio a Loreto

Galileo Galilei in pellegrinaggio a Loreto

 di Francesco Agnoli

https://www.iltimone.org/

Su  Galilei si sono scritti fiumi di libri e di articoli di ogni genere. Purtroppo però si tratta di letteratura in gran parte ideologica e strumentale, legata a due singoli episodi, per quanto importanti, della sua vita, e cioè i “processi” davanti all’Inquisizione del 1616 e del 1633. Un simile diluvio di libelli e opuscoli, per lo più di scarso valore, ha accompagnato il grande scontro ideologico tra filosofie illuministe, materialiste, positiviste, comuniste… e la Chiesa cattolica, divenuta bersaglio, proprio negli ultimi due secoli, di visioni del mondo del tutto diverse. Non è un caso che il primo ad impadronirsi delle carte del processo a Galilei, saccheggiando gli archivi del Sant’Uffizio, e sperando di poterne fare un uso politico, sia stato Napoleone, portabandiera di un mondo che vedeva nel cattolicesimo il nemico per eccellenza (tanto che il generale corso, tra una guerra e l’altra, arrivò ad imprigionare ben due papi).

Il risultato di tanto polverone è che la gran parte delle persone non conoscono affatto i meriti astronomici e scientifici del “divin pisano”, né il suo vero pensiero riguardo alla scienza e alla fede, ma serbano nella memoria descrizioni più o meno romanzesche del processo medesimo, immaginando poi che Galilei sia incorso in chissà quali torture e condanne.

Senza voler affrontare questa annosa questione (si veda QUI), le tante falsificazioni e incomprensioni al riguardo, ci si vuole qui limitare a raccontare un fatto storico, presente in tutte le biografie di Galilei, sia quelle più dozzinali che quelle più scientifiche.

Il fatto è presto detto: siamo nella primavera del 1618, dopo il primo, leggero scontro con l’Inquisizione guidata dal cardinal Bellarmino, e Galilei, che ha già 54 anni ed un fisico piuttosto debilitato, decide “di concedersi un faticoso pellegrinaggio (di oltre trecento miglia) lungo l’Appennino, attraverso stretti passi di montagna e strade impervie, fino alla Santa Casa di Loreto, quindici miglia a sud di Ancona” (James Reston, Galileo, Piemme, 2005, p. 242). Nella Santa Casa si diceva che avvenissero guarigioni miracolose, e per il Reston “non vi è dubbio che ciò dovette costituire una forte attrattiva per l’acciaccato Galileo”.

Anche un’altra biografa, Dava Sobel, ricorda il pellegrinaggio in questione, sottolineando che in quell’occasione “potè anche ringraziare la Vergine per la recente guarigione e pregare per godere di migliori condizioni di salute in futuro” (Dava Sobel, La figlia di Galileo, Rizzoli, Bur, Milano, 2012, p. 103).

Ma non è finita qui: benchè meno documentato, è probabile un secondo pellegrinaggio di Galilei alla Santa Casa, databile alla primavera del 1633: abbiamo infatti una lettera della amata figlia, suor Maria Celeste, in cui ella accenna alla volontà del padre di “visitare la Santa Casa di Loreto”.

Ma come, allora Galilei aveva una grande venerazione per la Madonna e credeva ai miracoli? Questa potrebbe essere la reazione di chi, stordito dalla profluvie di propaganda, ritenesse che il processo a Galilei sia la dimostrazione di una presunta incompatibilità tra scienza e fede.

No, Galilei, come riconoscono tutti gli storici seri, e come ammettono anche personaggi insospettabili come Stephen Hawkins e Richard Dawkins, fu sempre, sino alla fine dei suoi giorni, un devoto credente.

Del resto andrebbe ricordato un altro fatto, anche questo poco conosciuto: ancora giovane Galilei era stato educato dai monaci di Vallombrosa, che gli avevano insegnato per quattro anni il latino, il greco, la matematica e i primi rudimenti della scienza. A quindici anni compiuti, nel 1579, con saio monacale e cappuccio, si apprestava a farsi monaco, ma fu portato via con la forza dal padre Vincenzio (James Reston, op. cit., p. 17-21). Dava Sobel riassume così i fatti: “Una volta lì (nel monastero benedettino di Vallombrosa, ndr), entrò nell’ordine come novizio sperando di diventare monaco, ma il padre non glielo permise. Vincenzio lo ritirò dal convento e lo riportò a casa prendendo come pretesto una infiammazione agli occhi che richiedeva cure mediche. Più probabilmente fu il denaro a decidere la questione”, perché il padre non aveva i soldi per la retta e voleva che il figlio scegliesse un lavoro più redditizio (Sobel, op. cit., p. 29).

Ma torniamo un attimo a Loreto. L’anno dopo il pellegrinaggio di Galilei del 1618, precisamente il 10 novembre 1619, un altro gigante della matematica, Cartesio, fa voto di recarsi alla Santa Casa di Loreto per ringraziare dell’“illuminazione” da cui è scaturito il suo sistema filosofico. Cartesio adempirà al voto, viaggiando a piedi da Venezia a Loreto, per 12 giorni, alla metà del novembre del 1624.