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venerdì 29 ottobre 2021

il nuovo dispotismo

 Alexis de Tocqueville era veramente un brillante osservatore ed aveva una rara capacità di analisi dei fenomeni sociali, per scrivere queste cose alla metà del XIX secolo.


"I governi democratici possono diventare violenti e anche crudeli in certi momenti di grande effervescenza e di pericolo, ma queste crisi saranno rare e passeggere. Quando penso alle piccole passioni degli uomini del nostro tempo, alla mollezza dei loro costumi, all’estensione della loro cultura, alla mitezza della loro morale, alla purezza della loro religione, alle loro abitudini laboriose e ordinate, alla moderazione che quasi tutti conservano nel vizio come nella virtù, non temo che essi troveranno fra i loro capi dei tiranni, ma piuttosto dei tutori.

Credo, dunque, che la forma d’oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici non rassomiglierà a quelle che l’hanno preceduta nel mondo, i nostri contemporanei non ne potranno trovare l’immagine nei loro ricordi.

Invano anch’io cerco un’espressione che riproduca e contenga esattamente l’idea che me ne sono fatto, poiché le antiche parole dispotismo e tirannide non le convengono affatto. La cosa è nuova, bisogna tentare di definirla, poiché non è possibile indicarla con un nome.


Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria.


Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi.


Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore; provvede alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere? Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà in più piccolo spazio e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso. L’eguaglianza ha preparato gli uomini a tutte queste cose, li ha disposti a sopportarle e spesso anche considerarle come un beneficio.


Così, dopo avere preso a volta a volta nelle sue mani potenti ogni individuo ed averlo plasmato a suo modo, il sovrano estende il suo braccio sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e vigorosi non saprebbero come mettersi in luce e sollevarsi sopra la massa; esso non spezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca; non distrugge, ma impedisce di creare; non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi ed industriosi, della quale il governo è il pastore. Ho sempre creduto che questa specie di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto, possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all’ombra della sovranità del popolo.


I nostri contemporanei sono incessantemente affaticati da due contrarie passioni: sentono il bisogno di essere guidati e desiderano di restare liberi; non potendo fare prevalere l’una sull’altra, si sforzano di conciliarle: immaginano un potere unico, tutelare ed onnipotente, eletto però dai cittadini, e combinano l’accentramento con la sovranità popolare. Ciò dà loro una specie di sollievo: si consolano di essere sotto tutela pensando di avere scelto essi stessi i loro tutori. Ciascun individuo sopporta di sentirsi legato, perché pensa che non sia un uomo o una classe, ma il popolo intero a tenere in mano la corda che lo lega.

In questo sistema il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito dopo vi rientra.

...

È inutile affidare a questi cittadini, così dipendenti dal potere centrale, l’incarico di scegliere di tanto in tanto i rappresentanti di questo potere, poiché questo uso così importante, ma così breve e raro del loro libero arbitrio, non li salverà dalla perdita progressiva della facoltà di pensare, sentire e agire da soli e li lascerà cadere gradatamente al disotto del livello dell’umanità.

Aggiungo che essi diverranno presto incapaci di esercitare il grande ed unico privilegio che resta loro. I popoli democratici, introducendo la libertà nella vita politica nel tempo stesso in cui aumentavano il dispotismo amministrativo, sono stati portati a singolarità stranissime. Se si tratta di condurre piccoli affari, nei quali può bastare il buonsenso, essi stimano incapaci i cittadini; se si tratta, invece, del governo di tutto lo stato, affidano ai cittadini immense prerogative; così ne fanno a volta a volta i trastulli del sovrano e i suoi padroni; più dei re e meno degli uomini. Dopo avere escogitato infiniti sistemi di elezione, senza trovarne uno adatto, si stupiscono e cercano ancora: come se il male che essi notano dipendesse dalla costituzione del paese molto più che da quella del corpo elettorale.


È effettivamente difficile comprendere come mai degli uomini, che hanno interamente rinunciato all’abitudine di dirigere se stessi, potrebbero riuscire a scegliere bene quelli che li dovrebbero guidare; non si può mai sperare, quindi, che un governo liberale, energico e saggio possa uscire dai suffragi di un popolo di servi.

..."

(La democrazia in America, Parte IV, Cap. VI)

martedì 26 ottobre 2021

Croce, libertà

 Nei "Fratelli Karamazov" l'ultima opera, tra le più celebri, Dostoevskij ha dedicato un brano alla morte in croce di Cristo. 



[Tu non scendesti dalla croce,

quando per schernirti e per provocarti ti gridavano:

"Scendi dalla croce, e crederemo che sei proprio tu!".

Non scendesti perché, anche questa volta,

non volesti rendere schiavo l'uomo con un miracolo,

perché avevi sete

di una fede nata dalla libertà e non dal miracolo.

Avevi sete di amore libero,

e non dei servili entusiasmi dello schiavo

davanti al padrone potente

che lo ha terrorizzato una volta per sempre.]

lunedì 25 ottobre 2021

vero Warhol, più cristiano che trasgressivo

 DIZIONI 

 

Il vero Warhol, più cristiano che trasgressivo

Una mostra e un nuovo studio approfondiscono il lato intimo del maestro della Pop Art: la fede profonda anche al centro delle sue opere

Pubblicato il 25 ottobre 2021 , di DAVIDE RONDONI
L’autoritratto di Andy Warhol del 1986: l’artista morì nel 1987, a 59 anni
L’autoritratto di Andy Warhol del 1986: l’artista morì nel 1987, a 59 anni

di Davide Rondoni

È che lui continua a essere uno scandalo. Non ci possiamo far niente, lo vorremmo in un posto e sta in un altro, ci pare abbia certe caratteristiche e invece ne rivela di opposte. Si accompagna a gente poco raccomandabile. Non distingue convenienza e decoro. Sto parlando di Gesù. Che non a caso si trova intrecciato a vite spesso bizzarre e sorprendenti, e a vite di grandi artisti del nostro tempo.

Andy Warhol e Gesù, strana faccenda. Eppure, dopo vari approfondimenti e in vista della mostra dedicata al tema Andy Warhol: Revelation che – bloccata nei mesi scorsi a Pittsburgh dalla pandemia – aprirà al Brooklyn Museum il mese prossimo, la lettura di un libro edito da Ares di Michele Dolz, Andy Warhol nascosto conferma: non ci sarebbe l’arte contemporanea senza la fede cristiana. Senza Cristo non ci sarebbe. In genere, si è portati a pensare che le vicende e le figure della fede siano questioni che riguardano l’arte e gli artisti del passato. I tormenti di Michelangelo, di Caravaggio, la devozione del tremendo Guido Reni.

Ma ci sarebbero Bacon e Warhol senza Cristo ? No.

Si badi: qui non si fa la etichettatura di nessuno, nè si pesa la fede personale di nessuno, figuriamoci la morale – questo lo lasciamo ai moralisti di ogni risma che si nascondono ovunque. No, le etichette sono il contrario del senso critico e la fede di una persona è insondabile, non misurabile. Ma qui si guarda un fatto. Che è questione culturale.

Gli eccentrici figuri radunati nella Cattedrale di New York per la celebrazione del funerale dell’artista morto misteriosamente a seguito di una operazione rimasero in parte sorpresi (e in parte no) nel sentire il discorso funebre. Il noto critico d’arte John Richardson tratteggiava la figura di chi era chiamato Mr Mistero per il mix di esibizione e di timidezza.

Parlò di "un aspetto del suo carattere che nascondeva a tutti tranne che ai suoi amici più stretti: l’aspetto spirituale. Quanti di voi lo hanno conosciuto in circostanze che erano agli antipodi della spiritualità potrebbero essere sorpresi dall’esistenza di questo aspetto, ma c’era, ed era fondamentale per la mente dell’artista". La spiritualità di Warhol, scomparso a 59 anni il 22 febbraio 1987, era cristiana, fatta di più soste in chiesa durante la settimana, di preghiere nella casa piena di icone con la madre, e visite alla Madonna di Guadalupe, dove il compagno di viaggio testimonia che fece "tutte le cose che fa un cattolico", e di incasinate udienze con Papa Wojtyla. Ebbe la carità offerta in modo semplice nelle mense parrocchiali.

Se ne ha speciale fuoco nel lavoro artistico negli ultimi mesi concentrato a ridare, quasi con più "amorevolezza", sottolinea Dolz, la scena della Cena di Da Vinci a Milano, nella sua ultima mostra e apparizione pubblica. Le croci e altro entravano sempre nelle sue opere, in mezzo all’infinito catalogo, a volte morboso, certo iconico, del mondo. Dal suo angolo quasi distaccato da eventi, corpi, eventi, Warhol captava la forza di pura presenza del mondo. Quella "cosa" che il nihilismo contemporaneo stava corrodendo. E non fece arte con la dislocazione in ambiente artistico di oggetti, il readymade di tanti da Duchamp in poi, ma, nota Dolz, con la forza di ridare natura di "segno" agli oggetti. Come certe mele di Cezanne, sedie di Van Gogh.

Presenza che porta inquietudine circa il suo senso e la sottrazione al nulla. Non ha fatto questo Warhol anche a costo di ogni esibizione? La presenza iconica di un volto, di un oggetto dei più comuni, non provvedono, grazie al genio artistico (e grande lavoratore), a illuminare la natura di segno, di domanda, quasi preghiera?

La menzogna

 Stiamo ormai per toccare il fondo, su tutti noi incombe la più completa rovina spirituale, sta per divampare la morte fisica che incenerirà noi e i nostri figli, e, noi continuiamo a farfugliare con un pavido sorriso: Come potremmo impedirlo? Non ne abbiamo la forza. Siamo a tal punto disumanizzati, che per la modesta zuppa di oggi siamo disposti a sacrificare qualunque principio, la nostra anima, tutti gli sforzi di chi ci ha preceduto, ogni possibilità per i posteri, pur di non disturbare la nostra grama esistenza. Non abbiamo più nessun orgoglio, nessuna fermezza, nessun ardore nel cuore. (…) Davvero non c’è alcuna via d’uscita? E non ci resta se non attendere inerti che qualcosa accada da sé?

Ciò che ci sta addosso non si staccherà mai da sé se continueremo tutti ogni giorno ad accettarlo, ossequiarlo, consolidarlo, se non respingeremo almeno la cosa a cui più è sensibile. Se non respingeremo la menzogna. (…) Ed è proprio qui che si trova la chiave della nostra liberazione, una chiave che abbiamo trascurato e che pure è tanto semplice e accessibile: il rifiuto di partecipare personalmente alla menzogna. Anche se la menzogna ricopre ogni cosa, anche se domina dappertutto, su un punto siamo inflessibili: che non domini per opera mia! Uomini.

(…) Per i giovani che vorranno vivere secondo la verità, all’inizio l’esistenza si farà alquanto complicata: persino le lezioni che si apprendono a scuola sono infatti zeppe di menzogne, occorre scegliere. Ma per chi voglia essere onesto non c’è scappatoia, neppure in questo caso: mai, neanche nelle più innocue materie tecniche, si può evitare l’uno o l’altro dei passi che si son descritti, dalla parte della verità o dalla parte della menzogna: dalla parte dell’indipendenza spirituale o dalla parte della servitù dell’anima. E chi non avrà avuto neppure il coraggio di difendere la propria anima non ostenti le sue vedute d’avanguardia, non si vanti d’essere un accademico o un «artista del popolo» o un generale: si dica invece, semplicemente: sono una bestia da soma e un codardo, mi basta stare al caldo a pancia piena.

(…) Ma se ci facciamo vincere dalla paura, smettiamo di lamentarci che qualcuno non ci lascerebbe respirare: siamo noi stessi che non ce lo permettiamo. Pieghiamo la schiena ancora di più, aspettiamo dell’altro, e i nostri fratelli biologi faranno maturare i tempi in cui si potranno leggere i nostri pensieri e mutare i nostri geni. Se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin: A che servono alle mandrie i doni della libertà? Il loro retaggio, di generazione in generazione sono il giogo con i bubboli e la frusta”.

Solgenicyn

La Bellezza

La Bellezza

***

 Ma io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno al di sopra della liberazione dei servi della gleba, al di sopra della nazionalità, al di sopra del socialismo, al di sopra della giovane generazione, al di sopra della chimica, quasi al di sopra dell’umanità intera, poiché sono il frutto di tutta l’umanità e forse il più alto frutto che mai possa esistere! Uomini meschini, che cosa vi manca per capire? Ma lo sapete voi che senza gli inglesi l’umanità può ancora vivere, può vivere senza la Germania, può vivere fin troppo facilmente senza gli uomini russi, può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più niente da fare al mondo! Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui. La scienza stessa non resisterebbe un minuto senza la bellezza.

Fedor Dostoevskij, I demoni. 

giovedì 7 ottobre 2021

La vera salvezza sta nel cedimento dell’Io Luca M. Possati

Osservatore Romano, 2 ottobre 2021


 

 

L’inconscio, Dio, il lascito dei Padri della Chiesa. Temi di cruciale importanza in Jacques Lacan.

La lettura dello psicoanalista francese costringe ancora oggi a tornare a riflettere. Del rapporto tra Lacan e la teologia, in occasione del convegno alla Sapienza di Roma, abbiamo parlato con Massimo Recalcati, psicoanalista e studioso dell’opera lacaniana.

 

Nel suo intervento al convegno alla Sapienza lei parla di Lacan cristiano, perché? Si tratta forse di una provocazione?

L’educazione di Lacan è stata una educazione cattolica. Il fratello Marc-Francois è stato un monaco benedettino. La presenza nel suo discorso di riferimenti espliciti alla Torah e ai Vangeli è assai frequente. Per non parlare dell’incidenza di autori come san Paolo, Agostino, Tommaso d’Aquino, Lutero, Pascal. Ma soprattutto, alcuni dei suoi concetti chiave provengono chiaramente dal logos biblico. Pensiamo solo alla nozione di Nome del padre, alla sua concezione della parola come rivelazione o anche alla dimensione anti-narcisistica dell’amore come incontro con l’alterità del- l’altro. Nel mio intervento mi soffermo in particolare sul concetto di grazia che nel discorso di Lacan  viene invocato in più occasioni. La salvezza non è l’esito di un rafforzamento dell’Ego, di un potenziamento della sua volontà, ma di un suo sovvertimento, indebolimento, cedimento persino. La fede nella presenza di una trascendenza immanente al soggetto oltrepassa il principio di prestazione dell’Io. Non c’è salvezza senza questa fede. Solo che per il cristianesimo particolare di Lacan la fede che salva non si riferisce all’esistenza di Dio ma al desiderio, all’ascolto della sua chiamata, alla sua Legge.

 

 

Che cosa differenzia Lacan dalla critica freudiana della religione in testi come

«L’avvenire di una illusione» e «Il Disagio della civiltà»? C’è posto per la trascendenza in psicoanalisi?

 

Il giudizio di Freud sulla religione è radicalmente ateo e illuminista-positivista. Lacan lo definisce grossolanamente materialista. La religione è un delirio dell’umanità, una superstizione, sintomo di

una regressione dell’uomo alla condizione di credenza infantile nei confronti di un padre idealizzato. La religione è insomma una illusione nella quale l’uomo cerca rifugio per sottrarsi alla durezza e alla atrocità della vita e alla ineluttabilità tragica della morte. Lacan non trascura affatto questa critica, ma sembra riservarla all’uomo religioso in quanto tale più che al cristianesimo. Gesù è piuttosto assimilato all’esperienza di una parola che traumatizza l’ordine costituito. Una parola che non ha paura della vita. Una testimonianza radicale della forza del desiderio. La sua elaborazione complessa sul concetto di desiderio mostra che la vita umana non è solo una rincorsa affannosa verso oggetti del desiderio che possono generare solo insoddisfazione, che si rivelano vacui, inconsistenti, ma è anche una forza che sospinge verso un altrove. È desiderio dell’altrove. Ma questo altrove ed è questa la cifra della sua lettura originale del cristianesimo — non è da ricercare al di del mondo, ma è una piega di questo mondo, della sua immanenza. Accade quando la vita diviene generativa, capace di desiderio di vita, capace di gioia.

L’altra grande figura del convegno è Agostino, un pensatore a prima vista completa mente diverso da Lacan. Che cosa può dirci, oggi, in un mondo che esce dalla pandemia, il confronto tra Lacan e Agostino?

Lacan ha dichiarato una volta di aver iniziato a leggere Agostino sin dalla sua adolescenza. Anche Freud, non a caso, cita Agostino proprio laddove egli si riferisce alla necessità di tornare presso se stessi, a scavare nel nostro essere per cogliere una verità — per Freud quella dell’inconscio, per Agostino quella dell’anima — che ci oltrepassa. L’esperienza della trascendenza in Lacan e in Agostino non è tanto quella, come direbbe Nietzsche, della credenza in un mondo dentro il mondo, ma quella dell’incontro con una verità straniera interna che ha il potere di scuoterci e di risvegliarci. Nelle Confessioni l’incontro con Dio coincide con l’incontro con la propria anima. Ma nella propria anima Agostino non incontra semplicemente il suo Io, ma qualcosa che lo oltrepassa. Scopre che la sua vita non dipende solo dalla sua volontà, non è fatta da se stessa, ma proviene dall’Altro. È il tema della grazia. Per Lacan è il tema dell’incontro col reale, con qualcosa che può cambiare la nostra vita rendendola nuova. Se volete la conversione di Agostino e di Lacan ha questa radice comune. Scoprire che al centro della nostra esistenza, della nostra vita non c’è l’Io, ma c’è l’Altro. È una lezione che non dovremmo dimenticare in un tempo difficile come quello segnato dal dramma della pandemia. L’io non si salva da solo, non si salva senza l’Altro.