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mercoledì 29 maggio 2013

Le parole devono essere confermate dai fatti

  Le parole devono essere confermate dai fatti


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"E' importante parlare di mafia soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell'uomo per soldi. Non ci si fermi però ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore ma, se ci si ferma a questo livello, sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti".
Don Pino Puglisi, ucciso il 15 settembre 1993

I VERI VALORI

 I VERI VALORI
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Si muore per una Cattedrale non per delle pietre, per un popolo non per una folla. Si muore per amore dell’uomo se è chiave di volta di una comunità, si muore solo per ciò di cui si può vivere (Antoine de Saint-Exupéry)

TESTIMONIANZA: IO, GIANNA JESSEN, SOPRAVVISSUTA ALL'ABORTO

TESTIMONIANZA: IO, GIANNA JESSEN, SOPRAVVISSUTA ALL'ABORTO

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Post n°4232 pubblicato il 05 Settembre 2010 da diglilaverita

Foto di diglilaverita 

 Mi chiamo Gianna Jessen. Vorrei dirvi grazie per la possibilità di parlare oggi. Non è una piccola cosa dire la verità. Dipende unicamente dalla grazia di Dio il poterlo fare. Ho 23 anni. Sono stata abortita e non sono morta. La mia madre biologica era incinta di sette mesi quando andò da Planned Parenthood nella California del sud e le consigliarono di effettuare un aborto salino tardivo. Un aborto salino consiste nell’iniezione di una soluzione di sale nell’utero della madre. Il bambino inghiottisce la soluzione, che brucia il bambino dentro e fuori, e poi la madre partorisce un bambino morto entro 24 ore. Questo è capitato a me! Sono rimasta nella soluzione per circa 18 ore e sono stata partorita VIVA il 6 aprile 1977 alle 6 del mattino in una clinica per aborti della California. C’erano giovani donne nella stanza che avevano appena ricevuto le loro iniezioni ed aspettavano di partorire bambini morti. Quando mi videro, provarono l’orrore dell’omicidio. Un’infermiera chiamò un’ambulanza e mi fece trasferire all’ospedale. Fortunatamente per me il medico abortista non era alla clinica. Ero arrivata in anticipo, non si aspettavano la mia morte fino alle 9 del mattino, quando sarebbe probabilmente arrivato per il turno d’ufficio. Sono sicura che non sarei qui oggi se il medico abortista fosse stato alla clinica dato che il suo lavoro è togliere la vita, non sostenerla. Qualcuno ha detto che sono un “aborto mal riuscito”, il risultato di un lavoro non ben fatto. Fui salvata dal puro potere di Gesù Cristo.  
Signore e Signori, dovrei essere cieca, bruciata… dovrei essere morta! E tuttavia, io vivo! Rimasi all’ospedale per circa tre mesi. Non c’era molta speranza per me all’inizio. Pesavo solo nove etti. Oggi, sono sopravvissuti bambini più piccoli di quanto lo ero io. Un medico una volta mi disse che avevo una gran voglia di vivere e che lottavo per la mia vita. Alla fine potei lasciare l’ospedale ed essere data in adozione. Per via di una mancanza di ossigeno durante l’aborto vivo con la paralisi cerebrale. Quando mi fu diagnosticata, tutto quello che potevo fare era stare sdraiata. Dissero alla mia madre adottiva che difficilmente avrei mai potuto gattonare o camminare. Non riuscivo a tirarmi su e mettermi a sedere da sola. Attraverso le preghiere e l’impegno della mia madre adottiva, e poi di tanta altra gente, alla fine ho imparato a sedere, a gattonare e stare in piedi. Camminavo con un girello e un apparecchio ortopedico alle gambe poco prima di compiere quattro anni. Fui adottata legalmente dalla figlia della mia madre adottiva, Diana De Paul, pochi mesi dopo che cominciai a camminare. Il Dipartimento dei Servizi Sociali non mi avrebbe rilasciato prima per essere adottata. Ho continuato la fisioterapia per la mia disabilità e, dopo in tutto quattro interventi chirurgici, ora posso camminare senza assistenza. Non è sempre facile. A volte cado, ma ho imparato a cadere con grazia dopo essere caduta per 19 anni. Sono così grata per la mia paralisi cerebrale. Mi permette di dipendere veramente solo da Gesù per ogni cosa. Sono felice di essere viva. Sono quasi morta. Ogni giorno ringrazio Dio per la vita. Non mi considero un sottoprodotto del concepimento, un pezzo di tessuto, o un altro dei titoli dati ad un bambino nell’utero. Non penso che nessuna persona concepita sia una di quelle cose. Ho incontrato altri sopravvissuti all’aborto. Sono tutti grati per la vita. Solo alcuni mesi fa ho incontrato un’altra sopravvissuta all’aborto. Si chiama Sarah. Ha due anni. Anche Sarah ha la paralisi cerebrale, ma la sua diagnosi non è buona. È cieca ed ha delle gravi crisi . L’abortista, oltre ad iniettare nella madre la soluzione salina, la inietta anche nelle piccole vittime. A Sarah l’ha iniettata nella testa. Ho visto il punto della sua testa dove l’ha fatto. Quando parlo, non parlo solo per me stessa, ma per gli altri
sopravvissuti, come Sarah, ed anche per quelli che non possono parlare… Oggi, un bambino è un bambino, quando fa comodo. È un tessuto o qualcos’altro quando non è il momento giusto. Un bambino è un bambino quando c’è un aborto spontaneo a due, tre, quattro mesi. Un bambino è chiamato tessuto o massa di cellule quando l’aborto volontario avviene a due, tre, quattro mesi. Perché? Non vedo differenza. Che cosa vedete? Molti chiudono gli occhi…La cosa migliore che posso farvi vedere per difendere la vita è la mia vita. È stata un grande dono. Uccidere non è la risposta a nessuna domanda o situazione. Fatemi vedere come possa essere la risposta. C’è una frase incisa negli alti soffitti di uno degli edifici del parlamento del nostro stato [la California]. La frase dice: “Ciò che è moralmente sbagliato, non è corretto politicamente”. L’aborto è moralmente sbagliato. Il nostro paese sta spargendo il sangue degli innocenti. L’America sta uccidento il suo futuro. Tutta la vita ha valore. Tutta la vita è un dono del nostro Creatore. Dobbiamo ricevere e conservare i doni che ci sono dati. Dobbiamo onorare il diritto alla vita. Quando le libertà di un gruppo di cittadini indifesi sono violate, come per i nascituri, i neonati, i disabili e i cosiddetti “imperfetti”, capiamo che le nostre libertà come NAZIONE e Individui sono in grande pericolo. Vengo oggi a parlare in favore di questa legge a favore della protezione della vita. Vengo a parlare per conto dei bimbi che sono morti e per quelli condannati a morte. Learned Hand, un giurista americano rispettato (del nostro secolo) disse: “Lo spirito della libertà è lo spirito che non è troppo sicuro di essere giusto; lo spirito della libertà è lo spirito che cerca di capire le opinioni degli altri uomini e donne; lo spirito della libertà è lo spirito che pesa i loro interessi insieme ai propri, senza pregiudizi; lo spirito della libertà ci ricorda che neanche un passero cade a terra inosservato; lo spirito della libertà è lo spirito di Colui che, circa 2000 anni fa, ha insegnato all’umanità la lezione che non ha mai imparato, ma non ha mai dimenticato; che c’è un regno dove gli ultimi saranno ascoltati e considerati accanto ai più grandi.” Dov’è l’anima dell’America?! Voi membri di questo comitato: dov’è il VOSTRO cuore? Come potete trattare le questioni di una nazione senza esaminare la sua anima? Uno spirito omicida non si fermerà davanti a nulla finché non avrà divorato una nazione. Il Salmo 52,2-4 dice: “Lo stolto pensa: «Dio non esiste». Sono corrotti, fanno cose abominevoli, nessuno fa il bene. Dio dal cielo si china sui figli dell’uomo per vedere se c'è un uomo saggio che cerca Dio. Tutti hanno traviato, tutti sono corrotti; nessuno fa il bene; neppure uno.” Adolf Hitler una volta disse: “L’abilità ricettiva delle grandi masse è solo molto limitata, la loro comprensione è piccola; d’altro lato la loro smemoratezza è grande. Essendo così, tutta la propaganda efficace deve essere limitata a pochissimi punti che a loro volta dovrebbero essere usati come slogan finché l’ultimo uomo sia capace di immaginare che cosa significhino tali parole”. Gli slogan di oggi sono: “Il diritto di una donna di scegliere”, “Libertà di scelta”, eccetera. C’era una volta un uomo che parlava dall’inferno (ne parla il capitolo 16 di Luca) che disse: “Sono tormentato da questa fiamma”. L’inferno è reale. Così lo è Satana, e lo stesso odio che crocifisse Gesù 2000 anni fa, ancora si trova nei cuori dei peccatori oggi. Perché pensate che questa intera aula tremi quando menziono il nome di Gesù Cristo? È così perché Egli è REALE! Egli può dare grazia per il pentimento e perdono a voi ed all’America. Noi siamo
sotto il giudizio di Dio – ma possiamo essere salvati attraverso Cristo. Dice la Lettera ai Romani: 5,8-10: “Ma Dio dimostra il suo amore
verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo NEMICI, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita.”La morte non ha prevalso su di me… ed io sono così grata!!! -
 Testimonianze di Gianna Jessen rilasciate il 22 aprile 1996 ed il 20 luglio 2000 davanti al Sottocomitato Giudiziario del Congresso sulla Costituzione
. http://www.godandscience.org/doctrine/jessen.html - GiannaJessen.com - www.postaborto -




martedì 28 maggio 2013

Non si segue Gesù per fare carriera, la sua via è quella della Croce

Non si segue Gesù per fare carriera, la sua via è quella della Croce 

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del .
santamarta35L’annuncio di Gesù non è una patina, una vernice, ma va dentro al cuore e ci cambia. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa di stamani alla Casa Santa Marta. Il Papa ha quindi ribadito che seguire Gesù non vuol dire avere più potere, perché la sua strada è quella della Croce.
Alla Messa, concelebrata da mons. Rino Fisichella e mons. José Octavio Ruiz Arenas, presidente e segretario del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, hanno preso parte un gruppo di sacerdoti dello stesso dicastero e un gruppo di dipendenti della Centrale termoelettrica e del Laboratorio di falegnameria del Governatorato vaticano, accompagnati dall’ing. Pier Carlo Cuscianna, direttore dei Servizi Tecnici del Governatorato.

Quale sarà il premio che riceveremo nel seguirti? Papa Francesco ha svolto la sua omelia partendo dalla domanda che Pietro rivolge a Gesù e che, in fondo, riguarda la vita di ogni cristiano. Gesù, ha osservato il Papa, risponde che quanti lo seguiranno avranno “tante cose belle” ma “con persecuzione”. La strada del Signore, ha proseguito, “è una strada di ‘abbassamento’, una strada che finisce nella Croce”. Ecco perché, ha soggiunto, “sempre ci saranno le difficoltà”, “le persecuzioni”. Ci saranno sempre, “perché Lui ha fatto questa strada prima” di noi. E ha avvertito che “quando un cristiano non ha difficoltà nella vita – tutto va bene, tutto è bello – qualcosa non va”. Si può pensare che sia “molto amico dello spirito del mondo, della mondanità”. E questo, ha constatato, “è la tentazione propria di un cristiano”:
Seguire Gesù sì, ma fino a un certo punto; seguire Gesù come una forma culturale: sono cristiano, ho questa cultura… Ma senza l’esigenza della vera sequela di Gesù, l’esigenza di andare sulla sua strada. Se si segue Gesù come una proposta culturale, si usa questa strada per andare più in alto, per avere più potere. E la storia della Chiesa è piena di questo, cominciando da alcuni imperatori e poi tanti governanti e tante persone, no? E anche alcuni - non voglio dire tanti ma alcuni - preti, alcuni vescovi, no? Alcuni dicono che sono tanti… ma alcuni che pensano che seguire Gesù è fare carriera”.
Il Papa ha rammentato che un tempo, “nella letteratura di due secoli fa”, a volte si usava dire che uno “da bambino aveva voglia di fare la carriera ecclesiastica”. E ha ribadito che “tanti cristiani, tentati dallo spirito del mondo, pensano che seguire Gesù è buono perché si può far carriera, si può andare avanti”. Ma questo “non è lo spirito” è, invece, l’atteggiamento di Pietro che parla di carriera e Gesù gli risponde: “Sì, ti darò tutto con persecuzione”. “Non si può togliere la Croce dalla strada di Gesù: sempre c’è”. E tuttavia, ha avvertito, questo non vuol dire che il cristiano deve farsi del male. Il cristiano “segue Gesù per amore e quando si segue Gesù per amore, l’invidia del diavolo fa tante cose”. Lo “spirito del mondo – ha osservato – non tollera questo, non tollera la testimonianza”:
“Pensate a Madre Teresa: cosa dice lo spirito del mondo di Madre Teresa? ‘Ah, la Beata Teresa è una bella donna, ha fatto tante belle cose per gli altri…’. Lo spirito del mondo mai dice che la Beata Teresa, tutti i giorni, tante ore, era in adorazione… Mai! Riduce al fare bene sociale l’attività cristiana. Come se l’esistenza cristiana fosse una vernice, una patina di cristianesimo. L’annunzio di Gesù non è una patina: l’annunzio di Gesù va alle ossa, al cuore, va dentro e ci cambia. E questo non lo tollera lo spirito del mondo, non lo tollera e per questo vengono le persecuzioni”.
Chi lascia la propria casa, la propria famiglia per seguire Gesù, ha detto ancora Papa Francesco, riceve cento volte tanto “già ora in questo tempo”. Cento volte insieme alle persecuzioni. E questo non va dimenticato:
“La sequela di Gesù è proprio questo: per amore andare con Lui, dietro di Lui: lo stesso cammino, la stessa strada. E lo spirito del mondo sarà quello che non tollererà e ci farà soffrire, ma una sofferenza come l’ha fatta Gesù. Chiediamo questa grazia: seguire Gesù nella strada che Lui ci ha fatto vedere e che Lui ci ha insegnato. Questo è bello, perché mai ci lascia soli. Mai! Sempre è con noi. Così sia”.
(Fonte: Alessandro Gisotti per Radio Vaticana del 28 maggio 2013)

lunedì 27 maggio 2013

Cultura del benessere e fascino del provvisorio non ci fanno seguire Gesù

Cultura del benessere e fascino del provvisorio non ci fanno seguire Gesù

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santamarta34Per seguire Gesù dobbiamo spogliarci della cultura del benessere e del fascino del provvisorio. E’ quanto affermato stamani da Papa Francesco, nella Messa alla Casa Santa Marta. Il Papa ha quindi sottolineato che dobbiamo fare un esame di coscienza sulle ricchezze che ci impediscono di avvicinare Gesù.
Alla Messa, concelebrata dal cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, hanno preso parte i membri del Pontificio Consiglio degli Operatori Sanitari, guidati dal presidente mons. Zygmunt Zimowski, e un gruppo di collaboratori dei Servizi Economici del Governatorato, guidati dal dott. Sabatino Napolitano.
Gesù chiede a un giovane di dare tutte le sue ricchezze ai poveri e seguirlo, ma questi se ne va rattristato. Papa Francesco ha svolto l’omelia muovendo dal celebre episodio raccontato dal Vangelo odierno. E subito ha sottolineato che “le ricchezze sono un impedimento” che “non fa facile il cammino verso il Regno di Dio”. Del resto, ha avvertito, “Ognuno di noi ha le sue ricchezze, ognuno”. C’è sempre, ha detto, una ricchezza che ci “impedisce di andare vicino a Gesù”. E questa va cercata. Tutti, ha proseguito, “dobbiamo fare un esame di coscienza su quali sono le nostre ricchezze, perché ci impediscono di avvicinare Gesù nella strada della vita”. Il Papa si è quindi riferito a due “ricchezze culturali”: innanzitutto la “cultura del benessere, che ci fa poco coraggiosi, ci fa pigri, ci fa anche egoisti”. Il benessere “ci anestetizza, è un’anestesia”:
"‘No, no, più di un figlio no, perché non possiamo fare le vacanze, non possiamo andare qua, non possiamo comprare la casa’. Sta bene seguire il Signore, ma fino a un certo punto. Questo è quello che fa il benessere: tutti sappiamo bene com’è il benessere, ma questo ci getta giù, ci spoglia di quel coraggio, di quel coraggio forte per andare vicino a Gesù. Questa è la prima ricchezza della nostra cultura d’oggi, la cultura del benessere’.
C’è poi, ha soggiunto, “un’altra ricchezza nella nostra cultura”, una ricchezza che ci “impedisce di andare vicino a Gesù: è il fascino del provvisorio”. Noi, ha osservato, siamo “innamorati del provvisorio”. Le “proposte definitive” che ci fa Gesù, ha detto, “non ci piacciono”. Il provvisorio invece ci piace, perché “abbiamo paura del tempo di Dio” che è definitivo:

“Lui è il Signore del tempo, noi siamo i signori del momento. Perché? Perché nel momento siamo padroni: fino qui io seguo il Signore, poi vedrò… Ho sentito di uno che voleva diventare prete, ma per dieci anni, non di più… Quante coppie, quante coppie si sposano, senza dirlo, ma nel cuore: ‘fin che dura l’amore e poi vediamo…’ Il fascino del provvisorio: questa è una ricchezza. Dobbiamo diventare padroni del tempo, facciamo piccolo il tempo al momento. Queste due ricchezze sono quelle che in questo momento ci impediscono di andare avanti. Io penso a tanti, tanti uomini e donne che hanno lasciato la propria terra per andare come missionari per tutta la vita: quello è il definitivo!”.
Ma anche, ha detto, penso a tanti uomini e donne che “hanno lasciato la propria casa per fare un matrimonio per tutta la vita”; quello è “seguire Gesù da vicino! E’ il definitivo!”. Il provvisorio, ha ribadito Papa Francesco, “non è seguire Gesù”, è “territorio nostro”:
“Davanti all’invito di Gesù, davanti a queste due ricchezze culturali pensiamo ai discepoli: erano sconcertati. Anche noi possiamo essere sconcertati per questo discorso di Gesù. Quando Gesù ha spiegato qualcosa erano ancora più stupiti. Chiediamo al Signore che ci dia il coraggio di andare avanti, spogliandoci di questa cultura del benessere, con la speranza - alla fine del cammino, dove Lui ci aspetta - nel tempo. Non con la piccola speranza del momento che non serve più. Così sia”.

(Fonte: Alessandro Gisotti per Radio Vaticana del 27 maggio 2013)

Camille Paglia, atea, lesbica e libertina: «La religione produce molta più cultura degli sciocchi e mortiferi dogmi liberal»

Camille Paglia, atea, lesbica e libertina: «La religione produce molta più cultura degli sciocchi e mortiferi dogmi liberal» 

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maggio 27, 2013 Mattia Ferraresi

La “femminista dissidente” allieva di Harold Bloom ha detto basta alla chiesa secolarizzata che nell’opera d’arte cerca solo lo choc. Intervista esclusiva a Tempi


camille-paglia-by-michael-lionstarA forza di sbarazzarsi dei vecchi cimeli nel nome dell’avanguardia, del nuovismo, della liberazione da oppressioni non meglio specificate, della decostruzione, del post-qualunque cosa, della ribellione al principio di non contraddizione, insopportabile retaggio della logica aristotelica, la cultura contemporanea si è ritrovata vuota e triste come una casa sfitta. Nelle sue stanze l’aria si è fatta irrespirabile. La forza scioccante di tanta arte prodotta in opposizione alle convenzioni si è imborghesita, diventando la più bolsa delle convenzioni. Gli intellettuali “contrarian”, quelli ostili alle idee da salotto e ai loro meccanismi onanistici, si sono rifugiati in bolle culturali sterili come quelle che disprezzavano e dai loro amboni hanno dettato uno sciapo manifesto ideologico: la dimensione del significato è assurda e inutile. Il significato non esiste. E se esiste fa schifo. Svuotiamo i musei polverosi, bruciamo le vecchie librerie, cancelliamo i dogmi, recidiamo i fili, spariamola grossa, scriviamo tanto e male, rigettiamo la trascendenza e cancelliamo la religione organizzata, diciamo ovvietà che possono sembrare intelligenti ai lettori di Hitchens e agli ammiratori di Cattelan. Un programma non particolarmente vasto per una generazione che ha fatto una rivoluzione con il fiato corto e per quella successiva che tenta di tenerla in vita con risultati che oscillano fra il ridicolo e il pietoso. Oggi di quell’epoca idolatrata sono rimasti soltanto surrogati. Negli anni Settanta c’erano le immagini potenti di Mapplethorpe, oggi ci intratteniamo con quelle insipide usate da David Bowie in un video che non riesce nemmeno ad aspirare alla blasfemia. Negli anni Ottanta c’era quella musa pop rigogliosa e vitale di Madonna, oggi c’è il suo simulacro asessuato e posticcio, Lady Gaga.
Pochi intellettuali cresciuti nel brodo controculturale degli anni Sessanta hanno intuito che la propria generazione si stava infilando in un vicolo cieco come Camille Paglia, critica d’arte e donna di lettere cresciuta alla scuola di Harold Bloom. Paglia dice di essere stata la prima studentessa lesbica di Yale. Di certo è stata una delle più controverse, la «femminista dissidente» che elogiava la forza vitale della pornografia, difendeva la prostituzione («la prostituta non è la vittima dell’uomo, come dicono le femministe, ma la sua conquistatrice») e metteva lo spogliarello nel genere della danza sacra, con le offerte votive infilate negli slip. Di recente ha sostenuto che affermare l’indipendenza femminile andando in giro sole con un abito corto alle tre di notte è «una fantasia borghese», perché «se fai pubblicità poi devi essere disposta a vendere». Ha criticato Lacan, Foucault, Derrida, ha abbandonato il marxismo che inquinava l’accademia, si è ribellata, da atea, al cliché antireligioso di rigore fra gli intellettuali liberal e le femministe emancipate, e ha criticato il “suo” partito democratico da posizioni paralibertarie. Le espressioni più taglienti le ha riservate alle donne del partito e in particolare a Hillary Clinton, una «che non ha mai raggiunto nessun risultato» e che ha alimentato l’ossessione di genere, come se il compito delle donne in politica potesse essere perimetrato nell’emancipazione. Sono le donne repubblicane che parlano di economia e politica estera senza bisogno di fare rivendicazioni le vere emancipate. Quando era una studentessa ha mosso mari e monti per convincere Susan Sontag, nume tutelare del femminismo, a tenere una conferenza nel suo college, e ha capito la vacuità del pensiero della sua eroina quando questa si è messa a leggere un «racconto noioso e sconfortante che non voleva dire nulla».
Sontag è soltanto una delle tante vittime di questa «guerriera naturale». Il suo ultimo libro, Glittering Images, è un viaggio nell’espressione artistica «dall’Egitto a Guerre Stellari» (sarà pubblicato in Italia per l’editore Il Mulino in autunno); nel viaggio si scopre che il filo che tiene insieme l’espressione umana è la ricerca del significato. La critica marxista «che permea l’accademia (attraverso il post-strutturalismo e la scuola di Francoforte)» non è in grado di rendere ragione della dimensione psicologica, metafisica e spirituale dell’uomo, mentre il «dogma liberal» secondo cui «lo choc conferisce automaticamente importanza all’opera d’arte» è tramontato: «Nel ventunesimo secolo cerchiamo il significato, non la sua negazione». In un’intervista a Tempi, Paglia racconta la sua missione di recupero del significato dopo tanta nullificazione, la natura fisica dell’arte e il rapporto con la dimensione religiosa, «un vasto sistema di simboli che contiene verità profonde sull’esistenza umana».
camille-paglia-glittering-imagesCercare un significato nell’esistenza è un’attività che è stata dichiarata inutile e persino illegittima dalla cultura ufficiale. Come siamo arrivati a questo punto?
La negazione del significato da parte degli artisti e degli intellettuali contemporanei è una posa antiquata che risale allo choc della cultura europea per i disastri prodotti dalle due guerre mondiali. Le radici del nichilismo di oggi si vedono nel Dadaismo, nella Terra desolata di Eliot dopo la Prima guerra mondiale e in Aspettando Godot di Samuel Beckett dopo la Seconda guerra. Niente dimostra in modo più chiaro la mia ribellione contro quell’ideologia depressiva, oggi diventata un cliché, della mia avversione al dramma di Beckett, che accetto come una pietra miliare del teatro minimalista, ma che penso sia il prodotto di una mente infantile, sottosviluppata e misogina.

In che modo Samuel Beckett ha influenzato la cultura successiva?
È molto significativo che Aspettando Godot abbia ispirato Michel Foucault e anche Susan Sontag, che ha portato il dramma a Sarajevo. Quand’ero al college, negli anni Sessanta, odiavo quell’opera teatrale, che per me rappresentava la vacuità e l’alterigia della vecchia, sterile avanguardia, che allora era stata spodestata da Andy Warhol e dalla Pop Art. Fellini ha mostrato che quella visione del mondo elitaria e claustrale era già esausta nella Dolce vita, dove l’intellettuale Steiner, completamente alienato, si uccide e ammazza i suoi figli.

Poi però c’è stato una specie di revival spiritualista.
La mia generazione “back to nature” si è gettata nelle braccia di un appassionato, assertivo rock ’n’ roll e dell’emotivamente espressiva musica soul afro-americana, sviluppo delle canzoni religiose, e ha cercato un significato nell’induismo e nella “ricerca di visione” dei nativi americani. Ma questa alternativa non ha retto. La distruzione del significato nel post-strutturalismo contemporaneo, che ha saturato l’accademia in Inghilterra e negli Stati Uniti, è un sistema cinico e meccanico che ha distrutto i talenti di un’intera generazione di studenti promettenti. Non avremo nulla di interessante nell’arte finché le tossine del post-strutturalismo non saranno state espulse.

Se dovesse fare un nome fra i responsabili di questa involuzione, quale farebbe?
Direi Foucault, che mosso dall’invidia ha tratto le sue posizioni da Nietzsche. Riconosco tuttavia Nietzsche come un pensatore sottile ed erudito. Foucault, invece, a parte la storia moderna non sapeva niente, i suoi scritti classici sono imbarazzanti e non aveva la minima idea di cosa fosse l’arte. La sua santificazione da parte di ingenui professori di lettere è uno scandalo enorme.

bernini-baldacchino-san-pietroHa scritto che l’arte è «il matrimonio fra l’ideale e il reale» e spesso contrappone una concezione unitaria alla dicotomia fra il mondo materiale e quello intellettuale. La crisi culturale di cui parla è anche frutto di questa divisione radicale?
La critica d’arte è diventata incapace di dire cose significative perché si è alienata dal regno delle cose fisiche. La mia definizione di arte è: idee espresse in forma materiale. L’arte non è filosofia, una rete di parole. L’arte usa e si rivolge ai cinque sensi. Non c’è dubbio che la mia passione per l’aspetto artigianale dell’arte venga dalla mia origine italiana. I miei quattro nonni e mia madre sono nati in Italia. Molti immigrati partivano da Ceccano, il paese di mia madre, vicino a Frosinone, per andare a lavorare nelle fabbriche di scarpe Endicott-Johnson, nello stato di New York. Mio nonno conciava le pelli durante il giorno e a casa faceva continuamente cose pratiche, dalla lavorazione di metalli al vino. Tutte le donne cucivano. Per la vecchia cultura italiana il lavoro manuale non era una vergogna, anzi, era il segno di energia e abilità. Lo si vede in Michelangelo e Bernini, artisti che non avevano paura di sporcarsi. Penso che questo principio ibrido, la fusione di idealità e fisicità, sia uno dei segreti dell’arte italiana. Non è un caso che abbia passato 42 anni a insegnare nelle scuole d’arte. Non comunico molto bene con la maggior parte dei professori, che vivono in una bolla mentale artificiale e spesso noiosamente borghese. Il mio habitat naturale è fra gli artisti, perché penso con il corpo.

La riduzione marxista «distrugge la magia e il mistero dell’arte». Ma perché quel padrone dell’universo che è l’uomo del ventunesimo secolo dovrebbe avere bisogno di magia e mistero?
L’arte è tutta una questione di magia e mistero, sia nella fase creativa che in quella ricettiva. L’arte è una forma di divinazione che opera nel livello pre-razionale del sogno. Il marxismo è l’atteggiamento “di default” fra i professori di arte e lettere, anche se la maggior parte di loro non sa quasi nulla di economia. Per esempio, negli ultimi quindici anni la parola “rinascimento” è stata lentamente abbandonata dai dipartimenti di letteratura, che la sostituiscono con la ridicola dicitura “prima modernità”, basandosi sulla storia economica. Il termine rinascimento ora è sgradito perché suggerisce che quel magnifico periodo è stato la “rinascita” di qualcosa che gli accademici di sinistra vogliono negare, le titaniche conquiste greco-romane che incontrano la civiltà giudaico-cristiana e danno forma alla cultura occidentale. Il marxismo può funzionare come strumento per interpretare il periodo successivo alla rivoluzione industriale, ma è inutile quando si parla delle società agricole premoderne. E a parte questo, il marxismo è miope: non ha una metafisica, non contempla la natura e la vastità dell’universo.

Lei ha criticato spesso «l’impoverimento visivo» portato dal protestantesimo, un’ondata iconoclasta che ha cercato di cancellare l’enorme repertorio di immagini del cattolicesimo.
I grandi riformatori – Lutero, Calvino, Knox e Zwingli – hanno accusato il cattolicesimo di idolatria per la sua arte, considerata giustamente un retaggio dell’incontro con il paganesimo antico. La Riforma ha lanciato una campagna di distruzione delle statue medievali, dei crocifissi, delle vetrate, con l’illusione di ritornare alla parola pura. Il protestantesimo è tutto orientato verso la parola, è quello l’unico mezzo per arrivare al divino. Nel tempo questa insistenza sul verbo ha ucciso la rappresentazione, la carnalità. Il mio interesse per l’arte è nato in chiesa: le prime opere che ho visto sono state le meravigliose statue e le vetrate della chiesa di Sant’Antonio da Padova, a Endicott, nello stato di New York. È lì che sono stata battezzata.

A vedere certe chiese contemporanee sembra che anche il cattolicesimo sia diventato un po’ protestante…
Sì, e questa tendenza alla protestantizzazione del cattolicesimo, almeno qui in America, è una cosa che mi addolora profondamente. Le chiese vengono rimodellate e “modernizzate”, le statue e i crocifissi a grandezza naturale associati un tempo alla devozione degli immigrati vengono rimpiazzate con rappresentazioni mediocri e di solito dalle fattezze “astratte”. Niente di tutto questo stimolerà l’amore per il bello in chi le guarda.

A proposito di religione. Ha litigato spesso con chi assumeva la “postura cinica” dell’ateo à la Christopher Hitchens, un luogo comune nel mondo degli intellettuali. Perché lei, che è un’intellettuale atea, si è dedicata a un’attività tanto impopolare?
Hitchens non sapeva quasi niente della storia della religione e del suo ruolo nella società, né si disturbava a fare delle ricerche. I suoi scritti sulla religione sono inutili, superficiali e incredibilmente pieni di errori. Ho dichiarato il mio ateismo nel 1990 – molto prima di Hitchens – quando il mio primo libro mi ha catapultato sulla scena pubblica, ma ho un rispetto enorme per la religione, che considero una fonte di valore psicologico, etico e culturale infinitamente più ricca dello sciocco e mortifero post-strutturalismo, che è diventato una religione secolarizzata. Una volta ho anche scritto «meglio Geova di Foucault». Quello che è stato completamente dimenticato dalla mia generazione è che molti di noi erano impegnati in una ricerca di significato di tipo spirituale. La controcultura hippie non era soltanto politica: nel rifiutare le convenzioni sociali, il materialismo e la religione organizzata, cercava la verità in tutte le cose. Abbiamo ereditato il fascino per il buddismo dai poeti beat e dagli artisti degli anni Cinquanta, ma è l’induismo, con la sua teatralità, la sensualità, il senso della commedia e la legge del karma che ci ha conquistato. Per questo i Beatles sono andati in India, anche se poi sono tornati delusi dal loro guru. Tutti i rituali ci affascinavano, anche se, sfortunatamente, troppi dei miei compagni usavano droghe psichedeliche e funghetti allucinogeni per sostenere la loro ricerca spirituale. Io, cresciuta nella cultura del vino, non avevo nessun interesse nelle droghe, e forse è per questo che sono ancora qui. Un motivo per cui tanti dicono che i miei lavori sono strani o inclassificabili è perché molti dei miei coetanei di talento si sono bruciati il cervello e i polmoni. Mi piace chiamare la mia corrente “critica psichedelica”, anche se non ho mai provato Lsd: sono stata profondamente influenzata dal rock psichedelico, con le sue distorsioni mistiche.

Si definisce una persona religiosa?
Anche se sono atea, sono religiosa. Vedo il mondo come lo vedevano i filosofi del “sublime” nel diciottesimo secolo: sento il timore e lo stupore per la bellezza della natura, per la sua potenza, per la sua grandezza. Ho sempre combattuto i codici morali puritani, le regole sui comportamenti sessuali privati, ma ammiro le religioni per il profondo senso di grandezza e allo stesso tempo di evanescenza che l’uomo rappresenta di fronte al divino. È il segno di una struggente ricerca di significato documentata in tutta la storia dell’umanità.

domenica 26 maggio 2013

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLA FONDAZIONE "CENTESIMUS ANNUS PRO PONTIFICE"



DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA FONDAZIONE
"CENTESIMUS ANNUS PRO PONTIFICE"
Sala Clementina
Sabato
, 25 maggio 2013 
 
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri e cari amici, buongiorno a tutti
!

vi incontro molto volentieri in occasione del Convegno internazionale della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, sul tema: “Ripensando la solidarietà per l’impiego: le sfide del ventunesimo secolo”. Saluto cordialmente ciascuno di voi, e ringrazio in particolare il vostro Presidente, Dott. Domingo Sugranyes, per le sue cortesi parole.
La Fondazione Centesimus Annus fu istituita dal Beato Giovanni Paolo II vent’anni fa, e porta il nome dell’Enciclica che egli firmò nel centenario della Rerum novarum. Il suo ambito di riflessione e di azione è dunque quello della Dottrina sociale della Chiesa, alla quale hanno contribuito in diversi modi i Papi del secolo scorso e anche Benedetto XVI, in particolare con l’Enciclica Caritas in veritate, ma anche con memorabili discorsi.
Vorrei perciò anzitutto ringraziarvi per il vostro impegno nell’approfondire e diffondere la conoscenza della Dottrina sociale, con i vostri corsi e le pubblicazioni. Penso che sia molto bello e importante questo vostro servizio al magistero sociale, da parte di laici che vivono nella società, nel mondo dell’economia e del lavoro.
Proprio sul lavoro orienta il tema di questo vostro Convegno, nella prospettiva della solidarietà, che è un valore portante della Dottrina sociale, come ci ha ricordato il Beato Giovanni Paolo II. Egli, nel 1981, dieci anni prima della Centesimus annus, scrisse l’Enciclica Laborem exercens, interamente dedicata al lavoro umano. Che cosa significa “ripensare la solidarietà?”. Certamente non significa mettere in discussione il recente magistero, che anzi dimostra sempre più la sua lungimiranza e la sua attualità. Piuttosto “ripensare” mi pare significhi due cose: anzitutto coniugare il magistero con l’evoluzione socio-economica, che, essendo costante e rapida, presenta aspetti sempre nuovi; in secondo luogo, “ripensare” vuol dire approfondire, riflettere ulteriormente, per far emergere tutta la fecondità di un valore – la solidarietà, in questo caso – che in profondità attinge dal Vangelo, cioè da Gesù Cristo, e quindi come tale contiene potenzialità inesauribili.
L’attuale crisi economica e sociale rende ancora più urgente questo “ripensare” e fa risaltare ancora di più la verità e attualità di affermazioni del magistero sociale come quella che leggiamo nella Laborem exercens: «Gettando lo sguardo sull’intera famiglia umana … non si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante di proporzioni immense; e cioè che, mentre da una parte cospicue risorse della natura rimangono inutilizzate, dall’altra esistono schiere di disoccupati o di sotto-occupati e sterminate moltitudini di affamati: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che … vi è qualcosa che non funziona» (n. 18). E’ un fenomeno, quello della disoccupazione - della mancanza e della perdita del lavoro -  che si sta allargando a macchia d’olio in ampie zone dell’occidente e che sta estendendo in modo preoccupante i confini della povertà. E non c’è peggiore povertà materiale, mi preme sottolinearlo, di quella che non permette di guadagnarsi il pane e che priva della dignità del lavoro. Ormai questo “qualcosa che non funziona” non riguarda più soltanto il sud del mondo, ma l’intero pianeta. Ecco allora l’esigenza di “ripensare la solidarietà” non più come semplice assistenza nei confronti dei più poveri, ma come ripensamento globale di tutto il sistema, come ricerca di vie per riformarlo e correggerlo in modo coerente con i diritti fondamentali dell’uomo, di tutti gli uomini. A questa parola “solidarietà”, non ben vista dal mondo economico - come se fosse una parola cattiva -, bisogna ridare la sua meritata cittadinanza sociale. La solidarietà non è un atteggiamento in più, non è un'elemosina sociale, ma è un valore sociale. E ci chiede la sua cittadinanza.
La crisi attuale non è solo economica e finanziaria, ma affonda le radici in una crisi etica e antropologica. Seguire gli idoli del potere, del profitto, del denaro, al di sopra del valore della persona umana, è diventato norma fondamentale di funzionamento e criterio decisivo di organizzazione. Ci si è dimenticati e ci si dimentica tuttora che al di sopra degli affari, della logica e dei parametri di mercato, c’è l’essere umano e c’è qualcosa che è dovuto all’uomo in quanto uomo, in virtù della sua dignità profonda: offrirgli la possibilità di vivere dignitosamente e di partecipare attivamente al bene comune. Benedetto XVI ci ha ricordato che ogni attività umana, anche quella economica, proprio perché umana, deve essere articolata e istituzionalizzata eticamente (cfr Lett. enc. Caritas in veritate, 36). Dobbiamo tornare alla centralità dell’uomo, ad una visione più etica delle attività e dei rapporti umani, senza il timore di perdere qualcosa.
Cari amici, grazie ancora una volta per questo incontro e per il lavoro che svolgete. Assicuro per ciascuno di voi, per la Fondazione, per tutti i vostri cari, il ricordo nella preghiera, mentre vi benedico di cuore.  Grazie.

© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana

FRANCESCO RINNOVA LA CHIESA (e pure la Segreteria di Stato): ECCO I VOLTI CHE INDICA

FRANCESCO RINNOVA LA CHIESA (e pure la Segreteria di Stato): ECCO I VOLTI CHE INDICA (e lasciamo ai media gli idoli dei salotti anticattolici: un Requiem e poi che i morti seppelliscano i morti)

25 maggio 2013 / In News
Quando sento dire “il prete degli ultimi” io penso al grande e umile fratel Ettore Boschini che, lontano da tutti i salotti e i riflettori, per anni, portando in giro la statua della Madonna di Fatima e col crocifisso rosso dei camilliani sulla veste, ogni notte nei gironi infernali di Milano raccoglieva, lavava amorevolmente, nutriva e curava barboni, clochard, sbandati, tossici e disperati, in un “rifugio” ricavato nel tunnel sotto la stazione centrale di Milano.
Non aveva tempo né per dormire, né per mangiare, tanto ardeva di compassione per Gesù crocifisso che vedeva nei suoi fratelli sofferenti, nelle loro piaghe coperte di sporcizia maleodorante.
E’ morto in fama di santità nel 2004. Sconosciuto ai salotti tv, ma conosciutissimo dai più poveri e dagli angeli di Dio (inizia ora a Milano il processo di beatificazione).
Mi è tornato in mente molte volte in queste settimane, sentendo ripetere a papa Francesco l’esortazione ai cristiani ad uscire dalle sacrestie e andare per le strade a portare la carezza del Nazareno a tutte le creature ferite dalla vita.

I VOLTI DA GUARDARE

Fratel Ettore era davvero “il prete degli ultimi”, come don Oreste Benzi, don Puglisi, padre Aldo Trento. E’ a figure come queste che occorre pensare quando si ascolta l’invito di papa Francesco a far risplendere la misericordia di Cristo nelle periferie esistenziali del mondo.
E non sono solo preti, ma anche religiosi come le suore di Madre Teresa, come suor Elvira della comunità Cenacolo, o come padre Cantalamessa che predica a migliaia di persone nei raduni carismatici, laici come Chiara Amirante, Andrea Aziani, Kiko Arguello, Paola Bonzi (quella del centro di aiuto alla vita della Mangiagalli), opere come Radio Maria (che il papa ha recentemente elogiato per la sua splendida opera) o Cometa di Como o i tanti sacerdoti che passano le ore nel confessionale (dove vorrebbe stare anche papa Bergoglio).
E poi i meravigliosi missionari sparsi ai quattro angoli del pianeta o i preti e religiosi, ancora meno conosciuti, che in tanti oratori, parrocchie, santuari accompagnano migliaia di giovani nel cammino della vita, alla ricerca del senso dell’esistenza, dell’amare, del lavorare, del soffrire.
Certo, nelle mani di fratel Ettore si trovava il rosario, non la sciarpa rossa, il sigaro e il pugno chiuso esibiti invece da don Gallo, il personaggio che i media di questi giorni osannano come “prete degli ultimi”, ovvero degli ultimi salotti conformisti.
Fu un frequentatore acclamato dei potenti salotti del pensiero dominante, che tracimano di arroganza ideologica e di bile anticattolica. Pace all’anima sua. Un prece.
Ma i funerali di don Gallo segnano la fine simbolica di un mondo, quello del cattoprogressismo degli anni Settanta.

UN PASSATO DA SEPPELLIRE

Ci sono ancora vecchi conati di cattoprogressismo, come quelli messi in pagina ieri da “Avvenire”, dove un certo De Giorgi faceva suo lo strale anticattolico per cui la Chiesa sarebbe “indietro di duecento anni”.
Ma nulla è più antiquato e ammuffito di queste ideologie clericali, relitti del secolo scorso. Dominano ancora nei giornali dove si continuano a dividere i cattolici fra intransigenti e conciliatori, fra progressisti e conservatori, fra conciliari e anticonciliari.
Tuttavia la realtà è altrove.
Perché nel frattempo la fantasia dello Spirito Santo ha portato la Chiesa nel terzo millennio e le ha donato un papa, Francesco, che non rientra in nessuno degli schemi mondani e che parla al cuore della gente.
I salotti sono sbalorditi e non capiscono. Mentre il semplice popolo di Dio e le persone comuni, affaticate dalla vita, lo capiscono benissimo. E si commuovono quando lui ripete accoratamente “Dio perdona sempre, perdona tutto, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono”.
Non a caso i confessionali, che già negli ultimi anni stavano tornando a riempirsi (e ci sono statistiche sorprendenti), hanno ripreso ad accogliere più che mai cuori e anime, lacrime e gemiti.

STUPORE PER FRANCESCO

Alcuni polemisti ideologizzati hanno fatto qualche tentativo di contrapporre Francesco a Benedetto XVI, ma si sono dovuti arrendere perché Bergoglio non fa che mostrare, da pastore, da parroco del mondo, da padre quello che papa Ratzinger – col suo limpido insegnamento teologico – aveva raccomandato alla Chiesa (basta con l’autoreferenzialità, il carrierismo, la burocrazia, la mondanità, il clericalismo).
Non solo. Fa tesoro di ciò che il predecessore ha scritto per l’enciclica sulla fede e addirittura mette continuamente in guardia dal diavolo, secondo la più autentica via della tradizione cristiana. Arriva perfino a consacrare il pontificato alla Madonna di Fatima (inorridiscono i progressisti).
D’altra parte papa Francesco sconcerta pure tradizionalisti e reazionari, quelli che si fissano nelle forme, i velluti e le formule. E – secondo la  dottrina sociale cristiana – spiazza i potenti della finanza e della politica tuonando contro le ingiustizie del sistema economico planetario, in difesa delle sue vittime.

FERRARA E DINTORNI

Allegramente sorpreso e sconcertato si è detto anche Giuliano Ferrara che – da una prospettiva “ateodevota” – pensava di aver trovato, in Ratzinger, il condottiero di una Chiesa in armi contro il nichilismo e il multiculturalismo e poi se n’è detto deluso. Giuliano non ha capito che il discorso di Ratisbona non fu un manifesto teocon, ma – al contrario – una formidabile e incompresa demolizione della “teologia politica”. Ogni teologia politica.
Forse per comprendere questo pontificato bisogna leggere proprio un libro, appena uscito, che porta questo titolo, “Critica della teologia politica” e che ha la firma del maggior intellettuale cattolico italiano di oggi, quel Massimo Borghesi, allievo e collaboratore di Augusto Del Noce, figlio spirituale di don Giussani, che ha incontrato l’allora cardinale Bergoglio attorno all’affasciante personalità di don Giacomo Tantardini, alla rivista “30 Giorni”.
Un libro, quello di Borghesi, con cui significativamente converge oggi anche la riflessione del cardinale Angelo Scola nel suo – appena uscito – “Non dimentichiamoci di Dio”.
Sono certo che il pontificato di papa Francesco saprà trarre profitto dalla ricchezza di pensiero che fiorisce in queste pagine e anche in altre parti del mondo cattolico. Che – non tema Ferrara – non si arrende al nichilismo. Solo che lo combatte con armi diverse e stavolta davvero vincenti.

IL PADRE

Papa Francesco si sottrae ad ogni schema pure nelle controversie curiali. Basti vedere il candore e la leggerezza evangelica con cui, nei giorni scorsi, ha messo fine a un’annosa diatriba fra Cei e Segreteria di Stato vaticana su chi dovesse tenere i rapporti con la politica e le istituzioni (ovviamente i vescovi, ha spiegato il papa).
Con la stessa ponderata serenità si appresta – a giugno, secondo le voci – all’avvicendamento del Segretario di Stato, che ha ormai raggiunto la scadenza del suo mandato e delle proroghe.
Si tratta certamente di un evento di grande importanza, che chiude con un passato controverso e segnerà il futuro.
Eppure tutto sta avvenendo in una luce nuova, profondamente cristiana, anche grazie alla pastorale delle omelie quotidiane in Santa Marta, dove il Papa, come parroco del mondo, ogni giorno guida il suo popolo nel cammino, alla scoperta dei tesori di Gesù. Parole semplici che arrivano al cuore sia di chi – lavorando in Curia – è lì presente e magari riscopre la sua vocazione, sia di tutti i cristiani che vi si abbeverano ogni giorno.
Anni fa Thomas Wolfe ha scritto: “Ciò che più profondamente si cerca nella vita, la cosa che in un modo o nell’altra è stata al centro di ogni esistenza, è la ricerca dell’uomo per trovare un padre. Non soltanto il padre della propria carne, non soltanto il padre perduto della propria gioventù, ma l’immagine di una forza e di una sapienza alle quali la fede e la forza della propria esistenza possano essere unite”.
Questo è Francesco per il nostro tempo. Un padre. Che poi significa “papa”.

Antonio Socci

Da “Libero”, 26 maggio 2013

sabato 25 maggio 2013

Chi si avvicina alla Chiesa trovi porte aperte e non controllori della fede

Chi si avvicina alla Chiesa trovi porte aperte e non controllori della fede

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del .
santamarta33Quanti si avvicinano alla Chiesa trovino le porte aperte e non dei controllori della fede: è quanto ha affermato il Papa stamani durante la Messa a Santa Marta. Ha concelebrato il cardinale Agostino Cacciavillan, presidente emerito dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Era presente un gruppo di sacerdoti.

Il Vangelo del giorno ci parla di Gesù che rimprovera i discepoli che vogliono allontanare i bambini che la gente porta al Signore perché li benedica. “Gesù li abbraccia, li baciava, li toccava, tutti. Ma si stancava tanto Gesù e i discepoli” volevano impedirlo. E Gesù s’indigna: “Gesù si arrabbiava, alcune volte”. E dice: “Lasciate che vengano a me, non glielo impedite. A chi è come loro, infatti, appartiene il Regno di Dio”. “La fede del Popolo di Dio – osserva il Papa - è una fede semplice, è una fede forse senza tanta teologia, ma con una teologia dentro che non sbaglia, perché c’è lo Spirito dietro”. Il Papa cita il Concilio Vaticano I e il Vaticano II, laddove si dice che “il popolo santo di Dio … non può sbagliarsi nel credere” (Lumen Gentium). E per spiegare questa formulazione teologica aggiunge: “
Se tu vuoi sapere chi è Maria vai dal teologo e ti spiegherà bene chi è Maria. Ma se tu vuoi sapere come si ama Maria vai dal Popolo di Dio che lo insegnerà meglio”. Il popolo di Dio – prosegue il Papa – “sempre si avvicina per chiedere qualcosa a Gesù: alcune volte è un po’ insistente in questo. Ma è l’insistenza di chi che crede”:
“Ricordo una volta, uscendo nella città di Salta, la Festa patronale, c’era una signora umile che chiedeva a un prete la benedizione. Il sacerdote le diceva: ‘Bene, ma signora lei è stata alla Messa!’ e le ha spiegato tutta la teologia della benedizione nella Messa. Lo ha fatto bene ... ‘Ah, grazie padre; sì padre’, diceva la signora. Quando il prete se ne è andato, la signora si rivolge ad un altro prete: ‘Mi dia la benedizione!’. E tutte queste parole non sono entrate, perché lei aveva un’altra necessità: la necessità di essere toccata dal Signore. Quella è la fede che troviamo sempre e questa fede la suscita lo Spirito Santo. Noi dobbiamo facilitarla, farla crescere, aiutarla a crescere”.
Il Papa cita poi l’episodio del cieco di Gerico, rimproverato dai discepoli perché gridava verso il Signore: “Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!”:
“Il Vangelo dice che volevano che non gridasse, volevano che non gridasse e lui gridava di più, perché? Perché aveva fede in Gesù! Lo Spirito Santo aveva messo la fede nel suo cuore. E loro dicevano: ‘No, non si può! Al Signore non si grida. Il protocollo non lo permette. E’ la seconda Persona della Trinità! Guarda cosa fai…’ come se dicessero quello, no?”.
E pensa all’atteggiamento di tanti cristiani:
“Pensiamo ai cristiani buoni, con buona volontà; pensiamo al segretario della parrocchia, una segretaria della parrocchia… ‘Buonasera, buongiorno, noi due – fidanzato e fidanzata – vogliamo sposarci’. E invece di dire: ‘Ma che bello!’. Dicono: ‘Ah, benissimo, accomodatevi. Se voi volete la Messa, costa tanto…’. Questi, invece di ricevere una accoglienza buona – ‘E’ cosa buona sposarsi!’ – ricevono questo: ‘Avete il certificato di Battesimo, tutto a posto…’. E trovano una porta chiusa. Quando questo cristiano e questa cristiana ha la possibilità di aprire una porta, ringraziando Dio per questo fatto di un nuovo matrimonio… Siamo tante volte controllori della fede, invece di diventare facilitatori della fede della gente”.
E’ una tentazione che c’è da sempre – spiega il Papa – che è quella “di impadronirci, di appropriarci un po’ del Signore”. E racconta un altro episodio:
“Pensate a una ragazza madre, che va in chiesa, in parrocchia e al segretario: ‘Voglio battezzare il bambino’. E poi questo cristiano, questa cristiana le dice: ‘No, tu non puoi perché non sei sposata!’. Ma guardi, che questa ragazza che ha avuto il coraggio di portare avanti la sua gravidanza e non rinviare suo figlio al mittente, cosa trova? Una porta chiusa! Questo non è un buon zelo! Allontana dal Signore! Non apre le porte! E così quando noi siamo su questa strada, in questo atteggiamento, noi non facciamo bene alle persone, alla gente, al Popolo di Dio. Ma Gesù ha istituito sette Sacramenti e noi con questo atteggiamento istituiamo l’ottavo: il sacramento della dogana pastorale!”.
“Gesù si indigna quando vede queste cose” – sottolinea il Papa - perché chi soffre è “il suo popolo fedele, la gente che Lui ama tanto”:
“Pensiamo oggi a Gesù, che sempre vuole che tutti ci avviciniamo a Lui; pensiamo al Santo Popolo di Dio, un popolo semplice, che vuole avvicinarsi a Gesù; e pensiamo a tanti cristiani di buona volontà che sbagliano e che invece di aprire una porta la chiudono … E chiediamo al Signore che tutti quelli che si avvicinano alla Chiesa trovino le porte aperte, trovino le porte aperte, aperte per incontrare questo amore di Gesù. Chiediamo questa grazia”.
(Fonte: Sergio Centofanti per Radio Vaticana del 25 maggio 2013)

Sopportare con pazienza le difficoltà e vincere con amore le oppressioni

Sopportare con pazienza le difficoltà e vincere con amore le oppressioni

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del .
santamarta11“Sopportare con pazienza e vincere con amore le oppressioni esterne ed interne”: è la preghiera elevata da Papa Francesco durante la Messa Santa Marta nella memoria di Maria Ausiliatrice. Nell’omelia, Papa Francesco chiede due grazie: “Sopportare con pazienza e vincere con amore”.
Si tratta di “grazie proprie di un cristiano”. “Sopportare con pazienza” – osserva – “non è facile!”. “Non è facile, quando vengono le difficoltà da fuori, o quando vengono i problemi nel cuore, nell’anima, i problemi interni”. Ma, sopportare – spiega – non è “portare addosso una difficoltà”:
“Sopportare è prendere la difficoltà e portarla su, con forza, perché la difficoltà non ci abbassi. Portare su con forza: questa è una virtù cristiana. San Paolo ne parla parecchie volte. Sopportare. Questo significa non lasciarci vincere dalla difficoltà. Questo significa che il cristiano ha la forza di non abbassare le braccia, di averle così. Portare, ma su: sopportare. E non è facile, perché lo scoraggiamento viene, e uno ha la voglia di abbassare le braccia e dire: ‘Mah, avanti, facciamo quello che possiamo ma niente di più’, un po’ così …’. Ma no, sopportare è una grazia. Dobbiamo chiederla, nelle difficoltà”.
L’altra grazia che il Papa chiede è “vincere con amore”:
“Si può vincere per tante strade, ma la grazia che noi chiediamo oggi è la grazia della vittoria con l’amore, per mezzo dell’amore. E questo non è facile. Quando noi abbiamo nemici fuori che ci fanno soffrire tanto: non è facile, vincere con l’amore. Ci viene la voglia di vendicarci, di fare un’altra contro di lui … L’amore: quella mitezza che Gesù ci ha insegnato. E quella è la vittoria! L’apostolo Giovanni ci dice, nella prima Lettera: ‘Questa è la nostra vittoria: la nostra fede’. La nostra fede è proprio questo credere in Gesù che ci ha insegnato l’amore e ci ha insegnato ad amare a tutti. E la prova che noi siamo nell’amore è quando noi preghiamo per i nostri nemici”.
Pregare per i nemici, per quelli che ci fanno soffrire – prosegue il Papa “non è facile”. Ma siamo “cristiani sconfitti” se non perdoniamo i nemici e se non preghiamo per loro. E “quanti cristiani tristi, scoraggiati, troviamo” – ha esclamato - perché “non hanno avuto questa grazia di sopportare con pazienza e vincere con amore”:
“Per questo, chiediamo alla Madonna che ci dia questa grazia di sopportare con pazienza e vincere con amore. Quante persone – tanti anziani e anziane – hanno fatto questa strada! Ed è bello guardarli: hanno quello sguardo bello, quella felicità serena. Non parlano tanto, ma hanno un cuore paziente e pieno d’amore. Sanno cosa è il perdono ai nemici, sanno cosa è pregare per i nemici. Tanti cristiani sono così”.
Alla Messa erano presenti i dipendenti del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali guidati dal presidente del dicastero, mons. Claudio Maria Celli. E proprio nel giorno in cui si celebra la Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina, hanno partecipato al rito anche mons. Savio Hon Tai-Fai, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, e un un gruppo di sacerdoti, religiose, seminaristi e laici cinesi. Al termine della preghiera dei fedeli il Papa ha così pregato: "Per il nobile popolo cinese: che il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca". La Messa è stata conclusa con un canto alla Madonna in cinese.

(Fonte: Sergio Centofanti per Radio Vaticana del 24 maggio 2013)

venerdì 24 maggio 2013

Lavoisier, lo scienziato ucciso dall’illuminismo

Lavoisier, lo scienziato ucciso dall’illuminismo

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Antoine Lavosier8 maggio. Pochi lo sanno e quasi nessuno, potete scommetterci, lo ricorderà ma questa non è una data qualsiasi perché in quel giorno, 219 anni fa, i mitici rivoluzionari francesi ghigliottinarono il chimico Antoine Lavoisier (1743 –1794), un gigante assoluto della scienza. Tanto che Lagrange, per commentare l’accaduto, affermò: «Alla folla è bastato un solo istante per tagliare la sua testa; ma alla Francia potrebbe non bastare un secolo per produrne una simile».
Ciò nonostante ancora oggi, quando si parla di “scienza perseguitata”, molti evocano il processo a Galileo Galilei (1564 – 1642). Anche a costo di inciampare in errori da matita rossa, come fece tempo addietro Alessandro Cecchi Paone sostenendo che lo scienziato pisano sarebbe stato il primo a dimostrare «attraverso l’osservazione» che la Terra ha una forma sferica: l’ennesimo, gratuito schiaffo al Medioevo, epoca nella quale che la Terra non fosse piatta era dato ampiamente per scontato.
Ma torniamo al Lavoisier, vittima dimenticata di una cultura, quella giacobina e rivoluzionaria, che sotto mentite spoglie resiste tutt’oggi, passando dalla commemorazione del processo a Galilei – di cui ignora quasi tutto – alla celebrazione del pensiero scientifico di Giordano Bruno (1548 –1600), che però era più che altro mago e tifoso «della religione magica degli antichi Egizi quale veniva descritta nell’Asclepius»» (Eliade M. Storia delle credenze e delle idee religiose, Bur 2006 p. 279). Lavoisier invece era uno scienziato vero, come lo era, per esempio, il filosofo, matematico e specialista in ingegneria elettrotecnica Pavel Florenskij (1882-1937), morto fucilato dal regime comunista. Ma degli scienziati perseguitati dai rivoluzionari francesi o dai regimi comunisti poco o nulla si deve sapere; meglio fossilizzarsi sul trito e ritrito “caso Galilei”, guardandosi però bene dal dire quale fu l’effettivo destino dell’illustre scienziato. Un destino per nulla crudele.
Infatti Galilei non solo non fece neppure un giorno in cella né fu sottoposto ad alcuna forma tortura, ma durante il famigerato processo venne accolto – a spese della Santa Sede, per la cronaca – in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale; e dopo la sentenza fu alloggiato prima nella magnifica dimora dei Medici al Pincio e poi in una villa di Arcetri talmente brutta da essere soprannominata «il gioiello». Tutt’altra sorte toccò purtroppo a Lavoisier al quale, come abbiamo visto, mozzarono la testa, anche se quell’orrendo delitto è ricordato talmente poco che non meraviglierebbe l’ipotesi che gli studenti di oggi – gli stessi che magari pensano che Galileo Galilei sia stato sottoposto a chissà quali indicibili torture dalla Chiesa – ammesso e non concesso che sappiano chi era il grande chimico, se interpellati sulla sua fine, possano rispondere: chi tagliò la testa a Lavoisier?

La preghiera umile, forte e coraggiosa compie miracoli

La preghiera umile, forte e coraggiosa compie miracoli

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del . Pubblicato in Omelie a Casa Santa Marta
santamarta29Una preghiera coraggiosa, umile e forte, compie miracoli: è quanto ha affermato il Papa stamani nella Messa presieduta a Santa Marta. Erano presenti alcuni dipendenti della Radio Vaticana accompagnati dal direttore della nostra emittente, padre Federico Lombardi.

La liturgia del giorno presenta il brano del Vangelo in cui i discepoli non riescono a guarire un fanciullo; deve intervenire Gesù stesso che si lamenta dell’incredulità dei presenti; e al padre di quel ragazzo che chiede aiuto risponde che “tutto è possibile per chi crede”. Papa Francesco osserva che spesso anche quanti vogliono bene a Gesù non rischiano troppo nella loro fede e non si affidano completamente a Lui:
Ma perché, questa incredulità? Credo che è proprio il cuore che non si apre, il cuore chiuso, il cuore che vuole avere tutto sotto controllo”.

E’ un cuore, dunque, che “non si apre” e non “dà il controllo delle cose a Gesù” – spiega il Papa – e quando i discepoli gli domandano perché non hanno potuto guarire il giovane, il Signore risponde che quella “specie di demoni non si può scacciare in alcun modo se non con la preghiera”. “Tutti noi – sottolinea - abbiamo un pezzo di incredulità, dentro”. E’ necessaria “una preghiera forte, e questa preghiera umile e forte fa che Gesù possa fare il miracolo. La preghiera per chiedere un miracolo, per chiedere un’azione straordinaria – prosegue - dev’essere una preghiera coinvolta, che ci coinvolga tutti”. E a questo proposito racconta un episodio accaduto in Argentina: una bimba di 7 anni si ammala e i medici le danno poche ore di vita. Il papà, un elettricista, “uomo di fede”, è “diventato come pazzo – racconta il Pontefice - e in quella pazzia” ha preso un autobus per andare al Santuario mariano di Lujan, lontano 70 km:
“E’ arrivato dopo le 9 di sera, quando era tutto chiuso. E lui ha incominciato a pregare la Madonna, con le mani sulla cancellata di ferro. E pregava, e pregava, e piangeva, e pregava … e così, così è rimasto tutta la notte. Ma quest’uomo lottava: lottava con Dio, lottava proprio con Dio per fare la guarigione della sua fanciulla. Poi, dopo le 6 del mattino, è andato al terminal, ha preso il bus ed è arrivato a casa, all’ospedale alle 9, più o meno. E ha trovato la moglie piangente. E ha pensato al peggio. ‘Ma cosa succede? Non capisco, non capisco! Cosa è successo?’. ‘Mah, sono venuti i dottori e mi hanno detto che la febbre se n’è andata, che respira bene, che non c’è niente! La lasceranno due giorni in più, ma non capiscono che cosa è successo!’. Questo succede ancora, eh?, i miracoli ci sono!”.


Ma è necessario pregare col cuore, conclude il Papa:
Una preghiera coraggiosa, che lotta per arrivare a quel miracolo; non quelle preghiere per cortesia, ‘Ah, io pregherò per te’: dico un Pater Noster, un’Ave Maria e mi dimentico. No: preghiera coraggiosa, come quella di Abramo che lottava con il Signore per salvare la città, come quella di Mosé che aveva le mani in alto e si stancava, pregando il Signore; come quella di tante persone, di tanta gente che ha fede e con la fede prega, prega. La preghiera fa miracoli, ma dobbiamo credere! Io penso che noi possiamo fare una bella preghiera … e dirgli oggi, tutta la giornata: ‘Credo, Signore, aiuta la mia incredulità’ ... e quando ci chiedono di pregare per tanta gente che soffre nelle guerre, tutti i rifugiati, tutti questi drammi che ci sono adesso, pregare, ma con il cuore il Signore: ‘Fallo!’, ma dirgli: ‘Credo, Signore. Aiuta la mia incredulità’ che anche viene nella mia preghiera. Facciamo questo, oggi”.

La cultura dell'incontro è alla base della pace

La cultura dell'incontro è alla base della pace

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del . Pubblicato in Omelie a Casa Santa Marta
santamarta31Fare il bene” è un principio che unisce tutta l’umanità, al di là della diversità di ideologie e religioni, e crea quella cultura dell’incontro che è alla base della pace: è quanto ha affermato il Papa nella Messa di stamani a Santa Marta, alla presenza di alcuni dipendenti del Governatorato. Ha concelebrato il cardinale Béchara Boutros Raï, patriarca di Antiochia dei Maroniti

Il Vangelo di questo mercoledì ci parla dei discepoli di Gesù che impediscono a una persona esterna al loro gruppo di fare il bene. “Si lamentano" – afferma il Papa nell’omelia - perché dicono: “Se non è dei nostri, non può fare il bene. Se non è del nostro partito, non può fare il bene”. E Gesù li corregge: “Non glielo impedite – dice - Lasciate che lui faccia il bene”. “I discepoli – spiega Papa Francesco – erano un po’ intolleranti”, chiusi nell’idea di possedere la verità, nella convinzione che “tutti quelli che non hanno la verità, non possono fare il bene”. E “questo era sbagliato” e Gesù “allarga l’orizzonte”. “La radice di questa possibilità di fare il bene, che tutti abbiamo” – osserva il Papa - è “nella creazione”:
Il Signore ci ha creati a sua immagine e somiglianza, e siamo immagine del Signore, e Lui fa il bene e tutti noi abbiamo nel cuore questo comandamento: fai il bene e non fare il male. Tutti. ‘Ma, padre, questo non è cattolico! Non può fare il bene!'. Sì, può farlo. Deve farlo. Non può: deve! Perché ha questo comandamento dentro. ‘Ma, padre, questo non è cristiano, non può farlo!’. Sì, può farlo. Deve farlo. Invece, questa chiusura di non pensare che si possa fare il bene fuori, tutti, è un muro che ci porta alla guerra e anche a quello che alcuni hanno pensato nella storia: uccidere in nome di Dio. Noi possiamo uccidere in nome di Dio. E quello, semplicemente, è una bestemmia. Dire che si possa uccidere in nome di Dio, è una bestemmia”.
“Invece, il Signore – prosegue il Papa - ci ha creati a sua immagine e somiglianza e ci ha dato questo comandamento all’interno del cuore: fai il bene e non fare il male”:
“Il Signore tutti, tutti ci ha redenti con il sangue di Cristo: tutti, non soltanto i cattolici. Tutti! ‘Padre, gli atei?’. Anche loro. Tutti! E questo sangue ci fa figli di Dio di prima categoria! Siamo creati figli con la somiglianza di Dio e il sangue di Cristo ci ha redenti tutti! E tutti noi abbiamo il dovere di fare il bene. E questo comandamento di fare il bene tutti credo che sia una bella strada verso la pace. Se noi, ciascuno per la sua parte, facciamo il bene agli altri, ci incontriamo là, facendo il bene, e facciamo lentamente, adagio, piano piano, facciamo quella cultura dell’incontro: ne abbiamo tanto bisogno. Incontrarsi facendo il bene. ‘Ma io non credo, padre, io sono ateo!’. Ma fai il bene: ci incontriamo là!”.
Fare il bene” – spiega il Papa – non è una questione di fede, “è un dovere, è una carta d’identità che il nostro Padre ha dato a tutti, perché ci ha fatti a sua immagine e somiglianza. E lui fa il bene, sempre”. Questa la preghiera finale di Papa Francesco:
“Oggi è Santa Rita, Patrona delle cose impossibili, ma questo sembra impossibile: chiediamo a lei questa grazia, questa grazia che tutti, tutti, tutte le persone facciano il bene e ci incontriamo in questo lavoro, che è un lavoro di creazione, assomiglia alla creazione del Padre. Un lavoro di famiglia, perché tutti siamo figli di Dio: tutti, tutti! E Dio ci vuole bene, a tutti! Che Santa Rita ci conceda questa grazia, che sembra quasi impossibile. Così sia”.
(Fonte: Sergio Centofanti per Radio Vaticana del 22 maggio 2013)

lunedì 20 maggio 2013

La croce di oggi che ci fa inginocchiare

LA TESTIMONIANZA


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di John Waters
20/05/2013 - Il racconto di una vita, dall'«esperienza estrema di libertà», alla riscoperta di essere creatura: «Ho imparato che il desiderio della Grandezza non era un concetto astratto, ma un fatto». Le parole di John Waters davanti al Papa
Amici miei, viviamo in un tempo di menzogna. In passato, l’uomo lottava per la perfezione, sapendo che essa non era raggiungibile in questo mondo. Guidato da una fede certa in un Creatore amorevole, dal quale restava dipendente, l’uomo tendeva a raggiungere le stelle, senza illudersi di poterle toccare, ma capendo che l’atto stesso del tendere a raggiungerle gli permetteva di essere pienamente se stesso. Oggi l’uomo lotta per l’onnipotenza credendo che essa si possa raggiungere. Per questo l’uomo si sente oppresso dalla solitudine, perché ogni cosa dipende solo dal proprio sforzo personale.
La delusione che ne nasce ci affligge tutti. Invade le nostre menti e cambia il nostro modo di pensare e di sentire. E talvolta abbiamo l’impressione - a dispetto di noi stessi - che non dovremmo aver bisogno di Dio. Voglio sottolineare, non che non ne abbiamo bisogno, ma che non dovremmo aver bisogno di Lui.

L’uomo ha costruito il proprio mondo all’interno di quello, misterioso, donatogli da Colui che fa tutte le cose. E questo mondo fatto dalla mano dell’uomo ha delle caratteristiche strane, spesso contraddittorie. Ci fa sentire più sicuri, anche se meno fiduciosi; più intelligenti anche se più vicini alla disperazione. Ci mette addosso un senso di onnipotenza, anche se non ci siamo mai sentiti più impotenti. Questa è la storia della mia vita, una vita vissuta dentro la falsa realtà che l’uomo ha costruito per sentirsi sicuro.
Da bambino, ho camminato con Cristo per le strade del mio paese. Parlavamo, andando, di tutto ciò che esisteva e di tutto ciò che sembrava possibile. Non c’era bisogno di “credere”. Io conoscevo Cristo, e non c’è bisogno di “credere” nelle cose che conosci. Lui era con me sempre - compagno, fratello, padre, protettore…
Nella mia adolescenza, ho scoperto la realtà fatta dall’uomo e la sua versione della libertà, così diversa dalla libertà che avevo sperimentato da bambino. In qualche modo intuivo che questa nuova libertà sembrava escludere la possibilità di continuare a camminare con Cristo - che c’era una scelta da fare. Anche se non era quello che desideravo, percepivo che per andare avanti nel mondo moderno avrei dovuto staccarmi da Lui. E così feci - con tristezza, con vergogna, ma anche con molti alibi e autogiustificazioni.
Così mi sono gettato in questo grande viaggio di libertà. Per un certo periodo, mi è sembrato evidente che avevo fatto la scelta giusta. Mi sentivo proprio libero. Ma a poco a poco mi rendevo conto che queste nuove libertà non mi soddisfacevano. In qualche caso trovavo che esse erano causa di grande sofferenza. E in un caso particolare - la mia esperienza con l’alcol - queste supposte libertà mi hanno gettato in ginocchio. Mi hanno gettato in ginocchio, in tutti i sensi, per fortuna.

Forse era necessario che io facessi un’esperienza “estrema” di libertà per farmi percepire l’errore che avevo compiuto. Attraverso l’intercessione di compagni di sventura, di persone fuggite come me dalla stessa incomprensione della libertà - che avevano già scoperto qualcosa della vera natura della libertà - sono stato re-introdotto all’idea che ero una creatura. Questi nuovi amici mi hanno mostrato che io dipendevo da qualcosa di infinitamente più grande di qualunque cosa io potessi trovare nel mondo fatto dall’uomo. Da questi amici ho imparato che io possedevo un desiderio infinito di questa infinita Grandezza.
La natura dell’uomo è una continua domanda. Tu e io siamo fatti di desiderio. Non siamo fatti per accontentarci di una soddisfazione timida e fiacca. Siamo parte del Mistero che fa ogni cosa possibile. Questo è il motivo per cui Gesù è venuto fra noi: per mostrarci tutto quello che la vita umana può essere.
Tutto questo ho imparato dagli amici che ho incontrato e che mi hanno aiutato a portare il peso di questa croce così attuale, una croce fatta di schiavitù e guarigione. E insieme ho imparato che il desiderio della Grandezza di Dio non era un bel concetto astratto, ma un fatto al centro della mia struttura e della mia natura. Ritornando al punto di partenza, ho indagato su di me e sul mio posto nel mondo, e ho scoperto che quei giorni di innocenza, quando camminavo con Cristo lungo le strade del mio paese, bene, quelli erano stati i momenti della mia vita nei quali il mio essere era stato più profondamente in armonia con la mia natura e la mia struttura.
È stata una scoperta stupefacente. Per molti aspetti uno scandalo. Ma è stata anche una liberazione. Dopo un viaggio doloroso potevo ancora dire la parola “Cristo” come qualcosa di vero riguardo a me. Potevo ancora accostarmi a quella figura che pazientemente mi attendeva, non per un desiderio di riconciliazione sentimentale o pieno di rimorso, ma avendo imparato che in quella Persona, in quel rapporto, stava il fondamento della verità su di me.
In quei giorni ho imparato che non ero fatto per essere solo. O meglio, che non ero fatto per credere di essere solo - perché qualunque cosa io possa dire, Lui è comunque con noi.

Vi parlo della mia esperienza della realtà. Racconto fatti, cose che sono accadute e continuano ad accadere, parlo quindi di un contesto sperimentabile. Questi fatti sono veri per la mia vita come il fatto che oggi è sabato. Questo mondo fatto dall’uomo, con le sue aspirazioni, è per molti versi positivo. Dentro di esso, siamo più sicuri e più comodi di quanto potremmo esserlo altrove. Ma il mondo fatto dall’uomo ci tiene nascosta la natura misteriosa della realtà, compresa la realtà che rimane dentro di noi e che ci definisce. Questa realtà interiore è pienamente accessibile solo attraverso l’incontro con questa Persona che chiamiamo Cristo. Conoscere Cristo non ci richiede di volgere le spalle alla curiosità, al progresso, all’illuminismo, alla libertà. Al contrario, ci chiede di guardare più profondamente dentro la realtà, per vederne la vera natura.

San Giovanni ci dice che, preannunciando la prima Pentecoste, Gesù disse: «In quel giorno saprete che io sono nel Padre, e voi in me, e io in voi» (Gv 14,20). Sono arrivato a vedere queste parole come una descrizione letterale della mia realtà. Non sono solo questa persona che ha il nome John. Io sono anche un Altro - Colui che mi fa, e col quale esisto in un rapporto che io trascuro, a mio rischio e pericolo.
Conoscere Cristo è conoscere me stesso, capire come sono fatto, e diventare libero in questa conoscenza - perché non potrei diventare libero in nessun altro modo.