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martedì 31 marzo 2020

La baldanza e l’indomabilità cristiane

La baldanza e l’indomabilità cristiane 
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“La baldanza e l’indomabilità cristiane ci sono perché tutto ci è dato, poteva non esserci niente, e allora di cosa abbiamo paura? È questa la libertà cristiana: non avere più paura di sbagliare. 
Tutto ci è stato dato. Di fronte alla guerra, di fronte alla morte di amici in situazioni incredibili, di fronte alle disgrazie, di fronte alla bellezza di certe compagnie, di fronte al fatto che due si sposano, il problema è uno solo: che la verità, nella carne di tutti i giorni, smetta di cristallizzarsi in dottrina, ma, attraverso il lavoro di tutti i giorni, generi quell’uomo che spera nella presenza infinita del Mistero, per cui tutto gli è dato istante per istante; e rispondendo a quel Mistero vince l’inclinazione ad avere un rapporto con la realtà dipendente solo da quello che sente lui e misura lui. 
Così nasce l’indomabilità. Si cadrà mille volte, ma mille volte si riprenderà. Questo è il cristiano. “
Enzo Piccinini 💙

domenica 29 marzo 2020

“tutto andrà bene”. Non condivido un simile principio

17 gennaio 1981
Cara Olga, la cosa più importante di tutte per te è non perdere la fede e la speranza. 
Quando parlo di fede e di speranza non ho in mente l’ottimismo nel senso convenzionale del termine, con il quale di solito si esprime la convinzione che “tutto andrà bene”. Non condivido un simile principio, lo considero – se espresso in modo così generico – un’illusione pericolosa. Non so come “tutto” andrà e perciò devo accettare anche la possibilità che tutto, o perlomeno la maggior parte delle cose, vada male. 
L’ottimismo (per come lo intendo io qui) non è quindi qualcosa di univocamente positivo ma è, piuttosto, il contrario: nella vita ho incontrato molte persone che, quando avevano la sensazione che tutto sarebbe andato bene, erano piene di euforia e brio, ma quando, pensando al futuro passavano all’opinione opposta, di solito alla prima occasione, sprofondavano di colpo in un cupo scetticismo.
Il loro scetticismo (che spesso si esprimeva in forma di visioni catastrofiche) era, ovviamente, altrettanto emotivo, superficiale e selettivo del loro precedente entusiasmo: si trattava soltanto di due facce della stessa medaglia. Quando qualcuno ha bisogno dell’illusione per vivere, ciò non è un’espressione di forza, ma di debolezza, e lo dimostrano le ripercussioni su una vita siffatta.
Una fede autentica è qualcosa di incomparabilmente più profondo e misterioso di qualche emozione ottimistica (o pessimistica), e non dipende da come in un dato momento la realtà appare effettivamente. Ed è anche per tale ragione che soltanto l’uomo di fede, nel senso più profondo del termine, è in grado di vedere le cose per come sono veramente, e di non distorcerle, non avendo egli ragioni né personali, né emotive per farlo.
L’uomo privo di fede si preoccupa semplicemente di sopravvivere, per quanto possibile, comodamente e senza dolore ed è indifferente a tutto il resto.
Baci da Vašek

CARDUCCI: CONVERSIONE SEGRETA

CARDUCCI: CONVERSIONE SEGRETA PER IL POETA DELL'INNO A SATANA
PUBBLICATI I DOCUMENTI CUSTODITI NELL'ARCHIVIO DI DON ORIONE
Roma, 11 gen. - (Adnkronos) - Poco piu' di dieci anni prima della morte, avvenuta a Bologna nel 1907, Giosue' Carducci si sarebbe convertito segretamente alla fede cristiana. E in punto di morte, il poeta fiero anticlericale e massone, autore dell'inno ''A Satana'', avrebbe chiesto i sacramenti, officiati da un prete travestito da barbiere, per paura che i suoi amici scoprissero il suo ritorno nelle braccia della Chiesa. Le rivelazioni sull'autore delle ''Odi barbare'' appaiono sul periodico ''I messaggi di Don Orione'', stampato dalla Piccola Opera della Divina Provvidenza, dove sono pubblicati documenti inediti custoditi nell'archivio dell'ordine religioso fondato da Don Luigi Orione.
Poco prima della sua morte, Don Orione confido' al suo primo biografo, don Domenico Sparpaglione, di aver appreso che Carducci, durante un soggiorno a Courmayeur, aveva conosciuto l'abate don Piero Chanoux, noto predicatore che risiedeva al Piccolo San Bernardo, e che, dopo alcune conversazioni con lui, si era infine confessato abbracciando di nuovo la fede nella quale era stato battezzato.
Durante il processo canonico che ha portato alla beatificazione di Don Orione, don Giuseppe Zambarbieri riferi' altri particolari sulla conversione avvenuta intorno al 1895: ''Una notte il Carducci passo' in piedi, passeggiando avanti e indietro nella sua stanza. Fu una notte assai simile a quella dell'Innominato (il noto episodio raccontato nei 'Promessi sposi' da Alessandro Manzoni, ndr). Al mattino si presento' all'abate Chanoux e si e' confessato. Ho chiesto se vi sono prove di veridicita'. Don Orione e' stato di persona a Courmayeur per accertare il fatto, penso che sia stato inviato in missione straordinaria. Ed ebbe dall'abate la conferma''. Ma perche' il poeta non accenno' mai pubblicamente alla sua conversione? Nei suoi appunti inediti, Don Orione scrive che Carducci ''fu troppo debole per dirlo forte''.
(Sin/Pn/Adnkronos)

sabato 28 marzo 2020

  • APPUNTI PER LA MATURITÀ

Carducci, il classicista che si riconciliò con Dio

Nel clima anticlericale e anticattolico del primo Regno d’Italia la cultura dominante trovò in lui un suo illustre rappresentante. Carducci era attratto dal progresso, dalle invenzioni e dalla tecnologia. Era conquistato dalla classicità, dalla grandezza dell’antica Roma. In morte volle i Sacramenti e, malgrado la guardia feroce che gli montavano i massoni, li ebbe da un sacerdote vestito da barbiere e venuto con la scusa di fargli la barba.
LE ESERCITAZIONI 
Con questo articolo dedicato a Carducci, incominciamo una nuova rubrica curata dal professor Giovanni Fighera: Appunti per la Maturità. Si tratta di un appuntamento settimanale per aiutare i ragazzi a preparare l'esame. Ogni domenica affronteremo un autore e fianco ci sarà una scheda per l'esercitazione. 
Nutrito di cultura classicista, letterato fortemente risorgimentale, incline ai miti repubblicani e garibaldini prima e monarchici più tardi, Giosuè Carducci cantò sempre le gesta dell’Italia unita con una vena decisamente civile, non scevra spesso di un tono caustico nei confronti della classe dirigente. Senatore e iscritto alla massoneria, divenne espressione dello scrittore engagé ovvero organico al potere e al sistema, poeta ufficiale del Regno.
Nel clima anticlericale e anticattolico del primo Regno d’Italia la cultura dominante trovò in lui un suo illustre rappresentante. Osannato in vita come poeta vate, venne celebrato per decenni come punto di riferimento per la poesia e per gli ideali della patria in tutte le scuole. Generazioni d’italiani impararono i suoi versi a memoria finché il poeta non cadde nella dimenticanza tanto cupa quanto prima era stata luminosa la sua fama.
Carducci nacque nel 1835 a Val di Castello in Versilia e si formò negli studi classici prima a Firenze e, poi, alla Scuola Normale di Pisa. Laureatosi in Lettere classiche a soli ventun anni, iniziò ad insegnare fin da subito nelle scuole superiori finché non gli venne proposta, quando aveva solo venticinque anni, la cattedra di letteratura italiana a Bologna, cattedra che ricoprì per più di quarant’anni fino al 1904. Coloro che avessero ricoperto quella cattedra dopo Carducci avrebbero da lui ereditato una sorta di testimone del poeta vate, figura di riferimento per la nazione.
Lo stesso discepolo di Carducci, che fu critico severo del maestro, quando divenne docente di Italiano a Bologna nel 1906, avrebbe modificato anche la sua ispirazione poetica improntandola alla retorica risorgimentale e all’enfasi patriottica tanto da declamare prima e poi scrivere La grande proletaria si è mossa nel 1911 per l’impresa di Libia.
Intanto, gravi lutti colpirono il poeta nella giovinezza: prima, nel 1857, la morte del fratello Dante, suicida o ucciso dal padre (chiarezza definitiva non si fece mai sull’accaduto, perché il caso venne archiviato con la tesi del suicidio, anche se forti dubbi rimasero) e, l’anno seguente, la morte del padre stesso.
Convolato a nozze con Elvira Menicucci nel 1859, Carducci ebbe cinque figli: Francesco morì pochi giorni dopo la nascita, mentre Dante all’età di tre anni, forse di tifo. Era il 9 novembre 1870. Fu una morte che lasciò un segno indelebile non solo nella vita e nel cuore del poeta, ma anche nei suoi versi.
Nel giugno del 1871 Carducci dedicò al figlio la strofa anacreontica Pianto antico nella quale descrisse un melograno che in primavera ha ripreso a fiorire nel suo giardino. La natura, nel suo ciclo perenne che dal sonno invernale riporta alla rinascita primaverile, se può far rinascere e splendere per alcuni mesi la vita in terra, non è, però, capace di risuscitare i morti.
Inconsolabile, il poeta può solo abbandonarsi ad un threnos (in greco «pianto») che accomuna la sua sofferenza a quella di tutti gli uomini che da sempre vedono morire i propri cari. Per questo il pianto di Carducci è «antico», ovvero universale. Innanzi alla morte, e ancor di più di fronte alla scomparsa di un figlio, solo la speranza di rivedere il volto dell’amato nell’aldilà potrebbe dar conforto.
Persa la fede, considerata retaggio vetusto e superstizioso, Carducci creò nuovi idoli (il progresso, la scienza, il culto della classicità, ecc.) che non riuscirono, in alcun modo, a rispondere all’umano e universale desiderio di salvezza e di eternità.
Il dolore per la morte del figlio divenne fonte di ispirazione anche per Funere mersit acerbo, appartenente sempre alle Rime nuove. Carducci si rivolge al fratello Dante, morto nel 1857, chiedendogli di accogliere suo figlio appena defunto. In un sonetto dai toni aulici e classicheggianti, ispirato a quell’Ade pagano e antico raccontato da Virgilio nel VI libro dell’Eneide, il poeta richiama anche l’amato paesaggio toscano con immagini icastiche e con grande carica affettiva ed emotiva. Il poeta sa così toccare il cuore di ogni uomo grazie all’universalità dei temi affrontati: il dolore per la morte di un caro, il bisogno umano di amore e di affetto. La disperazione, ovvero la totale mancanza di speranza, si tramuta qui in tragedia. Senza Cristo, senza promessa di salvezza, Carducci è ritornato al paganesimo.
Dal 1871 Carducci divenne l’amante di Carolina Cristofori Piva, cantata col nome di Lidia nelle Odi barbare. A lei furono dedicati alcuni dei componimenti più belli incentrati sulle partenze laceranti che la separarono dal poeta. Nei versi di Alla stazione in una mattina d’autunno (Odi barbare) i fanali di una locomotiva a vapore in un plumbeo cielo di una mattina d’autunno e il lungo rintocco che preannuncia la partenza, cui risponde l’eco dolorosa del tedio per la separazione, trasmettono una tristezza profonda, sancita dalla definitiva chiusura degli sportelli. Il treno è un «mostro» moderno, prodigio sorprendente, che «va empio; con traino orribile», portandosi lontana l’amata Lidia. Richiamandosi all’episodio di Plutone che rapisce Proserpina per portarla giù nell’Ade, Carducci descrive l’amata come un sogno che si allontana («viso dolce di pallor roseo», «stellati occhi di pace», «bianca faccia e ‘l bel volo») contrapponendo ai bei ricordi dell’estate il triste autunno della separazione.
Carducci era attratto dal progresso, dalle invenzioni e dalla tecnologia. Lo vediamo anche nell’inno A Satana, ove il poeta esalta anche l’edonistica gioia di vivere, sbeffeggiando la persona di Cristo e chiedendosi a che cosa sia servito che i riti liturgici celebrati a memoria dell’ultima cena abbiano bruciato i templi pagani e abbiano distrutto le statue greche pagane. Il progresso ha vinto, rendendo inutile, a detta di Carducci, la superstizione cristiana. Ma è solo un inganno, come vedremo alla fine di questo racconto.
Carducci avvertiva, al contempo, una grande distanza tra la modernità e l’antichità. Era conquistato dalla classicità, dalla grandezza dell’antica Roma, da forme metriche e stilistiche che avevano raggiunto livelli elevati di raffinatezza e cura formale. Per questo il poeta perseguiva anche l’introduzione delle antiche forme metriche classiche all’interno della lirica contemporanea. L’operazione era ardita e avrebbe trovato la sua migliore espressione nelle Odi barbare.
È il caso di Nevicata, poesia scritta in distico elegiaco. Il lento cadere della neve addormenta progressivamente la vita, i rumori, i suoni, quelli che caratterizzano la gioventù e la sua gaia spensieratezza come pure l’età adulta nel suo infaticabile correre e nella sua incessante attività. Le stesse ore, cadenzate, come sempre accadeva nel passato, dallo scampanio, sembrano quasi fermarsi, restituendo l’impressione della partecipazione al torpore della natura. Il suono delle campane pare arrivare da un mondo lontano dal nostro, il mondo dell’oltretomba, dove tutto è ormai immobile e impalpabile. Il bel paesaggio invernale tratteggiato da Carducci si fa carico di immagini e di parole simboliche. Gli stessi uccelli cercano di comunicare con il poeta picchiando sui vetri come se volessero annunciargli qualcosa, come fossero portavoci dei cari amici estinti, provenienti dall’Ade. Il poeta si sente vicino alla morte, la «fatal quiete» foscoliana ora descritta come silenzio e ombra, dove trovare riposo. Se Foscolo percepiva la serenità e la pacificazione dei sensi, Carducci avverte l’ineluttabilità. Se è vero che un indomito cuore accomuna Carducci a Foscolo, espressione di furori e di passioni che possono trovare pace solo una volta che tutta l’energia vitale si è assopita, è altresì vero, però, che il quadretto generale, le immagini, i colori e il ritmo stesso trasmettono una malinconia profonda.
Altro esempio di forma metrica classica riprodotta nella poesia italiana è l’ode anacreontica San Martino (appartenente alle Rime nuove). Carducci dipinge un quadretto di paese autunnale, dipinto con colori, suoni e odori. Poche pennellate dipingono una natura toscana malinconica (nebbia) e mossa (mare in tempesta). In questo contesto vi è un borgo animato da vite umane. L’attenzione si concentra su una figura solitaria, immersa nella tranquillità del paese, un cacciatore, simbolo forse del poeta stesso che osserva uccelli migratori: assomigliano ai pensieri della sera, quelli che riportano ai cari defunti e alla percezione del carattere transeunte della vita.
La compresenza di campi sensoriali differenti prelude senz’altro alle dimensioni decadenti di qualche decennio più tardi (considerazione quasi paradossale se pensiamo che Benedetto Croce contrappone proprio il «sano» Carducci ai malati poeti decadenti), mentre la tendenza impressionistica ad avvalersi di pochi tratti pittorici per dipingere il quadretto ritornerà sovente nel Pascoli di Myricae, allievo di Carducci, che del resto partirà spesso da temi già affrontati dal maestro. Dell’«estate fredda dei morti» di San Martino scriverà Pascoli nella celeberrima Novembre (Myricae).
Il 10 ottobre 1906 l’Accademia di Svezia conferì a Carducci il Premio Nobel, proprio l’anno prima della morte. Non poté consegnarglielo di persona, per la malattia del poeta, a causa della quale aveva interrotto nel 1904 anche l’insegnamento all’università di Bologna. Il premio venne fatto recapitare a casa di Carducci. Era il primo poeta italiano a conseguirlo. Queste le motivazioni:
Non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica.
Carducci aveva composto numerose raccolte (Juvenilia, Levia gravia, Giambi ed epodi, Rime nuove, Odi barbare, Rime e ritmi): quella che rivela maggiormente l’aspetto intimo e privato del poeta è indubbiamente Rime nuove.
Le sorprese nella vita di Carducci non erano finite. Quella più sorprendente sarebbe arrivata in punto di morte e non è raccontata sui libri di scuola. Riguarda la morte cristiana di Carducci. Luigia Tincani, fondatrice delle Missionarie della Scuola, figlia del noto classicista Carlo Tincani, amico del poeta, scrive: «Mio padre, pur se allora non era praticante, combatteva per la difesa della religione e della Chiesa. Era Vice-presidente del Consiglio scolastico, che contava altri quattordici membri: tutti massoni […]. Noi eravamo amiche delle figlie del custode della Certosa. Abbiamo sentito che Carducci in morte volle i Sacramenti e, malgrado la guardia feroce che gli montavano i massoni, li ebbe da un sacerdote vestito da barbiere e venuto con la scusa di fargli la barba».
Abbiamo prove di un avvicinamento di Carducci alla fede cristiana risalenti a prima dei sacramenti ricevuti in punto di morte? Se leggiamo il processo di beatificazione di Don Orione, scopriamo che Carducci si confessò e si convertì negli ultimi anni. La confessione sarebbe avvenuta nel 1895. Don Giuseppe Zambarbieri racconta al riguardo: «Una notte il Carducci passò in piedi, passeggiando avanti e indietro nella sua stanza. Fu una notte assai simile a quella dell’Innominato. Al mattino si presentò all’abate Chanoux e si è confessato. Ho chiesto se vi sono prove di veridicità. Don Orione è stato di persona a Courmayeur per accertare il fatto, penso che sia stato inviato in missione straordinaria. Ed ebbe dall’abate la conferma».

mercoledì 25 marzo 2020

Significato di padre

NOMINA SUNT SUBSTANTIA RERUM

La parola italiana "padre" deriva dal latino "pater", che a sua volta deriva dal termine sanscrito "pati" che significa "recinto di protezione".
"Padre" quindi deriva da "recinto", in quanto il padre è colui che protegge.
Egli delimita anzitutto un limite, un argine, un confine oltre il quale non si può andare. Tutto ciò non va visto come una costrizione, un impedimento che ci opprime o che, peggio ancora, ci priva della nostra libertà, ma come quelle mura di protezione robuste, sicure, solide, affidabili, che ci difendono e ci proteggono dalle minacce e dagli attacchi che provengono dall'esterno. E' un argine finalizzato al nostro bene, perché al di là di esso potremmo imbatterci da soli nei pericoli del mondo.
Il padre, quindi, è l'autorità che stabilisce i no, le regole da rispettare per non rischiare di valicare il limite di ciò che è lecito, buono e giusto.
Quelle regole sono volte al nostro bene, perché ci preservano dai pericoli assicurati.
Come prima, la regola non è una privazione della nostra libertà, anzi ne è il suo pieno compimento, perché garantisce l'ordine nel creato e l'armonia nella nostra vita.
Ma un recinto di protezione è anche tutto ciò contro cui si abbattono i colpi dei nemici scagliati dall'esterno pur di non danneggiare quanto di prezioso è custodito al suo interno.
Il padre, dunque, è la cinta muraria che sa sacrificarsi per la sua famiglia, che sa soffrire, che sa combattere, che sa dare la sua vita, che è pronto a incassare i colpi provenienti dall'esterno, pur di preservare indenni la sua regina e i suoi figli.
Se infatti la madre insegna ai propri figli come vivere, il padre insegna loro come morire.

Il segreto di una famiglia felice è in questa immagine: un padre che governa e protegge la famiglia, una madre che custodisce la vita e l'unità.

Dario Maria Minotta, MG

lunedì 23 marzo 2020



"E li mandò ad annunciare il Regno di Dio e a guarire gli infermi" (Lc 9,2).

Li mandò a gridare dappertutto che c'è un motivo per vivere, che c'è una ragione per soffrire, per lavorare, per gioire, per guardare il futuro, che c'è una ragione per cui una madre è madre, un padre è padre, li mandò ad annunciare questa positività in tutto il mondo e a guarire gli infermi.

Se la mia vita sempre più accetta di avere come suo scopo supremo testimoniare Lui, gridare a tutti gli uomini la positività ultima della vita, questo è guarire ciò che è ammalato.

Questo cambiamento comincia però da noi stessi: noi siamo i primi infermi che dobbiamo essere guariti, dall'ignoranza, dalla malattia, dal terrore della morte, dalla difficoltà.

Innanzi tutto dobbiamo curare noi stessi e il fondamento di questo cambiamento operato in noi stessi è rinnovare quotidianamente la memoria di Cristo.

(Enzo Piccinini, 1990)

Duro j'accuse di Gifford-Jones: "Il coronavirus e le vite che potevano essere salvate"

Duro j'accuse di Gifford-Jones: "Il coronavirus e le vite che potevano essere salvate"
Morti in vano per il Covid-19 quando, forse, potevano essere salvati. Sulle inutili vittime di questo virus, si interroga Ken Walker Gifford-Jones. Anzi, ci spiega come, secondo lui, potrebbero essere salvate migliaia di vite. «Ai pazienti che risultano positivi al coronavirus - spiega l'esperto - dovrebbe essere somministrata la vitamina C per via endovenosa, e salverà vite umane. Il problema è che la maggior parte dei medici si rifiuta ancora di credere che l'IVC sia efficace». Poi, parla anche di prevenzione con le giuste dosi per rafforzare il sistema immunitario. Raccomanda di «iniziare con 2000 mg due volte al giorno per costruire l'immunità e se i sintomi dell'influenza si sviluppano, arrivare anche a 2.000 mg all'ora, ovviamente fino alla tolleranza intestinale, ma sempre su consiglio medico». Gifford-Jones mette in guarda dai possibili effetti collaterali di un sovradosaggio, ma «meglio sedersi su una toilette che sotto una lapide» sdrammatizza l'esperto.
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Dal trattamento clinico per i contagiati alla misura di prevenzione per contrastare il virus. Gifford-Jones condanna la mancanza di intervento sia da parte dei governi degli Stati colpiti dall'emergenza sia dei rispettivi sistemi sanitari. «La vitamina C è a buon mercato - scrive nel suo saggio Gifford-Jones -, innocua e ampiamente disponibile ed è ampiamente stata dimostrata la sua efficacia nel ridurre la mortalità dovuta all'infezioni virali». Poi, con un punta il dito contro i dottori inconsapevoli e si lancia in un duro j'accuse alla classe medica: «Non somministrarla ai pazienti affetti da COVID-19 è uguale all'omicidio». A sostegno della sua tesi cita Lendon H. Smith autore della Clinical Guide to the Use of Vitamin C che riprende la ricerca del Dr. Frederick R. Klenner, pioniere nell'utilizzo della vitamina C e nella sua applicazione, con successo, a svariate malattie virali e batteriche

 La vitamina C nei casi Coronavirus

Ad alcuni ricercatori della Orthomolecular Medicine News Service (OMNS), che studiano il potenziale degli integratori per combattere la malattia, è stato chiesto come tratterebbero il Coronavirus. Una selezione di risposte meritevoli di attenzione sono state riproposte dal dottor Ken Walker Gifford-Jones, sul suo blog. «Il coronavirus può essere drasticamente rallentato o fermato completamente con l'uso immediato diffuso di alte dosi di vitamina C che, assunto in razioni giornaliere diventa un antivirale senza eguali» spiega Andrew W. Saul, esperto internazionale di terapia vitaminica. «Il dr. Robert F. Cathcart - ricorda Saul -, che ha avuto una vasta esperienza nel trattamento delle malattie virali sostiene di non aver mai visto influenza che non sia stata curata con dosi massicce di vitamina C». Altra interessante teoria, quella del professor Victor Marcial-Vega della Caribe School of Medicine:«Dato il tasso relativamente elevato di successo della vitamina C endovenosa nelle malattie virali e la mia osservazione del miglioramento clinico entro 2 o 3 ore dal trattamento, credo fortemente che sarebbe la mia prima raccomandazione nella gestione del coronavirus». E aggiunge: «Ho anche usato la vitamina C per via endovenosa per trattare pazienti con influenza, febbre dengue e chikungunya, per 24 anni». Della stessa filosofia dei colleghi, anche Jeffery Allyn Ruterbusch, professore associato presso Central Michigan University«Credo che tutti noi siamo d'accordo sui notevoli benefici della vitamina C quando le persone sono poste a condizioni di stress». Poi, è la volta di Damien Downing, ex redattore del Journal of Nutritional and Environmental Medicine che spiega la correlazione tra il selenio e il sistema immunitario:«Influenza suina, influenza aviaria, e SARS, tutte sviluppati in Cina dove è carente il selenio. Quando ai pazienti contagiati è stato somministrato il selenio, i tassi di mutazione virale sono diminuiti e, nel complesso, le difese immunitarie sono migliorate». In sintesi, tutti i ricercatori sostengono non solo la validità e l'importanza del trattamento IVC nei casi di COVID-19, ma garantiscono anche un miglioramento a 2-3 ore dalla somministrazione.
Lannutti
Ma non sono i soli. Favorevole all'uso della vitamina C anche Elio Lannutti, giornalista, scrittore e portavoce M5S al Senato scrive su Twitter: «La vitamina C può aiutare a curare la polmonite e a prevenire la replicazione virale». Altri esperti sostengono che alte dosi di vitamina C, insieme a 3.000 IU di vitamina D, e 20 milligrammi di zinco, siano una buona combinazione per aiutare a combattere le malattie virali. È il caso di Carolyn Dean, e Thomas Levy, entrambi esperti nel panorama internazionale sul magnesio, hanno sottolineato che il minerale è coinvolto in 1.000 reazioni metaboliche e che mantenere livelli adeguati migliora l'immunità. Un'altra opinione overriding era che poche persone sanno che alte dosi di C aumentano l'immunità e sconfiggono le malattie virali. E secondo Ken Walker Gifford-Jones, queste informazioni non sarebbero nuove: «Durante la grande epidemia di poliomielite del 1949-50 il Dr. Frederick R. Klenner, un medico di famiglia in North Carolina, ha curato 60 malati di poliomielite con alte dosi di vitamina C per via endovenosa». In quell'occasione, non si sono registrati casi di paralisi. Questa scoperta avrebbe dovuto fare notizia in tutto il mondo, ma la notizia del dottor Klenner è caduta sulle orecchie dei sordi. Più tardi, Klenner ha dimostrato che alte dosi di C potevano anche essere efficaci nei trattamenti per meningite, polmonite, morbilloepatite e altre malattie virali e batteriche. Anche per curare il morso di un serpente a sonagli. 
Per approfondimenti: "More Research Is Killing COVID-19 Victims"  e   "People Are Dying Needlessly of Coronavirus" di W. Jifford-Jones

domenica 22 marzo 2020

La peste

        La peste
    ***


Manzoni non l’aveva vista, la peste, 
ma aveva studiato documenti su documenti. 
E allora descrive la follia, la psicosi, 
le teorie assurde sulla sua origine, sui rimedi. 
Descrive la scena di uno straniero (un “turista”) 
a Milano che tocca un muro del duomo e viene linciato 
dalla folla perché accusato di spargere il morbo. 
Ma c’è una cosa che Manzoni descrive bene,  soprattutto, e che riprende da Boccaccio:  il momento di prova, di discrimine, tra umanità e inumanità. Boccaccio sì che l’aveva vista, 
la peste. Aveva visto amici, persone amate, 
parenti, anche suo padre morire. 

E Boccaccio ci spiega che l’effetto più 
terribile della peste era la distruzione del vivere civile. Perché il vicino iniziava a odiare il vicino, il fratello iniziava a odiare il fratello, e persino i figli abbandonavano 
i genitori. La peste metteva gli uomini l’uno contro l’altro. Lui rispondeva col Decameronil più grande inno alla vita e alla buona civiltà. 
Manzoni rispondeva con la fede e la cultura, che non evitano i guai ma, diceva, insegnavano come affrontarli. 

In generale, entrambi rispondevano in modo simile: invitando a essere uomini, 

a restare umani, quando il mondo impazzisce.

-  di Errico Buonanno -

Nel quadro "I sopravvissuti alla peste"

sabato 21 marzo 2020

La peste e Rosalia

  • LA STORIA

La peste e Rosalia, come la Santuzza divenne patrona di Palermo

Maggio 1624, a Palermo arriva la peste. Due mesi dopo vengono trovate miracolosamente le reliquie di santa Rosalia, il cui culto si era raffreddato nei secoli. La Santuzza appare quindi a un saponaro e gli rivela una promessa celeste: il contagio cesserà con la processione delle sue ossa per le vie di Palermo, precisamente durante il canto del Te Deum. Così avvenne.
Non pochi fedeli palermitani stanno chiedendo in questi giorni l’intercessione della loro patrona, santa Rosalia († 4 settembre 1170), per essere liberati dal coronavirus. La notizia ha ricevuto in Italia l’attenzione del quotidiano La Stampa ed è stata ripresa oltremanica dal Guardian. Al di là dell’aspetto e dei commenti giornalistici odierni, quello che fu il più noto miracolo per intercessione della Santuzza - la fine della peste che colpì Palermo tra il 1624 e il 1625 - ci ricorda che la storia della Chiesa è una miniera enorme di esempi di fede e carità che possono tornare utili anche per affrontare l’emergenza in corso.
A differenza di alcuni esempi che abbiamo già richiamato su questo quotidianoda san Gregorio Magno a san Giovanni Bosco, passando in particolare per l’opera di san Carlo Borromeo, santa Rosalia si trovava già in Paradiso da un bel pezzo - oltre quattro secoli e mezzo - quando la città beneficiò del suo aiuto più famoso. Un altro particolare: in quell’epoca il culto della santa, di cui vi sono attestazioni risalenti a pochi anni dopo la sua morte, si era molto affievolito. E saranno proprio i fatti legati alla peste del 1624-1625 a farla assurgere a patrona di Palermo, “scalzando” - per così dire - le gloriose compatrone sant’Agata, santa Cristina, santa Ninfa e sant’Oliva. Testimone d’eccezione di quel periodo fu, tra gli altri, il grande pittore fiammingo Antoon van Dyck, che allora soggiornava a Palermo e che si vide commissionare alcuni dipinti sulla ‘riscoperta’ Rosalia.
La peste era giunta in città il 7 maggio 1624 attraverso un vascello proveniente da Tunisi. In quello stesso mese una donna ammalatasi di febbre malarica, Girolama La Gattuta, salì sul Monte Pellegrino (il promontorio simbolo di Palermo) per adempiere un voto a santa Rosalia. Una volta bevuta l’acqua che sgorgava dalla grotta dove la Santuzza aveva vissuto da eremita gli ultimi anni terreni, Girolama si sentì sanata, venendo invasa da un senso di benessere e addormentandosi. Ebbe allora, in sogno, prima una visione della Vergine Maria, che le confermava la guarigione, e poi di una giovane in preghiera, Rosalia, che le indicava un punto preciso della grotta dove sarebbe stato trovato «un tesoro». Si trattava delle spoglie mortali della santa che furono finalmente ritrovate, a seguito degli scavi eseguiti su insistenza di Girolama, il 15 luglio. Da tale ritrovamento storico discende l’usanza del Festino in questo giorno.
Le ossa di Rosalia, emananti un intenso profumo di fiori, vennero quindi portate al cardinale e arcivescovo Giannettino Doria, che ordinò l’esame delle reliquie. Una prima commissione di medici e teologi espresse scetticismo. Nel frattempo la situazione a Palermo era già grave. L’8 luglio del 1624 le autorità avevano infatti disposto di sbarrare le case degli appestati per limitare i contagi.
L’epidemia continuò a mietere vittime nei mesi successivi. Tra i morti per peste vi fu anche la giovane moglie di un saponaro di nome Vincenzo Bonelli, che il 13 febbraio 1625, disperato per il lutto, decise di salire sul Monte Pellegrino con l’intento di suicidarsi. In quei momenti drammatici, già in cima, Bonelli vide apparire santa Rosalia, che lo esortò a pentirsi del suo proposito suicida e gli diede la missione di dire all’arcivescovo Doria che non vi fossero più «dispute e dubbi» sull’autenticità delle sue ossa. Rosalia aggiunse che le sue reliquie dovevano essere portate in processione per le vie di Palermo: la Madonna le aveva infatti assicurato che l’epidemia sarebbe cessata al passaggio della processione, precisamente durante il canto del Te Deum. «E per segno della verità, tu - disse Rosalia al saponaro - in arrivare a Palermo, cascherai ammalato di questa infermità e ne morrai, dopo aver riferito tutto ciò al Cardinale: da ciò egli trarrà fede a quanto gli riferirai».
Allo stesso tempo la santa assicurò a Bonelli la salvezza dell’anima. L’uomo rivelò tutto al suo confessore, che lo indirizzò subito dall’arcivescovo Doria. Il quale gli credette, constatando che quanto era stato predetto a Bonelli - la sua malattia improvvisa e quindi la morte - si era verificato. Il cardinale convocò una nuova commissione di esperti, che stavolta avallò l’autenticità delle reliquie; da parte sua, il Senato cittadino autorizzò la spesa per la costruzione dell’urna d’argento che avrebbe dovuto custodire i resti di santa Rosalia. Così, il 9 giugno 1625 si svolse la processione solenne con una grande partecipazione di popolo: al momento del Te Deum, diversi ammalati guarirono visibilmente e il contagio, come aveva promesso la Madre celeste, ebbe fine. «Gli scrivani del re - si legge sul sito del Santuario di Santa Rosalia - annotano nei registri comunali i nomi, l’età, il luogo della guarigione ed ogni dato di tutte le persone guarite».
L’ultimo atto si compì il 3 settembre quando, constatata la completa liberazione dalla peste, si consentì la libera circolazione di «uomini, animali e merci», ritornando alla vita normale

San Nicola di Flüe

San Nicola di Flüe

Contadino, soldato, eremita, mistico, salvatore e patrono della Svizzera. Gli svizzeri lo chiamano Bruder Klaus, «fratello Nicola», e certo nessuno al mondo sa meglio di loro quale influenza ha avuto questo santo nella storia del Paese elvetico...
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Contadino, soldato, eremita, mistico, salvatore e patrono della Svizzera. Gli svizzeri lo chiamano Bruder Klaus, «fratello Nicola», e certo nessuno al mondo sa meglio di loro quale influenza ha avuto questo santo nella storia del Paese elvetico. San Nicola di Flüe (1417-1487) nacque in una famiglia di contadini e da giovane partecipò alle guerre contro gli Asburgo. Sposò poi Dorotea Wyss e dal matrimonio ebbe dieci figli, cinque maschi e cinque femmine. Non sapeva né leggere né scrivere ma si interessò alla politica della sua nazione, che allora andava prendendo forma, e fu deputato nella Dieta federale, consigliere e giudice. Abbandonò la carica di magistrato perché non riuscì ad abolire una sentenza ingiusta.
Già a 16 anni aveva avuto una prima esperienza mistica, ma la sua crescita spirituale non maturò all’improvviso e fu favorita da un sacerdote che gli fece conoscere il gruppo dei Gottesfreunde (Amici di Dio). Un giorno, al culmine di un intenso approfondimento della sua fede, pregò Dio chiedendogli la grazia di adorarlo fervidamente. Vide una nube dalla quale sentì provenire una voce che gli ordinava di abbandonarsi alla volontà divina. Aveva 50 anni. Capendo che doveva lasciare tutto per ottenere il centuplo, come promesso da Gesù, chiese tre grazie: ottenere il consenso della moglie e dei figli più grandi, non avere la tentazione di tornare indietro, poter vivere senza nutrirsi. La Provvidenza lo esaudì in tutto e così, il 16 ottobre 1467, salutò «la sua carissima sposa» e i figli, e si mise in cammino.
Un altro segno divino gli fece capire che doveva svolgere il suo servizio in patria e perciò decise di vivere in solitudine in una valle del Ranft, non lontano da casa. Da allora e per quasi 20 anni, fino al giorno della morte, si nutrì della sola Eucaristia, un fatto sul quale esistono indiscusse testimonianze storiche. Incuriositi e attratti dalla sua vita di preghiera e penitenza, i valligiani costruirono una chiesetta accanto alla sua piccola cella in legno. A un visitatore che gli chiedeva come meditare sulla Passione di Cristo, rispose: «È buona qualunque via tu voglia scegliere: Dio sa rendere la preghiera così dolce per l’uomo che questi vi si immerge come se andasse a ballare, ma Dio sa anche far sì che essa sia per lui come una lotta». Nel suo eremitaggio ebbe una visione intensissima di Dio e fece dipingere nella sua cappella una grande ruota, i cui raggi rappresentavano sia l’amore interno alla Santissima Trinità sia le vie di misericordia scelte da Dio per abbassarsi tra noi e innalzarci a Lui, attraverso l’Incarnazione, la Passione, i Sacramenti.
La notte del 21 dicembre 1481, quando la vecchia Confederazione era sull’orlo di una guerra civile, un amico corse da lui, convinto che il consiglio di Nicola fosse l’ultima speranza per un accordo tra i delegati alla Dieta svizzera. E così fu. Grazie al messaggio del santo, il giorno seguente tutti i cantoni firmarono un patto insperato e decisivo, la Convenzione di Stans. Una lettera scritta il 29 dicembre dal Canton Soletta lo ringraziò così: «Al venerabile e pio fratello Nicola di Unterwalden, nostro buono e fedele avvocato. Sappiamo che per grazia di Dio onnipotente e della sua amata Madre, per i vostri fedeli consigli e pareri, avete ristabilito la pace, la calma e l’unione in tutta la Confederazione […]. Ne rendiamo lode e grazia al vero Dio, a tutta la corte celeste, e a voi come amante della pace». Beatificato nel 1669, fu canonizzato nel 1947 da Pio XII, che lo proclamò patrono della Svizzera. È anche compatrono della Guardia pontificia svizzera. Il più grande prodigio attribuitogli dai suoi connazionali? È una storia gustosissima sulla Seconda Guerra Mondiale, riguardante l’improvvisa ritirata dei nazisti dal territorio elvetico
Per saperne di più:

Il pianto della scavatrice


Il pianto della scavatrice

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.

Ecco nel calore incantato
della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,
scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri
piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti
agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare
ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni
di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori
chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.
Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa
delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato
con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;
a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire
che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono
fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare
esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognuno, era il mondo.
Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra
muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette
lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia
di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide
risuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
– sotto festoni di luci ormai sole –
verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasa
quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.

Le ceneri di Gramsci (Garzanti, 2015)

Quest’oggi combattiamo


“Figli di Gondor! Di Rohan! Fratelli miei! Vedo nei vostri occhi la stessa paura che potrebbe afferrare il mio cuore! Ci sarà un giorno, in cui il coraggio degli uomini cederà, in cui abbandoneremo gli amici e spezzeremo ogni legame di fratellanza, ma non è questo il giorno! Ci sarà l’ora dei lupi e degli scudi frantumati quando l’era degli uomini arriverà al crollo, ma non è questo il giorno! Quest’oggi combattiamo! Per tutto ciò che ritenete caro su questa bella terra, v’invito a resistere! Uomini dell’Ovest!” 

Il discorso di Aragorn da “Il signore degli anelli “

giovedì 19 marzo 2020

Lisozima

Lisozima

composto chimico




Lisozima
Modello tridimensionale dell'enzima
Modello tridimensionale dell'enzima
Numero EC3.2.1.17
ClasseIdrolasi
Nome sistematico
peptidoglicano N-acetilmuramoilidrolasi
Altri nomi
muramidasi; globulina G; mucopeptide glucoidrolasi; globulina G1; N,O-diacetilmuramidasi; lisozima g; L-7001; 1,4-N-acetilmuramidasi; mucopeptide N-acetilmuramoilidrolasi; PR1-lisozima
Banche datiBRENDAEXPASYGTDKEGGPDB
Fonte: IUBMB

Un cristallo di lisozima
Il lisozima è un enzima di 14,4 kilodalton presente in tessuti animali dotato di attività battericida. Lede la parete batterica di alcuni batteri (Gram +) catalizzando l'idrolisi del legame beta 1,4 tra l'acido N-acetilmuramico (NAM) e la N-acetilglucosamina (NAG) che sono la componente principale del peptidoglicano.
È abbondantemente presente in numerose secrezioni animali e umane come le lacrime (fanno eccezione quelle dei bovini). Si trova in concentrazioni elevate anche nell'albume d'uovo.
Il lisozima, legandosi alla superficie batterica, ne riduce la carica elettrica negativa superficiale, rendendo più facile la fagocitosi del batterio, prima che intervengano le opsonine del sistema immunitario.

StoriaModifica



Il lisozima fu descritto la prima volta nel 1922 da Alexander Fleming, un batteriologo scozzese, scopritore della penicillina. Scoprì il lisozima quasi per caso durante le sue ricerche atte a scoprire nuovi farmaci antibiotici. Un giorno, mentre aveva un forte raffreddore, aggiunse una goccia del suo muco in una coltura batterica e con suo gran stupore notò che i batteri di lì a poco morirono. Aveva di fatto scoperto una delle nostre difese naturali contro le infezioni. L'intento di Fleming era quello di trovare nuovi farmaci, ma il lisozima non è utilizzabile come medicinale in quanto è una molecola troppo grande per muoversi tra le cellule e può essere applicato solo localmente poiché non può diffondere per tutto il corpo. Inoltre fu scoraggiato dal fatto che il lisozima non aveva alcun effetto sui tipi di batteri più pericolosi.
La struttura della molecola è stata successivamente descritta da David Chilton Phillips nel 1965, che riuscì a ottenerne un'immagine con una risoluzione di 2 Å. Il suo lavoro svolto su questo enzima lo portò successivamente a spiegare come l'attività catalitica degli enzimi sia correlata con la loro struttura.
Attualmente il lisozima viene spesso utilizzato come conservante nell'industria alimentare.

StrutturaModifica



Il lisozima è un piccolo enzima costituito da 129 aminoacidi ed è una glicosidasi. Ha una struttura costituita da due domini: un dominio è essenzialmente composto da alfa-eliche, l'altro è costituito da un foglietto beta antiparallelo e da due alfa-eliche. La configurazione tridimensionale della molecola è mantenuta dalla presenza di 3 ponti disolfuro, due localizzati nel dominio ad alfa-elica e uno in quello a foglietto beta, e nella sua parte interna si hanno pochi residui polari.
Non ha gruppi prostetici, ovvero parti non polipeptidiche.

Meccanismo d'azioneModifica



Le modalità con cui il lisozima opera la catalisi non sono del tutto note con certezza. Essendo una glicosidasi rompe il ponte ossigeno (legame glicosidico) che unisce il C1 del NAM al C4 del NAG.
Da studi effettuati con un inibitore competitivo del lisozima come il tri NAG (polimero di NAG) si è ipotizzato che nella tasca del legame con il substrato possano essere alloggiati sei residui saccaridici in sei differenti siti denominati A, B, C, D, E e F. Di questi residui uno, il residuo D, assume una struttura distorta per adattarsi alla fessura dell'enzima.
La ricerca si è quindi spostata sui gruppi catalitici vicini al legame glicosidico che unisce il residuo D al residuo E che è quello che viene rotto. I soli residui catalitici in prossimità di tale regione sono l'acido aspartico 52 (Asp 52) e l'acido glutammico 35 (Glu 35). L'Asp 52 è in una parte relativamente polare dell'enzima ed è quindi nella forma ionizzata mentre il Glu 35 è in una parte idrofobica della molecola enzimatica ed è nella forma protonata.
Quando il gruppo carbossilico del Glu 35 attacca il legame glicosidico donando un protone (H+) all'atomo di ossigeno tra i residui D ed E si ha la rottura del legame con la formazione di un carbocatione sul C1 di D. Questo carbocatione è un intermedio ed è stabilizzato dalla carica negativa di Asp 52 fino a quando la Glu 35 non catalizza il trasferimento di uno ione idrossido dall'acqua del mezzo al C1 del residuo D. La velocità della catalisi è massima a pH 5.
Il lisozima è presente nel latte equino (cavalla e asina). In questi sono disponibili informazioni relative a peso molecolare e sequenza: probabilmente si tratta della stessa proteina (percentuale di identità delle sequenze superiore al 96%), di peso molecolare 14.500 circa, della quale sono state osservate diverse varianti genetiche (Herrouin et al, 2000). A livello quantitativo, i dati disponibili sembrano piuttosto limitati: Hatzipanagiotou et al. (1998), attraverso misure di attività, hanno verificato variazioni quantitative nel corso della lattazione; secondo Greppi et al. (1996) il latte di cavalla contiene maggiori quantità di lisozima (0.99 g/L) rispetto al latte di asina (0.76 g/L); secondo quanto riportato da Solaroli et al. (1993) per il latte di cavalla, la concentrazione presenta ampie variazioni (tra 0,4 e 1 g/L). Secondo Faccia et al. (2001) che ha studiato la quantità di lisozima nelle razze Murgese e TPR e nell'asino di Martina Franca sembra che il Murgese presenti valori leggermente superiori sia al TPR sia all'asino (0,52 contro 0,50 g/L). Altri autori hanno riscontrato nel latte d'asina quantità di lisozima compresi fra 1,0 e 1,4 g/l, cioè superiori al latte di cavalla.[1]

Malattie che causano la mancanza di lisozima