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martedì 11 febbraio 2025

Bernadette

 


Alberto Maggi "La vera storia della ribelle Bernadette"



Qual era la colpa di Bernadette? Animata dallo Spirito, rifuggiva gli angusti e tetri canoni ascetici dell’epoca, rivendicando spazi di libertà. Come racconta su ilLibraio il biblista Alberto Maggi

A proposito di Lourdes è stato detto che “la prova migliore dell’apparizione è Bernadette stessa”. Ma chi è Bernadette Soubirous?
“Sarà una peste!”, esclamò il giorno del battesimo il padrino di Bernadette, in quanto la piccolina pianse disperata per tutto il tempo della celebrazione. Nessuno avrebbe mai immaginato che la venuta al mondo di Bernadette sarebbe stata un autentico terremoto per tutto il piccolo paese, allora sconosciuto, di Lourdes.

Per scoprire Bernadette, occorre liberarla dai pii detriti che hanno soffocato la sua splendida figura e l’hanno trasformata in un santino. Era una nanerottola (non arrivava neanche al metro e mezzo), dalla testa troppo grande, malaticcia, analfabeta, così tarda di comprendonio da non essere stata ammessa alla prima comunione perché non riusciva a imparare le formule del catechismo, tanto imbranata da non sapere neanche che età avesse (tredici… o quattordici anni). Una ragazzina non più devota delle altre, primogenita di una famiglia emarginata, nota per l’enorme miseria. Bernadette è nata, infatti, nella famiglia più indigente di Lourdes, tanto povera da non avere neanche un’abitazione e costretta a vivere in una cella dell’ex carcere che era stata abbandonata perché insalubre. Con un padre finito in galera con l’imputazione di furto aggravato (ma poi assolto), e una madre della quale, si legge nel rapporto del Procuratore Imperiale, “È a tutti notorio che questa donna si abbandona all’ubriachezza”.

Neanche i suoi parenti godono di buona fama: due sue zie erano state scacciate dalle “Figlie di Maria” per essere rimaste incinta prima del matrimonio. A dispetto dei tanti ritrattini ascetici che le saranno costruiti addosso ancora vivente, Bernadette, ragazza normale che non disdegnava il vino (abitudine che probabilmente le era venuta quando da piccola serviva al bancone dell’osteria di sua zia), verrà apostrofata come “ubriacona”, “sgualdrina”, “puttanella”, al suo primo interrogatorio.

A quanti si meravigliavano scandalizzati e increduli che la Madonna potesse apparire a una nullità come Bernadette, lei candidamente rispondeva: “Se la santa Vergine ha scelto me, è perché ero la più ignorante. Se ne avesse trovata un’altra più ignorante, avrebbe scelto lei”.

In Bernadette trova conferma il metodo di Dio, che per le sue azioni sceglie sempre ciò che agli occhi degli uomini non è degno di stima (1 Cor 1,27), e la sua risposta riecheggia quella di Francesco d’Assisi: “[Dio] non ha veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra…” (Fioretti, X).

L’episodio che doveva cambiarle la vita avvenne l’11 febbraio del 1858, in un luogo malfamato, pascolo di porci, la grotta di Massabielle, dove si era recata insieme alla sorellina e a un’amica per raccogliere legname per il focolare. La descrizione iniziale fatta da Bernardette richiama un’esperienza dello Spirito: tutto è cominciato con “un rumore come un colpo di vento”, come per la Pentecoste (“Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo…”, At 2,2).

Indubbiamente un’intensa esperienza dello Spirito, del divino nel quale sono tutti immersi ma che pochi riescono a percepire. Il messaggio delle apparizioni, rivolto esclusivamente a Bernadette, è un invito alla conversione, tema evangelico per eccellenza, e in lei si adempiono le parole di Gesù “Ai poveri è predicata la buona notizia” (Mt 11,5). La disinvoltura dimostrata da Bernadette di fronte ai ben trentamila interrogatori ai quali fu sottoposta, rimanda alla promessa di Gesù: “Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,19-20). Donna dello Spirito, e quindi libera (2 Cor 3,17), Bernadette è sempre stata se stessa. Lei, ignorante, non si è fatta mai mettere soggezione da nessuno, fosse anche un vescovo (“Devo di nuovo andare in parlatorio…. Sapeste quanto mi costa! Specialmente se si tratta di vescovi!”).

Quando era già suora, un vescovo in visita al convento si faceva baciare l’anello dalle suore, con l’intenzione di farselo baciare da Bernadette. Lei capì, e si defilò. Una consorella le fece notare che così aveva perduto i quaranta giorni d’indulgenza concessi per il bacio dell’anello, e Bernadette pronta, replicò con una giaculatoria (“Gesù mio misericordia!”), e disse, “Ecco, così sono trecento!”. Un altro vescovo, per poter avere una reliquia della veggente ormai inferma, fece in modo che il suo zucchetto cadesse sul letto di Bernadette… se lei l’avesse preso e dato, il vescovo avrebbe avuto il suo zucchetto toccato dalle mani di colei che aveva visto e parlato con la Madre di Dio. Ma Bernadette restò imperturbabile. Il vescovo allora fu costretto a prendere l’iniziativa: “Sorella, volete restituirmi il mio zucchetto?”. E Bernadette: “Monsignore, io non ve l’ho mica chiesto… potete riprendervelo voi!”.

Nel messaggio del 28 febbraio, l’Apparizione disse a Bernadette per tre volte “Penitenza… penitenza… penitenza!”. La penitenza Bernadette la fece quando entrò dalle suore di Nevers, un convento dove andavano le figlie della borghesia e dove, per essere ammesse, occorreva portare una ricca dote. Bernadette, poverissima, fu accolta senza entusiasmo, e solo perché fu imposta dal vescovo. In convento capitò sotto le grinfie della maestra delle novizie, madre Marie Thérèse Vauzou, donna tanto pia quanto disumana. Madre Vauzou, che proveniva dall’alta borghesia, e conservava la sua aria aristocratica, altezzosa e fredda, fin dal primo incontro detestò quella rozza pecoraia che millantava di aver visto nientemeno che la Madonna, e non le risparmiò nessuna umiliazione. Alla radice del disprezzo di madre Vauzou verso Bernadette, c’era pura invidia, come traspare da questa sua ammissione: “Se la santa Vergine voleva apparire su questa terra, perché avrebbe scelto una contadina rozza e ignorante, invece di una religiosa virtuosa e istruita. Non capisco come la santa Vergine abbia potuto comparire a Bernadette. Ci sono tante altre anime, così delicate e nobili… Insomma!”.

La stessa madre Vauzou confiderà a una suora: “Tutte le volte che avevo da dire qualcosa a Bernadette ero spinta a dirglielo con acredine… In noviziato avevo delle novizie di fronte alle quali mi sarei inginocchiata, ma non davanti a Bernadette”. Quando, alla fine del noviziato a ogni suora fu affidato un incarico, Bernadette fu l’unica a essere esclusa, perché, disse acida la maestra, “Non è buona a nulla”. Madre Vauzou, sfogava la sua rabbia e frustrazione su questa suora che non riusciva a plasmare secondo il cliché di religiosa ereditato dalla tradizione, Bernadette era animata dallo Spirito, rifiutava di conformarsi ai modelli proposti, e non si adattava alle pie usanze del convento. Alla mistica della sofferenza, imperante all’epoca, Bernadette contrapponeva un sano equilibrio: “San Bernardo amava la sofferenza… io invece la evito più che posso!”. Quando le proposero di imitare una sua consorella che, pur sofferente, chiedeva al Signore di mandarle ancora più tribolazioni, lei replicò: “Mi bastano quelle che già mi manda!”. Del resto Bernadette era talmente maltrattata e disprezzata, che le altre suore dicevano di lei: “Che fortuna non essere Bernadette!”.

C’era indubbiamente della ruggine tra la maestra e la novizia, che sfociava in episodi che, se non fossero drammatici, sarebbero comici, come quella volta in cui Bernadette si aggravò così tanto che si pensò che non avrebbe passato la notte, e le fecero amministrare l’estrema unzione. Bernadette non aveva ancora emesso i voti, e le suore decisero di farglieli pronunciare in extremis, e chiamarono il vescovo per accoglierli. Bernadette, stremata, non aveva la forza neanche per sussurrare le parole di rito, che furono pronunciate dal vescovo, e alle quali lei rispondeva solo con un Amen. Il vescovo benedì la suora morente, le chiese di ricordarsi di lui in paradiso e si allontanò. Presso il letto di Bernadette restò madre Vauzou in attesa di chiuderle gli occhi. Invece, colpo di scena, non appena il vescovo uscì dalla stanza, Bernadette, vispa più che mai, esclamò gioiosa “Cara madre, mi avete fatto fare la professione credendo che sarei morta questa notte, invece, non morirò questa notte!”. Madre Vauzou, anziché rallegrarsi, furibonda, la investì con parole rabbiose: “Come, sapevate di non morire e ci avete fatto disturbare monsignor Vescovo in un’ora così inopportuna?! Siete soltanto una piccola sciocca e vi assicuro che, se non morirete entro domani, vi tolgo il velo di professa e vi rimando in noviziato!”.

Qual era la colpa di Bernadette? È che lei “sa quel che vuole”. Animata dallo Spirito, lei rifuggiva gli angusti e tetri canoni ascetici dell’epoca, rivendicando spazi di libertà. Bernadette, a differenza delle altre novizie fabbricate in serie, era capace persino di protestare e manifestare il suo dissenso, e questo tra le suore era considerato un crimine. Così fu prontamente etichettata come ribelle e caparbia: “Molto spesso mi sento chiamare ostinata… ciò mi umilia, però non riesco a correggermi”. La montanara ruspante, pur ingabbiata nelle rigide strutture conventuali, ha conservato sempre la sua libertà, e si ostinava a seguire la strada dello Spirito, mentre la maestra delle novizie pretendeva farle percorrere quella del conformismo religioso. Per costringerla a questo, come testimoniò una suora al processo, “la maestra non si lasciava sfuggire nessuna occasione per farle subire qualche umiliazione”. La vita tra le suore, per Bernadette fu un autentico martirio. Forse, prevedendo questo, l’Apparizione il 18 febbraio le aveva detto: “Non vi prometto di farvi felice in questo mondo, ma nell’altro”.

Del resto occorre riconoscere che in convento Bernadette non faceva nulla per conservare l’aureola di santità o di guadagnarsi la stima delle consorelle. Suscitò grande scandalo quando le suore scoprirono che tra i pochissimi effetti personali di questa anomala novizia figurava… una fiaschetta di vino! Bernadette, che aveva conservato i suoi antichi gusti di popolana, non faceva mistero del suo gustare un goccio di buon vino, e non essendo sufficiente quel poco che le passavano in convento, doveva farselo portare da casa, e quando si sentiva un po’ giù, un goccio e via! Ma c’era di più, da far svenire la madre maestra e tutte le suore: Bernadette… fiutava tabacco! Sì, proprio come un maschio, o come certe donne di mondo! E nella sua spudorata innocenza, non lo faceva di nascosto, ma pubblicamente, anche durante le lezioni, e tentava persino di corrompere le sue virtuose consorelle offrendo loro qualche presa dalla tabacchiera…

Madre Vauzou, che non aveva mai creduto alle apparizioni, detestò così tanto Bernadette che si deve a lei il ritardo del processo di beatificazione. Bernadette morì nel 1879, ma il processo si aprì solo nel 1907, con ventotto anni di ritardo, perché la maestra aveva detto: “Aspettate che io sia morta!”. Per ironia della sorte, quando ormai anziana, madre Vauzou venne portata al ricovero delle suore a Lourdes e fu collocata in una stanza dalla cui finestra si vedeva la grotta e il flusso crescente di pellegrini, lei si innervosiva e, sempre più stizzita, chiedeva di chiudere le imposte. Gesù ha proclamato beati i perseguitati (Mt 5,10), ma la persecuzione più feroce e dolorosa non viene dai nemici della fede, ma da quelli più vicini: “e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10,36). 

*Le informazioni contenute in questo articolo sono tratte dalla poderosa opera del più grande studioso di Lourdes, René Laurentin, pubblicata in sei volumi (Lourdes, Documents authentiques, Paris,

domenica 9 febbraio 2025

Essere ricco non significa avere molto ma sentire molto

 Essere ricco non significa avere molto ma sentire molto


Vedete questo dipinto? È uno dei più famosi al mondo, ma pochissimi conoscono la storia commovente e straordinaria che c’è dietro! 

Guardatelo. C’è una donna, una donna come tante in apparenza, che cammina su un prato in quella che dovrebbe essere una bella giornata di sole. Ma lo sguardo della donna è velato, come se custodisse un segreto. Ecco, questa donna, protagonista de La passeggiata di Monet, si chiama Camille Doncieux. Si erano incontrati per la prima volta in una libreria. Lei è una giovane promessa in sposa a un facoltoso rampollo dell’alta borghesia, lui un pittore squattrinato. Non hanno il permesso di amarsi, così fuggono insieme e si sposano in segreto. 

In apparenza non hanno nulla, né denaro, né ricchezze, né una posizione rispettabile. Le loro famiglie li hanno maledetti, i vecchi amici li deridono, ma hanno l’un l’altro e tanto basta! Furono anni «ricchi» quelli, non di cose ma di risate, non di onori ma di amori. Perché essere ricco non significa avere molto ma sentire molto, e la felicità non si misura nelle cose che possiedi. Ma in quelle che custodisci.

Ma poi un giorno Camille si ammalò. Monet cominciò a dipingerla compulsivamente, come a voler tenere la sua immagine ancorata alla tela per far sì che la morte non la facesse sua. Più la malattia di Camille peggiora, più le figure dei suoi dipinti paiono dissolversi davanti agli occhi, non più intrappolate nella rigidità delle linea che tutto definisce e imprigiona. Qualcosa frantuma i contorni, dissolve le linee, trasforma la materia in luce e la carne in anima.

Alla fine però la malattia è più forte: il cancro uccide Camille a soli 32 anni. Ma continuò a dipingerla tra fiori e fili d’erba, perché il corpo non dimentica e l’anima ricorda. E fu proprio dopo la morte di Camille che incominciò a ritrarre le sue famose ninfee. «E saprò accarezzare i fiori, perché tu m’insegnasti la tenerezza». Ogni mattina per i successivi vent’anni, Monet andava allo stagno per dipingere le ninfe
e che gli ricordavano la sua amata Camille. Monet ha dipinto oltre duecento ninfee, guardando sempre lo stesso stagno. A riprova di quanto può essere bella la stessa cosa ogni giorno, quando la guardi con amore.


Fonte : Professor X


Claude Monet, La Passeggiata, olio su tela 1875.



venerdì 7 febbraio 2025

Amore dimenticato

 "C'è un amore indimenticabile che rimane radicato nel cuore anche dopo che tutto è passato. Pensi di averlo superato, di esserti liberato di lui, e all'improvviso, in un momento fugace, senti una voce che assomiglia alla sua, o vedi una persona con i suoi lineamenti, e la tua anima trema come se l'avessi ritrovata di nuovo, ma sai, nel fondo, che ciò che è perduto non ritorna, e che alcuni sentimenti rimangono chiusi nel cuore, mai rivelati, e non muoiono mai. come braci sotto la cenere, aspettando un solo respiro. Per riaccendere... Il vero amore è quello che finisce, o quello che rimane, anche se non esiste più?


Anton Cechov 

mercoledì 5 febbraio 2025

Non bisogna mai nascondere nulla ai bambini

 “Non bisogna mai nascondere nulla ai bambini con il pretesto che sono piccoli e che è ancora presto perché sappiano certe cose. Che idea triste e infausta! Gli stessi bambini si rendono benissimo conto del fatto che i loro genitori li considerano ancora troppo piccoli per capire qualcosa, mentre loro capiscono tutto. 

I grandi non sanno che, perfino sulle questioni più difficili, un bambino è in grado di dare un consiglio assolutamente serio. Dio mio, ma quando uno di quegli uccellini vi fissa con uno sguardo così felice e fiducioso, come non provare vergogna a ingannarlo? Li chiamo uccellini perché, secondo me, al mondo non c'è nulla di meglio degli uccellini. [...] L'anima si risana grazie al contatto con i bambini.”

Fedor Dostoevskij

“L’Idiota “

Devi andare con quelli “meglio” di te

 Devi andare con quelli.                          “meglio” di te

C’era nella cultura popolare una saggezza semplice, genuina; pochi avevano frequentato scuole: si era nel primo dopoguerra, eppure i nostri antenati sono riusciti a indicarci la via più giusta, per non perderci.

Ricordo una frase di mia madre: “Devi andare con quelli “meglio” di te, non dimenticarlo!

Mia madre parlava poco, il suo silenzio mi ha fatto crescere nel silenzio ed il bene mi veniva rivelato nei gesti semplici o in un’occhiata che voleva dire tutto. 

Il nostro dialogo era costante, così avevo capito che per lei quelli “meglio di me” erano non necessariamente persone colte, ma uomini e donne dallo spirito fiero.

Grazie a lei, ho imparato a non dare giudizi, a non soffermarmi alle apparenze, ma a cercare dentro me stessa tutte le risposte che volevo.

La vita è un grande palcoscenico, dove spesso viene osannato chi recita meglio, ecco perché ho sempre amato chi sta in silenzio e osserva: sono quelli di cui parlava mia madre, quelli “meglio” di me.

Giusy Tolomeo

Sereno e lieto giorno sempre e nonostante tutto

domenica 2 febbraio 2025

 Cruda verità 

La tomba



Qua finiscono le gelosie. Qui finiscono le liti per i confini e per l'eredità. Qui finiscono tutti i risentimenti. Qui finiscono tutti i malintesi. Qui finiscono le convinzioni. Qui finiscono gli odi, i soldi, le proprietà. Qui finiscono i dispetti. Qui finiscono le fantasie. Finiscono gli abbracci mai dati, le carezze mai avute, le parole dolci che non abbiamo speso. Qui si pareggia tutto, perché non siamo niente, se non l'espressione fisica della nostra anima che torna al luogo della verità.

 

Autore sconosciuto


mercoledì 29 gennaio 2025

l’importanza dell’aereosol

 ….


Allora avendo un po’ di esperienza come medico di Pronto Soccorso iniziamo ad elencare l’importanza dell’aereosol soprattutto per i bambini.


1) Bronchiolite : patologia tipica virale dei neonati dai 4 ai 9 mesi.

I bronchioli si chiudono la saturazione di ossigeno cala si va in ipercapnia e se non si interviene subito morte.

Rimedi: Aeresol con Adrenalina ha un effetto abbastanza immediato sulla dilatazione dei bronchioli e della ripresa dell’ ossigenazione.

Ovviamente si fa in ospedale perché necessita il bambino di essere monitorato e di altre cure.

Bronchite Asmatica nell’Adulto e nel bambino.

Di solito il paziente entra in ambulatorio affaticato e continua a tossire.

Basta sentire il torace con Rantoli e Sibili su tutto l’ambito polmonare che si fa subito diagnosi.

Terapia il classico Clenil un ampolla più + 18/20 goccie di Bronvovaleas due volte al giorno più ovviamente antibiotico.

Il paziente può stare a domicilio abbiamo la bronco dilatazione i muchi infetti vengono espulsi con completa guarigione del paziente.

Anche in qs caso se trascurata può portare anche a morte….non preoccupatevi succedeva ai tempi di mio padre.


Bambino con la febbre e vie aeree intasate con congestione laringea.

Sempre consiglio prima di metterli a letto anche se sani il lavaggio nasale.

Purtroppo questi bambini appena li si sdraia dopo un po’ iniziano a tossire di notte senza sosta.

Perché la Laringe infiammata straiandoli collassa , le pareti si sfregano e parte il concerto

Terapia che ho adottato con i miei figli: Aeresol di Bunesonide ( Aircort da 0,25 mg) basta un ampolla,

con la tosse respirano benissimo tempo 5/10 minuti e il bambino e la famiglia dormono tranquilli.

Durante il Covid due Aeresol hanno fatto risaturare il paziente in pochissime ore.

L’ho casualmente scoperto su in anziana che tossiva.

Il giorno dopo oltre alla tosse sparita è salita da 90 a 94 la saturazione.

Ovviamente essendo in un gruppo medico ho passato la notizia a tutti.

Lentamente hanno provato ed è stato il classico uovo di colombo per evitare l’ossigeno terapia.

Ovviamente è poi uscito uno studio scientifico del New England che dimostrava il beneficio .


Altro Aeresol che durante il covid aiutava a ri -saturare era quello con eparina.

Sempre accompagnato da pubblicazioni scientifiche.


Otiti : bastano due aresol al giorno con forchetta nasale ed eventuale cura con antibiotico e passano subito, soprattutto i dolori.


N.B non diluisco mai con fisiologica, le ampolle di oggi sono già pronte all’uso.

Dr. Carlo Bruni

domenica 26 gennaio 2025

Le regioni più industrializzate d’ Italia, prima del 1860, erano la Campania, la Calabria e la Puglia

 Le regioni più industrializzate d’ Italia, prima del 1860, erano la Campania, la Calabria e la Puglia: per i livelli di industrializzazione le Due Sicilie si collocavano ai primi posti in Europa.

In Calabria erano famose le acciaierie di Mongiana, con due altiforni per la ghisa, due forni Wilkinson per il ferro e sei raffinerie, occupava 2.500 operai.

L’industria decentrata della seta occupava oltre 3.000 persone.

La piu’ grande fabbrica metalmeccanica del Regno era quella di Pietrarsa, (fra Napoli e Portici), con oltre 1200 addetti: un record per l’Italia di allora.

Dietro Pietrarsa c’era l’Ansaldo di Genova, con 400 operai.

Lo stabilimento napoletano produceva macchine a vapore, locomotive, motori navali, precedendo di 44 anni la Breda e la Fiat.

A Castellammare di Stabia, dalla fine del XVIII secolo, operavano i cantieri navali più importanti e tecnologicamente avanzati d’Italia.

In questo cantiere fu allestita la prima nave a vapore, il Real Ferdinando, 4 anni prima della prima nave a vapore inglese.

Da Castellammare di uscirono la prima nave a elica d’ Italia e la prima nave in ferro. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione.

L’ Abruzzo era importante per le cartiere (forti anche quelle del Basso Lazio e della Penisola Amalfitana), la fabbricazione delle lame e le industrie tessili.

La Sicilia esportava zolfo, preziosissimo allora, specie nella provincia di Caltanissetta, all’ epoca una delle città più ricche e industrializzate d’ Italia. In Sicilia c’erano porti commerciali da cui partivano navi per tutto il mondo, Stati Uniti ed Americhe specialmente. Importante, infine era l’ industria chimica della Sicilia che produceva tutti i componenti e i materiali sintetici conosciuti allora, acidi, vernici, vetro.

Puglia e Basilicata erano importanti per i lanifici e le industrie tessili, molte delle quali gia’ motorizzate. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione.

Le macchine agricole pugliesi erano considerate fra le migliori d’Europa. La Borsa più importante del regno era, infine, quella di Bari.

Una volta occupate le Due Sicilie, il governo di Torino iniziò lo smantellamento "cinico e sistematico" del tessuto industriale di quelle che erano divenute le “province meridionali”. Pietrarsa (dove nel 1862 i bersaglieri compirono un sanguinoso eccidio di operai per difendere le pretese del padrone privato cui fu affidata la fabbrica) fu condannata a un inarrestabile declino.

Nei cantieri di Castellammare furono licenziati in tronco 400 operai.

Le acciaierie di Mongiana furono rapidamente chiuse, mentre la Ferdinandea di Stilo (con ben 5000 ettari di boschi circostanti) fu venduta per pochi soldi a un "colonnello garibaldino", giunto in Calabria al seguito dei “liberatori”.

lunedì 20 gennaio 2025

Le avventure di Pinocchio

Le avventure di Pinocchio

«Ti mando  questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene per farmi venire voglia di seguitarla». Con questo biglietto al direttore del «Giornale per i bambini» il 54enne Carlo Lorenzini accompagnava le prime pagine del libro italiano più famoso al mondo. I primi due capitoli, firmati con lo pseudonimo Carlo Collodi, uscirono il 7 luglio del 1881. Ma già a fine ottobre l’autore, deluso nei suoi ideali politici e stanco della sua situazione personale, scriveva la parola «fine»: Pinocchio penzola da una quercia, impiccato dal Gatto e la Volpe, come narra il capitolo 15. Un finale inatteso che provocò l’insurrezione del pubblico, così che nel febbraio del 1882 Collodi fu costretto a tirar giù dalla quercia il burattino, per arrivare, a giugno, al finale aperto del capitolo 29: la fata promette a Pinocchio che lo trasformerà in un bambino. Il pubblico insorse di nuovo: Collodi doveva scavare ancora. Riprese a raccontare e, all’inizio del 1883 (proprio nel gennaio di 137 anni fa), regalò ai suoi lettori il capitolo 36 di un libro che conquisterà il mondo intero (è il secondo più tradotto della storia dopo Il piccolo principe), una storia tornata di recente in tv con le lezioni di Franco Nembrini e ora al cinema con l’adattamento diretto da Matteo Garrone.

Collodi, bisognoso di soldi per i suoi debiti di gioco (Pinocchio era lui), fu costretto a scandagliare il suo mondo interiore dai lettori più attenti alla verità: i bambini (cioè tutti, perché tutti lo siamo stati). Se un’opera d’arte supera le intenzioni e le forze di chi crea e diventa popolare, è perché ha colto l’universale. Pinocchio non invecchia e rinasce perché racconta ciò che non deve andare perso: il segreto dell’esistenza. C’era una volta... comincia anche questa favola: il termine, dal latino «fabula», è composto da fa-, il «dire divino» che fa essere le cose (da cui fato), e -bul, suffisso che indica il luogo dove l’azione verbale accade (in latino stabula è dove stanno gli animali, le stalle). E così fabula è il luogo in cui qualcuno incontra il suo destino, il senso del suo stare al mondo: per questo delle storie non potremo mai fare a meno. Questa favola però non si intitola semplicemente «Pinocchio», ma «Le avventure di Pinocchio». L’uomo incontra il suo destino nell’avventura, altra parola meravigliosa, uscita dai romanzi medievali. Avventura era il fine della ricerca del cavaliere: dal latino adventus (arrivo del Messia) o eventus (fatto straordinario), indicava l’incontro con l’ignoto, positivo o negativo, con effetti esistenziali definitivi. L’avventura, sostanza della fabula, è quindi il modo unico che ha ciascuno di incontrare il destino, tanto che — sebbene tempi poco cavallereschi riducano spesso «avventura» a piacere effimero — resiste nell’aggettivo «avventuroso» il significato di «rischioso». Le avventure di Pinocchio sono le peripezie che portano una natura morta (un pezzo di legno) alla vita (un bambino) passando per la prova (il burattino). L’avventura è l’uscita verso l’ignoto di ogni esistenza: ne fa accadere la verità come un nuovo venire alla luce. Tutti gli uomini sono avventurieri della vita, cioè sono chiamati a rischiare per cercare il senso della loro vita. E qual è? Nel libro di Collodi è la tortuosa ricerca dell’amore della creatura per il creatore. All’inizio un pezzo di legno sceglie Geppetto per fuggire a mastro Ciliegia, che vuole farne la gamba di un tavolo; poi l’allontanamento dal «babbo» porta il burattino alla morte (l’impiccagione del primo finale); infine il ritorno alla vita con il ritrovamento del padre e la lotta per salvarlo, prima dal ventre della balena e poi dalla malattia, lavorando giorno e notte per comprare il cibo necessario a farlo guarire. Nel finale, Pinocchio, appena sveglio per una nuova giornata di lavoro, «andò a guardarsi allo specchio e gli parve d’essere un altro». Non è un burattino «trasformato» in bambino, come nella edulcorata versione Disney, ma è «un altro». Il burattino giace in un angolo e, non appena Pinocchio lo vede, esclama: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino». Non è trasformazione, ma nascita: è morto l’io-schiavo (burattino) ed è nato l’io-libero (figlio). Si è compiuto il destino: l’avventura di ogni vita è diventare vivi per amore, attraversando la morte dell’io chiuso in sé e ancora incapace di amare, come hanno intuito, da e con prospettive diverse, Manganelli (Pinocchio: un libro parallelo) e Biffi (Contro Mastro Ciliegia) nei più bei libri-commento su Pinocchio.

Vent’anni fa, nel mio primo anno di insegnamento, lessi il libro per intero a una prima media. Rapì loro e me, perché la verità seduce a qualsiasi età e latitudine: per incontrare se stessi bisogna avventurarsi nella vita, rischiarla per trovarne l’origine e la meta, cioè l’amore da cui siamo fatti e per cui siamo fatti. Solo così saremo sempre vivi e rideremo di quand’eravamo solo pezzi di legno.


[Una bambinata universale

di Alessandro D'Avenia

13 gennaio 2020, Corriere della Sera]


domenica 19 gennaio 2025

La vitamina D

 La vitamina D 

La vitamina D non è solo una vitamina: è un pilastro per il tuo benessere generale, spesso sottovalutato. Ecco come può trasformare la tua salute:

  • Rafforza il sistema immunitario: Aiuta il tuo corpo a combattere infezioni, virus e batteri.
  • Protegge le ossa e i denti: Favorisce l’assorbimento di calcio e fosforo, prevenendo osteoporosi e fragilità ossea.
  • Supporta la salute muscolare: Riduce il rischio di debolezza muscolare e migliora le performance fisiche.
  • Influenza il benessere mentale: Studi recenti la collegano a una minore incidenza di depressione e affaticamento cronico.
  • Riduce le infiammazioni: Agisce come un potente regolatore del sistema infiammatorio.
  • Migliora la salute cardiovascolare: Contribuisce a mantenere sotto controllo la pressione sanguigna e il metabolismo lipidico.