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sabato 31 ottobre 2015

Pier Paolo Pasolini raccontato dalla donna che amava

Pier Paolo Pasolini raccontato dalla donna che amava

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Ottobre 31, 2015 Luigi Amicone
A 40 anni dalla morte del grande artista e scrittore friulano, riproponiamo un’intervista «miracolosa» a Silvana Mauri Ottieri, che fu per PPP qualcosa di più di un’amica
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In occasione del quarantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini (2 novembre 1975), ripubblichiamo l’intervista che Silvana Mauri, la donna amata dallo scrittore e regista, rilasciò a Luigi Amicone per Tempi l’8 novembre 1995.
Silvana Mauri, 76 anni, moglie dello scrittore Ottiero Ottieri, vive appartata dal caos metropolitano in una viuzza che sta fra San Babila e i bastioni di Porta Venezia, tra le pieghe della Milano per bene, in uno di quei palazzi ottocenteschi che sembrano malinconicamente ancorati a un tempo, quello della laboriosa e discreta borghesia lombarda, che forse non esiste più. Romana di nascita ma milanese d’adozione, Silvana Mauri è la donna che ha condiviso con Pier Paolo Pasolini gli affetti più intimi, le confidenze più segrete.
Per questo non ha mai voluto calcare le scene della pubblicistica pasoliniana, e, fedele alla consegna che si è data, è rimasta in tutta riservatezza defilata e schiva dai dibattiti e dalle celebrazioni del poeta di Casarsa. In oltre cinquant’anni di attività, quarant’anni dei quali passati alla Bompiani, pur lavorando e continuando a lavorare nell’editoria, Silvana non si è mai fatta coinvolgere in quella che lei chiama la «furia biografica» che ha travolto la figura di Pasolini. Per questo la nostra conversazione ci sembra un puro miracolo e noi ci ritiriamo volentieri dalla scena, lasciando parlare lei, Silvana Mauri, negli appunti raccolti in un dialogo durante una piovosa domenica mattina d’autunno.
Piccolo Gesù di paese
«Conobbi Pier Paolo Pasolini a Bologna, città dove la mia e sua famiglia si erano stabilite provvisoriamente. Mi venne in casa un giorno con mio fratello Fabio. Si erano conosciuti nella redazione di un giornale giovanile, Il Setaccio. Avevamo vent’anni. I moderni non possono capire ciò che ci ha uniti. Fu una passione unica, irripetibile. La mentalità moderna non può immaginarle certe cose, la passione gratuita per cui tra un uomo e una donna non ci sia immediatamente il sesso. E invece è andata proprio così fra me e Pier Paolo. Mi capisce? Non so se mi capisce davvero… E comunque: da quel giorno in casa a Bologna, poi non ci siamo mai più persi di vista. Ci siamo seguiti, anche a distanza, con la stessa tenerezza e dolcezza di quei vent’anni a Bologna e a Casarsa».
«Ci siamo voluti bene, sempre. Era una specie di ingordigia del reale quello che ci univa. Una dolcezza che si nutriva della gioia di vedere le cose insieme. L’ho anche scritto da qualche parte: l’ingordigia di accumulare assieme il reale, culture, creature, nature, è stato il punto più alto e specifico del nostro incontro».
«Per me che ero una borghese, anzi borghesissima, cittadina, metropolitana, mi si aprì con lui il mondo creaturale, contadino. Ricordo che una volta lo andai a trovare facendo dodici ore di treno. Ringrazio ancora mio padre pensando alla sua grande liberalità. Stetti un mese a Versuta, passammo giornate intere per i campi, nei bagni al Tagliamento, delle serate intere a ballare. Dormivo con lui, nella stessa e unica stanza di quella casa di contadini della Pivetta».
«Nelle sera d’inverno scendevamo a riscaldarci nel fienile, a raccontarci storie con i piedi infilati sotto le mucche. Pier Paolo sembrava il piccolo Gesù del paese, affascinava e trascinava dietro di sé tutti, ragazzi e ragazze».
pasolini-calcio-ansaIl mio segreto
«Della sua omosessualità non sapevo nulla, né intuii mai nulla finché non fu lui stesso a rivelarmela. Portava sempre con sé, infilato in una tasca della giacca, un quadernetto rosso. Mi diceva: “Adesso te lo leggo”. Poi ci ripensava: “No, sei troppo piccola per capire…”. Poi seppi che quello era il famoso diario dove andava rivelando, timidamente, con pudore, la sua omosessualità. Che io scoprii nel ’50, a causa di un fatto singolare. Mio fratello Fabio era caduto in una profonda crisi mistica, oltre i limiti dell’equilibrio. Ricordo che eravamo in vacanza a Macugnaga. Fabio uscì e non rientrò la notte. Iniziammo a cercarlo in montagna. Il paese si mobilitò. Lo ritrovammo miracolosamente nascosto nell’antro di una grotta, digiuno, coperto di muschio, a duemila metri».
«Fabio voleva fare il santo eremita, separarsi dal mondo. Lo portammo a casa e quella sera ci sentimmo vicini come mai. Salutandoci ci abbracciammo – lui lo avvertì, ma io francamente non me ne accorsi subito – con un calore particolare. Fu allora che mi scrisse quella lettera: “Non posso più nasconderti il mio segreto”. Per me non cambiava niente. Solo mi addolorava che si infilasse in un destino che presentivo di grande sofferenza».
«Lui comunque non avrebbe mai aderito ad un’Arcigay, come mi scrisse. La sua diversità la sentì sempre come una ferita, come un nemico. Gli fui vicino anche a Roma, dopo quella fuga nottetempo da Casarsa».
«Tu parli, io registro»
«Pier Paolo mi rimproverava di non scrivere. Su questo punto ha sempre insistito, anche quando poi mi sono sposata e avevo avuto dei figli. Gli dicevo: “Pier Paolo, non si può fare tutto nella vita. Ognuno ha la sua strada, la mia è il lavoro, il marito, la famiglia. Non ho tempo per scrivere libri”. Ma lui ha sempre insistito. Mi diceva: “Un giorno ti metto il microfono al collo, tu parli e io ti registro”».
«In questa vicenda che Pier Paolo mi voleva scrittrice c’è perfino un mistero. Un giorno mi ha detto: “Se tu non scrivi, pubblico le tue lettere”. E sono centinaia. Perché al mio “Tarchetto” – così chiamavo Pier Paolo – scrivevo tutti i giorni, al mattino, prima di iniziare il lavoro in ufficio. Lei capisce: ho lavorato, per quarant’anni, in Bompiani. Bene: quelle lettere non si sono mai trovate».
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Il giorno, la notte, la morte
«Roma? Una libertà dal Friuli. Sospetto che per lui significasse essere fuggito da una patria profonda, avvolgente, ma che anche lo imprigionava. Non avrebbe mai lasciato il Friuli. Le circostanze lo hanno scaraventato in un altro mondo. Stava a Rebibbia che allora era un caotico e informe suburbano. Non era ancora la Roma delle colate di cemento. Era la Roma delle catapecchie e degli acquedotti imperiali. Andavo a trovarlo, ma non è che allora ci fossero indicazioni di vie. Niente, era la bidonville del sottoproletariato».
«Ricordo che i primi anni della Capitale furono durissimi per lui. Come maestro era stato cacciato da tutte le scuole del regno. Insegnava allora in una scuola privata, di preti. Pensi che andava tutte le mattine, da Rebibbia a Montemammolo. E intanto scriveva, scriveva come un forsennato».
«Ragazzi di vita lo fece conoscere al grande pubblico. Poi Pier Paolo scopre il cinema e sfonda con Accattone. Il suo atteggiamento nei confronti del successo era ambivalente: ci teneva e, insieme, lo detestava. La sua vera passione non era il cinema, era la scrittura».
«Ricordo la sua prima casa nel quartiere di Monteverde, accanto a quella di Gadda, che Pier Paolo stimava molto ma con cui non ebbe molti rapporti perché lo scrittore lombardo era molto schivo. La vita di Pier Paolo era organizzata alla perfezione, la sua giornata simile a quella di un impiegato. Poiché solitamente si ritirava tardi, verso le due, tre di notte, si svegliava verso le nove del mattino e lavorava fino alle sei, sei e mezza del pomeriggio, interrompendo solo per il ricco pranzo che gli preparava quella buona cuoca di sua madre. Pier Paolo mangiava con lo stesso entusiasmo del contadino che torna dal campo dopo una giornata di duro lavoro. Mangiava per fame, come un ragazzo sanissimo, fisicamente e psichicamente. E infatti non beveva, non fumava, giocava spesso a calcio. Era forte come un toro. (Per questo sono tra l’altro persuasa che il suo assassino Pelosi non poteva essere solo…)».
«La sera poi, verso le sette, si faceva vivo con Moravia, che lo aveva preso con sé quasi come un figlio, Elsa Morante, Sergio Citti, Laura Betti, Dacia Maraini, mio fratello Fabio. Era questa la cerchia degli amici più stretti. Uscivano a cena, oppure mangiavano a casa di Moravia e della Betti. Ogni sera però, a mezzanotte, come Cenerentola, ci fosse pure il Re del Portogallo, Pier Paolo salutava garbatamente gli amici e scompariva. È quella la china che lo condusse giù all’inferno fino a Petrolio».
«Comunque la sua era una vita di una regolarità e disciplina esemplari. Non ha mai messo piede in un salotto romano. Sono però certa che non era contento di quella sua vita notturna. Negli anni di Pier Paolo a Roma, ho colto in lui come una progressiva tristezza e una profonda delusione delle sue notti. L’ho visto un mese prima di morire, con una ferita al petto e un braccio fasciato. Sapeva che ormai le frequentazioni erano diventate minacciose, sperimentava un’escalation di violenza su di lui».
«Questa era l’origine della tristezza: la sua era diventata una delusione umana, quei ragazzi che aveva amato e aiutato erano diventati dei mascalzoni. Non credo al complotto politico, ma è stato un gruppo a ucciderlo»


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domenica 25 ottobre 2015

Il divorzio "sacramento" dell'adulterio

Il divorzio "sacramento"
dell'adulterio
Istruzione cattolica
Non comincio dal Vangelo, ma da Sofia Arnould, cantante francese. Essa ha definito il divorzio “il sacramento dell’adulterio”.


Il quale “sacramento” non fu voluto accettare da Alcibiade, uno degli uomini più intelligenti e stravaganti che ebbe l’antica Grecia. La moglie Ipparata, afflitta per le di lui scappatelle, si recò dall’arconte per chiedere il divorzio. Ma Alcibiade, avvertito, arrivò dal magistrato nel tempo stesso della sposa; senza lasciarla parlare, la prese per la vita, la sollevò, se la caricò sulla spalla e se la portò a casa, affermando: “Senza di te non possiamo vivere né io né i nostri figli”.

Andando più in là di Alcibiade, penso che l’amore matrimoniale sia donazione di sé all’altro, ma così intima e nobile, così ideale e fiduciosa, che da una parte pretende tutto, dall’altra esclude tutti. Quell’amore è amore decapitato, se ammette riserve, provvisorietà e rescindibilità. Sicché il divorzio è una spada di Damocle sull’amore dei coniugi: genera incertezza, timore, sospetto. “Domani forse mi lascerà! Forse andrà con quella che gli fa oggi da segretaria, così giovane, così graziosa, così istruita!”. Il convivere stesso non è più abbandono fiducioso e donazione serena di sé, ma trepidazione, difesa istintiva, preparazione a un domani diverso. Anche la maternità suscita timori (“Perché mettere al mondo dei figli, se domani ci separiamo”). Perfino i momenti dell’intimità sono solcati da tristi baleni (“E se domani un’altra viene a sapere, beffandomi, di quanto succede tra noi”).

Il divorzio toglie aiuti e salvaguardie necessarie alla nostra debolezza. Noi infatti non siamo degli angeli, anche nelle coppie più fortunate sono inevitabili le difficoltà: piccole crisi, malintesi, litigi, disaccordi, esplosioni di temperamento, parole che scappano ad una sposa stanca e suscettibile. Se non c’è divorzio in prospettiva, si cerca di superare questi momenti di tensione e di evitarli in avvenire. “Mi piace quella donna, ma bisogna che mi trattenga; sono legato per sempre”. “Farei la civetta con quell’uomo, ma è sposato; non ne verrebbe che una relazione irregolare e disonorante; meglio lasciar perdere”.

Cerco di spiegarmi meglio. Può succedere che uno sposo o una sposa – anche buoni – siano presi improvvisamente e inspiegabilmente da una passione veemente. Qual è la forza in quel momento di crisi? Questa: sapere che tentazioni del genere neppure si discutono, ma vanno tagliate con taglio netto, subito. Qual è, invece, la debolezza? Questa: poter dire a sé stessi che, insomma, cedendo ci si mette bensì fuori regola davanti a Dio, ma che c’è il mezzo di tenere la testa alta davanti agli uomini.

Il divorzio civile è proprio questo: il mezzo offerto dalla legge per tenere la testa alta davanti alla società, nonostante in coscienza si sia fuori posto. “Sacramento dell’adulterio”. Aveva ragione Sofia Arnould. Almeno in certi casi.

Più dell’uomo, nel divorzio, è vittima la donna. Lui, anche se ha cinquant’anni, specie se ben provvisto di denaro, trova facilmente una donna giovane, piacente, con cui “rifarsi una vita”. Ma lei? Specialmente se è un po’ sciupata, perché ha dato tutto al marito, al lavoro, ai figli, chi la vuole? Eccola dunque buttata via come un limone spremuto, destinata quasi sempre o a una solitudine piena di tristezza o a una vita di costumi non buoni.

“Ma oggi la donna ha più indipendenza, mi sono sentito dire, lavora fuori casa con assicurazione e prospettive di pensione. Se innocente, ha anche l’assegno dell’ex marito”. Tutto quel che volete, ma non si vive di solo pane, specialmente quando ci si era dedicati con tutto il proprio essere a un ideale, che si identifica con una persona. Ho visto di recente lo strazio di una madre separata dal marito, cui è concesso di avere il figlio quindicenne per due sole ore alla settimana. Essa non fa invidia davvero!

Ho accennato ai figli. Alla tragedia. Il pulcino, quando è maturo, rompe col becco il guscio dell’uovo e salta fuori. E già vestito, dopo pochi giorni mangia da sé, si cerca il becchime; ed è in grado di percorrere la propria via per conto suo, indipendentemente dalla chioccia che l’ha covato e badato. Non così i nostri bambini. Non è neppure nato il figlio, e la mamma si affanna e i genitori cominciano a spendere per il corredino. Nato, si continua a spendere per lui: abitini, calzette, minuscole scarpe, biancheria… Poi vengono giocattoli e libri. A quattordici anni, il figlio frequenta ancora la media e i genitori spendono per scuola e ripetizioni. E i denari sono ancora il meno: aumentano, col passare del tempo, le preoccupazioni: e gli esami, e il posto di lavoro, e la riuscita negli studi, e il livello di vita, e il matrimonio. Spesso il figlio ha 25 anni e grava ancora sulle spalle dei genitori, che pagano i suoi studi all’università.

Ho detto “i genitori”. Intendo tutti e due; intendo i suoi genitori. Intendo dire che egli non solo ha bisogno di una famiglia, ma della sua famiglia.

Mettiamo ora che la famiglia si rompa: padre di qua, madre di là. Con chi va il figlio? Col padre? Ed allora, anche con una pseudo-matrigna: ma non potrà dimenticare la madre vera e comincerà presto a giudicare il padre. A quattordici anni, con le parole o con l’atteggiamento, gli dirà: “Perché è qui costei? Che cosa hai fatto di mia madre?”. In questa situazione, com’è possibile al padre aver prestigio sul figlio? Va invece colla madre? Se rimane sola, sarà essa capace di dirigere, senza suo marito, la formazione di un ragazzo, che sta diventando uomo? Se accanto a lei ci sarà uno pseudo-patrigno e degli pseudo-fratelli, ritorniamo allo sbocco accennato sopra: dramma intimo e avviamento a una vita tormentata.


Tutti motivi sentimentali sono anche i casi pietosi e drammatici, che si portano per legittimare il divorzio. D’accordo, questi casi esistono e meritano tanta compresione. Restano, però, casi eccezionali e non conviene che una legge statale, per rimediare le eccezioni, metta in pericolo tutta una comunità. È la tesi del romanzo Un divorzio diPaul Bourget. Sulla nave è scoppiato il colera e le autorità del porto impediscono lo sbarco a tutti i passeggeri. Ma uno di questi si fa avanti: “Signor capitano, ho a terra il papà in fin di vita, m’ha chiamato dall’America con telegramma, devo vederlo ad ogni costo; ne va di mezzo anche l’eredità per me e per miei figli, mi lasci scendere!”. “Mi duole tanto, risponde il capitano, ma non posso: non devo, per aiutare te, esporre una intera città al pericolo del contagio!”.

Negli stati divorzisti è avvenuto. “È solo una piccola apertura”. Invece, nessuno è stato più capace di chiudere la porta e di mettere un freno al divorzio dilagante. Per forza: indotto una volta il costume divorzista, fare divorzio è come bere un bicchiere d’acqua.

Ho scritto, lo ripeto, non a lume di Vangelo, ma – penso – di senso comune.

Questo documento di Giovanni Paolo I, scritto il 12 aprile 1974, quando era ancora patriarca di Venezia, è tratto dalla rivista “Humilitas” del Novembre 1989.

domenica 18 ottobre 2015

FIOR di ZOLFO

FIOR di ZOLFO
                                 ***                     

  1. (MOLTO utile per MAL di GOLA, Tonsilliti, Faringiti, Tracheiti)



Fior di Zolfo = ZOLFO Purificato
Anche lo zolfo colloidale ed i fiori di zolfo sono forme amorfe che cristallizzano lentamente, sebbene queste due forme consistano di miscele di cristalli rombici e zolfo amorfo
Esso e' una polvere gialla derivante dalla purificazione dello Zolfo (minerale); e' un prodotto ottenuto dal raffreddamento rapido dei vapori di zolfo - questi ultimi raffreddandosi, assumono particolari forme che ricordano quelle dei fiori.
Lo zolfo è un minerale terapeutico in grado di curare i problemi della pelle (acne, psoriasi, seborrea), problemi alle tonsille - mal di gola - i dolori reumatici, i disturbi della circolazione e i problemi al fegato ed aiutare la disintossicazione dell'organismo.
Adatto all’ingestione orale SOLO in piccole dosi, una puntina di polvere grande come mezza unghia del mignolo della persona che lo utilizza, impastata con miele; anti infiammatorio molto potente per lattanti e per tutte le età; può essere assunto per periodi di 7, 14, 21, 30 giorni al mattino a digiuno prima della colazione.
In certi casi la dose puo' essere aumentata ad una unghia del mignolo della persona.
Il prof. Pecchiai lo ha indicato e consigliato da decenni ai suoi pazienti, all'ospedale dei bambini "Buzzi" di Milano, ed e' stato proprio il prof. Pecchiai ad indicarci 40 anni fa, tale terapia naturale.
C’è inoltre da sottolineare che lo zolfo, e' uno dei più importanti componenti della molecola del Glutatione. L’integrazione lo zolfo può dunque risultare di grande utilità per incrementare i livelli produzione del Glutatione nel nostro organismo, soprattutto nei distretti nei quali esso riveste particolare importanza.
Elemento cardine della disintossicazione e per disinfiammare i tessuti, assieme al carbone vegetale, lo Zolfo, va assunto nella misura di una dose giornaliera od a giorni alterni, a seconda dei casi, per un periodo massimo di 20 giorni.

vedi Protocollo della Salute + CRUDISMO + Catarro Tosse Raffreddore + Idro colon Terapia + Consigli Alimentari + Disintossicazione + Ossigenazione cellulare + Alterazione dei batteri autoctoni

Serve anche per tonificare i peli ed i capelli; viene anche mescolato all’alimentazione per gli animali da pelliccia in quanto migliora la robustezza e la bellezza del pelo.
Una delle terapie popolari con lo zolfo, e' quella di utilizzare per uso esterno i candelotti di zolfo
In Italia, il Fior di Zolfo, lo si puo' acquistare SOLO in farmacia (chiedetelo in modo che la farmacia lo richieda a chi lo commercializza, ) od in erboristerie specializzate !

Ricordarsi che le alterazioni degli enzimi, della flora, del pH digestivo e e della mucosa intestinale influenzano la salute, non soltanto a livello intestinale, ma anche a distanza in qualsiasi parte dell'organismo.
Esempio: Il raffreddore, tosse ed il mal di gola possono accompagnarsi a febbre, gonfiore alle linfoghiandole (linfonodi) del collo, scolo nasale, tosse, prurito agli occhi o raucedine, eruzioni cutanee.
Inoltre e' bene ricordare anche che il raffreddore e/o il mal di gola non e' indotto da batteri e/o virus, come affermano i medici allopati, bensi dalla disbiosi intestinale e dalla mancanza del ciclo dello zolfo, fattori che determinano infiammazioni, le quali vengono evidenziate facilmente ed in primis dai principali sensori della gola = le tonsille, laringe, faringe, rinofaringe.
Reimmettendo il fior di zolfo nell'apparato digerente i batteri si riattivano per metabolizzarlo e preparare le sostanze mancanti per la disbiosi precedentemente in essere quando si e' malati di tali malesseri

lunedì 12 ottobre 2015

LA MIA MALEDIZIONE

LA MIA MALEDIZIONE
  (di Giovanni Testori)
Mathis Grunewald : Piccola Crocifissione (1510)

Doninelli: Tu sei un personaggio noto, ed è inevitabile che la tua omosessualità abbia subito diverse reazioni e interpretazioni. Tra queste, quali hanno maggiormente salvaguardato la tua dignità?

Testori: La sola posizione giusta e rispettosa dei segreti, dei misteri, degli affetti e dei rapporti che ho e che ho avuto, è stata quella della mia famiglia, degli amici più cari e dei giovani di Comunione e Liberazione: da tutti loro non mi sono mai sentito giudicato, ma solo accolto in virtù di un atto di carità che è anche giustizia. Tutto ciò che è in più - approvazione, giustificazione, esternazione, spettacolarizzazione dell'omosessualità - lo trovo «fuori», non necessario, non utile. Non aiuta a star meglio, ad essere più felici. E mi riferisco ai cosiddetti «movimenti di liberazione». Non parliamo, poi, di questa esecranda idea di nozze tra ragazzi. Che senso ha questo spirito di rivalsa a tutti i costi, questa sindrome dell'ufficialità? Io capisco, e difenderei con tutte le mie forze, il terribile diritto che l'uomo ha di svolgere il proprio destino. Immaginiamo che in un paese totalitario si fucilino gli omosessuali, o si leghino e si gettino in mare. Allora sì, per un dirittototale alla vita, mi batterei. Ma queste qui sono mascherate.

Doninelli: Solo mascherate? O qualcosa di peggio?

Testori: Certo che c'è di peggio. Oggi non siamo più nell'antica Grecia, o prima di Cristo. Io trovo che questi qui facciano tutto quello che fanno per dimostrare a se stessi di avere estirpato da sé qualunque senso di colpa o di peccato. Se potessi parlare con loro, li vorrei convincere innanzitutto della tristezza di queste loro carnevalate. Perché in questi rapporti - ma, credo, in qualunque rapporto d'amore - c'è una tristezza sconfinata. Tuttavia, se questa tristezza viene accettata e accolta con carità, in primis come parte della coscienza di sé, allora diventa dramma, e può offrire qualcosa agli altri…

Doninelli: …ossia produrre atti almeno intenzionalmente morali.
Testori: Ma se viene esternata in modo incosciente, allora diventa una tristezza lurida. Hanno un bel rinfacciarmi l'incongruenza del mio essere cristiano con il mio modo di vivere.

Doninelli: Ma questa incongruenza c’è o no?
Testori: Quello che posso dire è che sento questo dramma, che lo vivo, e che, peccando – o, comunque, sbagliando - , cresce in me il bisogno di essere perdonato da un lato e, dall’altro, di trasformare questo stesso rapporto in un altro rapporto: di paternità, o, meglio, di paterna fraternità. Che non finisce più, tant’è che i ragazzi che ho amato, e di cui sono rimasto amico, si sono poi sposati, sono diventati padri e nonni. Comunque non dico queste cose per giustificarmi: innanzitutto perché quella che ho detto è una cosa dura da realizzare, e in secondo luogo perché la mia prima necessità è quella di essere accolto e amato.

Doninelli: Cosa intendi per «lurido»?
Testori: Lurido è tutto ciò che si esibisce con la pretesa di essere, poi, lasciati in pace, o, per dir meglio - perché la pace è un'altra cosa - di farsi gli affari propri. Inoltre trovo che l'accentuazione autoesibita dell'elemento carnale, sensuale sia una falsità. Viene completamente eliminata la tristezza, che è connaturale all'amore. Per quanto mi riguarda, l'interesse per l'incontro con un uomo viene sempre dall'abbacinamento della bellezza, dalla commozione: qualcosa che poi, non lo nego, cerca anche la soluzione del rapporto fisico. Ma il punto della questione non è mai stato lì, per me, e credo non possa essere lì per nessuno.

Luca Doninelli, Conversazioni con Testori, Guanda, 1993, pp. 127-129

La vera deriva tragica della storia cristiana

 La vera deriva tragica della storia cristiana
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C'è nella Chiesa una tendenza ancora più pericolosa: il superamento o lo svuotamento della fede mediante il sapere. 
A più ripresa è stata descritta come la vera deriva tragica della storia cristiana.

 Von Balthasar

lunedì 5 ottobre 2015

«L’Artemisia salverà i poveri del mondo»





Youyou Tu (Reuters)

La Nobel Tu alCorriere: «L’Artemisia salverà i poveri del mondo»

di Adriana Bazzi, inviata a Pechino


I Vietcong stavano perdendo più soldati per colpa della malaria che dei nemici americani. La classica clorochina cominciava a non funzionare più e il Presidente nordvietnamita Ho Chi Minh si decise a chiedere un aiuto al suo alleato Mao Zedong: forse la medicina orientale poteva trovare una soluzione. «Conoscevo molti rimedi dell’ antica farmacopea cinese compreso il qinghao, citato in alcuni scritti già nel 168 avanti Cristo, poi menzionato in un libro dell’ alchimista Ge Hong nel 340 dopo Cristo e adottato nel 1956 da un famoso naturopata di nome Li Shizhen come antidoto contro “febbre e brividi”». A parlare oggi è la settantasettenne dottoressa Tu Youyou: all’epoca della Guerra del Vietnam lavorava come ricercatrice all’Accademia della medicina tradizionale cinese di Pechino. Nel 1969, il progetto top secret 523 (dove il 5 indica il mese di maggio e il 23 il giorno della data del suo inizio), uno dei pochi sopravvissuti, per la sua importanza, alla furia delle Guardie Rosse, era finito nelle sue mani. Fino a quel momento se n’erano occupati i militari.

Il farmaco antimalarico oggi più usato al mondo
Tre anni dopo la dottoressa Tu, con alle spalle una laurea in farmacia della Peking University e un’esperienza di medicina occidentale e orientale insieme, avrebbe scoperto il farmaco antimalarico oggi più usato al mondo: l’artemisinina (qinghaosuin cinese) contenuta nell’ antico qinghao, la pianta dell’ Artemisia annua. Una pianta che cresce abbondante sulle montagne di Wuling, centro-sud della Cina. «La vera scoperta però - ci racconta la dottoressa Tu - fu il sistema di preparazione. La ricetta diceva: fare un infuso con una manciata diqinghao in due litri di acqua, spremere il succo e bere. Ecco, il trucco sta nello “spremere”, altrimenti non si ricava la sostanza capace di uccidere il Plasmodio della malaria». Non era stato facile isolare il principio attivo dalla pianta o meglio, dalle foglie dove si concentra in massima parte: la dottoressa Tu ci è riuscita, dopo diversi tentativi, nel 1972. Un anno dopo l’artemisinina veniva provata sui pazienti (3mila in tutto) con buoni risultati anche nelle forme resistenti alla clorochina. «Facevamo esperimenti sull’isola di Heinan, nel Sud della Cina - ricorda la dottoressa Tu -. Andavo là, lasciando a mia suocera i due figli piccoli. Mio marito, ingegnere, era finito all’ epoca in un campo di rieducazione».
Scoperta ignorata per anni
Negli anni successivi la dottoressa Tu aveva trovato due derivati dell’ artemisinina, l’artesunato, solubile in acqua, e l’artemether, liposolubile. Tutti efficaci sugli schizonti, le forme del parassita che circolano nel sangue. Ma il riconoscimento delle sue scoperte non avvenne subito. Anzi. Ancora oggi pochi riconoscono i meriti della dottoressa Tu, nonostante abbia ricevuto numerosi premi da istituzioni cinesi e straniere, come l’Albert Einstein World Science Prize, e nonostante alcuni ricercatori occidentali pensino che possa essere una candidata al Nobel. Quando il lavoro della dottoressa Tu comparve per la prima volta in lingua inglese sulChinese Medical Journal nel 1979, il professor Nicholas White direttore del Wellcome’s South East Asia Research Unit disse: «Leggo la descrizione di un nuovo composto contro la malaria e dei test in vivo, nei roditori e nell’ uomo, su sottili fogli di carta gialla in un inglese approssimativo. Il tutto è contenuto in cinque pagine quando una compagnia farmaceutica occidentale avrebbe speso 300 milioni di dollari e pubblicato un documento alto come un mattone». Gli esperti occidentali hanno ignorato per anni la scoperta fino a quando una multinazionale farmaceutica, la Novartis, non ha cominciato a produrre il farmaco.
Potenzialità anti-cancro dell’artemisinina
Anche l’Organizzazione mondiale della sanità aveva guardato a questa sostanza con molto scetticismo non credendo che una pianta cinese potesse produrre un antimalarico efficace. Poi ha dovuto tornare sui suoi passi e dal 2001 lo raccomanda, in associazione con la lumefantrina per evitare la comparsa di resistenze, come terapia d’elezione per gli attacchi malarici in tutto il mondo e soprattutto nelle zone di resistenza alle terapie classiche, come in Africa. «L’artemisinina è stato il primo nuovo farmaco scoperto in Cina dopo la Rivoluzione Culturale» ricorda la dottoressa Tu, ma non dice che mentre l’ Occidente ignorava la sua scoperta, il farmaco, prodotto all’epoca in Cina, salvava migliaia di vite nel Sud-Est asiatico. «Adesso so che il mio farmaco - continua - può essere d’aiuto soprattutto ai Paesi poveri». La signora dell’ artemisia non ha smesso di lavorare: è professore all’Istituto della Medicina tradizionale cinese all’Accademia Cinese di medicina tradizionale e sta studiando le potenzialità anti-cancro dell’artemisinina, soprattutto nel tumore al seno. Un effetto su cui si sono concentrati anche ricercatori americani dell’Università di Washington. Questa volta l’Occidente non ha aspettato.

Corriere della sera.it