Tolentino, il poeta contrabbandiere
che sfida il mondo come Idea
Dicembre 22, 2005 Boffi Emanuele
L’AVVENTURA DI UNA VITA PASSATA TRA TANTE METAMORFOSI (PROFESSORE A OXFORD, SPACCIATORE, CARCERATO, MERCANTE D’ARMI, DISCEPOLO DI UNGARETTI…) E DELLA SUA UNICA METàNOIA («AMICO MIO, GESù è VENUTO DI PERSONA, ALTRIMENTI CI AVREBBE INVIATO UN’E-MAIL»)
A dargli un’occhiata non pare proprio abbia le fattezze spigolose e l’aria romantica dei poètes maudits. Un po’ curvo, occhiali a lenti spesse, capelli stropicciati sul capo smagrito e smunto. Di spleen nemmeno l’ombra, al massimo un principio di influenza di cui la sciarpa di lana e la giacca pesante, mentre per strada circolano passanti con le camicie avvoltolate sopra i gomiti, paiono un indizio. Eppure quando il poeta brasiliano Bruno Tolentino, intellettuale e contrabbandiere, docente a Oxford e spacciatore, racconta di sé, usa parole demodè che anche il credente navigato avverte nella loro antica freschezza: conversione, peccato, Dio. Quest’uomo che ha vagato per quarant’anni nel deserto del postmoderno per concludere infine che avrebbe tirato il collo a quella sua vita sbadigliando, oggi parla con la radicalità e l’irrequietezza tipica dei convertiti. Tante le sue metamorfosi, ma unica la metànoia.
Dice: «La realtà è a posto solo nei nostri schemi, nelle nostre proiezioni, nella nostra arte concettuale», come nella figura che mette sotto il naso a chi lo ascolta. A destra e a sinistra, su cavalli bianchi e bruni, i cacciatori convergono verso il centro sulle tracce di una preda scomparsa all’orizzonte. Anche i musi e i corpi lunghi dei cani mirano verso il punto di fuga centrale, forse un cervo, che permette a Paolo Uccello di rappresentare la dinamicità dell’inseguimento ubbidendo a rigorose costruzioni prospettiche. La scena si svolge all’aperto, ma la rigida geometria cui tutto risponde dà l’idea di uno spazio architettonico. Tolentino ha deciso che quest’opera del pittore italiano del ‘400 sarebbe stata l’immagine di copertina della sua raccolta di poesie O mundo como Idéia. Quando insegnava a Oxford gli capitava spesso di vederla esposta all’Ashmolean Museum e ciò lo convinse a farne l’emblema di quello che è il focus della sua poetica. Si racconta che i primi critici cui il pittore sottopose la sua fatica gli fecero notare che i cavalieri non avrebbero mai potuto rimanere in sella in quella foresta, perché i bassi arbusti avrebbero impedito ai cavalli di sorreggersi sugli zoccoli. Nella realtà i cacciatori sarebbero stati presto disarcionati. E, più in generale, che l’ambiente da lui raffigurato era un locus ideale, non reale. Uccello tagliò tutta la parte bassa della tavola, estirpando così gli arbusti bassi e lasciando inalterato il resto. Tolentino vede nell’episodio la metafora perfetta per indicare il rapportarsi dell’uomo moderno con la realtà che «presume di poter correggere in anticipo, secondo un proprio progetto, eliminando una parte affinché il parziale, spacciato per tutto, corrisponda all’idea che noi ci siamo prefigurati». Il titolo originale della raccolta di poesie è About the hunt (“A proposito di caccia”), ma oggi la copia che Tolentino tiene sottobraccio porta impresso il titolo O mundo como Idéia, che egli vuole sia tradotto in “Il mondo come concetto”. «La pretesa prometeica dell’uomo moderno di sostituire il reale con il concetto è sempre stata al centro della mia riflessione lirica. Credo che un poeta sia un uomo inutile e io che sono un poeta cristiano non servo a nulla due volte, tuttavia ho due volte lo stesso compito: comunicare la totalità dell’essere. E questa totalità può stare solo in una persona viva, in due occhi che incontrano due occhi».
Dice: «La realtà è a posto solo nei nostri schemi, nelle nostre proiezioni, nella nostra arte concettuale», come nella figura che mette sotto il naso a chi lo ascolta. A destra e a sinistra, su cavalli bianchi e bruni, i cacciatori convergono verso il centro sulle tracce di una preda scomparsa all’orizzonte. Anche i musi e i corpi lunghi dei cani mirano verso il punto di fuga centrale, forse un cervo, che permette a Paolo Uccello di rappresentare la dinamicità dell’inseguimento ubbidendo a rigorose costruzioni prospettiche. La scena si svolge all’aperto, ma la rigida geometria cui tutto risponde dà l’idea di uno spazio architettonico. Tolentino ha deciso che quest’opera del pittore italiano del ‘400 sarebbe stata l’immagine di copertina della sua raccolta di poesie O mundo como Idéia. Quando insegnava a Oxford gli capitava spesso di vederla esposta all’Ashmolean Museum e ciò lo convinse a farne l’emblema di quello che è il focus della sua poetica. Si racconta che i primi critici cui il pittore sottopose la sua fatica gli fecero notare che i cavalieri non avrebbero mai potuto rimanere in sella in quella foresta, perché i bassi arbusti avrebbero impedito ai cavalli di sorreggersi sugli zoccoli. Nella realtà i cacciatori sarebbero stati presto disarcionati. E, più in generale, che l’ambiente da lui raffigurato era un locus ideale, non reale. Uccello tagliò tutta la parte bassa della tavola, estirpando così gli arbusti bassi e lasciando inalterato il resto. Tolentino vede nell’episodio la metafora perfetta per indicare il rapportarsi dell’uomo moderno con la realtà che «presume di poter correggere in anticipo, secondo un proprio progetto, eliminando una parte affinché il parziale, spacciato per tutto, corrisponda all’idea che noi ci siamo prefigurati». Il titolo originale della raccolta di poesie è About the hunt (“A proposito di caccia”), ma oggi la copia che Tolentino tiene sottobraccio porta impresso il titolo O mundo como Idéia, che egli vuole sia tradotto in “Il mondo come concetto”. «La pretesa prometeica dell’uomo moderno di sostituire il reale con il concetto è sempre stata al centro della mia riflessione lirica. Credo che un poeta sia un uomo inutile e io che sono un poeta cristiano non servo a nulla due volte, tuttavia ho due volte lo stesso compito: comunicare la totalità dell’essere. E questa totalità può stare solo in una persona viva, in due occhi che incontrano due occhi».
Roma dormiva colle vene aperte, / la stupenda carogna dell’abbandono / sembrava fatta a pezzi; / nei piazzali deserti, / sulle strade persino sgomberate / dal solito frastuono / delle macchine, ogni tanto una figura, due occhi senza vita / ci guardavano in faccia / e scomparivano fra le mura.
(B. Tolentino, “Il gorgo e le città”, O mundo come Idéia. Anche i corsivi che seguono sono tratti dalla medesima poesia).
(B. Tolentino, “Il gorgo e le città”, O mundo come Idéia. Anche i corsivi che seguono sono tratti dalla medesima poesia).
Il tema della ricerca dei “due occhi” si ritrova anche in un testo della sua raccolta, l’unico che Tolentino ha steso in italiano. Si intitola “Il gorgo e la città” ed è una lunga passeggiata notturna per le vie urbane di Roma, Ravenna, Recanati cercando una non meglio specificata “figura” che possa offrire una via d’uscita. Come il Montale dei “Limoni” si sente chiuso da mura che portano in cima vetri aguzzi che impediscono di scavalcare, come il Montale alla ricerca «dell’anello che non tiene» e del «miracolo, del fatto che non era necessario», anche per Tolentino il tema della liberazione grazie a una via di fuga e di angelo che la possa offrire è il fuoco da cui divampano i versi. Eppure la sagoma salvifica di un angelo sembra proprio non arrivare, non presentandosi nemmeno come l’ondeggiante andatura di qualche ubriaco o l’imprevisto pericolo di un furto.
In tutto quel deserto / neanche un solo paio d’ubriachi, / un ladro, niente! Una qualsiasi minaccia / ci avrebbe almeno offerto / una via d’uscita.
In tutto quel deserto / neanche un solo paio d’ubriachi, / un ladro, niente! Una qualsiasi minaccia / ci avrebbe almeno offerto / una via d’uscita.
Tutto questo vagare per il mondo e le sue rappresentazioni sembra non portare a niente. «è per questo che Gesù è venuto di persona, altrimenti ci avrebbe inviato un’e-mail», ghigna serafico.
SARTRE, UNGARETTI, AUDEN, MONTALE
Bruno Tolentino non ha sempre parlato così, con questa radicalità tipica dei convertiti. Stranocristiano lo è diventato solo dopo un avventuroso percorso personale che lo ha portato dal Brasile all’Italia, dall’Inghilterra al Libano a contatto con i grandi poeti del Novecento (Ungaretti, Auden, Montale, Quasimodo), nei lindi salotti dell’élite intellettuale e nelle sudice gattabuie del Marocco e della Bolivia. Stranocristiano lo è diventato a quarant’anni dopo aver attraversato i luridi gironi infernali dei bassifondi di Beirut e Varsavia, i fallimenti famigliari di tre donne e tre figli che sparsi in giro per il mondo faticano a ricordarlo come padre e marito.
Stranocristiano lo è diventato in questi anni, dopo quarant’anni di lontananza è tornato spesso in Italia per curare la traduzione della sua opera, ospite per lo più ma non solo, di circoli culturali vicini a Comunione e liberazione, movimento ecclesiale che Tolentino ha imparato ad apprezzare e con cui collabora (ha tradotto nella sua lingua alcune opere di don Luigi Giussani). Stranocristiano si diventa, ma stranopoeta Tolentino lo è sempre stato, sin da giovanissimo quando nel 1960, ventenne, vinse il premio “Revelação” con il libro Anulação e outros reparos (Annullamento e altre osservazioni). Un poeta particolare perché in un momento in cui gli intellettuali brasiliani si convertivano alle idee progressiste francesi, lui rimaneva legato a quei valori che aveva appreso nell’ambito famigliare. Valori “tradizionali” che, precisa Tolentino, «non sono quelli della “Dama Idea”, l’ideologia». «Non sono diventato – prosegue – un poeta migliore con la mia conversione, non sono nemmeno diventato un uomo migliore. Credo di aver sempre ancorato le mie parole al reale, anche prima del mio cammino nella Chiesa, contrapponendomi sin da giovane a qualsiasi forma di pensiero che presumesse di sostituirsi a ciò che l’evidenza ci mostra come dato di fatto. Ho sempre lottato perché nessuno dicesse: “Gli arbusti bassi? Tagliamoli”».
Bruno Tolentino non ha sempre parlato così, con questa radicalità tipica dei convertiti. Stranocristiano lo è diventato solo dopo un avventuroso percorso personale che lo ha portato dal Brasile all’Italia, dall’Inghilterra al Libano a contatto con i grandi poeti del Novecento (Ungaretti, Auden, Montale, Quasimodo), nei lindi salotti dell’élite intellettuale e nelle sudice gattabuie del Marocco e della Bolivia. Stranocristiano lo è diventato a quarant’anni dopo aver attraversato i luridi gironi infernali dei bassifondi di Beirut e Varsavia, i fallimenti famigliari di tre donne e tre figli che sparsi in giro per il mondo faticano a ricordarlo come padre e marito.
Stranocristiano lo è diventato in questi anni, dopo quarant’anni di lontananza è tornato spesso in Italia per curare la traduzione della sua opera, ospite per lo più ma non solo, di circoli culturali vicini a Comunione e liberazione, movimento ecclesiale che Tolentino ha imparato ad apprezzare e con cui collabora (ha tradotto nella sua lingua alcune opere di don Luigi Giussani). Stranocristiano si diventa, ma stranopoeta Tolentino lo è sempre stato, sin da giovanissimo quando nel 1960, ventenne, vinse il premio “Revelação” con il libro Anulação e outros reparos (Annullamento e altre osservazioni). Un poeta particolare perché in un momento in cui gli intellettuali brasiliani si convertivano alle idee progressiste francesi, lui rimaneva legato a quei valori che aveva appreso nell’ambito famigliare. Valori “tradizionali” che, precisa Tolentino, «non sono quelli della “Dama Idea”, l’ideologia». «Non sono diventato – prosegue – un poeta migliore con la mia conversione, non sono nemmeno diventato un uomo migliore. Credo di aver sempre ancorato le mie parole al reale, anche prima del mio cammino nella Chiesa, contrapponendomi sin da giovane a qualsiasi forma di pensiero che presumesse di sostituirsi a ciò che l’evidenza ci mostra come dato di fatto. Ho sempre lottato perché nessuno dicesse: “Gli arbusti bassi? Tagliamoli”».
Sorpreso, quell’amico / sorride e mi rispose: / “Dormono tutti, le case, le cose / la gente.” / Sen’altro; ma quel sonno era dipinto / sulla pelle del nulla! Non mi sono convinto: / “Davvero non ti fa senso tutto questo?”.
L’Età dell’oro brasiliana
Cresciuto in una ricca famiglia aristocratica di Rio de Janeiro, fin da bambino studia letteratura e lingua in inglese e francese e vede aggirarsi per casa i maggiori poeti e scrittori carioca. Un predestinato con un talento per le rime che gli permetterà di pubblicare più volte nel corso della vita le sue opere in ogni angolo del mondo. In Francia dà alle stampe Le Vrai Le Vain (Il vero il vano) e Au Colloque dês Monstres (Nel colloquio dei mostri), in Inghilterra il già citato About the Hunt. Rientrato in Brasile nel 1993 riceve il premio “Jabuti” per il libro As horas de Katarina (Le ore di Katarina). Nel 1998 si trasferisce a San Paolo dove dirige la rivista di cultura Bravo fino al 2000. Vince nuovamente il “Jabuti” nel 2003 con il libro O mundo como Idéia (il premio “Jabuti” è il più importante riconoscimento letterario brasiliano e Tolentino è l’unico ad averlo vinto due volte per la poesia). Infine, due anni fa, gli è stata conferita la benemerenza “José Erminio de Moraes – Intellettuale dell’anno 2003”.
Oggi il Brasile considera Tolentino fra i suoi maggiori poeti viventi, ma non è sempre stato così. Dal suo paese deve scappare nel 1964 per la guerra civile, e lui ricorda bene come si soffocava in patria negli anni precedenti. «Dopo l’età dell’oro degli anni Cinquanta iniziarono a giungere nel paese numerosi esponenti francesi del pensiero prometeico, dell’arrogante rifiuto della realtà». In Brasile vengono fondate università, crescono circoli culturali, sono chiamati dall’Europa quegli intellettuali che meglio sanno illustrare al popolo il nuovo concetto del mondo. Fra questi Jean-Paul Sartre che nel 1952 così sintetizzava la situazione del pianeta dopo averlo percorso in longitudine e latitudine alla ricerca del “buon comunismo”: «I comunisti sono colpevoli perché hanno torto nella loro maniera di avere ragione, e ci rendono colpevoli, perché hanno ragione nella loro maniera d’aver torto». Per Tolentino, senza troppi ricami, «i comunisti hanno torto e basta».
Cresciuto in una ricca famiglia aristocratica di Rio de Janeiro, fin da bambino studia letteratura e lingua in inglese e francese e vede aggirarsi per casa i maggiori poeti e scrittori carioca. Un predestinato con un talento per le rime che gli permetterà di pubblicare più volte nel corso della vita le sue opere in ogni angolo del mondo. In Francia dà alle stampe Le Vrai Le Vain (Il vero il vano) e Au Colloque dês Monstres (Nel colloquio dei mostri), in Inghilterra il già citato About the Hunt. Rientrato in Brasile nel 1993 riceve il premio “Jabuti” per il libro As horas de Katarina (Le ore di Katarina). Nel 1998 si trasferisce a San Paolo dove dirige la rivista di cultura Bravo fino al 2000. Vince nuovamente il “Jabuti” nel 2003 con il libro O mundo como Idéia (il premio “Jabuti” è il più importante riconoscimento letterario brasiliano e Tolentino è l’unico ad averlo vinto due volte per la poesia). Infine, due anni fa, gli è stata conferita la benemerenza “José Erminio de Moraes – Intellettuale dell’anno 2003”.
Oggi il Brasile considera Tolentino fra i suoi maggiori poeti viventi, ma non è sempre stato così. Dal suo paese deve scappare nel 1964 per la guerra civile, e lui ricorda bene come si soffocava in patria negli anni precedenti. «Dopo l’età dell’oro degli anni Cinquanta iniziarono a giungere nel paese numerosi esponenti francesi del pensiero prometeico, dell’arrogante rifiuto della realtà». In Brasile vengono fondate università, crescono circoli culturali, sono chiamati dall’Europa quegli intellettuali che meglio sanno illustrare al popolo il nuovo concetto del mondo. Fra questi Jean-Paul Sartre che nel 1952 così sintetizzava la situazione del pianeta dopo averlo percorso in longitudine e latitudine alla ricerca del “buon comunismo”: «I comunisti sono colpevoli perché hanno torto nella loro maniera di avere ragione, e ci rendono colpevoli, perché hanno ragione nella loro maniera d’aver torto». Per Tolentino, senza troppi ricami, «i comunisti hanno torto e basta».
«E’ rimasto solo il nulla»
Con il filosofo della nausea Tolentino s’incontra di persona. è il 1960, va ad accoglierlo all’aeroporto di Rio perché incaricato dall’università di fargli da cicerone e traduttore durante un ciclo di conferenze. è allora Sartre il filosofo più acclamato e celebre del mondo, solo tre anni dopo rifiuterà sdegnosamente il premio Nobel per la letteratura giustificando il gesto con ragioni personali («Ho sempre declinato le distinzioni ufficiali») e con ragioni ecumeniche («Io sto lottando per avvicinare la cultura orientale a quella occidentale, svuoterei la mia azione se accettassi onoreficenze da Est o da Ovest»). Questo Zeus che non ha bisogno degli uomini durante il viaggio si rende protagonista di una scenata olimpica. Accanto a lui è seduto un sacerdote in abito talare. Lui, schifato, insiste con gli assistenti di volo finché ottiene di cambiare posto. Racconta Tolentino: «Quando il portellone dell’aereo si aprì tutta la gente lì radunata per il pensatore si lasciò sfuggire un sospiro di disapprovazione». Compare prima il prete e solo poi il pontefice laico dell’essere e del nulla. «Quell’ometto, ho scoperto solo di recente, era don Giussani». Il sacerdote di Desio è in Brasile per trovare alcuni suoi studenti del liceo Berchet di Milano che, poco tempo prima, erano giunti in Sudamerica per fondare una missione fra le favelas di Belo Horizonte. «Lo conobbi solo molti anni dopo – prosegue – ma l’episodio mi è rimasto impresso nella memoria anche perché ricordo un Sartre inviperito. Quarant’anni dopo quei fatti il vento della storia ha spazzato via tutto quel che ha scritto Sartre: l’essere non c’era, è rimasto solo il nulla».
Con il filosofo della nausea Tolentino s’incontra di persona. è il 1960, va ad accoglierlo all’aeroporto di Rio perché incaricato dall’università di fargli da cicerone e traduttore durante un ciclo di conferenze. è allora Sartre il filosofo più acclamato e celebre del mondo, solo tre anni dopo rifiuterà sdegnosamente il premio Nobel per la letteratura giustificando il gesto con ragioni personali («Ho sempre declinato le distinzioni ufficiali») e con ragioni ecumeniche («Io sto lottando per avvicinare la cultura orientale a quella occidentale, svuoterei la mia azione se accettassi onoreficenze da Est o da Ovest»). Questo Zeus che non ha bisogno degli uomini durante il viaggio si rende protagonista di una scenata olimpica. Accanto a lui è seduto un sacerdote in abito talare. Lui, schifato, insiste con gli assistenti di volo finché ottiene di cambiare posto. Racconta Tolentino: «Quando il portellone dell’aereo si aprì tutta la gente lì radunata per il pensatore si lasciò sfuggire un sospiro di disapprovazione». Compare prima il prete e solo poi il pontefice laico dell’essere e del nulla. «Quell’ometto, ho scoperto solo di recente, era don Giussani». Il sacerdote di Desio è in Brasile per trovare alcuni suoi studenti del liceo Berchet di Milano che, poco tempo prima, erano giunti in Sudamerica per fondare una missione fra le favelas di Belo Horizonte. «Lo conobbi solo molti anni dopo – prosegue – ma l’episodio mi è rimasto impresso nella memoria anche perché ricordo un Sartre inviperito. Quarant’anni dopo quei fatti il vento della storia ha spazzato via tutto quel che ha scritto Sartre: l’essere non c’era, è rimasto solo il nulla».
Se l’anima invaghita delle stelle / va inghiottita anche lei nel gorgo muto, / ciò che non si rammenta, / ciò che a lungo s’annera (s’annoia, forse) e poi / s’allontana da noi. / Ogni posto da molto / lasciato da se stesso s’impietrisce / e in quel silenzio secco l’assoluto / pian pianino diventa / lo squallore in cui l’anima infelice / non vede più che il vuoto.
IL NIENTE PIENO DI COSE DEI POETI
In Brasile il vento della storia spazza via anche Tolentino. «Allora non ero cristiano, pensavo alla religione come a qualcosa di totalmente irrazionale. Per me Dio era un curioso extraterrestre. D’altronde la Chiesa allora non seppe contrastare il nuovo pensiero che si diffondeva nel paese, anzi, in qualche modo lo incoraggiò». Non solo allora, sembra dire Tolentino, che più di un anno fa alla rivista Tracce ha dichiarato: «Basta guardare ad alcune scuole cattoliche; per trasformarle in quello che abbiamo davanti agli occhi è stato necessario prima di tutto svuotare il cristianesimo del suo contenuto, riducendolo a un’ottima idea (la lotta per i poveri, l’unione per risolvere i problemi del paese, etc.), così la scuola è diventata un’istituzione. Perché questo potesse succedere si è dovuto far sparire tutto ciò che nel cristianesimo ha il profumo di pura umanità: Maria e i santi. Per fare in modo che la “Dama Idea” possa controllare il gioco è necessario relegare il cristianesimo nel regno del pensiero, trasformarlo nella millesima idea che l’umanità non ha posto in pratica».
La mano che lo trascina via è quella di Giuseppe Ungaretti che tra il 1936 e il 1942 aveva vissuto in Brasile insegnando letteratura italiana all’università di San Paolo. Ce lo aveva spedito il duce e lui era solito frequentare casa Tolentino, legato in amicizia con uno zio di Bruno. Ma nel 1942 era dovuto ritornare in Italia perché il Brasile aveva dichiarato guerra all’Asse. Quando Bruno decide di fuggire dal paese natale, tramite l’aiuto di altri amici di famiglia, Ugo La Malfa e Amintore Fanfani, approda in Italia. è il 25 luglio 1964, Ungaretti lo invita a casa sua. «A fare cosa?», chiede il giovane. «Niente – gli risponde l’anziano poeta -. Perché? Bisogna sempre fare qualcosa?». «In realtà – sorride oggi Tolentino – il niente dei poeti è sempre denso di avvenimenti». è così che conosce Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Salvatore Quasimodo. «Ma io me ne tenevo alla larga, strinsi amicizia solo con Quasimodo assistendolo sul letto di morte nell’ospedale di Sesto San Giovanni. E poi Ungaretti mi presentava a tutti dicendo: “lui è Bruno Tolentino, un genio deficiente”». «La definizione – conferma oggi – era molto più calzante di quanto lo stesso Ungaretti sospettasse». è una specie di dottor Jekyll e Mr Hyde, con una vita alla luce radiosa di disquisizioni sui massimi sistemi e una vita all’ombra sprofondata in sconcezze malavitose. Nel 1965 insegue fino in Polonia una ragazza che partecipa al concorso di Miss Mondo. «Passai dieci notti con lei senza nemmeno chiederle il nome. Di giorno mi aggiravo per i bassifondi di Varsavia e fu lì che iniziai la vita del contrabbandiere». Tolentino girovaga per mezza Europa superando le frontiere carico di valute e droga e, di tanto in tanto, torna a casa Ungaretti cui sottopone le poesie che continua a scrivere. «Prendeva una penna e iniziava a tracciare lunghi solchi su molti dei miei versi. Mi diceva: “Questo toglilo, non è essenziale. Tu frequenti troppi chiacchieroni”. Poi mi chiedeva: “Ogni volta che torni sei più ricco, come mai?”. Per non rispondergli, fuggii».
In Brasile il vento della storia spazza via anche Tolentino. «Allora non ero cristiano, pensavo alla religione come a qualcosa di totalmente irrazionale. Per me Dio era un curioso extraterrestre. D’altronde la Chiesa allora non seppe contrastare il nuovo pensiero che si diffondeva nel paese, anzi, in qualche modo lo incoraggiò». Non solo allora, sembra dire Tolentino, che più di un anno fa alla rivista Tracce ha dichiarato: «Basta guardare ad alcune scuole cattoliche; per trasformarle in quello che abbiamo davanti agli occhi è stato necessario prima di tutto svuotare il cristianesimo del suo contenuto, riducendolo a un’ottima idea (la lotta per i poveri, l’unione per risolvere i problemi del paese, etc.), così la scuola è diventata un’istituzione. Perché questo potesse succedere si è dovuto far sparire tutto ciò che nel cristianesimo ha il profumo di pura umanità: Maria e i santi. Per fare in modo che la “Dama Idea” possa controllare il gioco è necessario relegare il cristianesimo nel regno del pensiero, trasformarlo nella millesima idea che l’umanità non ha posto in pratica».
La mano che lo trascina via è quella di Giuseppe Ungaretti che tra il 1936 e il 1942 aveva vissuto in Brasile insegnando letteratura italiana all’università di San Paolo. Ce lo aveva spedito il duce e lui era solito frequentare casa Tolentino, legato in amicizia con uno zio di Bruno. Ma nel 1942 era dovuto ritornare in Italia perché il Brasile aveva dichiarato guerra all’Asse. Quando Bruno decide di fuggire dal paese natale, tramite l’aiuto di altri amici di famiglia, Ugo La Malfa e Amintore Fanfani, approda in Italia. è il 25 luglio 1964, Ungaretti lo invita a casa sua. «A fare cosa?», chiede il giovane. «Niente – gli risponde l’anziano poeta -. Perché? Bisogna sempre fare qualcosa?». «In realtà – sorride oggi Tolentino – il niente dei poeti è sempre denso di avvenimenti». è così che conosce Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Salvatore Quasimodo. «Ma io me ne tenevo alla larga, strinsi amicizia solo con Quasimodo assistendolo sul letto di morte nell’ospedale di Sesto San Giovanni. E poi Ungaretti mi presentava a tutti dicendo: “lui è Bruno Tolentino, un genio deficiente”». «La definizione – conferma oggi – era molto più calzante di quanto lo stesso Ungaretti sospettasse». è una specie di dottor Jekyll e Mr Hyde, con una vita alla luce radiosa di disquisizioni sui massimi sistemi e una vita all’ombra sprofondata in sconcezze malavitose. Nel 1965 insegue fino in Polonia una ragazza che partecipa al concorso di Miss Mondo. «Passai dieci notti con lei senza nemmeno chiederle il nome. Di giorno mi aggiravo per i bassifondi di Varsavia e fu lì che iniziai la vita del contrabbandiere». Tolentino girovaga per mezza Europa superando le frontiere carico di valute e droga e, di tanto in tanto, torna a casa Ungaretti cui sottopone le poesie che continua a scrivere. «Prendeva una penna e iniziava a tracciare lunghi solchi su molti dei miei versi. Mi diceva: “Questo toglilo, non è essenziale. Tu frequenti troppi chiacchieroni”. Poi mi chiedeva: “Ogni volta che torni sei più ricco, come mai?”. Per non rispondergli, fuggii».
Cercavo ancora l’aiuto, la catarsi, / e verso Ferragosto mi trovai / solo sull’Appia Antica, / fra i pini amati da una cara amica; / qualcosa mi diceva di lassù: / “Qui la terra promessa / è scaduta, e lo sai.”.
L’IMPREVISTO NON CAPITAVA
Dopo due anni con Ungaretti e un passaggio in Belgio, la poetessa Elizabeth Bishop lo presenta a Wystan Hugh Auden che, incuriosito da questo strano scavezzacollo giramondo, gli offre un incarico come professore all’università di Oxford dove insegnerà per quindici anni frequentando Thomas Stearns Eliot. «Giocavo da baro. Ero un uomo moderno: prendevo sul serio tutti gli aspetti collaterali della vita (la carriera, il prestigio, i soldi), ma non la vita stessa. Ero la descrizione vivente dell’aforisma di Chesterton: l’uomo che non crede in Dio, non è che non crede in niente; crede a tutto, è un credulone». Racconta che l’avventura era la sua idea fissa, che ne aveva bisogno fisico, per riempire un vuoto che altrimenti non sapeva come colmare, come tracimato da una domanda di cui non intuiva la risposta. Così il dottor Jekyll, che durante l’anno insegna letteratura in cattedra, nei periodi di ferie, a Pasqua, a Natale, d’estate, contrabbanda hashish («quello rosso, ha presente?»), armi («di ogni calibro») e cocaina («a una festa con Frank Sinatra a Palm Springs consegnai 100 mila dollari di roba»). Stati Uniti, Bolivia, Colombia, Egitto, Marocco, Libano.
In Libano si coinvolge nella guerra civile, inizia a finanziare i guerriglieri cristiani, frequenta i bordelli dei bassifondi, fa di tutto, spasmodicamente, per divertirsi. Dice André Gide che «il vizio è monotono» e, aggiunge Tolentino citando la poesia “Prima del viaggio” di Montale, «”L’imprevisto è la sola speranza”. Solo che l’imprevisto non capitava o, forse, io non ero disposto a riconoscerlo. Così mi annoiavo come in spiaggia in un giorno di pioggia». La nascita del figlio lo convince che era ora di smetterla con quella vita. «Ma non riuscivo. Solo contando sulla sua forza di volontà l’uomo non può cambiare, e così tutto quello che potrebbe andare male, finisce peggio». Cerca di darsi dei precetti, delle regole da seguire, delle norme da rispettare. Nessun risultato. La speranza, l’imprevisto, per Tolentino si presenta nella forma e nella fisionomia più inaspettata: la durezza del carcere e l’osservazione dell’amica di una notte. «Andò così: da un pezzo gli agenti di Scotland Yard mi pedinavano, ma non riuscivano a prendermi con le mani nel sacco. Così forzarono la porta della mia abitazione, vi lasciarono una valigetta zeppa di cocaina e poi si presentarono per una perquisizione. Quando mi incastrarono avevo così a noia me stesso che non tentai nemmeno di difendermi. L’arte è una menzogna che dice la verità e io, alla fine, non ero forse sempre stato un artista?».
Dopo due anni con Ungaretti e un passaggio in Belgio, la poetessa Elizabeth Bishop lo presenta a Wystan Hugh Auden che, incuriosito da questo strano scavezzacollo giramondo, gli offre un incarico come professore all’università di Oxford dove insegnerà per quindici anni frequentando Thomas Stearns Eliot. «Giocavo da baro. Ero un uomo moderno: prendevo sul serio tutti gli aspetti collaterali della vita (la carriera, il prestigio, i soldi), ma non la vita stessa. Ero la descrizione vivente dell’aforisma di Chesterton: l’uomo che non crede in Dio, non è che non crede in niente; crede a tutto, è un credulone». Racconta che l’avventura era la sua idea fissa, che ne aveva bisogno fisico, per riempire un vuoto che altrimenti non sapeva come colmare, come tracimato da una domanda di cui non intuiva la risposta. Così il dottor Jekyll, che durante l’anno insegna letteratura in cattedra, nei periodi di ferie, a Pasqua, a Natale, d’estate, contrabbanda hashish («quello rosso, ha presente?»), armi («di ogni calibro») e cocaina («a una festa con Frank Sinatra a Palm Springs consegnai 100 mila dollari di roba»). Stati Uniti, Bolivia, Colombia, Egitto, Marocco, Libano.
In Libano si coinvolge nella guerra civile, inizia a finanziare i guerriglieri cristiani, frequenta i bordelli dei bassifondi, fa di tutto, spasmodicamente, per divertirsi. Dice André Gide che «il vizio è monotono» e, aggiunge Tolentino citando la poesia “Prima del viaggio” di Montale, «”L’imprevisto è la sola speranza”. Solo che l’imprevisto non capitava o, forse, io non ero disposto a riconoscerlo. Così mi annoiavo come in spiaggia in un giorno di pioggia». La nascita del figlio lo convince che era ora di smetterla con quella vita. «Ma non riuscivo. Solo contando sulla sua forza di volontà l’uomo non può cambiare, e così tutto quello che potrebbe andare male, finisce peggio». Cerca di darsi dei precetti, delle regole da seguire, delle norme da rispettare. Nessun risultato. La speranza, l’imprevisto, per Tolentino si presenta nella forma e nella fisionomia più inaspettata: la durezza del carcere e l’osservazione dell’amica di una notte. «Andò così: da un pezzo gli agenti di Scotland Yard mi pedinavano, ma non riuscivano a prendermi con le mani nel sacco. Così forzarono la porta della mia abitazione, vi lasciarono una valigetta zeppa di cocaina e poi si presentarono per una perquisizione. Quando mi incastrarono avevo così a noia me stesso che non tentai nemmeno di difendermi. L’arte è una menzogna che dice la verità e io, alla fine, non ero forse sempre stato un artista?».
L’avevo ormai capito, sentivo che il rogo / non s’era mica spento: / in su le vette, fra le cime il vento / cantava come la fenice.
DIVENTA CIO’ CHE SEI
Ventidue mesi di prigione sull’isola del Diavolo nel pantano di Davon, carcere di massima sicurezza con celle singole. Esperienza non certo da tipi sensibili e raffinati, anche criminali famosi «s’aggiravano come fantasmi», ricorda il galeotto poeta.
Scotland Yard non aveva fatto però un lavoro con tutti i crismi, perché se la sfortuna è cieca, i vicini ci vedono benissimo. E i vicini di casa Tolentino li avevano visti forzare la serratura, avevano, addirittura, scattato delle fotografie. Per questo l’imprevisto di Tolentino dura solo ventidue mesi, il tempo per riaprire il processo e scarcerarlo. Nel frattempo si converte. Non è un’illuminazione improvvisa, ma un fatto graduale e lento. Mette in piedi «un’officina letteraria», nome altisonante per indicare una specie di doposcuola con cui Tolentino insegna a un’ottantina di carcerati a leggere e scrivere. Ma l’esperienza è importante perché gli permette di scoprire che «non esiste solo “l’io”, c’è anche “l’altro”. E poi mi tornò alla mente un’osservazione che una prostituta libanese mi aveva fatto un giorno: “Presto o tardi dovrai rendere onore al tuo corpo”». Ecco la parola attorno cui ruota tutta la riflessione a posteriori sulla sua conversione: “integrità”, con cui l’artista contrabbandiere non vuole indicare un cambiamento morale, ma «la consapevolezza di essere uno, integro, tutto intero». Chiede: «Perché essere due persone quando è già così difficile essere una? Il limite dell’uomo moderno non è, come si pensa, un problema di rettitudine morale, di essere buoni. è inutile essere buoni da soli, occorre essere buoni davanti a qualcuno». Per Tolentino la conversione è come il sale, non cambia il sapore, lo esalta; «la carne rimane carne, il pesce rimane pesce. Cristo è come il sale che va messo sull’imperativo di Pindaro, “Diventa ciò che sei” perché ogni uomo si realizzi anche nei suoi lati più oscuri».
Ventidue mesi di prigione sull’isola del Diavolo nel pantano di Davon, carcere di massima sicurezza con celle singole. Esperienza non certo da tipi sensibili e raffinati, anche criminali famosi «s’aggiravano come fantasmi», ricorda il galeotto poeta.
Scotland Yard non aveva fatto però un lavoro con tutti i crismi, perché se la sfortuna è cieca, i vicini ci vedono benissimo. E i vicini di casa Tolentino li avevano visti forzare la serratura, avevano, addirittura, scattato delle fotografie. Per questo l’imprevisto di Tolentino dura solo ventidue mesi, il tempo per riaprire il processo e scarcerarlo. Nel frattempo si converte. Non è un’illuminazione improvvisa, ma un fatto graduale e lento. Mette in piedi «un’officina letteraria», nome altisonante per indicare una specie di doposcuola con cui Tolentino insegna a un’ottantina di carcerati a leggere e scrivere. Ma l’esperienza è importante perché gli permette di scoprire che «non esiste solo “l’io”, c’è anche “l’altro”. E poi mi tornò alla mente un’osservazione che una prostituta libanese mi aveva fatto un giorno: “Presto o tardi dovrai rendere onore al tuo corpo”». Ecco la parola attorno cui ruota tutta la riflessione a posteriori sulla sua conversione: “integrità”, con cui l’artista contrabbandiere non vuole indicare un cambiamento morale, ma «la consapevolezza di essere uno, integro, tutto intero». Chiede: «Perché essere due persone quando è già così difficile essere una? Il limite dell’uomo moderno non è, come si pensa, un problema di rettitudine morale, di essere buoni. è inutile essere buoni da soli, occorre essere buoni davanti a qualcuno». Per Tolentino la conversione è come il sale, non cambia il sapore, lo esalta; «la carne rimane carne, il pesce rimane pesce. Cristo è come il sale che va messo sull’imperativo di Pindaro, “Diventa ciò che sei” perché ogni uomo si realizzi anche nei suoi lati più oscuri».
Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto (San Paolo, lettera ai Corinzi)
Certificazione del bello
«Io non sono un convertito, ho lasciato che Dio facesse il lavoro al mio posto perché io sapevo di non farcela da solo», dice oggi. Solo dopo Tolentino ha capito che c’era stato sempre qualcosa di vivo sotto la brace e la cenere della sua vita da dongiovanni. «Lo Spirito Santo ha sempre collaborato con me, ma io solo a quarant’anni ho cominciato a collaborare con Lui». Solo oggi, ripensandoci, si accorge di che cosa accomuna tutti i suoi grandi maestri in poesia Manuel Bandeira in Brasile, Ungaretti in Italia, Saint-John Perse in Francia e W. H. Auden in Inghilterra: «Sono tutti cattolici». Solo oggi ripensandoci si accorge che «è entrato in carcere un esteta e ne è uscito un poeta. Come scriveva Auden: ‘La bellezza è una consolazione, ma il nostro compito è certificare che il bello è anche vero”». Tutto risolto, insomma? Al contrario. Come fa dire a un personaggio del suo libro Le ore di Katarina: «Il fatto di credere non ti ha reso migliore». Tolentino confida le difficoltà famigliari, i difficili rapporti coi figli, le donne che ha amato e che ora non lo riamano più, le normali asprezze della quotidianità. Ora però c’è una frase scherzosa che don Giussani scrive nel suo libro Una presenza che cambia a confortarlo: «La prima formula che Gesù ha usato nel rapporto con la gente è stata: vieni e vedi, prova e giudica, soddisfatto o rimborsato».
«Io non sono un convertito, ho lasciato che Dio facesse il lavoro al mio posto perché io sapevo di non farcela da solo», dice oggi. Solo dopo Tolentino ha capito che c’era stato sempre qualcosa di vivo sotto la brace e la cenere della sua vita da dongiovanni. «Lo Spirito Santo ha sempre collaborato con me, ma io solo a quarant’anni ho cominciato a collaborare con Lui». Solo oggi, ripensandoci, si accorge di che cosa accomuna tutti i suoi grandi maestri in poesia Manuel Bandeira in Brasile, Ungaretti in Italia, Saint-John Perse in Francia e W. H. Auden in Inghilterra: «Sono tutti cattolici». Solo oggi ripensandoci si accorge che «è entrato in carcere un esteta e ne è uscito un poeta. Come scriveva Auden: ‘La bellezza è una consolazione, ma il nostro compito è certificare che il bello è anche vero”». Tutto risolto, insomma? Al contrario. Come fa dire a un personaggio del suo libro Le ore di Katarina: «Il fatto di credere non ti ha reso migliore». Tolentino confida le difficoltà famigliari, i difficili rapporti coi figli, le donne che ha amato e che ora non lo riamano più, le normali asprezze della quotidianità. Ora però c’è una frase scherzosa che don Giussani scrive nel suo libro Una presenza che cambia a confortarlo: «La prima formula che Gesù ha usato nel rapporto con la gente è stata: vieni e vedi, prova e giudica, soddisfatto o rimborsato».
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