21 MARZO : San Nicola di Flue
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DAMMI TUTTO CIO' CHE MI CONDUCE A TE Santi, santità, santificazione. Tre semplici parole, molto usate naturalmente in ambito ecclesiale ma non solo. Parole bollate come desuete, non moderne (o post moderne), dal significato molto vario, ma che comunque non lasciano nessuno tranquillo nelle proprie abitudini e convinzioni. Il parlare di santi e di santità non è molto “in”, per non dire fastidioso o addirittura tabù. Ve lo immaginate un “talk show” alla nostra TV, pubblica o commerciale in questo non fa differenza, che in prima serata parlasse di santi, di come essere santi, dell’importanza di esserlo... I grandi programmatori della nostre serate davanti alla Tv non ci pensano nemmeno. Motivo: non farebbe “audience”. Purtroppo. Il sentire parlare o leggere la vita di un santo dei primi secoli o anche di questo secolo appena trascorso (pensiamo a San Padre Pio di Pietrelcina o alla prossima beata Madre Teresa di Calcutta) ci fa fare un involontario esame di coscienza dal punto di vista cristiano o anche semplicemente umano. Sì perché i santi o le sante erano veri uomini e vere donne, che proprio perché hanno vissuto il loro essere discepoli di Cristo fino in fondo e con totalità, sono diventate allo stesso tempo uomini e donne in pienezza (almeno dal punto di vista dell’antropologia cristiana). Non sono quindi uomini e donne per una sola stagione. Il loro ricordo sfida l’usura del tempo.Chi sono i santi? A questa domanda così impegnativa ha risposto, nelle pagine di Famiglia Cristiana, anche la famosa scrittrice italiana Susanna Tamaro. Ecco le sue riflessioni:
«Ma chi sono davvero i santi?
Domanda spaventosamente enorme, che ci rimanda ad una ancora più grande: Che cos’è la santità?
Innanzitutto chiariamo una cosa. Nei santi non c’è niente di molle o di svenevolo, perché il santo, prima di ogni altra cosa, è una persona che va “contro”, e dunque non può assolutamente essere un debole.
Le immagini della devozione popolare, purtroppo, ne danno spesso un’idea fuorviante. Bisogna leggere le loro vite. Solo così possiamo renderci conto della loro vitalità, del loro anticonformismo, della totale solitudine e della profonda disperazione che li può attanagliare. I santi non sono i primi della classe, persone baciate da una specie di superiorità, grazie alla quale riescono a vivere protetti dal mondo, senza sforzi. Al contrario i santi vivono con il massimo sforzo e, al tempo stesso, con il massimo abbandono. Sforzo e abbandono sembrano contraddirsi, ma non è così. Lo sforzo è nella lotta contro il male, l’abbandono è alla carità, all’Amore che li ha generati».
Da padre di famiglia a monaco
La definizione di santità di Susanna Tamaro appena citata sembra riferirsi in special modo al santo che vi propongo per il mese di marzo: San Nicola di Flue. Un santo svizzero, uno dei pochi in verità. Ma molto significativo non solo per i contemporanei del XV secolo ma anche per noi oggi. Nicola di Flue non fu certamente un debole, uno remissivo, un rinunciatario della vita, uno a rimorchio dell’ambiente socio culturale. Non si è lasciato vivere, ma ha vissuto. Non si è lasciato condizionare ma ha condizionato gli altri per cause giuste e coraggiose. Ha costruito con coscienza e responsabilità la propria esistenza ed il proprio essere al mondo situato nella Svizzera di quel secolo. Ha saputo andare “contro” il pensare e fare della massa, pensando in proprio ed esponendosi con coraggio per affermare i propri ideali cristiani di pace e di riconciliazione. Ha sperato e optato più per il dialogo, quando l’opinione più comune era di lasciare parlare le armi. Meno dialogo e più azione, dicevano gli altri. Ma lui ribadiva che se c’era il vero e paziente dialogo non c’era bisogno dell’azione (armata). Ha saputo vivere la propria solitudine, senza la decostruzione mentale che ci può essere quando questa non è sorretta da forti convinzioni e da una intenzionalità limpida radicata in Dio. Sforzo e abbandono, scrive Susanna Tamaro. Due elementi presenti in modo significativo nella vita di Nicola di Flue. Particolarmente negli ultimi vent’anni della vita (che coincidono con la sua vita in solitudine) coniugò in maniera egregia il suo abbandono a Dio e all’Amore di Cristo, fino a vivere solo in Lui e di Lui, cioè solo di Eucarestia, che rimane anche oggi il segno e il sacramento vertice dell’amore di Cristo per noi e per tutto il mondo.
Nicola era nato in Svizzera, a Flue nell’Obwald, nel 1417, lo stesso anno del Concilio di Costanza, che aveva posto fine al grande scisma dell’Occidente, suscitando speranze di riforma nella cristianità. Speranze, ahimè effimere, perché “nella cristianità del tempo, legata ad un ordine feudale ormai in declino, si stava allargando il solco fra istituzioni ecclesiastiche attaccate ai loro poteri e una società civile sempre più consapevole della sua autonomia; fra le autorità indegne o incapaci e il popolo dei fedeli; fra una teologia scolastica fossilizzata e una nuova corrente spirituale che poneva l’accento sulla pietà personale” (Ph. Baud).
Sul versante politico la piccola Confederazione elvetica era alla ricerca di una propria identità, politica e commerciale. In questo ambiente politico ed ecclesiale, attraversato da grave crisi, maturò la vocazione di Nicola, mediante un cammino per lo meno sconcertante. A 50 anni smise di fare il contadino e il padre di famiglia e si ritirò in solitudine, come un monaco. Prima aveva vissuto l’esperienza matrimoniale e familiare, sposando Dorotea dalla quale ebbe ben 10 figli. Tutto bene in questa esperienza, ma dentro di lui c’era una lotta interiore. Sentiva che Dio lo chiamava, e lo invitava a lasciare tutto: famiglia, campi esicurezze terrene. Certo della chiamata, chiese il permesso alla moglie e ai figli più grandi di ritirarsi in solitudine. Ebbene la “sua carissima sposa” (come egli la chiamerà sempre) e i figli maggiori glielo accordarono. Era libero di seguire questa chiamata interiore alla preghiera e alla penitenza. Destinazione? L’Alsazia, per unirsi agli Amici di Dio (Gottesfreunde) ivi fiorenti. Era questa la volontà di Dio? Lo seppe da Dio stesso, ma indirettamente. Non dalla voce di qualche illustre teologo o esegeta, ma... dalla voce di un contadino al quale aveva esposto i propri progetti di vita ritirata. Nel Vangelo si dice che lo Spirito soffia dove e quando e su chi vuole. Anche su un contadino, non certo istruito. Come avvenne nel 1467 per il Nostro. Questi disse a Nicola che in nessun luogo poteva servire Dio che non fosse in mezzo al suo popolo. Nicola lo accolse come un segno. Non pensò più all’Alsazia, e ritornò con discrezione tra la sua gente, in una valle solitaria non lontano da casa sua. Viveva così in solitudine, nella preghiera e nella povertà e penitenza. La sua fama di santità si sparse subito in tutta la Confederazione. Questa era dovuto anche al fatto straordinario che Nicola viveva solo di Eucarestia. Nessun altro cibo come venne naturalmente verificato. Era una grazia di Dio oltre a varie visioni di cui Egli gli fece dono. In solitudine sì, ma non estraneo e indifferente alle sorti dei suoi concittadini. Questi infatti lo chiamarono come arbitro per evitare una guerra fratricida nel 1481. E Bruder Klaus (fratello Nicola) come veniva ormai chiamato portò il suo messaggio di pace, di dialogo, di ricerca del bene comune. Per Nicola “la misericordia in tutte le cose vale più della giustizia” e la “saggezza è il più amabile dei beni”. “La pace è sempre in Dio, perché Dio è la pace e la pace non può essere distrutta”. E poi incitava i suoi connazionali dicendo con forza: “Cercate dunque di mantenere la pace”. Per questa sua mediazione riuscita e la sua testimonianza di pace e di concordia, Bruder Klaus è considerato come il “Padre della patria”, oggi si direbbe in modo bipartisan, cioè da cattolici e da protestanti. Interessante per questo motivo è il giudizio che di lui diede Zwingli (1484-1531) uno dei fondatori del protestantesimo svizzero (insieme a Calvino). Anni dopo la sua morte affermò di Nicola: “Dovete sapere senz’altro ciò che il pio Fratello Nicola di Flue ha detto a proposito della Confederazione. Quest’ultima non ha altro oppressore da respingere che l’egoismo, ovvero l’interesse personale. L’egoismo: ecco il nemico”.
Nicola, il santo eremita, che viveva solo di Eucarestia e del ricordo della Passione di Cristo, morì nel 1487. Aveva 70 anni, e 20 di essi li aveva passati in solitudine dal mondo, ma pregando per il mondo contribuendo così alla sua salvezza.
MARIO SCUDU
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