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martedì 30 giugno 2020
Le croci della vita
domenica 28 giugno 2020
Per soffocare in anticipo ogni rivolta, non bisogna essere violenti
sabato 27 giugno 2020
Antonì Gaudì, l'architetto di Dio e dei poveri
BARCELLONA , 16 giugno, 2020 / 6:00 PM (ACI Stampa).-
Alle ore 6.05 del pomeriggio di lunedì 7 giugno 1926, l’architetto Antonio Gaudí, che aveva 73 anni, stava per attraversare Granvía tra Bailén e Gerona, nella loro solita passeggiata tra la Sagrada Familia e l’oratorio di San Filippo Neri, vicino alla cattedrale. Andò oltre le rotaie del tram che, con il disco n. 30, circolava tra la Plaza de Tetuán e il lungomare. Quando tentò di attraversare i binari notò la vicinanza di un altro tram su questa strada e provò a tornare indietro; a quel punto un altro tram, viaggiando nella direzione opposta, lo investì e l’architetto cadde a terra con una commozione cerebrale.
L’architettura di Gaudí è senza tempo, poiché non dipende da stili o mode e continua a piacersi più di ottanta anni dopo la sua morte, così come continuano a piacere ai fiori o alle montagne. Ha lasciato la porta aperta a un modo di avvicinarsi alla natura, più equilibrato ed ecologico.
Il suo messaggio alle generazioni che gli sono successe non è quello di chiedere che le sue forme siano imitate, ma che siano studiate quelle della natura, dalle quali si possano ottenere molteplici soluzioni,vario e utile, come ha affermato l’architetto Josè Manuel Almuzara, presidente dell’associazione pro beatificazione di Antoni Gaudì:
E’ vero che si pensò di costruire la Sagrada Familia per combattere un’epidemia?
“L’associazione non nacque per combattere un’epidemia ed il Tempio espiatorio della Sagrada Familia fu costruito affinchè ‘svegli dal suo tepore i cuori addormentati. Esalti la fede. Dia calore alla carità’: così si può leggere negli Atti della collocazione della prima pietra del 19 marzo 1882.
Josè Maria Bocabella Verdaguer (1815-1892) fonda l’Associazione alla vigilia della Natività della Vergine Maria il 7 dicembre 1866. L’associazione spirituale dei devoti di san Giuseppe ricorse ‘particolarmente a san Giuseppe per implorare la sua preziosa protezione a sostegno della Chiesa cattolica e per il bene della società con il fine esclusivamente caritatevole contro l’immoralità e l’errore’.
Dal 1867 si pubblica la rivista ‘El Propagador de la Devoción a San José’, ad imitazione di un’altra pubblicazione simile, diretta dal marista francese, p. Joseph Huguet. La rivista fu pubblicata ogni mese ed attualmente si chiama ‘Temple’. Infatti Gaudì si domandò: Chi non si sente poeta vicino alla chiesa?”
Quale sfida porta la pandemia che viviamo alla fede?
“Penso che sia una sfida per la riflessione personale e comunitaria ed un’occasione per renderci conto della nostra condizione e cosa possiamo apprendere per realizzare un mondo migliore, più umano e sensibile verso la cultura della vita, della giustizia e del bene comune. Un’opportunità per confidare nella Provvidenza, pur nella fatica di ogni giorno, perché ‘tutto dipende dalle circostanze: sono le manifestazioni della Provvidenza’, affermava Gaudì”.
Gaudì aveva un rapporto particolare con i poveri e gli operai: quale?
“Gaudí vedeva che molti poveri andavano a chiedere l’elemosina vicino al tempio che stava nascendo e disse che ‘i poveri devono essere sempre accolti nella Chiesa’. Volle che quell’opera che stava costruendo fosse chiamata ‘la cattedrale dei poveri’, perché sorgeva in un quartiere completamente periferico, quelle periferie dove il Papa ci invita ad andare.
Inoltre Gaudí curava molto il suo rapporto personale con gli operai; andava a visitarli a casa, se erano malati, li consigliava di non eccedere, soprattutto nel bere, e si preoccupava che non mancasse loro nulla, offrendo (se era necessario) il suo aiuto finanziario, sebbene in quegli anni anche lui vivesse molto poveramente nel cantiere, come un costruttore medievale di cattedrali, insieme ai suoi operai e così austeramente come loro, e forse anche di più.
Fece anche costruire scuole vicino al tempio per i figli degli operai e degli abitanti del quartiere per ‘insegnare a chi non sa’. Con la sua consueta genialità, imitò architettonicamente le strutture del cuore umano e citò i nomi delle tre persone della Santa Famiglia: Gesù, Maria e Giuseppe. Un bel modo di dire che sono l’amore e la famiglia a dover ispirare l’attività di ogni scuola”.
A quale punto è la sua causa di beatificazione?
“Si sta lavorando nella ‘positio’ sulla sua vita, virtù e sulla fama della sua santità: un volume dove sono racolti un’esposizione sulla storia del ‘processo’ con l’apparato probatorio; le dichiarazioni dei testimoni e la documentazione delle opere e della fama di santità di intercessione del Servo di Dio; il ‘dictamen’dei suoi scritti; la biografia documentata del servo di Dio; la ‘informatio’ sulle virtù esercitate in modo eroico dallo stesso.
Ora i componenti della Congregazione della Causa dei Santi studieranno la ‘positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis’. Se i loro pareri sono unanimemente positivi sull’esercizio eroico delle sue virtù, il prefetto della congregazione presenterà al papa il relativo decreto di santità di tali virtù, affinché sia autorizzata la pubblicazione. Da questo momento Gaudì sarà proclamato ‘venerabile
San Josemaria Escrivá
- SANTI DEL GIORNO
- 26-06-2020
«O sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai», insegnava san Josemaria Escrivá (1902-1975), il fondatore dell’Opus Dei, che ebbe il merito di ricordare che tutti gli uomini sono chiamati alla santità, raggiungibile anzitutto con la santificazione del lavoro quotidiano
«O sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai», insegnava san Josemaria Escrivá (1902-1975). Il fondatore dell’Opus Dei ebbe il merito di ricordare che tutti gli uomini sono chiamati alla santità, raggiungibile anzitutto con la santificazione del lavoro quotidiano.
Secondogenito di sei figli, nacque a Barbastro (nel nord della Spagna) da un mercante di tessuti e una casalinga, che gli impartirono una solida educazione cristiana. Josemaria seppe affrontare i dolori della sua fanciullezza, durante la quale vide morire tre sorelle a breve distanza l’una d’altra, e il padre perse il lavoro. Fra i 15 e i 16 anni, dopo aver osservato le orme lasciate sulla neve da un carmelitano scalzo («altri fanno tanti sacrifici per Dio e per il prossimo, e io non sarò capace di offrigli nulla?», pensò), presagì che Dio lo stava chiamando a una missione particolare e decise di iniziare il cammino per il sacerdozio.
Venne ordinato sacerdote a 23 anni, ma ne passarono altri tre prima che gli fosse chiaro il disegno divino su di lui: il 2 ottobre 1928, in seguito a un’ispirazione mistica, nacque l’Opus Dei. Il fondamento dell’Opera, come scrisse il santo, era fare in modo che «i cristiani inseriti nel tessuto connettivo della società civile - con la loro famiglia, gli amici, il lavoro professionale e le loro nobili aspirazioni - comprendano che la loro vita, così com’è, può essere l’occasione di un incontro con Cristo, ed è pertanto una strada di santità e di apostolato». Riunì perciò attorno a sé molti laici, desiderosi di vivere la loro vocazione nel mondo. Nel 1930 diede vita al ramo femminile. Con lo scoppio della guerra civile spagnola (1936-1939), durante la quale il fronte anarchico-comunista uccise in odio alla fede circa 6.800 cattolici, tra religiosi e laici, Josemaria fu costretto prima a esercitare clandestinamente il ministero sacerdotale e poi a lasciare Madrid con documenti falsi.
Alla fine del conflitto poté riprendere la diffusione del suo istituto, il cui simbolo è una croce inscritta in un globo, segno che la luce di Cristo deve essere portata ovunque. «La Croce bisogna issarla anche nelle viscere del mondo. Gesù vuole essere innalzato proprio lì: nel rumore delle fabbriche e delle officine, nel silenzio delle biblioteche, nel frastuono delle strade, nella quiete dei campi, nell’intimità delle famiglie, nelle assemblee, negli stadi… Lì dove un cristiano può spendere la sua vita onestamente, deve porre col suo amore la Croce di Cristo, che attrae a sé tutte le cose». Il simbolo dell’Opus Dei gli era stato suggerito da una visione avuta il 14 febbraio 1943, mentre celebrava la Messa, che gli fece intuire la soluzione cercata da tempo per i sacerdoti intenzionati a vivere lo spirito del suo istituto. Nello stesso anno fondò la Società Sacerdotale della Santa Croce, attraverso la quale poté incardinare i membri laici dell’Opera che ricevevano l’ordinazione e poi anche i sacerdoti diocesani.
Nel 1946 si trasferì a Roma, da dove continuò a promuovere l’espansione dell’Opus Dei nel mondo, sempre con il buonumore e la capacità di entrare nel cuore delle persone. Fu anche un autore prolifico. Il suo scritto più celebre, intitolato Cammino e pubblicato finora in quasi cinque milioni di copie, contiene 999 spunti per la meditazione. Questi spunti sono suddivisi in capitoli che vanno dal carattere alla vita soprannaturale, dall’Amore di Dio alla Vergine, fino alla perseveranza. Così scrisse nel prologo: «Leggi adagio questi consigli. Medita con calma queste considerazioni. Sono cose che ti dico all’orecchio, in confidenza d’amico, di fratello, di padre. E queste confidenze le ascolta Dio […]».
Per saperne di più:
"Vi racconto il mio amico san Josemaría Escrivá", di Costanza Signorelli
mercoledì 24 giugno 2020
L’amore è come la sabbia
C’è un bambino che cammina sulla spiaggia mano nella mano con sua mamma. Il bambino chiede: Mamma come si fa per tenersi un’amore?
La madre dice: Prendi un pugno di sabbia e stringilo forte il bambino lo fa ma si accorge che più forte stringeva, più la sabbia usciva. "adesso prendi un pugno di sabbia e apri al massimo la mano"
Il bambino fa ciò che gli dice la madre ma dopo poco il vento si porta via tutta la sabbia.
"Mamma, non funziona!Se stringo esce fuori, se lascio aperto il vento la porta via!"
La madre infine dice "Prendi un pugno di sabbia e tienilo in mano,la mano deve essere curva,non troppo chiusa e non troppo aperta."
Il bambino lo fa e nota che effettivamente la sabbia rimane custodita nella mano.
"L’amore è come la sabbia, più lo stringi e più scapperà via ma non puoi lasciarlo troppo libero altrimenti qualcuno te lo ruberà. Devi saperlo custodire ma non imprigionare. In modo da non farlo scappare o rubare dagli altri"
domenica 21 giugno 2020
SAN LUIGI GONZAGA
mercoledì 17 giugno 2020
LA COSCIENZA DEL PROPRIO PECCATO
martedì 16 giugno 2020
BONHOEFFER 9 aprile 1945-2015. Il cristiano che sfidò Hitler
L'anniversario. Settant'anni fa l'impiccagione del teologo luterano.
BONHOEFFER 9 aprile 1945-2015. Il cristiano che sfidò Hitler
domenica 14 giugno 2020
Padre Pietro Tiboni, Comunione per l’Africa
Martedì è morto a 92 anni il missionario comboniano che era diventato un punto di riferimento di Cl in Uganda. E che diceva che al centro di tutto era ed è la comunione
Padre Pietro Tiboni, missionario comboniano, era uomo che pensava secondo Dio e non secondo gli uomini, e che viveva della comunione. L’ultima volta che lo incontrai su suolo africano fu nel lontano gennaio 2001. Ero in Uganda per raccontare vittime ed eroi dell’epidemia di Ebola che aveva colpito il nord del paese, proprio la regione dove Tiboni era stato missionario e aveva molti amici. Era morto fra gli altri Matthew Lukwiya, il direttore sanitario che aveva lottano fino alla fine per contenere l’epidemia e che c’era di fatto riuscito; l’epidemia era stata meno distruttiva di quello che sarebbe stato anche per il suo coraggio e la sua determinazione. Rimase al suo posto e incoraggiò gli altri medici ed infermieri a dare il meglio di sé, ma senza obbligare nessuno a restare. Quasi tutti scelsero di lottare al suo fianco, e una mezza dozzina cadde insieme a lui. Di ritorno a Kampala gli chiesi: «Padre Tiboni, come è possibile che Dio abbia lasciato morire proprio un uomo come Matthew Lukwiya, il medico ugandese più bravo, più generoso, il migliore, uno che sapeva mobilitare la gente, che era veramente utile, quello che doveva portare avanti l’ospedale del dottor Corti?». Infatti l’ospedale al centro dell’epidemia di Ebola era il famoso Lacor Hospital di Gulu diretto da Piero Corti (il fratello medico di Eugenio, l’autore de Il cavallo rosso) e da sua moglie Lucille Teasdale, la dottoressa uccisa dall’Aids contratto curando i feriti delle guerriglie africane. Lui mi guardò e con un sorriso disarmante rispose: «Perché Matthew era pronto, perché era molto maturato negli ultimi tempi».
Tiboni è stato il padre spirituale di Comunione e Liberazione in Uganda, e la cosa è veramente sorprendente, perché incontrò quel movimento in terra africana quando era già missionario comboniano da più di trent’anni se si considerano anche gli anni del seminario. Un missionario già esperto e appartenente a uno dei più sperimentati e prestigiosi istituti, quello fondato da san Daniele Comboni, rimase affascinato dal carisma di un movimento ecclesiale che sul piano della missione ad gentes a quei tempi era un po’ una matricola. Eppure quando nel 1970 il già 44enne Tiboni, espulso dal regime islamista del Sudan (dove era stato missionario per sette anni fra il 1957 e il 1964, insegnando nel seminario nazionale) insieme ad altri 100 missionari e quindi dopo un periodo in Italia ricollocato in Uganda, incontrò a Kitgum un gruppo di giovani medici varesini di Cl che erano lì per fare volontariato internazionale, l’evento fu per lui una rivelazione. Un missionario a vita, professore di filosofia e teologia nei seminari italiani e africani, già confessore della fede in quanto perseguitato dal regime del Sudan che lo aveva espulso, che si lascia sorprendere dall’esperienza di fede di ragazzotti che in linea di principio dedicavano due anni della loro vita al servizio civile sostitutivo di quello militare: incredibile. Due anni dopo, sempre in terra africana, incontrò per la prima volta il fondatore don Luigi Giussani, e da quel momento i due carismi, quello comboniano e quello del prete di Desio, si intrecciarono in un efficace connubio.Per Tiboni al centro di tutto era ed è la comunione, dono da chiedere continuamente nella preghiera a Dio attraverso Maria, che si realizza e si manifesta nel rapporto di unità fra le persone che riconoscono Cristo come la risposta al desiderio umano. Insieme a cristiani ugandesi di tutte le etnie, volontari italiani e missionari comboniani di varie nazionalità creò il movimento Christ Communion and Life, l’equivalente ugandese di Comunione e Liberazione. «In Africa non possiamo usare la parola “liberazione”», spiegava. «perché alla gente fa venire in mente i movimenti di liberazione con la loro valenza politica e tutto il male e le divisioni che hanno portato». Invece bisognava annunciare e portare qualcosa determinante per il superamento delle divisioni tribali e politiche, che rappresentasse l’inculturazione del cristianesimo in Africa però senza sottomettere Cristo a categorie culturali. Lo spiegò al Meeting di Rimini nel 1984: «La nostra posizione è proprio quella secondo la quale le realtà africane vere sono riprese solo attraverso una proposta chiara. Quali sono le realtà vere tradizionali? È questa unità nel clan, per cui le persone sono uno, e noi abbiamo proposto il movimento proprio in questa categoria; noi diciamo: come secondo la tradizione, quando due fanno il patto di sangue diventano una cosa sola e pensano alla loro unità e per quella sono capaci di dare la vita: così è in CCL. Prima di tutto, nel sangue di Cristo, perché è il sangue che unifica, e poi nello spirito di Cristo, perché il clan sussiste per la presenza dello spirito degli antenati, che sono chiamati i morti viventi. Solo che questo nuovo clan, questa nuova cultura è chiaro che elimina totalmente l’odio profondissimo che c’è fra le tribù, crea una nuova civiltà della verità e dell’amore, su cui si costruisce la nuova realtà. Per cui per noi ha molta importanza il sorgere dell’esperienza di questo nuovo tipo di civiltà, basata sul sangue di Cristo, che toglie le divisioni, e sullo spirito di Cristo, che fa vivere e che crea una nuova realtà di tribù». Ma l’unità nella Comunione non è un prodotto umano, è solo e soltanto un dono divino. Perciò Tiboni scrisse una preghiera di consacrazione a Cristo attraverso Maria che gli appartenenti alla comunità recitavano più volte al giorno, e che fa così: «Maria, tu sei la madre di Cristo, madre della comunione che tuo figlio ci dà, come dono nuovo sempre nuovo e potente, che è un gusto di vita nuova. Attraverso di te, perciò, noi consacriamo tutto noi stessi, tutte le sofferenze che tuo figlio scegli per noi, e la nostra stessa vita, affinché tu diventi la madre della vita. E Cristo doni a tutti gli uomini lo stesso gusto di vita nuova che ha donato a noi».
La sua testimonianza al Meeting del 1988 altro non fu che la lettura di una serie di testimonianze dei suoi figli spirituali che descrivevano la vita di comunione, soprattutto di Rose Busingye, che sarebbe diventata la fondatrice dei Meeting Point per i malati di Aids (l’Uganda in passato è stata uno dei paesi africani più colpiti) e avrebbe preso parte al Sinodo per l’Africa del 2009. «È quella che si chiama la comunione di Cristo», commentò. «Non si può vivere felici, sperimentare la felicità di sé, eterna, infinita, senza un’amicizia che sostenga (non un’amicizia qualsiasi), senza una compagnia con cui poter vivere il mistero di Cristo presente». Nel 2001 ebbe la gentilezza di presentare l Meeting di Rimini il mio primo libro, che trattava della fede in Africa attraverso una carrellata di testimonianze cristiane in situazioni estreme (guerra, malattia, genocidio, stregoneria) e si intitolava Santi e Demoni d’Africa. Il più grosso complimento che fece fu quello di dire che il libro si inseriva degnamente nella tradizione della narrazione missionaria, caratteristica dei tempi di san Daniele Comboni e purtroppo abbandonata per tematiche più ideologiche, disse lui, in epoca contemporanea. Ma anche quella volta insistette che le personalità che io avevo messo in rilievo andavano collocate dentro a una coralità: «Il libro è una galleria di ritratti sui grandi di un continente, cioè presenta persone, (…) che sono venute anche al Meeting di Rimini. Presenta una galleria di ritratti come di personalità; intorno a queste personalità si crea come una rete, un popolo. Non si tratta, quindi, soltanto di personalità da ammirare, ma sono come un seme che cresce in una pianta o se meglio volete in una foresta, perché attorno a tutte queste persone sta crescendo una realtà veramente stupenda. C’è come il crescere di una rete di persone, africane e non, che fanno crescere una realtà che ha un valore sociale e direi anche politico». Negli anni la foresta è cresciuta, e lui ha deciso di restare fra i suoi alberi e le sue foglie fino all’ultimo. Ha aspettato l’ultima chiamata sulla sua sedia a rotelle al Lacor Hospital di Gulu, lì dove si trovano le tombe di Piero Corti, Lucille Teasdale, Matthew Lukwiya. Lui invece riposerà a Kitgum, dove ebbe la sua prima parrocchia ugandese, quella di Cristo Re, e dove incontrò Enrico Guffanti e gli altri medici volontari ciellini nel 1970. Quando sei pronto, quando sei maturato, Dio manda un suo angelo a prenderti.
giovedì 11 giugno 2020
L'eucarestia
L'eucarestia
Quando fui messo al corrente della dottrina cristiana, una cosa sola mi sorprese: l’Eucaristia!
Non che mi sembrasse incredibile, ma che la carità divina avesse trovato questo mezzo inaudito di comunicarsi, mi stupiva.
E, soprattutto, che avesse scelto, per farlo, il pane che è l’alimento del povero e il cibo preferito dei bambini.
Di tutti i doni sparsi dinanzi a me dal cristianesimo, quello era il più bello!
Il convertito André Frossard (1915-1995) d