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lunedì 9 febbraio 2015

L’animo umano e la domanda di felicità

L’animo umano e la domanda di felicità

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febbraio 8, 2015 Giovanni Fighera
Pubblichiamo parte del primo capitolo di “Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico?” di Giovanni Fighera, ripubblicato in questi giorni da Ares.
fighera-felicita-amicoPubblichiamo parte del primo capitolo di Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? di Giovanni Fighera, ripubblicato in questi giorni da Ares. Dello stesso volume abbiamo già anticipato la prefazione di monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio.
Un personaggio del romanzo di I. Turgenev Padri e figli, Odincova, chiede all’amico Bazarov perché “anche quando godiamo, ad esempio, di una musica, di una buona serata, della conversazione con gente simpatica, perché tutto ciò sembra piuttosto un’allusione a non so che smisurata felicità che esiste in qualche luogo, anziché una felicità reale, cioè, tale che la possediamo noi”.
Per provare a rispondere alla sua domanda dobbiamo tentare di impostare bene il problema della felicità, ovvero risalire alla natura dell’animo umano. Partiremo, quindi, dall’analisi che G. Leopardi conduce sulla questione.
Pochi autori, infatti, sono stati così lucidi nel descrivere la natura del nostro animo, assetato di una felicità piena, assoluta, infinita, proprio perché il nostro animo è “capacità di Infinito”. Noi abbiamo un cuore (nel senso biblico del termine), ovvero un complesso di esigenze originarie (l’esigenza di felicità, di amore, di giustizia, di bellezza) per cui ciascuno di noi è attratto dal bello, dal vero, dal giusto, dal bene, almeno quando siamo nella nostra posizione più autentica e vera. È questo cuore che ci fa sobbalzare all’ascolto della sinfonia n. 40 di Mozart, che ci fa provare un sentimento di ebbrezza e, nel contempo, inquietudine alla rappresentazione del Don Giovanni alla Scala o che, ancora, ci fa rimanere in estasi, presi da ammirazione e tremore, di fronte alla Cappella Sistina. È sempre questo cuore che ci fa palpitare alla vista di un tramonto o di un cielo stellato o al ritorno dal lavoro della donna a cui ci siamo uniti per tutta la vita. È sempre questo cuore che ci fa restare rapiti di fronte alle parole pronunciate con verità da qualcuno che magari mai avevamo incontrato prima: il nostro cuore, infatti, coglie la corrispondenza tra quanto desidera e quanto incontra.
Ebbene, questo cuore può essere paragonato ad un recipiente “capace” di Infinito (capax è il termine latino per indicare la capacità di contenere), perché non è mai colmo: puoi, infatti, riempirlo di bevande differenti in continuazione, ma il liquido non giungerà mai all’orlo del bicchiere, del contenitore. Quante volte facciamo l’esperienza di avere apparentemente colmato il nostro desiderio di felicità, ma subito dopo l’esperienza dell’amarezza e della tristezza si fa largo! Gli studiosi di economia (lasciatemi passare il paragone, anche se evidentemente il confronto ha un sapore ironico) potrebbero parlare di un “bisogno” risorgente e mai pienamente soddisfatto.
Questa peculiarità è tipica soltanto dell’uomo. Leopardi scrive nello Zibaldone di pensieri: “Tutto è o può essere contento di se stesso eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose”. Noi uomini siamo “miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra… Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti”.
Nella stessa pagina del testo miscellaneo Leopardi arriva ad affermare che “una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici”. Queste riflessioni, poste quasi all’inizio del suo diario filosofico ed esistenziale richiamano, indubbiamente, alla mente la distanza tra il pastore e il gregge nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: il pastore è assalito dal tedio, quando giace oziando, mentre il gregge non sembra essere angustiato da nessun pungolo, non sembra conoscere la noia.
“O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato”.
È chiaro che il Recanatese non vuole, qui, porre una distinzione solo tra l’uomo e gli altri esseri viventi, ma anche tra chi è Uomo, compos sui, presente a se stesso, cosciente della propria natura (il pastore che rappresenta il filosofo, nel senso di chi si interroga sull’esistenza, sulla vita, chi si pone con la semplicità del cuore che gli è stato donato fin dalla nascita, chi non recede dalla propria natura rinnegando la fibra più originaria del proprio essere) e chi vive dimentico di sé, come un bruto, soffocando o rinnegando il proprio cuore.
Vi è un canto dantesco in cui ben emerge questa contrapposizione tra pastore e gregge, tra atteggiamento davvero umano e degradamento dell’uomo a natura istintiva e, perciò, animalesca. Siamo in Malebolge, nell’VIII cerchio dell’Inferno, dove sono puniti i consiglieri di frode, ovvero coloro che hanno fatto uso dell’arte della parola per ingannare gli altri. Qui incontriamo Ulisse che risponde alla domanda che Virgilio gli pone riguardo a come si sia concluso il suo ultimo viaggio. Mentre racconta, ad un certo punto Ulisse rievoca le parole che declamò davanti ai compagni per spronarli, ormai stanchi e scettici, un’ultima volta, a portare a termine l’impresa:

“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
”.
(Inferno XXVI, vv. 118-120)
Ecco contrapposti tra loro Ulisse e i bruti: Ulisse che parte, indomito, che non può essere trattenuto neanche dagli affetti più cari, perché neanche quelli possono saziare il suo ardore di conoscere, di “divenir del mondo esperto,/ e de li vizi umani e del valore”(Inferno XXVI, vv. 98-99) e chi se ne sta tranquillo, sdraiato, senza porsi domande, senza alcuna inquietudine. Dobbiamo avere rispetto di questo “religioso” sentimento di insoddisfazione e di inquietudine, di questa tristezza che deriva da una tensione inesausta all’infinito, alla compiutezza e alla perfezione, di quel sentimento che Leopardi definisce laconicamente col termine “noia”.
Essa è
in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani,… il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile della spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo umano e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana” (Pensieri, LXVIII).
La noia[9] è il sentimento che denuncia in maniera inconfondibile la statura umana, l’aspirazione all’Infinito del nostro animo, la sua incapacità di accontentarsi di piaceri finiti e limitati, la necessità di incontrare un piacere infinito che corrisponda al proprio cuore. La ragione umana riconosce questa incapacità dell’uomo a soddisfarsi, la necessità che ci si imbatta in qualcos’altro. “La perfezione della ragione consiste in conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci” e, con grande intuizione che riprenderemo al momento opportuno, Leopardi arriva ad affermare che “l’uomo corrotto non poteva essere perfezionato né felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione”. E ancora
“l’esperienza conferma che l’uomo qual è ridotto non può essere felice sodamente se non in uno stato (ma veramente) religioso…”.
Ciò che dà consistenza alle cose è solo “la persuasione di un’altra vita. Ma questa ci deve persuadere; dunque bisogna che la religione ci persuada”.
Quindi, la ragione al suo culmine non canta vittoria come accade in tanta cultura illuministica francese. Del resto, lo stesso Kant aveva avvertito che “la ragione umana, in una specie delle sue conoscenze, ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le sono posti dalla natura stessa della ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana. In tale imbarazzo cade senza sua colpa”.
Dunque il giovane Leopardi, formato secondo la cultura illuministica, arriva a riconoscere che la ragione non è ratio sui et universi, misura di sé e di tutta la realtà, bensì al suo culmine, al suo vertice giunge a riconoscere il Mistero e la propria incapacità a darci la felicità da soli. Quale distanza dallo scientismo, dall’autonomismo, dal prometeismo, tanto millantati dai suoi contemporanei intellettuali, chiamati filosofi o ideologi, dai letterati poligrafi, eruditi, enciclopedici, umanitari e cosmopoliti.
Se scorriamo lo Zibaldone, più avanti alla pagine 3171 e 3172, Leopardi mostra una sconvolgente sintonia con il pensiero del filosofo Blaise Pascal che aveva riconosciuto la grandezza dell’uomo proprio nell’essere “canna pensante”. Ne I pensieri il filosofo francese, infatti, scriveva:

“ L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente.”
Poco dopo, ancora affermava:
“La grandezza dell’uomo è grande in questo: che si riconosce miserabile. Un albero non sa di essere miserabile. Dunque essere miserabile equivale a conoscersi miserabile; ma essere grande equivale a conoscere di essere miserabile”.
L’uomo ha una facoltà che non è data agli altri esseri viventi, quella di percepire sé all’interno del mondo, della natura, degli spazi smisurati dell’universo e del cosmo e di cogliere la sproporzione tra il proprio io piccolo e la maestà e grandezza (che sembra infinita) di quanto ci circonda. L’uomo percepisce la distanza tra l’angusto limite temporale nel quale ci è dato vivere e il tempo degli astri e dell’universo e, ancor più, l’eternità che non riusciamo neanche a pensare!
“Tornato alla considerazione di sé, l’uomo esamini ciò che egli è rispetto a ciò che esiste; si consideri come sperduto in questo remoto angolo della natura, e da questa piccola cella dove si trova rinchiuso, voglio dire l’universo, impari a stimare la terra, i regni, le città e se stesso nel loro giusto valore. Che cos’è un uomo nell’infinito?… Chi si contempla così, si spaventa di se stesso e considerandosi, nella mole che la natura gli ha dato, come sospeso tra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di quelle meraviglie; e credo che, mutando la sua curiosità in ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a investigarle con presunzione. Che cos’è in fondo l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto. Infinitamente lontano dall’abbracciare gli estremi, la fine delle cose e il loro principio gli sono invincibilmente nascosti in un impenetrabile segreto, ed egli è ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l’infinito dal quale è inghiottito”.
Ecco perché per descrivere la condizione esistenziale dell’uomo Pascal utilizzava l’immagine di un marinaio che naviga in un vasto mare, sempre incerto e instabile, sballottato da una parte all’altra, alla ricerca di uno scoglio a cui potersi aggrappare. Il tentativo risulta, però, sempre vano. Per questo, noi ci troviamo in una situazione naturale che è “la più contraria alla nostra inclinazione: desideriamo ardentemente trovare un assetto stabile e una base ultima per edificarvi una torre che si levi fino all’infinito, ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra s’apre in abissi”.
Ebbene, nelle pagine dello Zibaldone sopra citate, anche Leopardi in maniera lucida pone la grandezza dell’uomo nel suo “sentire” (alla latina: “percepire con la testa, con la ragione”), che coglie la piccolezza di sé di fronte all’infinito, all’immensità. L’uomo è l’unico punto di autocoscienza del creato: di fronte all’immensità delle stelle l’uomo percepisce la sua pochezza e nel contempo intende “cose superiori alla sua natura”.
A tal proposito c’è grande sintonia tra il pensiero di Leopardi e uno dei salmi biblici che meglio descrivono la miseria/grandezza dell’uomo. Il Salmo 8 della Bibbia recita, infatti, così:

“Se guardo il cielo
nato dalle tue dita, la luna
e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è l’uomo perché te ne ricordi,
cos’è il figlio di un uomo perché te ne curi?
Eppure lo diminuisti di poco agli angeli,
di gloria, d’onore lo hai incoronato:
potere gli hai dato sulle opere delle tue mani,
tutto hai lasciato ai suoi piedi;
tutte le greggi e i branchi, le bestie
delle campagne, gli uccelli
del cielo, i pesci e tutti quelli
che corrono per le vie del mare…”.
Una domanda simile riecheggia nei versi di Leopardi del canto “Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima” dove il Poeta si chiede:
“Natura umana, or come
Se frale in tutto e vile,
Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?”. (vv. 50-52)
Leopardi pensa ad una bellissima ragazza, morta. Che cos’è la sua bellezza ora se non polvere e immagine sbiadita nel ricordo? Perché se non siamo altro che polvere abbiamo la possibilità di innalzarci tanto in alto e di percepire e immaginare “cose” tanto più grandi di noi?
Da cosa si comprende che l’uomo è così grande da poter essere considerato solo un gradino più sotto degli angeli?
Leopardi risponderebbe così:

“Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità dÈ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova quasi smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. Certo niuno altro essere pensante su questa terra giunge mai pure a concepire o immaginare di essere cosa piccola o in se o rispetto all’altre cose, eziandio ch’ei sia, quanto al corpo, una bilionesima parte dell’uomo, per nulla dire dell’animo. E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri si è l’uomo, tanto sono più capaci della conoscenza e del sentimento della propria piccolezza. Onde avviene che questa conoscenza e questo sentimento anche tra gli uomini sieno infatti tanto maggiori e più vivi, ordinari, continui e pieni, quanto l’individuo è di maggiore e più alto e più capace intelletto e ingegno”.
Queste affermazioni sono uno schiaffo alle pretese dell’uomo di conoscere tutto il reale attraverso le nuove acquisizioni scientifiche e il progresso e rappresentano, quindi, un deciso ridimensionamento dell’ottimismo scientista. Non sono certo un abbassamento del valore e della dignità dell’uomo, ché, anzi, proprio in questa autocoscienza (unica nel cosmo e, quindi, l’uomo è “l’autocoscienza del cosmo”) risiede la nobiltà e la grandezza dell’animo umano. Le parole di Leopardi servono, senz’altro, a ben inquadrare la polemica leopardiana contro la presunzione umana intendendola, tale polemica, non tanto come regressione dell’uomo al livello delle altre creature (così come qualcuno ha voluto intendere nel “Dialogo tra il folletto e lo gnomo”), bensì come demistificazione della pretesa umana di poter manipolare e violentare a proprio uso e consumo la natura e la realtà.

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