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sabato 31 ottobre 2020

 

Zygmunt Bauman: “Il vero dialogo non è parlare con gente che la pensa come te”

@DR

Daniel R. Esparza - Aleteia - pubblicato il 26/09/16

A questo proposito, Bauman non esita a ricordare che papa Francesco ha concesso la sua prima intervista dopo essere stato eletto Sommo Pontefice a un giornalista apertamente e militantemente ateo, Eugenio Scalfari.

“È stato un segno”, ha indicato Bauman: “il vero dialogo non è parlare con gente che la pensa come te”.

Il dialogo, ha specificato il sociologo in un’intervista rilasciata di recente ad Avvenire, è “insegnare a imparare. L’opposto delle conversazioni ordinarie che dividono le persone: quelle nel giusto e quelle nell’errore”.

Entrare in dialogo significa superare la soglia dello specchio, insegnare a imparare ad arricchirsi della diversità dell’altro. A differenza dei seminari accademici, dei dibattiti pubblici o delle chiacchiere partigiane, nel dialogo non ci sono perdenti, ma solo vincitori”.

“È la vera rivoluzione culturale rispetto a quanto siamo abituati a fare ed è ciò che permette di ripensare la nostra epoca. L’acquisizione di questa cultura non permette ricette o facili scappatoie, esige e passa attraverso l’educazione che richiede investimenti a lungo termine. Noi dobbiamo concentrarci sugli obiettivi a lungo termine”.

“E questo”, ha concluso Bauman, “è il pensiero di papa Francesco. Il dialogo non è un caffè istantaneo, non dà effetti immediati, perché è pazienza, perseveranza, profondità. Al percorso che lui indica aggiungerei una sola parola: così sia, amen”.

LA UE SEMPRE PIU’ COME L’URSS. IL GRANDE DISSIDENTE RUSSO VLADIMIR BUKOVSKIJ LO VIDE PER PRIMO

 

LA UE SEMPRE PIU’ COME L’URSS. IL GRANDE DISSIDENTE RUSSO VLADIMIR BUKOVSKIJ LO VIDE PER PRIMO

30 Nov, 2019

E’ veramente un enigma per me capire perché, dopo avere appena seppellito un mostro, l’Unione Sovietica, ne stiamo costruendo un altro notevolmente simile: l’Unione Europea”.

Per pronunciare parole così dure e chiare – in tempi di conformismo europeista – ci vuole qualcuno abituato ad andare controcorrente, qualcuno che conosce bene l’Urss e l’uso che i regimi fanno della propaganda, qualcuno che sa quanto è vulnerabile la libertà, qualcuno che ha un coraggio da leone per aver combattuto il totalitarismo sovietico: è l’identikit di Vladimir Bukovskij.

EROICO

Infatti quelle citate sono parole sue (insieme ad altre che vedremo – durissime – contro l’Unione europea). Bukovskij, che è morto proprio un mese fa a Cambridge, a 76 anni, è stato definito dal New York Times “un eroe di grandezza quasi leggendaria”.

Nato a Mosca nel 1942, a 17 anni fu espulso dalla scuola per aver fondato una rivista proibita. Appena diciottenne, nel 1960, organizza in piazza, davanti al mitico monumento a Majakovskij, a Mosca, delle letture pubbliche (vietissime dal regime) dei poeti: da Pasternak a Osip Mandelstam.

Arrestato, subisce le prime detenzioni e condanne. Tornato libero organizza manifestazioni in difesa di altri dissidenti perseguitati dal regime (Aleksandr Ginzburg e Jurij Galanskov) e viene di nuovo arrestato e condannato.

Nel 1971 riesce a far arrivare in occidente le prove dell’esistenza di ospedali psichiatrici per dissidenti  in Urss. La scoperta di manicomi usati per piegare i dissidenti suscitò enorme clamore in Occidente e provocò l’ennesimo suo arresto con la condanna a sette anni  più cinque di esilio.

Poi, anche per le pressioni internazionali, fu liberato ed espulso dall’Urss nel 1976. Si stabilì in Inghilterra rimanendo sempre l’indomito combattente per i diritti umani, per la verità e contro il comunismo.

Così, vivendo in Europa, si è trovato a parlare in modo egualmente chiaro su quello che è accaduto dopo il crollo del comunismo.

Ancora una volta Bukovskij è risultato scomodo ed è parso urticante il suo paragone fra la Ue e l’Urss, tanto è vero che è rimasto inascoltato dai media mainstream. Ma quali erano le ragioni di questa sua presa di posizione? Bukovskij elencava una serie di analogie.

LA NOMENKLATURA

Eccole: “L’Unione Sovietica era governata da quindici persone non elette che si attribuivano incarichi l’un l’altro e che non erano tenuti a rispondere a nessuno. L’Unione Europea è governata da due dozzine di persone non elette, che si attribuiscono incarichi l’un l’altro (…) non devono rispondere a nessuno e che non possiamo rimuovere. Uno potrebbe dire che l’Unione Europea ha un Parlamento eletto. Beh, anche l’Unione Sovietica aveva una specie di Parlamento, il Soviet Supremo, che si limitava a timbrare le decisioni del Politburo più o meno come fa oggi il Parlamento dell’Unione Europea”.

Si può pensare che Bukovskij qui esageri, ma se si va a vedere cosa sta accadendo, proprio in questi giorni, con il cosiddetto Mes, si può constatare che le sue parole sono davvero calzanti.

Egli poi – fra le varie analogie – parlava degli “euroburocrati con altissimi stipendi, con i loro staff, che semplicemente ruotano da una posizione all’altra, non importa quali siano i loro risultati o i loro insuccessi. Non è esattamente come nel regime sovietico?”

Qui si potrebbe obiettare che  l’Unione Sovietica imponeva il suo volere con la repressione e, anche ai membri del Patto di Varsavia, grazie alla forza bruta, mentre la Ue non usa la forza militare, ma è difficile dar torto a Bukovskij quando affermava che però usa “la prepotenza economica”.

ANNIENTARE LO STATO NAZIONALE

Un’altra analogia segnalata dal dissidente russo fa molto riflettere: “A noi venne detto che l’obiettivo dell’Unione Sovietica era quello di creare una nuova entità storica, il popolo sovieticoe che dovevamo dimenticare le nostre nazionalità, le nostre tradizioni etniche e le nostre usanzeLa stessa cosa sembra accadere con l’Unione Europea, dal momento che non vogliono che voi siate inglesi o francesi: vogliono che voi siate tutti appartenenti a una nuova fattispecie storica, gli europei, per sopprimere tutti i vostri sentimenti nazionali  e vivere come una comunitàmultinazionale. Dopo 73 anni, questo sistema nell’Unione Sovietica ha condotto a più conflitti etnici che in qualunque altra parte del mondo. Nell’Unione Sovietica uno dei grandi obiettivi era la distruzione dello stato nazione  e questo è esattamente ciò che osservo in Europa oggi. Bruxelles vuole assorbire gli stati nazione in modo che cessino di esistere”.

In effetti appare evidente che l’Unione europea non è più – come la prima Comunità europea – una libera unione di Stati che collaborano su alcune materie, ma senza abdicare alla propria indipendenza e identità.

Le enormi difficoltà che oggi incontra la Gran Bretagna  (addirittura la Gran Bretagna!) per uscire  dall’Unione europea, fa somigliare l’Ue davvero al Patto di Varsavia.

Non è più una libera unione di Stati, ma qualcosa che limita la libertà, perché i luoghi da cui è difficile e quasi temerario uscire non si chiamano case, ma prigioni.

LIBERTA’

L’ultima obiezione che si può muovere al confronto di Bukovskij fra Urss e Ue, riguarda le libertà fondamentali, perché è evidente che in Unione sovietica era negata la libertà di pensiero e di espressione.

Ma questo nessuno lo sa come lo sapeva Bukovskij che lo aveva sperimentato e pagato sulla propria pelle. Dunque non si può far finta di nulla se un uomo così, con una storia come la sua, continua a metterci in guardia sostenendo che nell’Unione Europea c’è “un Gulag intellettuale chiamato politically correct, tanto che se uno si esprime su certe cose “o se le sue opinioni differiscono da quelle approvate, viene ostracizzatoQuesto è l’inizio del Gulag, l’inizio della perdita della libertà”.

ANALOGIE E PROFEZIE

Nell’Urss – spiega Bukovskij – “ci hanno detto che avevamo bisogno di uno stato federale per evitare le guerre. Nell’Unione Europea vi stanno dicendoesattamente la stessa cosa. In breve, la stessa ideologia  sorregge entrambi i sistemi”.

Secondo Bukovskij l’Unione europea “collasserà”  come il comunismo sovietico perché “incapace di riformarsi” come l’Urss  e quando ciò accadrà “lascerà dietro di sé una distruzione di massa  e noi ci troveremo con enormi problemi economici ed etnici”.

Il grande dissidente, in quel suo appello inascoltato, esortava i popoli europei a riprendersi l’indipendenza: “Non siete costretti ad accettare quello che hanno pianificato per voi. Dopo tutto, nessuno vi ha mai chiesto  se volevate esserne parte. Io ho vissuto nel vostro futuro. E non ha funzionato”.

Bisogna riconoscere che anche su questo Bukovskij ha ragione, perché tutti i passaggi fondamentali che hanno portato a stringere questo nodo scorsoio attorno al collo dei popoli europei (specialmente al nostro) sono sempre stati decisi in modo tecnocratico, camuffando le decisioni dietro sigle e trattati per addetti ai lavori  e talora con il pretesto di emergenze  che impongono quelle scelte.

Infatti oggi si arriva fino al punto di “scomunicare”  chi vuol portare certe scelte alla luce del sole accusandolo di populismo, sovranismo, come fosse un pericoloso  demagogo che rischia di suscitare turbolenze sui mercati.

Quale sia la loro filosofia  lo si capisce dalle parole di Jean Monnet, il più importante esponente della tecnocrazia franco-tedesca oggi dominante nella Ue.

Nel 1952 ebbe a dire: Le nazioni europee dovrebbero essere guidate verso un superstato senza che le loro popolazioni si accorgano di quanto sta accadendo. Tale obiettivo potrà essere raggiunto attraverso passi successivi ognuno dei quali nascosto sotto una veste e una finalità meramente economica”.

Pare che – dopo aver sentito queste parole – Charles de Gaulle  abbia osservato che Monnet voleva creare delle “mostruosità sovranazionali”.Poi De Gaulle è passato e il partito tecnocratico di Monnet ha vinto. Ed è il disastro di oggi.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 29 novembre 2019

domenica 18 ottobre 2020

 

CARLO ACUTIS: «NON È ALTRO CHE ALZARE LO SGUARDO»

Nel 2006 moriva (a quindici anni, di leucemia) Carlo Maria Acutis. Nel 2018 è stato dichiarato "venerabile". Ripubblichiamo la sua storia attraverso il racconto della mamma (da "Tracce", 2/2014)
Paola Bergamini
Il 12 ottobre 2006 moriva a soli quindici anni, per una leucemia fulminante, Carlo Maria Acutis. Lo sport, la passione per il computer... E poi, ogni giorno, la messa e la recita del Rosario. Un ragazzo come gli altri, ma con un accento diverso che lo faceva sentire amico di tutti. Padre Roberto Gazzaniga, che lo ebbe come alunno all’Istituto Leone XIII di Milano, ricorda: «Era così bravo, così dotato da essere riconosciuto tale da tutti, ma senza suscitare invidie o gelosie. Carlo non ha mai celato la sua scelta di fede e anche in colloqui e incontri-scontri verbali con i compagni di classe era sempre rispettoso delle posizioni altrui, ma senza rinunciare alla chiarezza e di dire e testimoniare i principi ispiratori della sua vita cristiana». Monsignor Ennio Apeciti, responsabile dell’Ufficio delle cause dei santi dell’Arcidiocesi di Milano, ha detto: «La sua fama di santità è esplosa a livello mondiale, in modo misterioso come se Qualcuno volesse farlo conoscere. Attorno alla sua vita è successo qualcosa di grande, di fronte a cui mi inchino». Su Tracce, nel febbraio 2014, abbiamo raccontato la sua storia.


«Signora, suo figlio è speciale». Antonia Acutis questa frase l’ha sentita ripetere più volte: dal prete della parrocchia, dagli insegnanti, da compagni di classe, dal portinaio del loro stabile in via Ariosto a Milano, dove si erano trasferiti nel 1994 tre anni dopo la nascita di Carlo, questo ragazzo morto a 15 anni per il quale la Congregazione delle Cause dei Santi ha concesso il nulla osta per l’avvio dell’inchiesta diocesana per la causa di beatificazione.

In fondo, Carlo è un ragazzino normale: vivace, con tanti amici e una passione per l’informatica. Ma quella specialità ha un nome: Gesù, l’Amico. Se ne era accorta fin da quando Carlo, piccolissimo, passando davanti alle chiese le diceva: «Mamma, entriamo a fare un saluto a Gesù, a dire una preghiera». Poi aveva scoperto che leggeva la vita dei santi e la Bibbia. La loro è una famiglia normale, inizialmente la sua frequentazione in chiesa neanche molto assidua. «Ma quel “mostriciattolo” mi faceva tante domande profonde a cui io non sapevo rispondere. Rimanevo perplessa per quella sua devozione. Era così piccolo e così sicuro. Capivo che era una cosa sua, ma che chiamava anche me. Così ho iniziato il mio cammino di riavvicinamento alla fede. L’ho seguito». Don Aldo Locatelli, il sacerdote che accompagna lei e il figlio, le dice: «Ci sono bambini che il Signore chiama fin da quando sono piccoli».

A sette anni, Carlo chiede di poter ricevere la Prima Comunione. Quell’Amico si fa ancora più prossimo. Su richiesta di don Aldo, monsignor Pasquale Macchi (che era stato segretario di Paolo VI), dopo averlo interrogato, garantisce la maturità e la formazione cristiana del bambino per ricevere il Sacramento. Fa un’unica raccomandazione: che la celebrazione si svolga in un luogo idoneo al raccoglimento interiore, senza distrazioni. Il 16 giugno 1998 riceve l’Eucaristia nel silenzio del monastero della Bernaga a Perego, vicino a Lecco. Quella di Carlo è una vita normale. Con un punto fermo, speciale: la messa quotidiana, perché dice «l’Eucaristia è la mia autostrada per il Cielo. Noi siamo più fortunati degli Apostoli che vissero 2000 anni fa con Gesù: per incontrarLo basta che entriamo in chiesa. Gerusalemme l’abbiamo sotto casa». Al termine della celebrazione si ferma per l’adorazione. Si confessa frequentemente perché «come la mongolfiera per salire in alto ha bisogno di scaricare i pesi, così l’anima per levarsi al Cielo ha bisogno di togliere anche quei piccoli pesi che sono i peccati veniali». Sono parole semplici, di un ragazzino. Ma con il desiderio di stare con quell’Amico che gli sta chiedendo tutto. Soprattutto di testimoniarlo con la sua vita.
Carlo Maria Acutis.Carlo Maria Acutis.
Carlo ha un carattere forte, dirompente. La sua passione per il computer lo porta a studiare nuovi programmi. E gli piace anche giocare alla Play Station con gli amici. A scuola - prima all’istituto delle suore Marcelline di piazza Tommaseo e poi al Leone XIII, liceo dei gesuiti - è amico di tutti, ma soprattutto di chi ha bisogno. I suoi compagni, anche chi non crede, vogliono stare con lui. Chiedono consigli, aiuto. Lo cercano. Perché con Carlo si sta bene, c’è qualcosa in lui che attrae. Eppure non è uno che ama le mode. Si arrabbia quando la mamma vuole comprargli un secondo paio di scarpe. Non gli interessa. Non nasconde mai qual è la sua fonte di felicità. In camera ha un grande quadro di Gesù e tutti lo possono vedere. E invita i suoi compagni ad andare insieme a messa, a riconciliarsi con Dio. Su un quaderno scrive: «La tristezza è lo sguardo rivolto verso se stessi, la felicità è lo sguardo rivolto verso Dio. La conversione non è altro che spostare lo sguardo dal basso verso l’alto. Basta un semplice movimento degli occhi».

Nel quartiere lo conoscono tutti. Quando passa in bicicletta si ferma a salutare i portinai, molti sono extracomunitari di religione musulmana, induista. Racconta loro di sé, della sua fede. E loro ascoltano quel ragazzino così simpatico, affabile. A pranzo fa mettere nei contenitori il cibo che avanza per portarlo ai clochard della zona. A casa, come collaboratore domestico c’è Rajesh, induista, bramino. Tra lui e Carlo nasce una amicizia profonda fino al punto che l’uomo si converte e chiede di ricevere i sacramenti. Racconta Rajesh: «Mi diceva che sarei stato più felice se mi fossi avvicinato a Gesù. Mi sono fatto battezzare cristiano perché è stato lui che mi ha contagiato e folgorato con la sua profonda fede, la sua carità e la sua purezza. L’ho sempre considerato fuori dal normale perché un ragazzo così giovane, così bello e così ricco normalmente preferisce fare una vita diversa». Ma Carlo non sa cosa significhi una “vita diversa”. I soldi per lui non si possono sprecare. Con i risparmi compra un sacco a pelo per il barbone che vede quando va a messa in Santa Maria Segreta. Oppure li dona ai Cappuccini di viale Piave, che servono i pranzi per i senzatetto.

Nel 2002 accompagna i genitori al Meeting di Rimini. Un loro amico sacerdote è relatore di un incontro di presentazione del Piccolo catechismo eucaristico. Rimane affascinato dalle persone e dalle mostre che vede. E gli viene l’idea: una mostra sui miracoli eucaristici. Racconta Antonia Acutis: «Era certo che così la gente si sarebbe resa conto che davvero nell’ostia e nel vino consacrato ci sono il corpo e il sangue di Cristo. Che non c’è nulla di simbolico, ma che è la possibilità reale di incontrarLo. In quel periodo era aiuto catechista e questa mostra gli sembrava un modo nuovo per far ragionare sul Mistero eucaristico».

Tornato a Milano, si mette all’opera. Le sue conoscenze informatiche sono un grande aiuto. Ci mette anima e corpo. Si documenta, chiede ai genitori di accompagnarlo in giro per l’Italia e l’Europa per reperire materiale fotografico. Coinvolge tutti, “esaurisce” tre computer. Dopo tre anni, la mostra è pronta. E per un passaparola inaspettato comincia a essere richiesta non solo nelle Diocesi italiane, ma di tutto il mondo.

Nell’estate 2006, in vacanza, Carlo chiede alla mamma: «Secondo te, devo farmi sacerdote?». La donna risponde semplicemente: «Lo capirai da solo. È Dio che te lo farà capire».
Ai primi di ottobre Carlo si ammala. Sembra una normale influenza. Ha da poco ultimato la presentazione di un video con le proposte di volontariato per gli studenti del Leone XIII. Un lavoro a cui teneva in modo particolare. L’appuntamento per la proiezione è il 4 ottobre. Ma lui non ci può andare perché già malato. È ricoverato pochi giorni dopo al San Gerardo di Monza. Non è influenza, bensì leucemia fulminante, il tipo M3, la peggiore. Non c’è alcuna possibilità. Appena varca la soglia dell’ospedale dice alla mamma: «Da qui non esco più». Pochi giorni prima aveva detto ai genitori: «Offro le sofferenze che dovrò patire al Signore per il Papa e per la Chiesa, per non fare il Purgatorio ed andare diritto in Paradiso». Le sofferenze arrivano. Ma all’infermiera che gli domanda come si sente risponde: «Bene. C’è gente che sta peggio. Non svegli la mamma che è stanca e si preoccuperebbe di più». Chiede l’Unzione degli infermi. Muore il 12 ottobre.

Il giorno del funerale la chiesa e il sagrato sono strapieni. Racconta la mamma: «Ho visto gente mai vista né conosciuta prima. Clochard, extracomunitari, bambini... Tante persone che mi parlavano di Carlo. Di quello che lui aveva fatto e di cui io non sapevo niente. Mi testimoniavano la vita di mio figlio, io che mi sentivo orfana».

Una testimonianza che è andata oltre la morte. Che ha trasformato la vita di tanti. Tramite chi lo aveva conosciuto e attraverso il mondo di internet la sua storia, i suoi pensieri vengono conosciuti. Alla famiglia arrivano migliaia di lettere e mail che chiedono di sapere di più di quel ragazzo speciale. In una si legge: «Ho visitato la chiesa di San Frediano al Cestello a Firenze e sono stato colpito dall’immagine di Carlo che stava quasi ad aspettarmi. Non ho potuto fare a meno di avvicinarmi per leggere la storia di un ragazzo al quale sono bastati 15 anni di vita per lasciare una traccia incancellabile su questa terra». O un coetaneo, che non lo ha mai conosciuto, e che scrive su Facebook: «Carlo è vissuto in una famiglia molto abbiente per cui nulla gli avrebbe impedito di vivere in modo agiato e che gli avrebbe procurato quel senso di superbia. Invece ha sempre mantenuto quel tenore di vita e di pensiero “povero”, aperto agli ultimi, altruista verso chiunque, non è poco nel nostro “pianeta”». Per tanti giovani diventa un esempio di come è possibile vivere la fede. Qualcuno racconta la propria conversione. E poi la mostra, che arriva ai confini della terra: Cina, Russia, America latina. Negli Stati Uniti, grazie all’aiuto dei Cavalieri di Colombo, è ospitata da migliaia di parrocchie e oltre 100 università.

Don Giussani ha scritto: «La libertà di Dio si muove nella vita che ha creato, vi si coinvolge partendo da persone o da luoghi prescelti, preferiti diremmo noi, ma è una preferenza in funzione di tutto». La specialità di Carlo è stata questa preferenza, da lui amata e accolta. «Il sacerdote lo sta facendo in cielo», dice la mamma. «Lui che non si capacitava di come gli stadi per i concerti fossero pieni e le chiese invece così vuote. Ripeteva: “Devono capire”».

sabato 17 ottobre 2020

Oscar Wilde

 16 ottobre del 1854: nasce Oscar Wilde… può davvero essere utilizzato come un’icona gay?


«Il cattolicesimo è la religione in cui muoio», così disse il celebre poeta e drammaturgo Oscar Wilde poco prima di morire a Parigi, il 30 novembre 1900. Lo scrittore e saggista esperto del mondo britannico Paolo Gulisano si è concentrato anche sulla conversione di Wilde nel suo libro “Ritratto di Oscar Wilde” (Ancora 2009) in cui ha definito «un mistero non ancora pienamente svelato» la sua complessa personalità, arrivando a descrivere il profondo e autentico sentimento religioso del celebre poeta.

Il cammino esistenziale di Oscar Wilde è stato un lungo e difficile itinerario verso il cattolicesimo, una conversione – ha spiegato Gulisano – «di cui nessuno parla, e che fu una scelta meditata a lungo, e a lungo rimandata, anche se – con uno dei paradossi che tanto amava – , Wilde affermò un giorno a chi gli chiedeva se non si stesse avvicinando troppo pericolosamente alla Chiesa Cattolica: “Io non sono un cattolico. Io sono semplicemente un acceso papista”. Dietro la battuta c’è la complessità della vita che può essere vista come una lunga e difficile marcia di avvicinamento al Mistero, a Dio». Molte le persone che sono entrate in rapporto con lui e si sono convertite, come Robbie Ross, Aubrey Beardsley, e – ha continuato lo scrittore – «addirittura quel John Gray che gli ispirò la figura di Dorian Gray che diventato cattolico entrò anche in Seminario a Roma e divenne un apprezzatissimo sacerdote in Scozia. Infine, anche il figlio minore di Wilde divenne cattolico». Wilde soleva ripetere: «Il cattolicesimo è la sola religione in cui valga la pena di morire» (R. Ellmann, “Oscar Wilde”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 669).

Wilde è oggi celebrato sopratutto come “icona gay”, ma Gulisano ha spiegato che «non può essere definito tout court “gay”: aveva amato profondamente sua moglie, dalla quale aveva avuto due figli che aveva sempre amato teneramente e ai quali, da bambini, aveva dedicato alcune tra le più belle fiabe mai scritte, quali “Il Gigante egoista” o “Il Principe Felice”. Il processo fu un guaio in cui finì per aver querelato per diffamazione il Marchese di Queensberry, padre del suo amico Bosie, che lo aveva accusato di “atteggiarsi a sodomita”. Al processo Wilde si trovò di fronte l’avvocato Carson, che odiava irlandesi e cattolici, e la sua condanna non fu soltanto il risultato dell’omofobia vittoriana». Tuttavia ebbe contemporaneamente diverse relazioni omosessuali, ma verso l’epilogo della sua vita si pentì del suo comportamento. Già nel celebre “De profundis”, una lunga lettera all’ex amante Alfred Douglas, scrisse: «Solo nel fango ci incontravamo», gli rinfacciò, e in una confessione autocritica: «ma soprattutto mi rimprovero per la completa depravazione etica a cui ti permisi di trascinarmi» (Ediz. Mondadori, 1988, pag. 17). Tre settimane prima di morire, dichiarò ad un corrispondente del «Daily Chronicle»: «Buona parte della mia perversione morale è dovuta al fatto che mio padre non mi permise di diventare cattolico. L’aspetto artistico della Chiesa e la fragranza dei suoi insegnamenti mi avrebbero guarito dalle mie degenerazioni. Ho intenzione di esservi accolto al più presto» (R. Ellmann, “Oscar Wilde”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 669).

Mentre si trovava in punto di morte, il suo amico Robert Ross condusse presso di lui il reverendo cattolico irlandese Cuthbert Dunne. Wilde rispose con un cenno di volerlo vicino a sé (era impossibilitato a parlare), il sacerdote gli domandò se desiderava convertirsi, e Wilde sollevò la mano. Quindi padre Dunne gli somministrò il battesimo condizionale, lo assolse dai suoi peccati e gli diede l’estrema unzione (R. Ellmann, “Oscar Wilde”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 670).