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lunedì 15 giugno 2015

APPARTENIAMO SOLO A GESU'


 

APPARTENIAMO SOLO A GESU'


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Gli attentati, il rapimento, il perdono.
Il parroco dei profughi, padre Douglas Bazi, racconta pe rchéla sua gente non odia

Padre Douglas Bazi, la sua storia, non la racconta volentieri. Un po’ perché tornare a quei momenti lo fa ancora sof-frire, un po’ per non aggiungere odio a odio in un Iraq che di tutto ha bisogno, tranne che nuove dosi di veleno. È il 2006, lui serve ancora in una parrocchia caldea di Baghdad. Lo prendono, lo legano, lo bendano. Gli spezzano il naso e gli rompono i denti a colpi di martello. Il primo sorso d’acqua arriva il quinto giorno. La pistola puntata alla tempia: «Non hai paura di morire? Gli altri ci supplicano di non morire, perché tu no?». E lui: «Gli altri non sanno cosa siano la vita e la morte». Un incubo durato nove giorni. Dal luglio del 2013 è stato trasferito nella chiesa di Mar Elia a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Oggi i suoi parrocchiani sono soprattutto i profughi di Mosul e Qaraqosh. Centocinquanta famiglie scampate agli orrori dell’Isis. Nel centro c’è una strana allegria, che nasconde ferite indicibili, come le sue.
Cos’ha pensato quando ha sentito le parole del Papa sui cristiani perseguitati?
Ho citato le sue parole nella mia omelia di Pasqua. Ho detto che questo è il tempo perché il mondo capisca che la pace è l’unica opzione. L’unica per salvare l’umanità. Il Papa ci ha nel cuore e ci pensa profondamente. La verità è che non siamo preoccupati tanto di essere uccisi, piuttosto non vogliamo essere dimenticati. I cristiani profughi di Mosul non sono arrabbiati con Dio. Quando chiedo loro che cosa pensano di quel che è accaduto, rispondono: dobbiamo pregare per i nostri nemici, come ci ha detto Gesù. Dobbiamo perdonarli, perché non sanno quello che fanno.
Ma questa gente ha perso tutto.
Sì, a volte dicono: «II 6 giugno (il giorno del 2014 in cui l’Isis è entrata a Mosul, ndr.) abbiamo perso tutto». Ma io rispondo: «Non dite così, dite: “Il 6 giugno Dio ci ha salvato la vita”». Forse la fuga da Mosul non è stata la loro tragedia, ma la loro salvezza.
Non avete paura di morire?
Se guardi i video della gente uccisa dall’Isis, le vittime sono molto calme prima dell’esecuzione. Io so cosa significa: qualche volta, essere morto è lo scenario migliore. Perché quando muori sei nelle mani di Dio. È meglio essere nelle mani di Dio che in quelle di certa gente. Penso a me: mi hanno sparato, hanno fatto esplodere la mia chiesa, sono sopravvissuto a diversi attentati, sono stato rapito. Eppure desidero sempre un futuro senza odio.
Come è possibile che siate senza odio?
L’unica risposta sensata è: perché siamo cristiani. Chi sono io per lamentarmi? Chi sono per dire a Dio: perché ci fai questo? Si è cristiani non solo quando le cose vanno bene. Al Papa vorrei dire: grazie per i tuoi pensieri e per le tue preghiere. Ma anche: come cristiani in Iraq non ci arrenderemo mai. Io sono un sacerdote caldeo, so che la mia missione è a rischio della vita. Ma sono chiamato a prendermi cura del mio popolo. E sarò dove sarà la mia gente.

Che cosa ha imparato in questi anni così difficili?
Dopo il mio rapimento, nove anni fa, non ricordo di aver dormito più di due ore a notte senza incubi. Ancora oggi non vado a letto senza una bottiglia vicino, perché mi hanno tolto l’acqua per quattro giorni. Eppure io credo che la Grazia di Dio non si trasferisca da persona a persona o da generazione a generazione senza il perdono. Altrimenti trasmetteremo l’odio e il nostro sentimento di vendetta.
Sembra quasi impossibile sentirlo dire da chi ha sofferto così tanto.

Non sono un eroe. Sono semplicemente un cristiano. Il mio compito è prendermi cura della comunità, della nostra Chiesa. E poi, se vai a vedere, nella storia della Chiesa i periodi d’oro sono stati durante le persecuzioni. E stato in quei momenti che, in modo particolare, i cristiani hanno mostrato al mondo il volto di Gesù.
Qual è l’episodio che l’ha colpita di più in questi mesi?
Un uomo di Mosul mi ha raccontato che quando l’Isis è arrivata in città, il suo vicino musulmano è andato a bussargli alla porta dicendogli: «Te ne devi andare e io prenderò la tua casa. Se non lo farò io lo farà qual-cun altro. Se ti rivedo domani, ti ucciderò». L’uomo si prepara per partire, fa i bagagli, carica in auto la fami-glia. Ma prima va alla porta del vicino e bussa. «Non ti avevo detto che ti avrei ucciso?». E il cristiano: «È trent’anni che siamo vicini di casa, non volevo andar-mene senza salutare». Il musulmano si mette a pian-gere: «No, resta. Ti proteggerò io». E l’altro: «No, era-vamo vicini. Ora non lo siamo più. La fiducia si è rotta».
Oggi viene lanciato l’allarme per la possibile scomparsa dei cristiani in Medioriente.
A chi si lamenta per questo rispondo: noi non apparteniamo a questa terra, noi apparteniamo a Gesù. Solo se avremo coscienza di questa appartenenza potremo testimoniare qualche cosa ed essere utili al nostro Paese. Ma oggi siamo di fronte a un dilemma.
Quale?
La gente rischia la vita e se vuoi salvarla devi farla fuggire, ma così la comunità cristiana scompare. D’altra parte se vuoi che resti la comunità, si rischia che a scomparire sia il popolo, perché massacrato. Io dico: perché lasciare le pecore in mezzo ai lupi? Qualcuno dice: «Resteremo fino all’ultima goccia di sangue». Ma dai, il futuro si costruisce trasmettendo ai nostri figli l’amore, la grazia e il perdono. Non con questi discorsi.
E quindi?
Io, come dicevo, starò con il popolo. Qui o altrove. Nel frattempo mi occupo dei più piccoli. Sono loro il futuro. La nostra “vendetta” sarà crescere questi bambini in modo onesto, educandoli alla fede, a una mentalità aperta. Altrimenti il prossimo Isis saremo noi cristiani a crearlo...
Come in questi anni è cambiato il suo rapporto con Gesù?
Non sono un angelo. Ho fatto molti errori nella vita e ne sono ancora dispiaciuto. Eppure, se mi guardo, vedo che sono ancora vivo. E mi dico che posso ancora essere utile, posso fare del bene. Il messaggero non è importante, quel che conta è il messaggio. Se Gesù continua a usarmi per diffondere il Vangelo, potrò beneficiarne anche io.
Che cosa può fare oggi l’Europa per aiutarvi?
Noi non stiamo morendo a causa della mancanza di cibo o medicine. Noi siamo preoccupati per il nostro futuro. Non ne faccio un problema di terra, o di presenza in Medioriente. Io penso alle persone, ai cristiani iracheni che soffrono in Libano. Giordania e Turchia. Aprite loro le vostre porte. Lasciate che arrivino salvi. E accoglieteli.
di Luca Fiore, “Tracce”, maggio 2015

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