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sabato 14 novembre 2015

Bauman, la speranza della Buona notizia

Bauman, la speranza della Buona notizia
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LORENZO FAZZINI



Zygmunt Bauman fa 90 (anni). Il 19 novembre prossimo il sociologo polacco, trapiantato in Gran Bretagna (nel 1971 l’Università di Leeds lo arruolò come docente dopo che nella Polonia comunista gli venne impedito di insegnare perché ebreo), compirà 90 primavere (i nostri auguri!). E non smette di osservare la società contemporanea e di denunciarne derive e storture. In questa intervista, rilancia la sua ammirazione per papa Francesco, svela una sua passione giovanile per la figura di Cristo e consegna ai giovani il testimone per costruire un mondo più giusto ed equo. I

l suo 90° compleanno ci ricorda che lei è una sorta di “secolo breve” incarnato: la sua vita (è nato nel 1925) ci richiama (quasi) quel 1915-1989 dipinto da Eric Hobsbawm. Lei ha vissuto le grandi tragedie del Novecento: nazismo, Shoah, Hiroshima, comunismo. Questi eventi le hanno fatto perdere l’ottimismo verso il genere
umano?
«Finché vivo spero: questa è la massima che ho imparato da piccolo. E ancora credo, alla fine di questo mio “secolo breve”, che finché spero vivo. Ma ammetto che comunque in questo secolo siamo riusciti a lasciarci alle spalle molti tipi di miseria umana, ma molti altri misfatti e catastrofi, se non più, e non meno, tossici, minacciosi e creati dall’uomo li hanno rimpiazzati, come le leggendarie teste dell’idra che rinascevano subito dopo che ne veniva tagliata una. Non nego che avrei preferito finire la mia vita in un mondo meno oscuro e meno ostile verso gli esseri umani rispetto a quello in cui vivo e, penso, morirò».

Quindi ne deduco che lei non sia ottimista per il futuro... «Nonostante sia un pessimista a breve termine, rimango ottimista sul lungo periodo. Quando si tratta di lottare per un mondo più luminoso e più amichevole, la frustrazione per quanto si ama e si spera non è un motivo per abbandonare questo impegno. Ed essa – come mi ha insegnato la vita – rimane impotente nel far vincere la rassegnazione fino a quando noi volontariamente non lo permettiamo».


Da uno dei suoi testi di riferimento, Il disagio della postmodernità( Bruno Mondadori), pubblicato nel 2000, prendo una frase che papa Francesco ricorda in continuazione: «La famigerata globalizzazione dell’economia e della finanza presenta un ulteriore aspetto, che potremmo definire “globalizzazione della miseria”». Nello stesso libro denunciava che, caduto il Muro di Berlino, ne era sorto un altro, il muro del Mercato. Perché la solidarietà e la giustizia non sono ancora riuscite a scalzare egoismo e inequità?«Il mercato consumistico – conosciuto per essere capace di addomesticare e sollecitare la cupidigia umana – e il tipo di vita umana che esso promette, una vita basata sull’esplicita o implicita promessa che tutte le strade per la felicità umana portano alla fin fine in un negozio a fare acquisti – ha causato la veloce crescita dell’ineguaglianza sociale, moltiplicando e approfondendo le divisioni tra gli uomini come un suo specifico, e forse inseparabile, effetto collaterale. La globalizzazione, nella forma assunta fin qui, significa anzitutto la diffusione di tali effetti in tutto il mondo. In questo senso essa era, e rimane, “globalizzazione della miseria”. Il compito di riformarla in una globalizzazione della dignità umana, della moralità e della felicità, spetta ai più giovani per essere realizzato».


Un suo recente libro, edito da Laterza, con il teologo polacco Stanislaw Obirek si intitola Conversazioni su Dio e l’uomo. Oggi assistiamo, a livello globale, a una recrudescenza dello scontro intra-islamico tra sciiti e sunniti: la nascita del sedicente Stato islamico è visto da diversi osservatori come un sintomo di tale lotta intra-islamico. In che modo il pensiero laico può aiutare l’islam a riconciliare la religione con la modernità?
«Non è in gioco la riconciliazione della religione con la modernità. Nessuna religione che io conosco è stata o è negligente nel dispiegare i prodotti più alla moda della modernità al servizio di quello che lei crede sia l’unica fede e nello sconfiggere chi lei considera eretici o pagani. Quel che è in gioco qui è qualcosa in più: la separazione della fede – ereditata o scelta – dai diritti umani; la relazione tra Dio e l’uomo come una questione di coscienza personale; il diritto universale di servire Dio in diversi modi, e il mutuo rispetto per queste modalità; l’essere di Dio come un Dio dell’umanità, non un Dio di tribù reciprocamente nemiche e antagoniste. In poche parole: un Dio di unità, non di divisione tra gli uomini; un Dio di amore, e non di odio».


Il suo recente apprezzamento per la figura e le parole di papa Francesco hanno trovato vasta eco in Italia. Cosa vorrebbe chiedere o di cosa vorrebbe parlare con il pontefice se lo potesse incontrare di persona?
«Papa Francesco non ha bisogno delle mie domande. Ogni giorno egli se ne esce con risposte a domande che io sto ancora cercando, e con successo a metà, di articolare. In un altro dialogo con Stanislaw Obirek ( On the World and Ourselves, Polity 2015), il mio interlocutore ha spiegato così il saggio richiamo degli appelli di Jorge Mario Bergoglio: il papa dimostra “una certa empatia per l’umana fragilità e il peccato, e ancora di più, Francesco non eleva se stesso sopra di noi ma sta al nostro fianco”. Poco prima del settembre 1939, ovvero l’inizio della seconda guerra mondiale, lessi il libro di Emil Ludwig Figlio dell’Uomo. La storia di un profeta. Un racconto che mi impressionò moltissimo e sul quale mi ricordo di aver rimuginato per varie settimane, durante il mio viaggio attraverso la Polonia in fiamme e insanguinata. Ludwig, come ho sottolineato commentando la suggestione sopracitata di Obirek, assegnava all’eroe di questo racconto un dono che “ha spinto pescatori, artigiani, piccoli commercianti a riempire le case di preghiera per ascoltarlo quando arrivava da Nazareth. Le persone si accalcavano intorno a lui perché questo nazareno non portava loro un’altra litania di prescrizioni o normative, né prometteva tormenti infernali ai disobbedienti, ma annunciava la Buona notizia: egli portava la speranza”».

Cosa accomuna dunque quel libro letto 70 anni fa e il papa attuale?
«L’eroe del racconto di Ludwig portava un nuovo modo di essere ascoltato. Io sento che è questa l’impressione che i discorsi di papa Francesco trasmettono, sebbene si focalizzino sulle radici terrene del male e della miseria umana nel nostro mondo».
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