Dorothy Day e il Catholic Worker Movement,
quella testimonianza in tempi di crisi
In Italia si riedita il “classico” di William D. Miller e negli Usa tiene banco la biografia “intima” scritta dalla nipote Kate Hennessy
È una storia un po’ speciale: di radicalismo e di fede, di anticonformismo e di amore. E un po’ speciale è stata anche la vita inquieta di questa giornalista americana impegnata nei movimenti sociali, amica di anarchici, socialisti e letterati bohémien. I Clarettiani nel 1983 ne proposero la beatificazione a Giovanni Paolo II, e nel 2000, dopo il “nulla osta” vaticano alla richiesta del cardinale John O’Connor, l’arcidiocesi di New York aprì la causa. Più recentemente, il 24 settembre 2015, nel suo viaggio negli Usa, Papa Francesco, parlando a Washington nella sede del Congresso, l’ha citata – unica donna insieme ad Abraham Lincoln, Martin Luther King e Thomas Merton - tra le figure che
«hanno dato forma a valori fondamentali e resteranno per sempre nello spirito del popolo americano». E l’anno scorso, in aprile, il cardinale Timothy Michael Dolan ha aperto l’inchiesta canonica per la raccolta di testimonianze decisive a determinare l'esistenza delle necessarie “virtù eroiche” da presentare alla Congregazione delle cause dei santi. Parliamo di Dorothy Day nata nel 1897 non lontano dal ponte di Brooklyn .
«A quindici anni sentivo già che Dio desiderava la felicità dell’uomo, provvedendo ai suoi bisogni perché fosse felice, e che non ci doveva essere tanta povertà e miseria attorno, così come io vedevo e di cui ogni giorno leggevo sui giornali», scriverà nella sua autobiografia (tradotta in Italia da Jaca Book nel 2002 con il titolo “Una lunga solitudine”). Insoddisfatta dell’università, Dorothy abbandona gli studi e si fa assumere come cronista da un piccolo e combattivo quotidiano socialista “The Call”. E quando la Grande Guerra comincia a far scorrere il sangue in Europa, matura un impegno pacifista durato tutta la vita, insieme a quello per la difesa dei diritti civili e dei diritti delle donne.
Nel 1917, arrestata in una manifestazione di femministe conosce per breve tempo l’esperienza del carcere. Non sarà la prima volta. Esce e lavora al King’s County Hospital seguendo i corsi di infermiera. S’innamora di Lionel Moise e con lui mette su casa. Poi, rimasta incinta, si ritrova senza l’appoggio del compagno e si convince di non avere altra via di scampo che abortire clandestinamente. Un trauma cui reagisce sposando nel 1920 il ricco Barkeley Tobey, più anziano di lei, con il quale si reca in Europa, visitando l’Inghilterra, la Francia, restando sei mesi a Capri e lì abbozzando una sua autobiografia romanzata: L’undicesima vergine, pubblicata al suo ritorno in America e più tardi sconfessata. Il matrimonio con Tobey si scioglie già l’anno dopo. Nel frattempo in Dorothy cresce sempre più il desiderio di avere un figlio e, insieme, la paura di non poterlo avere dopo l’aborto.
Dopo essersi trasferita a Staten Island, l’isola sede di una colonia di intellettuali, artisti ed anarchici, conosce Forster Batterham, con il quale va a convivere sperimentando quella che definirà una sorta di «felicità naturale». Prova un senso di riconoscenza verso Dio e curiosità verso la vita religiosa. Resta incinta e nel 1926 ha una bimba che chiama Tamar. Un successivo incontro con Aloysia Mary Mulhern, delle “Sisters of Charity” di New York con cui s’intrattiene sempre più su temi religiosi, la portano prima al battesimo della piccola (nonostante l’opposizione di Forster), poi al suo, nella Chiesa cattolica di Totteneville (sotto condizione, poiché era già battezzata nell’infanzia nella Chiesa episcopale). Ben presto la convivenza fra Dorothy e Forster diventa insopportabile: nessuno dei due cambia le proprie idee pur amando l’altro.
La relazione non si ricompone. La solitudine di Dorothy da quel momento sarà definitiva: e tuttavia presto colmata dal suo donarsi agli altri. Soprattutto ai senza lavoro e senza casa, a quell’umanità vulnerabile che la crisi economica del 1929 e la Grande Depressione seguita hanno fatto aumentare a dismisura. Ecco Dorothy, il 30 novembre 1932 a fianco dei disoccupati della “marcia della fame”. Eccola dopo la manifestazione pregare e cercare nuove strade per dare pienezza ai suoi progetti. Ed eccola, al suo ritorno a New York, all’incontro decisivo con Peter Maurin, vagabondo e intellettuale, con le sue idee marcate da un cristianesimo radicale, di impronta personalista.
Con lui Dorothy vara, il primo maggio del ’33, il Catholic Worker (“Il Lavoratore Cattolico”, nome voluto da lei, mentre Maurin preferiva “Il Lavoratore Radicale”, ma per via delle «radici» e del suo «sogno contadino»), che in due anni passa da 2.500 a 150.000 copie. Peter Maurin il vero fondatore di tutto il progetto del Catholic Worker (sarà la Day a dire: «Io non avrei mai avuto l'idea di un lavoro simile se non fosse stato per lui»; «sì, lui fu un leader, un maestro, un fondatore…») per anni avrà una grande influenza su Dorothy.
«Culto, cultura e coltivazione» questo il suo ideale di vita individuale e collettiva, di rivoluzione delle coscienze e di rivoluzione sociale. Il suo programma comprendeva diversi livelli di intervento. Due innanzitutto: la chiarificazione del pensiero con la stampa, la creazione di case di ospitalità e di comuni agricole, come ha bene sintetizzato Roberta Fossati aprendo la sua antologia “Dorothy Day, Fede e radicalismo sociale” (edita da La Scuola), aggiungendo che nella seconda metà degli anni '30 il Catholic Worker era già, di fatto, un movimento nazionale, con comunità in tutto il Paese, che talora erano pure centri di vita intellettuale dove si affacciavano conferenzieri come Jacques Maritain, che ne condivideva la posizione negli anni di guerra, pagata a caro prezzo con la perdita di molti sostenitori.
Poi il conflitto bellico mondiale finisce. Ma Dorothy non può esultare pensando alle bombe su Hiroshima e Nagasaki. E poi ci sono aspetti più privati da registrare. Negli anni di guerra Dorothy attraversa momenti delicati per la sua vita: nel '44 sua figlia Tamar, cresciuta in comunità, si sposa a soli 18 anni con un giovane volontario, David Hennessy; nel 1949 viene a mancare Peter Maurin artefice con lei del Catholic Workerche - sarà bene ribadirlo - non voleva, per così dire, limitato al servizio ai poveri ma capace di sfida verso le strutture causa di tante disuguaglianze. Proprio in questi giorni Jaca Book manda in libreria una nuova edizione del libro di William D. Miller “Dorothy Day e il Catholic Worker Movement” con un testo introduttivo di Robert Ellsberg. E vale la pena riprendere queste pagine che ne disegnano l’avvincente evoluzione parallelamente all’impegno pacifista, via via declinato su diversi fronti.
Dalla Seconda Guerra mondiale all'alba dell'era nucleare, dalla crisi di Cuba alla guerra del Vietnam. Si impara così a intravedere in Dorothy Day una sorta di «coscienza radicale» della Chiesa cattolica americana di allora. Certo il libro di Miller termina con il ‘71, quando Dorothy ha 73 anni e ci sono tutti i motivi per ritenere che gli anni migliori del Catholic Worker siano ormai passati. A non passare invece è quella sorta di dimensione mistica nella costante relazione con Cristo e il Trascendente che ha accompagnato in lei la dimensione della carità e l’impegno per il sottoproletariato americano, come ha cercato di far capire Jim Forest nella biografia edita in Italia nel 2011 e nata dalla collaborazione editoriale tra la Libreria Editrice Vaticana e la Jaca Book.
Tuttavia, c’è altro su cui fermarci. Nell’estate del ‘73, a settantacinque anni, la “nostra” ha ancora la forza di partecipare ad una manifestazione vietata a Fresno e quel momento viene fissato da una fotografia che la ritrae seduta su uno sgabello pieghevole mentre discute con i poliziotti armati. Tutto finisce con un suo arresto insieme a centocinquanta manifestanti tra cui suore e preti. Va pure sottolineato che Dorothy Day quando la rivolta sociale e culturale sfociò nel Sessantotto non si trovò a suo agio nelle nuove forme di comportamento collettivo, permissive e libertarie, anche in campo sessuale. Vi ritrovava quel disordine sperimentato sulla sua persona negli anni '20, fonte di desolazione interiore. Andrebbero rammentati anche i viaggi della Day: in Australia, in India, in Tanzania, in Unione Sovietica. Ma restando al Catholic Worker va segnalato il suo “congedo” da ruoli attivi nel movimento nel ’75.
La sua ultima conferenza fu nell’agosto 1976, al Congresso Eucaristico di Filadelfia. Invitata insieme a Madre Teresa di Calcutta in quella sede parlò sul tema “La penitenza precede l’Eucaristia:” Si spense a 83 anni il 29 novembre 1980. Aveva scritto in una nota autobiografica: «Quando morirò spero che la gente dirà che ho cercato di far memoria di ciò che Gesù ci ha raccontato - le sue storie meravigliose - e ho cercato di vivere secondo il Suo esempio e seguendo anche la saggezza di scrittori e artisti come Dickens, Dostoevskij e Tolstoj, che vissero pensando sempre a Gesù». Fu sepolta a Staten Island. Ed era presente anche Forster Batterham, che non l’aveva mai dimenticata. Proprio così. E, per la prima volta si coglie anche il suo profilo, si afferrano anche i contorni della relazione avuta con lui – padre di sua figlia, poi amico e sempre sostenitore - come pure viene recuperata la storia un po’ rimossa della figlia di Dorothy, Tamar, insieme a quella di tanti altre persone nella cerchia della Day.
Accade nella biografia di cui si parla da settimane negli States, opera di sua nipote Kate Hennessy “The World Will Be Saved by Beauty: An Intimate Portrait of My Grandmother”. Da poco in libreria con i tipi di Simon and Schuster, si articola in quattro capitoli dai titoli convincenti: il mistero della Grazia, dell’Amore, della Libertà, l’arte della relazione umana. Un lavoro utile se, come afferma l’autrice, per capire Dorothy, serve vederla anche come madre e come nonna. Hennessy racconta che, aperti i diari di sua nonna - alcuni anni dopo la morte - resistette per un bel po’ all’idea di pubblicarli. Resistenza superata solo grazie alla persona che li ha trascritti, il già ricordato Robert Ellsberg. La famiglia e la stessa Tamar si resero conto che la loro resistenza si basava sul fatto che quei diari - pubblicati nel 2008 - andavano scavati e letti anche negli spazi bianchi lasciati, nelle lacune riguardanti familiari e amici.
Ecco il senso di questo ripristino che passa attraverso un approccio personale alla figura già scandagliata da storici, teologi, accademici…, e concede spazio alla rete della famiglia, alla complessa relazione madre-figlia tra Dorothy e Tamar e agli altri fondatori del Catholic Worker: Peter Maurin, ma pure il lituano Stanley Vishnewski, la rifugiata di origini belghe Ade Bethune (il vero cognome era de Bethune)… Pagine dove si alternano episodi commoventi, si valorizzano - con i diari - la corrispondenza, la ricca letteratura esistente, le molte interviste e anni di ricordi da riordinare, da decifrare, tra parole e gesti, sentimenti e fatti. Dimenticatevi le agiografie, certe iperboli stucchevoli, le esagerazioni che portano lontano dalla realtà. Vi troverete una donna in carne e ossa, più che un’icona da venerare sugli altari. Una donna di fede che, come dimostrano queste pagine, non fu proprio una fede esente da dubbi. Ciò di cui non dubitò mai Dorothy fu invece il fatto di una fede che tutti chiama all’ospitalità, alla non violenza, al servizio ai poveri. C’è ancora questo nelle pagine de “Il mondo sarà salvato dalla bellezza. Ritratto intimo di mia nonna”, scritta dalla più giovane nipote della Day che oggi vive tra l’Irlanda e il Vermont.
Tra le figure più significative del cattolicesimo americano del XX secolo, presenza costante a fianco degli ultimi in uno spirito di limpida fedeltà al Vangelo, la Day -qualsiasi approccio si usi per avvicinarla - resta un esempio in un mondo in cui la divisione fra ricchi e poveri non solo è rimasta come quando la denunciava, ma ha pure raggiunto sproporzioni ancora più folli. E in un mondo non solo ancor dilaniato da guerre, ma che si fanno sempre più con pretesti religiosi, persino in nome di Dio. «Invariati sono rimasti», in ogni caso, «gli imperativi del Discorso della Montagna, la visione del regno di Dio, e l’ideale dei direttori del Catholic Worker di creare una società in cui sarà più facile essere buoni», ricorda l’editore statunitense Robert Ellsberg nel volume “Dorothy Day e il Catholic Worker Movement”.
Un ideale, che nonostante tutto, resta attuale e sempre bisognoso di risposte. Cioè di «opere di misericordia come della forma più diretta di azione». Non a caso sulla tomba di Dorothy, è raffigurato un cesto di pane con dei pesci. Non a caso è accompagnato dalla scritta «Deo gratias».
«hanno dato forma a valori fondamentali e resteranno per sempre nello spirito del popolo americano». E l’anno scorso, in aprile, il cardinale Timothy Michael Dolan ha aperto l’inchiesta canonica per la raccolta di testimonianze decisive a determinare l'esistenza delle necessarie “virtù eroiche” da presentare alla Congregazione delle cause dei santi. Parliamo di Dorothy Day nata nel 1897 non lontano dal ponte di Brooklyn .
«A quindici anni sentivo già che Dio desiderava la felicità dell’uomo, provvedendo ai suoi bisogni perché fosse felice, e che non ci doveva essere tanta povertà e miseria attorno, così come io vedevo e di cui ogni giorno leggevo sui giornali», scriverà nella sua autobiografia (tradotta in Italia da Jaca Book nel 2002 con il titolo “Una lunga solitudine”). Insoddisfatta dell’università, Dorothy abbandona gli studi e si fa assumere come cronista da un piccolo e combattivo quotidiano socialista “The Call”. E quando la Grande Guerra comincia a far scorrere il sangue in Europa, matura un impegno pacifista durato tutta la vita, insieme a quello per la difesa dei diritti civili e dei diritti delle donne.
Nel 1917, arrestata in una manifestazione di femministe conosce per breve tempo l’esperienza del carcere. Non sarà la prima volta. Esce e lavora al King’s County Hospital seguendo i corsi di infermiera. S’innamora di Lionel Moise e con lui mette su casa. Poi, rimasta incinta, si ritrova senza l’appoggio del compagno e si convince di non avere altra via di scampo che abortire clandestinamente. Un trauma cui reagisce sposando nel 1920 il ricco Barkeley Tobey, più anziano di lei, con il quale si reca in Europa, visitando l’Inghilterra, la Francia, restando sei mesi a Capri e lì abbozzando una sua autobiografia romanzata: L’undicesima vergine, pubblicata al suo ritorno in America e più tardi sconfessata. Il matrimonio con Tobey si scioglie già l’anno dopo. Nel frattempo in Dorothy cresce sempre più il desiderio di avere un figlio e, insieme, la paura di non poterlo avere dopo l’aborto.
Dopo essersi trasferita a Staten Island, l’isola sede di una colonia di intellettuali, artisti ed anarchici, conosce Forster Batterham, con il quale va a convivere sperimentando quella che definirà una sorta di «felicità naturale». Prova un senso di riconoscenza verso Dio e curiosità verso la vita religiosa. Resta incinta e nel 1926 ha una bimba che chiama Tamar. Un successivo incontro con Aloysia Mary Mulhern, delle “Sisters of Charity” di New York con cui s’intrattiene sempre più su temi religiosi, la portano prima al battesimo della piccola (nonostante l’opposizione di Forster), poi al suo, nella Chiesa cattolica di Totteneville (sotto condizione, poiché era già battezzata nell’infanzia nella Chiesa episcopale). Ben presto la convivenza fra Dorothy e Forster diventa insopportabile: nessuno dei due cambia le proprie idee pur amando l’altro.
La relazione non si ricompone. La solitudine di Dorothy da quel momento sarà definitiva: e tuttavia presto colmata dal suo donarsi agli altri. Soprattutto ai senza lavoro e senza casa, a quell’umanità vulnerabile che la crisi economica del 1929 e la Grande Depressione seguita hanno fatto aumentare a dismisura. Ecco Dorothy, il 30 novembre 1932 a fianco dei disoccupati della “marcia della fame”. Eccola dopo la manifestazione pregare e cercare nuove strade per dare pienezza ai suoi progetti. Ed eccola, al suo ritorno a New York, all’incontro decisivo con Peter Maurin, vagabondo e intellettuale, con le sue idee marcate da un cristianesimo radicale, di impronta personalista.
Con lui Dorothy vara, il primo maggio del ’33, il Catholic Worker (“Il Lavoratore Cattolico”, nome voluto da lei, mentre Maurin preferiva “Il Lavoratore Radicale”, ma per via delle «radici» e del suo «sogno contadino»), che in due anni passa da 2.500 a 150.000 copie. Peter Maurin il vero fondatore di tutto il progetto del Catholic Worker (sarà la Day a dire: «Io non avrei mai avuto l'idea di un lavoro simile se non fosse stato per lui»; «sì, lui fu un leader, un maestro, un fondatore…») per anni avrà una grande influenza su Dorothy.
«Culto, cultura e coltivazione» questo il suo ideale di vita individuale e collettiva, di rivoluzione delle coscienze e di rivoluzione sociale. Il suo programma comprendeva diversi livelli di intervento. Due innanzitutto: la chiarificazione del pensiero con la stampa, la creazione di case di ospitalità e di comuni agricole, come ha bene sintetizzato Roberta Fossati aprendo la sua antologia “Dorothy Day, Fede e radicalismo sociale” (edita da La Scuola), aggiungendo che nella seconda metà degli anni '30 il Catholic Worker era già, di fatto, un movimento nazionale, con comunità in tutto il Paese, che talora erano pure centri di vita intellettuale dove si affacciavano conferenzieri come Jacques Maritain, che ne condivideva la posizione negli anni di guerra, pagata a caro prezzo con la perdita di molti sostenitori.
Poi il conflitto bellico mondiale finisce. Ma Dorothy non può esultare pensando alle bombe su Hiroshima e Nagasaki. E poi ci sono aspetti più privati da registrare. Negli anni di guerra Dorothy attraversa momenti delicati per la sua vita: nel '44 sua figlia Tamar, cresciuta in comunità, si sposa a soli 18 anni con un giovane volontario, David Hennessy; nel 1949 viene a mancare Peter Maurin artefice con lei del Catholic Workerche - sarà bene ribadirlo - non voleva, per così dire, limitato al servizio ai poveri ma capace di sfida verso le strutture causa di tante disuguaglianze. Proprio in questi giorni Jaca Book manda in libreria una nuova edizione del libro di William D. Miller “Dorothy Day e il Catholic Worker Movement” con un testo introduttivo di Robert Ellsberg. E vale la pena riprendere queste pagine che ne disegnano l’avvincente evoluzione parallelamente all’impegno pacifista, via via declinato su diversi fronti.
Dalla Seconda Guerra mondiale all'alba dell'era nucleare, dalla crisi di Cuba alla guerra del Vietnam. Si impara così a intravedere in Dorothy Day una sorta di «coscienza radicale» della Chiesa cattolica americana di allora. Certo il libro di Miller termina con il ‘71, quando Dorothy ha 73 anni e ci sono tutti i motivi per ritenere che gli anni migliori del Catholic Worker siano ormai passati. A non passare invece è quella sorta di dimensione mistica nella costante relazione con Cristo e il Trascendente che ha accompagnato in lei la dimensione della carità e l’impegno per il sottoproletariato americano, come ha cercato di far capire Jim Forest nella biografia edita in Italia nel 2011 e nata dalla collaborazione editoriale tra la Libreria Editrice Vaticana e la Jaca Book.
Tuttavia, c’è altro su cui fermarci. Nell’estate del ‘73, a settantacinque anni, la “nostra” ha ancora la forza di partecipare ad una manifestazione vietata a Fresno e quel momento viene fissato da una fotografia che la ritrae seduta su uno sgabello pieghevole mentre discute con i poliziotti armati. Tutto finisce con un suo arresto insieme a centocinquanta manifestanti tra cui suore e preti. Va pure sottolineato che Dorothy Day quando la rivolta sociale e culturale sfociò nel Sessantotto non si trovò a suo agio nelle nuove forme di comportamento collettivo, permissive e libertarie, anche in campo sessuale. Vi ritrovava quel disordine sperimentato sulla sua persona negli anni '20, fonte di desolazione interiore. Andrebbero rammentati anche i viaggi della Day: in Australia, in India, in Tanzania, in Unione Sovietica. Ma restando al Catholic Worker va segnalato il suo “congedo” da ruoli attivi nel movimento nel ’75.
La sua ultima conferenza fu nell’agosto 1976, al Congresso Eucaristico di Filadelfia. Invitata insieme a Madre Teresa di Calcutta in quella sede parlò sul tema “La penitenza precede l’Eucaristia:” Si spense a 83 anni il 29 novembre 1980. Aveva scritto in una nota autobiografica: «Quando morirò spero che la gente dirà che ho cercato di far memoria di ciò che Gesù ci ha raccontato - le sue storie meravigliose - e ho cercato di vivere secondo il Suo esempio e seguendo anche la saggezza di scrittori e artisti come Dickens, Dostoevskij e Tolstoj, che vissero pensando sempre a Gesù». Fu sepolta a Staten Island. Ed era presente anche Forster Batterham, che non l’aveva mai dimenticata. Proprio così. E, per la prima volta si coglie anche il suo profilo, si afferrano anche i contorni della relazione avuta con lui – padre di sua figlia, poi amico e sempre sostenitore - come pure viene recuperata la storia un po’ rimossa della figlia di Dorothy, Tamar, insieme a quella di tanti altre persone nella cerchia della Day.
Accade nella biografia di cui si parla da settimane negli States, opera di sua nipote Kate Hennessy “The World Will Be Saved by Beauty: An Intimate Portrait of My Grandmother”. Da poco in libreria con i tipi di Simon and Schuster, si articola in quattro capitoli dai titoli convincenti: il mistero della Grazia, dell’Amore, della Libertà, l’arte della relazione umana. Un lavoro utile se, come afferma l’autrice, per capire Dorothy, serve vederla anche come madre e come nonna. Hennessy racconta che, aperti i diari di sua nonna - alcuni anni dopo la morte - resistette per un bel po’ all’idea di pubblicarli. Resistenza superata solo grazie alla persona che li ha trascritti, il già ricordato Robert Ellsberg. La famiglia e la stessa Tamar si resero conto che la loro resistenza si basava sul fatto che quei diari - pubblicati nel 2008 - andavano scavati e letti anche negli spazi bianchi lasciati, nelle lacune riguardanti familiari e amici.
Ecco il senso di questo ripristino che passa attraverso un approccio personale alla figura già scandagliata da storici, teologi, accademici…, e concede spazio alla rete della famiglia, alla complessa relazione madre-figlia tra Dorothy e Tamar e agli altri fondatori del Catholic Worker: Peter Maurin, ma pure il lituano Stanley Vishnewski, la rifugiata di origini belghe Ade Bethune (il vero cognome era de Bethune)… Pagine dove si alternano episodi commoventi, si valorizzano - con i diari - la corrispondenza, la ricca letteratura esistente, le molte interviste e anni di ricordi da riordinare, da decifrare, tra parole e gesti, sentimenti e fatti. Dimenticatevi le agiografie, certe iperboli stucchevoli, le esagerazioni che portano lontano dalla realtà. Vi troverete una donna in carne e ossa, più che un’icona da venerare sugli altari. Una donna di fede che, come dimostrano queste pagine, non fu proprio una fede esente da dubbi. Ciò di cui non dubitò mai Dorothy fu invece il fatto di una fede che tutti chiama all’ospitalità, alla non violenza, al servizio ai poveri. C’è ancora questo nelle pagine de “Il mondo sarà salvato dalla bellezza. Ritratto intimo di mia nonna”, scritta dalla più giovane nipote della Day che oggi vive tra l’Irlanda e il Vermont.
Tra le figure più significative del cattolicesimo americano del XX secolo, presenza costante a fianco degli ultimi in uno spirito di limpida fedeltà al Vangelo, la Day -qualsiasi approccio si usi per avvicinarla - resta un esempio in un mondo in cui la divisione fra ricchi e poveri non solo è rimasta come quando la denunciava, ma ha pure raggiunto sproporzioni ancora più folli. E in un mondo non solo ancor dilaniato da guerre, ma che si fanno sempre più con pretesti religiosi, persino in nome di Dio. «Invariati sono rimasti», in ogni caso, «gli imperativi del Discorso della Montagna, la visione del regno di Dio, e l’ideale dei direttori del Catholic Worker di creare una società in cui sarà più facile essere buoni», ricorda l’editore statunitense Robert Ellsberg nel volume “Dorothy Day e il Catholic Worker Movement”.
Un ideale, che nonostante tutto, resta attuale e sempre bisognoso di risposte. Cioè di «opere di misericordia come della forma più diretta di azione». Non a caso sulla tomba di Dorothy, è raffigurato un cesto di pane con dei pesci. Non a caso è accompagnato dalla scritta «Deo gratias».
www.lastampa.it
Dorothy Day è una figura tosta. Ed è anche tosto che il suo nome sia stato fatto da papa Francesco a Washington, uno di quattro nomi ben selezionati: due protestanti e due cattolici; un presidente, due attivisti, un monaco; due maschi bianchi, un nero, una donna. Di lei Francesco ha ricordato l’attivismo sociale ispirato dal vangelo, la passione per la causa degli oppressi – cose importanti, ha detto, in un momento di grandi problemi sociali. Certo Dorothy è stata una persona impegnativa, per tutta la sua vita (1897-1980). E’ stata definita, per chi vuole ascoltarla, la coscienza radicale del cattolicesimo nordamericano.
E’ vero che si è fatto parecchio per farla rientrare, la sua figura, nei ranghi. Per normalizzarla. Dal 2000 è in corso il processo per la sua beatificazione. Potrebbe essere fatta santa, per questo Francesco l’ha chiamata “Serva di Dio” (un termine, come dire, tecnico). Ha ricevuto molti riconoscimenti da istituzioni, associazioni, università cattoliche americane, è stata ed è celebrata da America, la rivista dei gesuiti. E’ indicata come un esempio grande di conversione. E in effetti dalla sua conversione, avvenuta a trent’anni, nel 1927, ha sempre accettato gli insegnamenti e l’autorità della Chiesa.
Dopodiché, nei fatti, nei comportamenti, Dorothy Day ha fatto molto di testa sua. A cominciare da qui: “Non chiamatemi santa, non voglio essere liquidata così facilmente”. E’ una frase a lei attribuita. Ed è una frase che fa dire ai suoi seguaci più fedeli (molti dei quali sono convinti della sua reale santità) che sostenere la sua canonizzazione formale è un po’ come tradirla. Sui santi Dorothy ha idee precise. Così scrive nelle memorie, a proposito dei suoi primi sguardi adolescenziali sulla povertà: “Dov’erano i santi che cercano di cambiare l’ordine sociale, non solo di dare assistenza agli schiavi ma di eliminare la schiavitù?”
La conversione avviene a trent’anni, dopo una giovinezza in cui cerca i santi che cambiano il mondo in altri ambienti, in altre ideologie. E’ anarchica e socialista, i suoi profeti sono i martiri anarchici di Haymarket, il socialista Eugene Debs, la comunista Elisabeth Gurley Flynn, gli Industrial Workers of the World. Lavora per la stampa di sinistra di New York, per The Masses e The Liberator. Fa la vita boheme del Greenwich Village, amante di un comunista e di un giornalista scavezzacollo. Ha un aborto. Un nuovo amante e una vita più serena l’avvicinano alla religione e infine al cattolicesimo.
Non rinnega mai il passato, anzi porta con sé un bagaglio di esperienze, rapporti personali, istinti all’azione che segna il suo lavoro successivo. Dice: “La bottiglia conserva sempre l’odore del liquore che ha contenuto”. Insieme a un emigrato francese, Peter Maurin, scopre e studia la dottrina sociale della Chiesa, e ne fa una pratica. Nel cuore della grande depressione, i due fondano il giornale Catholic Worker e il movimento che ne prende il nome. Lo lanciano il Primo maggio 1933 a Union Square, a Manhattan, dove ancora si festeggia la festa rossa e internazionalista dei lavoratori.
Il giorno e il luogo sono significativi. Segnalano una vicinanza alle tradizioni più radicali del movimento operaio, ma anche una sfida a esse. Il Catholic Worker si contrappone al Daily Worker comunista. Il suo programma si contrappone a quello marxista. Dice Dorothy: “Noi crediamo nella diffusione della proprietà privata, nella de-proletarizzazione del popolo americano. Crediamo che l’individuo debba possedere i mezzi di produzione, la terra e i suoi strumenti. Noi ci opponiamo al capitalismo finanziario così giustamente criticato e condannato da Karl Marx ma crediamo che ci possa essere un capitalismo cristiano così come un comunismo cristiano”.
E poi, oltre le chiacchiere, prima di tutto, c’è l’azione. Nel mezzo secolo successivo il Catholic Worker Movement costruisce case-rifugio per gli homeless e i disoccupati, partecipa alle agitazioni operaie. Sostiene scioperi e boicottaggi, pratica l’azione diretta e la disobbedienza civile. Dorothy finisce sei o sette volte in carcere per questo, con una straordinaria continuità. La prima volta le succede da suffragista nel 1917 (anche se da anarchica sempre, lei personalmente non voterà mai). L’ultima volta nel 1973, quasi ottantenne, insieme a Cesar Chavez e al sindacato dei braccianti agricoli immigrati della California.
Dorothy è una pacifista estrema. Lo è anche nella lotta di classe, dice agli amici comunisti. Ma lo è soprattutto contro tutte le guerre, proprio tutte. Rifiuta di schierarsi sulla guerra di Spagna, facendo arrabbiare la gerarchia cattolica che è franchista. Rifiuta di appoggiare la Seconda guerra mondiale, mentre la gerarchia cattolica è patriottica. Si oppore agli interventi militari in Corea e Vietnam, contro la gerarchia cattolica che le benedice. Negli anni 1960s partecipa alle manifestazioni in cui si bruciano le cartoline precetto dei giovani richiamati alla leva. Rischia grosso quando ha parole di apprezzamento per la resistenza di Ho Chi Min.
In effetti le vecchie simpatie di prima della conversione continuano a operare dentro di lei, a farle assumere atteggiamenti non convenzionali. Di fronte alla rivoluzione cubana, comunista e atea, sembra mettere da parte persino il suo pacifismo. Dice: “Molto meglio ribellarsi violentemente che non fare niente per gli indigenti”. E ancora: “Siamo dalla parte della rivoluzione… Dio benedica Fidel Castro e tutti quelli che vedono Cristo nei poveri. Dio benedica tutti quelli che cercano la fratellanza degli uomini perché amando i loro fratelli amano Dio anche se ne negano l’esistenza”.
Anche Garibaldi benedice, Dorothy. E’ contenta che la Chiesa sia stata costretta a liberarsi del potere temporale, nell’Ottocento: un fatto non voluto dal papa ma certo voluto da Dio, che ha le sue strade misteriose per farci un favore anche quando non lo vogliamo. E Garibaldi ha contribuito a questa liberazione, magari inconsapevolmente. Dice: “ho detto una preghiera per la sua anima e l’ho benedetto per essere stato lo strumento del grande disegno di Dio. Possa Dio usarci in questo modo”. Resta, dice Dorothy, il problema delle ricchezze terrene del papato. Ma anche su questo il Signore troverà il modo di fare il lavoro al posto nostro.
Chi è Dorothy Day, la cattolica americana di cui ha parlato papa Francesco
“I would like to mention four of these Americans: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day and Thomas Merton. … Three sons and a daughter of this land, four individuals and four dreams: Lincoln, liberty; Martin Luther King, liberty in plurality and non-exclusion; Dorothy Day, social justice and the rights of persons; and Thomas Merton, the capacity for dialogue and openness to God.” Discorso di papa Francesco al Congresso degli Stati Uniti, 24 settembre 2015.Dorothy Day è una figura tosta. Ed è anche tosto che il suo nome sia stato fatto da papa Francesco a Washington, uno di quattro nomi ben selezionati: due protestanti e due cattolici; un presidente, due attivisti, un monaco; due maschi bianchi, un nero, una donna. Di lei Francesco ha ricordato l’attivismo sociale ispirato dal vangelo, la passione per la causa degli oppressi – cose importanti, ha detto, in un momento di grandi problemi sociali. Certo Dorothy è stata una persona impegnativa, per tutta la sua vita (1897-1980). E’ stata definita, per chi vuole ascoltarla, la coscienza radicale del cattolicesimo nordamericano.
E’ vero che si è fatto parecchio per farla rientrare, la sua figura, nei ranghi. Per normalizzarla. Dal 2000 è in corso il processo per la sua beatificazione. Potrebbe essere fatta santa, per questo Francesco l’ha chiamata “Serva di Dio” (un termine, come dire, tecnico). Ha ricevuto molti riconoscimenti da istituzioni, associazioni, università cattoliche americane, è stata ed è celebrata da America, la rivista dei gesuiti. E’ indicata come un esempio grande di conversione. E in effetti dalla sua conversione, avvenuta a trent’anni, nel 1927, ha sempre accettato gli insegnamenti e l’autorità della Chiesa.
Dopodiché, nei fatti, nei comportamenti, Dorothy Day ha fatto molto di testa sua. A cominciare da qui: “Non chiamatemi santa, non voglio essere liquidata così facilmente”. E’ una frase a lei attribuita. Ed è una frase che fa dire ai suoi seguaci più fedeli (molti dei quali sono convinti della sua reale santità) che sostenere la sua canonizzazione formale è un po’ come tradirla. Sui santi Dorothy ha idee precise. Così scrive nelle memorie, a proposito dei suoi primi sguardi adolescenziali sulla povertà: “Dov’erano i santi che cercano di cambiare l’ordine sociale, non solo di dare assistenza agli schiavi ma di eliminare la schiavitù?”
La conversione avviene a trent’anni, dopo una giovinezza in cui cerca i santi che cambiano il mondo in altri ambienti, in altre ideologie. E’ anarchica e socialista, i suoi profeti sono i martiri anarchici di Haymarket, il socialista Eugene Debs, la comunista Elisabeth Gurley Flynn, gli Industrial Workers of the World. Lavora per la stampa di sinistra di New York, per The Masses e The Liberator. Fa la vita boheme del Greenwich Village, amante di un comunista e di un giornalista scavezzacollo. Ha un aborto. Un nuovo amante e una vita più serena l’avvicinano alla religione e infine al cattolicesimo.
Non rinnega mai il passato, anzi porta con sé un bagaglio di esperienze, rapporti personali, istinti all’azione che segna il suo lavoro successivo. Dice: “La bottiglia conserva sempre l’odore del liquore che ha contenuto”. Insieme a un emigrato francese, Peter Maurin, scopre e studia la dottrina sociale della Chiesa, e ne fa una pratica. Nel cuore della grande depressione, i due fondano il giornale Catholic Worker e il movimento che ne prende il nome. Lo lanciano il Primo maggio 1933 a Union Square, a Manhattan, dove ancora si festeggia la festa rossa e internazionalista dei lavoratori.
Il giorno e il luogo sono significativi. Segnalano una vicinanza alle tradizioni più radicali del movimento operaio, ma anche una sfida a esse. Il Catholic Worker si contrappone al Daily Worker comunista. Il suo programma si contrappone a quello marxista. Dice Dorothy: “Noi crediamo nella diffusione della proprietà privata, nella de-proletarizzazione del popolo americano. Crediamo che l’individuo debba possedere i mezzi di produzione, la terra e i suoi strumenti. Noi ci opponiamo al capitalismo finanziario così giustamente criticato e condannato da Karl Marx ma crediamo che ci possa essere un capitalismo cristiano così come un comunismo cristiano”.
E poi, oltre le chiacchiere, prima di tutto, c’è l’azione. Nel mezzo secolo successivo il Catholic Worker Movement costruisce case-rifugio per gli homeless e i disoccupati, partecipa alle agitazioni operaie. Sostiene scioperi e boicottaggi, pratica l’azione diretta e la disobbedienza civile. Dorothy finisce sei o sette volte in carcere per questo, con una straordinaria continuità. La prima volta le succede da suffragista nel 1917 (anche se da anarchica sempre, lei personalmente non voterà mai). L’ultima volta nel 1973, quasi ottantenne, insieme a Cesar Chavez e al sindacato dei braccianti agricoli immigrati della California.
Dorothy è una pacifista estrema. Lo è anche nella lotta di classe, dice agli amici comunisti. Ma lo è soprattutto contro tutte le guerre, proprio tutte. Rifiuta di schierarsi sulla guerra di Spagna, facendo arrabbiare la gerarchia cattolica che è franchista. Rifiuta di appoggiare la Seconda guerra mondiale, mentre la gerarchia cattolica è patriottica. Si oppore agli interventi militari in Corea e Vietnam, contro la gerarchia cattolica che le benedice. Negli anni 1960s partecipa alle manifestazioni in cui si bruciano le cartoline precetto dei giovani richiamati alla leva. Rischia grosso quando ha parole di apprezzamento per la resistenza di Ho Chi Min.
In effetti le vecchie simpatie di prima della conversione continuano a operare dentro di lei, a farle assumere atteggiamenti non convenzionali. Di fronte alla rivoluzione cubana, comunista e atea, sembra mettere da parte persino il suo pacifismo. Dice: “Molto meglio ribellarsi violentemente che non fare niente per gli indigenti”. E ancora: “Siamo dalla parte della rivoluzione… Dio benedica Fidel Castro e tutti quelli che vedono Cristo nei poveri. Dio benedica tutti quelli che cercano la fratellanza degli uomini perché amando i loro fratelli amano Dio anche se ne negano l’esistenza”.
Anche Garibaldi benedice, Dorothy. E’ contenta che la Chiesa sia stata costretta a liberarsi del potere temporale, nell’Ottocento: un fatto non voluto dal papa ma certo voluto da Dio, che ha le sue strade misteriose per farci un favore anche quando non lo vogliamo. E Garibaldi ha contribuito a questa liberazione, magari inconsapevolmente. Dice: “ho detto una preghiera per la sua anima e l’ho benedetto per essere stato lo strumento del grande disegno di Dio. Possa Dio usarci in questo modo”. Resta, dice Dorothy, il problema delle ricchezze terrene del papato. Ma anche su questo il Signore troverà il modo di fare il lavoro al posto nostro.
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