Intervista dell'ANAPS a Harry Wu, reduce dai campi di concentramento cinesi
Abbiamo incontrato Harry Wu in un suo passaggio per Milano, ed ha accettato volentieri che lo intervistassimo e lo fotografassimo. L'Anaps, pur rivolgendosi primariamente al mondo della scuola, si è sempre dimostrata sensibile verso le tematiche relative alla libertà e talvolta ha anche organizzato importanti convegni come quello con Magdi Allam relativo alla persecuzione dei cristiani nel mondo. Ed anche Harry Wu è stato un perseguitato nel nome della libertà ed è finito per quasi vent'anni in un Laogai, uno di quei terribili campi di concentramento cinesi dove non si hanno più diritti e si è condannati ai lavori forzati, sotto torture fisiche e psicologiche, ridotti a macchine per la lavorazione di prodotti a basso costo, o, talvolta, a banche d'organi per facoltosi uomini d'affari.
Harry Wu, come è finito in un Laogai?
Nell'aprile 1960 le autorità del Partito Comunista Cinese mi hanno arrestato e mi hanno gettato in un campo di lavori forzati senza nemmeno un processo. A quel tempo ero uno studente universitario di geologia, figlio di un banchiere di Shangai. Là ho trascorso 19 anni, costretto ai lavori forzati come milioni di uomini e donne ancora oggi prigionieri. Fui rilasciato solo nel 1979, ma rimasi in Cina fino al 1985, anno in cui riuscii a raggiungere gli Stati Uniti, dove tuttora vivo. In Occidente mi sono però accorto che quasi nessuno sa nulla della tragica realtà che io ho sperimentato. E' successo per i Laogai quello che era già successo per i Gulag sovietici, tenacemente occultati per anni dall'informazione mediatica.
Quanti sono i campi di concentramento in Cina?
In Cina esistono più di mille Laogai, ciascuno con diverse migliaia di prigionieri; si tratta perciò di milioni di individui, uomini e donne. E' difficile però stabilire il numero esatto dei detenuti perché il governo cinese non ama sbandierare questa realtà, soprattutto ora che la Cina reclama una sua forte posizione emergente nel mondo e nei rapporti economici internazionali. E' incredibile che il grande sviluppo della Cina possa convivere ancora con la tragica realtà dei Laogai quali strumento di repressione e di controllo delle idee. In Italia esiste una sede della Laogai Research Foundation che può fornire dati e cifre impressionanti a chiunque sia interessato.
Come avvenne il suo arresto?
In realtà, quando presi coscienza di cosa realmente fosse il regime comunista, e di quale fosse la sua storia con 40-50 milioni di morti alle spalle, avevo deciso di scappare. Non potevo tollerare l'indottrinamento totalitario del regime e l'assoluta mancanza di libertà. Avevo anche cominciato ad esternare le mie idee a qualcuno e allora fui espulso dalla scuola con l'accusa di essermi “rifiutato di diventare un bravo studente socialista” e di aver “scelto di restare un nemico della rivoluzione”. Contemporaneamente mi si presentò un funzionario della Pubblica Sicurezza in alta uniforme e con le mostrine rosse che disse: “Condanno l'elemento Wu Hongda alla rieducazione attraverso il lavoro”.
Come reagì?
Pretesi di conoscere esattamente le accuse a mio carico ma mi si chiedeva di firmare l'arresto e basta. Mi rifiutai. Mi fu risposto: “Il governo del popolo ti ha messo agli arresti; che tu firmi o meno non ha importanza”. Nessuno mi difese. Fui afferrato per le braccia e portato via. Mi fu tolto tutto e mi presero le impronte. Alla stazione di polizia mi sentivo umiliato a ritrovarmi accanto dei criminali comuni. All'interno del centro di detenzione vidi più di un migliaio di detenuti costretti a stare seduti per terra in cerchi di trenta persone, mentre gli istruttori politici camminavano avanti e indietro leggendo a voce alta il giornale di stato. Un kapò (detenuto in corso di “riabilitazione”) mi ordinò di unirmi a uno dei gruppi senza nemmeno preoccuparsi che ero a digiuno da 24 ore. Alla sera ci si ritirò nelle baracche a dormire, ma a mezzanotte un kapò irruppe urlando, ordinandomi di presentarmi per l'interrogatorio.
Che cosa successe?
Fui portato in una stanza dove vidi un corpo appeso alle travi e un altro accasciato per terra, e mi si si gridò: “Ecco cosa succede a quelli che si oppongono all'autorità del Partito”. Confessa pienamente e ti verrà data la possibilità di rieducarti. Capii che iniziava per me un lungo incubo. E non c'è qui lo spazio per raccontare tutte le torture fisiche e psicologiche che subii, le percosse, i digiuni forzati, le malattie, i pidocchi, la dissenteria, le umiliazioni. Ma la cosa più tremenda non era la paura, bensì la solitudine più totale. In un carcere uno si fa forza stringendo amicizia coi compagni di detenzione, costruendo una solidarietà reciproca. Lì era impossibile, perché eravamo messi uno contro l'altro: ognuno doveva essere spia dell'altro. Questo permetteva alle autorità del Laogai non solo di essere sempre a conoscenza di tutto, ma di dividerci per governarci meglio.
Come trascorreva una giornata nel Laogai?
Al mattino presto venivano portati dei secchi di acqua sporca per bagnarci un po' la faccia. Dopodiché si era subito assegnati alle catene di lavoro, spesso in base alle proprie competenze. Io ero stato studente di geologia, ma questo si traduceva in realtà con mansioni ben più raccapriccianti, come salire sul carretto con cui i cadaveri dei detenuti morti il giorno prima venivano portati alle fosse comuni in cui venivano buttati, e bisognava ricoprirli di terra. Non potrei fare un conto di tutte le fosse e di tutti i cadaveri che vidi. Molti morivano semplicemente per la fame, ed approfittavano delle uscite all'aperto per strappare coi denti ciuffi di erba selvatica. Era amara e ci procurava la dissenteria, ma ci esercitavamo a contrarre i muscoli della pancia per trattenere il più a lungo possibile quel poco di cibo. Se lo espellevi eri perduto, e molti morivano nelle latrine.
Nessuno tentava di fuggire?
Era praticamente impossibile. Anche perché ognuno veniva accuratamente interrogato sugli atteggiamenti dei suoi compagni. L'unica speranza di poter essere un giorno liberati si basava nel manifestarsi ravveduti e rieducati all'ideologia della lotta di classe. Per dimostrarlo ognuno doveva denunciare a voce alta i difetti dei propri compagni, accusando quanto gli sembrava d'ostacolo al loro percorso di riabilitazione. Più che le guardie, numerose ma relativamente inferiori al numero dei detenuti, tutto era sotto il controllo dei kapò, che avevano già anni di detenzione alle spalle, e bramavano di dimostrarsi fedeli al regime per poter essere liberati. Spesso erano peggiori dei soldati stessi e più indottrinati. Io resistevo imparando a non preoccuparmi se ferivano il mio corpo, ma dovevo preservare intatta la mia mente. Cercavo di imprimere nella memoria quanto vedevo, perché trovavo la mia forza nel pensare che un giorno lo avrei raccontato al mondo.
E lo ha raccontato?
Giro il mondo a parlare di questo. Ho pubblicato anche diversi libri come “Troublemaker” e “Bitter Winds”, che in Italia è uscito col titolo “Controrivoluzionario”, edito da San Paolo; lì racconto nei dettagli tutta la mia storia. Mi sono accorto che gli italiani mi hanno sempre accolto con calore, ed amano molto la libertà. Ma mi sono anche accorto della grande ignoranza attorno a questi temi. In Cina avvengono 130 mila aborti forzati ogni anno, e ogni anno vengono eseguite10 mila esecuzioni di massa, davanti a folle appositamente riunite. Ma i Laogai sono ancora coperti dal segreto di Stato. Nemmeno i familiari hanno il diritto di venire informati sui propri parenti detenuti. Solo in caso di esecuzione arriva loro una comunicazione con la richiesta di coprire le spese dei proiettili adoperati e della cremazione. Il mondo dovrebbe reagire più incisivamente alla realtà atroce dei Laogai, che nel terzo millennio sono un retaggio assurdo del passato. La Cina deve liberarsene se davvero vuole presentarsi a testa alta nei confronti delle altre nazioni. E se non lo fa, il mondo la deve costringere con tutti i mezzi.
Che mezzi?
Se nemmeno gli interventi di Amnesty International sono bastati, allora il mondo deve pensare a qualcos'altro, fino alla soluzione dell'embargo. I 1.045 Laogai esistenti, coi loro milioni di operai forzati, permettono alla Cina una produzione industriale di massa a costo zero. Occorre una sensibilizzazione dell'opinione pubblica circa l'acquisto dei prodotti cinesi. Occorre approvare leggi che proibiscano in Italia e in Europa l'importazione di prodotti nati totalmente o parzialmente dal lavoro forzato o dallo sfruttamento umano. Le imprese che importano dalla Cina debbono introdurre un sistema di certificazione obbligatoria che permetta di identificare i luoghi di produzione. Occorre esigere che ogni mercanzia che entra nella UE rispetti, oltre alle clausole ambientali, anche le clausole sociali. Non bastano le garanzie di igiene e sicurezza, occorre una seria tracciabilità dei prodotti. Infine occorrono dazi ed imposte molto alti sulle merci provenienti dalla Cina. Con questi introiti si potrebbe rilanciare l'industria europea ed italiana.
Harry Wu, come è finito in un Laogai?
Nell'aprile 1960 le autorità del Partito Comunista Cinese mi hanno arrestato e mi hanno gettato in un campo di lavori forzati senza nemmeno un processo. A quel tempo ero uno studente universitario di geologia, figlio di un banchiere di Shangai. Là ho trascorso 19 anni, costretto ai lavori forzati come milioni di uomini e donne ancora oggi prigionieri. Fui rilasciato solo nel 1979, ma rimasi in Cina fino al 1985, anno in cui riuscii a raggiungere gli Stati Uniti, dove tuttora vivo. In Occidente mi sono però accorto che quasi nessuno sa nulla della tragica realtà che io ho sperimentato. E' successo per i Laogai quello che era già successo per i Gulag sovietici, tenacemente occultati per anni dall'informazione mediatica.
Quanti sono i campi di concentramento in Cina?
In Cina esistono più di mille Laogai, ciascuno con diverse migliaia di prigionieri; si tratta perciò di milioni di individui, uomini e donne. E' difficile però stabilire il numero esatto dei detenuti perché il governo cinese non ama sbandierare questa realtà, soprattutto ora che la Cina reclama una sua forte posizione emergente nel mondo e nei rapporti economici internazionali. E' incredibile che il grande sviluppo della Cina possa convivere ancora con la tragica realtà dei Laogai quali strumento di repressione e di controllo delle idee. In Italia esiste una sede della Laogai Research Foundation che può fornire dati e cifre impressionanti a chiunque sia interessato.
Come avvenne il suo arresto?
In realtà, quando presi coscienza di cosa realmente fosse il regime comunista, e di quale fosse la sua storia con 40-50 milioni di morti alle spalle, avevo deciso di scappare. Non potevo tollerare l'indottrinamento totalitario del regime e l'assoluta mancanza di libertà. Avevo anche cominciato ad esternare le mie idee a qualcuno e allora fui espulso dalla scuola con l'accusa di essermi “rifiutato di diventare un bravo studente socialista” e di aver “scelto di restare un nemico della rivoluzione”. Contemporaneamente mi si presentò un funzionario della Pubblica Sicurezza in alta uniforme e con le mostrine rosse che disse: “Condanno l'elemento Wu Hongda alla rieducazione attraverso il lavoro”.
Come reagì?
Pretesi di conoscere esattamente le accuse a mio carico ma mi si chiedeva di firmare l'arresto e basta. Mi rifiutai. Mi fu risposto: “Il governo del popolo ti ha messo agli arresti; che tu firmi o meno non ha importanza”. Nessuno mi difese. Fui afferrato per le braccia e portato via. Mi fu tolto tutto e mi presero le impronte. Alla stazione di polizia mi sentivo umiliato a ritrovarmi accanto dei criminali comuni. All'interno del centro di detenzione vidi più di un migliaio di detenuti costretti a stare seduti per terra in cerchi di trenta persone, mentre gli istruttori politici camminavano avanti e indietro leggendo a voce alta il giornale di stato. Un kapò (detenuto in corso di “riabilitazione”) mi ordinò di unirmi a uno dei gruppi senza nemmeno preoccuparsi che ero a digiuno da 24 ore. Alla sera ci si ritirò nelle baracche a dormire, ma a mezzanotte un kapò irruppe urlando, ordinandomi di presentarmi per l'interrogatorio.
Che cosa successe?
Fui portato in una stanza dove vidi un corpo appeso alle travi e un altro accasciato per terra, e mi si si gridò: “Ecco cosa succede a quelli che si oppongono all'autorità del Partito”. Confessa pienamente e ti verrà data la possibilità di rieducarti. Capii che iniziava per me un lungo incubo. E non c'è qui lo spazio per raccontare tutte le torture fisiche e psicologiche che subii, le percosse, i digiuni forzati, le malattie, i pidocchi, la dissenteria, le umiliazioni. Ma la cosa più tremenda non era la paura, bensì la solitudine più totale. In un carcere uno si fa forza stringendo amicizia coi compagni di detenzione, costruendo una solidarietà reciproca. Lì era impossibile, perché eravamo messi uno contro l'altro: ognuno doveva essere spia dell'altro. Questo permetteva alle autorità del Laogai non solo di essere sempre a conoscenza di tutto, ma di dividerci per governarci meglio.
Come trascorreva una giornata nel Laogai?
Al mattino presto venivano portati dei secchi di acqua sporca per bagnarci un po' la faccia. Dopodiché si era subito assegnati alle catene di lavoro, spesso in base alle proprie competenze. Io ero stato studente di geologia, ma questo si traduceva in realtà con mansioni ben più raccapriccianti, come salire sul carretto con cui i cadaveri dei detenuti morti il giorno prima venivano portati alle fosse comuni in cui venivano buttati, e bisognava ricoprirli di terra. Non potrei fare un conto di tutte le fosse e di tutti i cadaveri che vidi. Molti morivano semplicemente per la fame, ed approfittavano delle uscite all'aperto per strappare coi denti ciuffi di erba selvatica. Era amara e ci procurava la dissenteria, ma ci esercitavamo a contrarre i muscoli della pancia per trattenere il più a lungo possibile quel poco di cibo. Se lo espellevi eri perduto, e molti morivano nelle latrine.
Nessuno tentava di fuggire?
Era praticamente impossibile. Anche perché ognuno veniva accuratamente interrogato sugli atteggiamenti dei suoi compagni. L'unica speranza di poter essere un giorno liberati si basava nel manifestarsi ravveduti e rieducati all'ideologia della lotta di classe. Per dimostrarlo ognuno doveva denunciare a voce alta i difetti dei propri compagni, accusando quanto gli sembrava d'ostacolo al loro percorso di riabilitazione. Più che le guardie, numerose ma relativamente inferiori al numero dei detenuti, tutto era sotto il controllo dei kapò, che avevano già anni di detenzione alle spalle, e bramavano di dimostrarsi fedeli al regime per poter essere liberati. Spesso erano peggiori dei soldati stessi e più indottrinati. Io resistevo imparando a non preoccuparmi se ferivano il mio corpo, ma dovevo preservare intatta la mia mente. Cercavo di imprimere nella memoria quanto vedevo, perché trovavo la mia forza nel pensare che un giorno lo avrei raccontato al mondo.
E lo ha raccontato?
Giro il mondo a parlare di questo. Ho pubblicato anche diversi libri come “Troublemaker” e “Bitter Winds”, che in Italia è uscito col titolo “Controrivoluzionario”, edito da San Paolo; lì racconto nei dettagli tutta la mia storia. Mi sono accorto che gli italiani mi hanno sempre accolto con calore, ed amano molto la libertà. Ma mi sono anche accorto della grande ignoranza attorno a questi temi. In Cina avvengono 130 mila aborti forzati ogni anno, e ogni anno vengono eseguite10 mila esecuzioni di massa, davanti a folle appositamente riunite. Ma i Laogai sono ancora coperti dal segreto di Stato. Nemmeno i familiari hanno il diritto di venire informati sui propri parenti detenuti. Solo in caso di esecuzione arriva loro una comunicazione con la richiesta di coprire le spese dei proiettili adoperati e della cremazione. Il mondo dovrebbe reagire più incisivamente alla realtà atroce dei Laogai, che nel terzo millennio sono un retaggio assurdo del passato. La Cina deve liberarsene se davvero vuole presentarsi a testa alta nei confronti delle altre nazioni. E se non lo fa, il mondo la deve costringere con tutti i mezzi.
Che mezzi?
Se nemmeno gli interventi di Amnesty International sono bastati, allora il mondo deve pensare a qualcos'altro, fino alla soluzione dell'embargo. I 1.045 Laogai esistenti, coi loro milioni di operai forzati, permettono alla Cina una produzione industriale di massa a costo zero. Occorre una sensibilizzazione dell'opinione pubblica circa l'acquisto dei prodotti cinesi. Occorre approvare leggi che proibiscano in Italia e in Europa l'importazione di prodotti nati totalmente o parzialmente dal lavoro forzato o dallo sfruttamento umano. Le imprese che importano dalla Cina debbono introdurre un sistema di certificazione obbligatoria che permetta di identificare i luoghi di produzione. Occorre esigere che ogni mercanzia che entra nella UE rispetti, oltre alle clausole ambientali, anche le clausole sociali. Non bastano le garanzie di igiene e sicurezza, occorre una seria tracciabilità dei prodotti. Infine occorrono dazi ed imposte molto alti sulle merci provenienti dalla Cina. Con questi introiti si potrebbe rilanciare l'industria europea ed italiana.
Autore: Stefano Biavasch
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