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L’errore di buttare via l’idea di natura (e di storia)
Il principale problema politico dei conservatori è quello che pur essendo critici dello spirito dei tempi devono curare di non apparire dei reazionari (cioè come puri e semplici nostalgici del «buon tempo antico»). Il che può essere niente affatto facile. Oggi però, a differenza che per il passato, una posizione conservatrice può contare da questo punto di vista su un vantaggio importante: davanti a sé, infatti, essa non ha come una volta l’illuminismo, il liberalismo o il socialismo, cioè una qualche grande prospettiva in un avvenire migliore, una qualche promessa generale di riscatto e di felicità, una speranza per l’umanità tutta. Davanti a sé oggi ha il «progressismo» (mai denominazione apparve più sgangheratamente generica), che concepisce un solo tipo di progresso — quello scientifico tecnico —, che al posto della libertà sembra perseguire solo il più banale «liberi tutti», e che in sostanza gioca ogni sua posta su un unico tableau: quello dell’umanità occidentale, perlopiù bianca, libera e benestante. a caso da tempo un tale progressismo non è più la naturale ideologia dei socialmente sfavoriti (i quali anzi spesso costituiscono il nerbo del cosiddetto populismo). Non lo è sia perché in realtà esso non sa o non si cura di offrire alcuna ricetta sociale forte, e sia per una ragione più profonda e più importante. Perché oggi il progressismo sottintende una rivoluzione antropologico-culturale che mira a delegittimare alcune strutture profonde del sentire comune
Quel sentire comune sul quale si è costruita e continua ad essere costruita l’esperienza di vita della grande maggioranza delle persone. A differenza, insomma, delle precedenti ideologie di progresso, le quali miravano innanzi tutto a trasformare i rapporti sociali e politici, il progressismo attuale mira a qualcosa di completamente diverso: a sovvertire innanzi tutto il mondo dei valori e i rapporti personali tra gli individui.
Lo sta facendo prendendo di mira due caposaldi di quello che potrebbe chiamarsi il pensiero corrente, l’opinione dei più, che fino a pochissimo tempo fa ancora bene o male servivano a definire culturalmente l’universo dell’Occidente: l’idea di natura e l’idea di storia.
Secondo il punto di vista progressista che tiene oggi il campo la natura esisterebbe ormai solo come qualcosa da superare, un limite arcaico da gettarci dietro le spalle: concettualmente e se possibile praticamente. Praticamente grazie al dispositivo congiunto della scienza e della tecnica, a proposito del quale guai a chiedersi se alla nostra umanità convenga davvero sempre e comunque fare ciò che in teoria la scienza consentirebbe di fare. In specie se si tratta di ampliare il raggio delle nostre potenzialità fisiche o di introdurre di continuo nella vita umana dosi sempre nuove e sempre più sofisticate di artificialità meccanizzata. Concettualmente invece il progressismo mira a eliminare l’idea che i comportamenti umani elementari nonché gli stati psico-emotivi e i rapporti interindividuali che li caratterizzano (la bipolarità di genere e l’accoppiamento, la genitorialità, il legame dei gruppi primari) abbiano un qualsiasi fondamento nella natura. Sostenendo che in questo ambito, viceversa, ogni cosa sarebbe frutto di convenzioni o di abitudini consolidatesi nel corso del tempo, un puro e semplice «prodotto della società» e quindi, come tale, modificabile o cancellabile a piacere.
Minando l’idea che nei comportamenti sociali e nei rapporti degli esseri umani tra di loro vi sia qualcosa che possa dirsi davvero «naturale» e in questo senso «normale», il progressismo odierno getta le basi per il soggettivismo più radicale. L’individuo diviene di fatto la misura di tutte le cose (ciò di cui via via anche i codici hanno preso atto ampliando sempre di più la sfera dei diritti personali). In tal modo nell’universo progressista il «noi», qualunque «noi», vacilla e tende a dissolversi. Esiste unicamente l’individuo solo e davanti a lui, onnipotente, la ramificata struttura della tecnoscienza.
Tanto più definitiva diviene poi questa solitudine in quanto essa si estende pure al passato. Come ho detto all’inizio anche la storia infatti — origine prima della tradizione — tende ad essere via via scalzata dal panorama sociale. Dopo la natura, infatti, è la storia (nella narrazione occidentale così connessa all’idea di natura umana) l’obiettivo principe del progressismo. La storia: così feroce, così turgida di sentimenti estremi, tanto spesso così ingiusta. È in particolare proprio ciò che la rende invisa all’ottica progressista la quale, per l’appunto, si fa un punto d’onore nell’additare la moltitudine di violazioni dei diritti umani che costellano le sue vicende e nel comminare grottesche condanne retrospettive alle guerre, alla schiavitù e a quant’altro. Ma al di là di questo ridicolo esercizio di moralismo è la dimensione complessiva della storia che il progressismo considera a sé estranea se non ostile. Perché rivolgere la propria attenzione al passato, magari considerarlo in qualche modo fonte d’ispirazione, contrasta troppo clamorosamente con il suo scopo: guardare solo e sempre avanti perché da lì solo può venire la felicità, lì solo è ciò che è nuovo e buono, il progresso appunto.
È questa inedita condizione del nostro tempo appena tratteggiata che pone il punto di vista conservatore, a me pare, in una condizione anch’essa del tutto nuova rispetto al passato. L’illuminismo, il liberalismo, il socialismo rappresentavano dei mondi morali, contenevano in sé degli ideali di vita individuale e sociale carichi di elementi positivi e di suggestioni, nei loro auspicio erano anticipatori di un’umanità migliore. Di fronte ad essi una posizione conservatrice era fatalmente condannata ad apparire retrograda, reazionaria: perché in buona parte realmente lo era.
Oggi però le cose stanno ben diversamente. Oggi opporsi al progressismo — in questo senso essere conservatori — ha poco del reazionario ma assai di più incarna una posizione di cautela e di dubbio necessari di fronte agli applausi scroscianti pronti a levarsi dappertutto verso il sempre nuovo, verso l’irrisione o la distruzione di quanto non lo è. Oggi una posizione conservatrice ha paradossalmente quasi la funzione di un «katéchon», di qualcosa che trattiene da una deriva potenzialmente fuori dall’umano. Non è un restar fermi e tanto meno un voler tornare indietro: si tratta solo di capire bene dove si sta andando.
2 settembre 2023, 20:05 - modifica il 2 settembre 2023 |
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