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mercoledì 6 luglio 2016

L’impero romano distrutto dagli immigrati

L’impero romano distrutto dagli immigrati

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di Enrico Maria Romano

La questione dell’immigrazione-invasione sta diventando una delle più urgenti e delle più necessarie da affrontare per tutti i liberi e consapevoli cittadini d’Europa. La cattiva informazione, così tipica dei mass media democratici come stampa e TV, su questo tema è giunta a picchi insormontabili di menzogne, omissioni, confusioni, raggiri e ricatti morali indecenti e inauditi.
“Chi è per l’immigrazione è buono; chi è contrario è cattivo”: questo il luogo comune, il pregiudizio e l’affabulazione implicita in innumerevoli discorsi, articoli strappalacrime e dibattiti in cui risulta sempre più difficile restare fuori dal coro, razionali e sordi al frastuono delle contro-verità.
L’eccellente rivista web Il Covile faceva stato, nel numero 846 (aprile 2015), dellacorrelazione tra diffusione dei mass media e indottrinamento delle masse, masse che però da qualche tempo, lentamente ma sicuramente, cercano sempre più informazioni autentiche e non manipolate sui blog liberi più che sui quotidiani di regime. L’autore dello studio, l’ottimo giornalista-studioso Armando Ermini, titolava il suo documentato dossier di 8 fitte pagine “Come tenersi informati nonostante la stampa”… Già!
Tra le notizie positive prodotte da Ermini spicca il fatto che grosse fette di cittadini italiani, tedeschi e americani non credono più ai mass media tradizionali, e i quotidiani ad esempio calano regolarmente, al di qua e di là dell’Oceano, i lettori e gli abbonati (statistiche ufficiale della FABC). Nell’Italia dei primi anni ’40, ricorda Ermini, esistevano 66 quotidiani che vendevano “oltre il doppio di copie rispetto ad oggi” (p. 1). Certo senza radio e TV generaliste, ma anche con meno italiani e assai più analfabeti di oggi. Interessanti poi le citate statistiche di “eticità” attribuita alla stampa. Essa sia tra la gente comune che tra i giornalisti, gli addetti ai lavori, è percepita come bassa (rispettivamente 53,7% per la gente comune e 84,6% per i giornalisti che quindi diffidano dell’imparzialità degli stessi giornali su cui scrivono).
Ebbene per farci un’idea semplice e chiara dei rischi dell’immigrazione attuale, in tutto e per tutto diversa dalle immigrazioni otto-novecentesche (tirate in ballo come i cavoli a merenda), è utilissimo leggere tutto d’un fiato il breve e succoso pamphlet di Giuseppe Valditara, Ordinario di Diritto Romano all’Università di Torino e studioso di questioni politiche contemporanee.
Se il titolo è già chiaro e ad effetto ("L’impero romano distrutto dagli immigrati", edizioni Il Giornale, pp 52, € 2,50), il sottotitolo lo è ancor di più: “Così i flussi migratori hanno fatto collassare lo stato più imponente dell’antichità”. Niente di meno!
“Roma venne fondata, secondo Varrone, nel 753 a.C. L’ultimo imperatore romano d’Occidente [Romolo Augustolo] venne deposto nel 476 d.C. Una comunità  statuale durata oltre 1200 anni è già un record, ma l’impero di Roma fu anche il più grande di tutti i tempi. E, soprattutto, Roma è stata il pilastro della civiltà occidentale. Non solo ha influenzato la lingua della gran parte delle popolazioni d’Europa, ma anche il diritto dei popoli di mezzo mondo, ha tracciato le grandi vie di comunicazione, ha influenzato l’architettura e, soprattutto, ha dato all’Europa moderna alcuni valori essenziali” (p. 7). Si può e si deve aggiungere, da cattolici, il ruolo provvidenziale di Roma e del suo impero come fu riconosciuto chiaramente dai Padri della Chiesa e nel Medioevo. Gli stessi sommi Pontefici, come Pio XII e Paolo VI, solo per citarne due tra i più celebri, fecero vari discorsi in cui celebrarono la grandezza di Roma e del suo ruolo di Città-Civiltà destinata da Dio ad essere davvero Caput mundi in quanto sede del Vicario di Cristo e Capitale eterna della cristianità.
Ebbene il Valditara mostra bene come nella politica romana ci furono sempre due pilastri uniti e indivisibili: l’apertura all’esterno, fino alla concessione della cittadinanza romana agli stranieri (e agli stessi barbari) e “la prioritaria difesa degli interessi della res publica” (p. 8).
Tutta la storia di Roma, dalla monarchia alla repubblica all’impero, è un frullato e un mix di popoli, razze e culture diverse. Ma l’armonia si fondò sulla forte identità culturale di Roma. “La nascita della civitas avviene secondo la tradizione con la costruzione delle mura. Nella narrazione degli antichi la costruzione delle mura viene prima dei templi, delle strade, degli acquedotti e delle case. La storicità delle mura romulee è stata dimostrata dagli scavi degli archeologi” (p. 8). Le mura, a ben pensarci, sono un vero segno di amore. Chi di noi vorrebbe una casa senza mura? Costruire delle mura di cinta, come si faceva per ogni città e borgo del Medioevo e della stessa età moderna, e perfino nei conventi, era un segno di amore e di cura per ciò che era contenuto nelle mura stesse. Le mura della città ci dicono che quello che circondano è importante, i cittadini contano qualcosa per chi presiede al bene comune. Non a caso, ricorda l’Autore, le mura vengono definite già dai romani antichi come sanctae: “Le cose sanctae sono divinae. Dunque è evidente un collegamento con il mondo religioso” (pp. 8-9). Ancora: “Le mura rispondono ad una esigenza di protezione e di differenziazione. Le mura difendono da predoni e invasori (…). Le mura rendono riconoscibile l’extraneus, cioè colui che sta al di fuori, e l’indigeno, cioè colui che è generato all’interno. Le mura dunque identificano e separano” (p. 9). Che bello e commovente nel mondo post moderno tutto liquidità, sottilità, confusione (perfino sessuale e naturale, oltre che etnica e sociale) questo elogio delle mura! 
Eppure, senza nessuna contraddizione reale, “i Romani, a differenza di altri popoli antichi, hanno nel loro archetipo l’idea dell’unità della diversità. Roma nasce dall’incontro di popoli e culture differenti
(p. 10). L’intero libretto di Giuseppe Valditara ci dà numerosi esempi in tal senso: Lavinia che sposa il troiano Enea (uno straniero dunque) da cui nasceranno attraverso Silvio, Romolo e Remo (p. 11); il ratto delle sabine, ovvero di donne non-romane (p. 12); i sette re di Roma, con vari stranieri tra i re (Numa Pompilio sabino, Tarquinio Prisco etrusco, etc.); la prima opera letteraria in latino compilata dal greco Livio Andronico; Ennio, “il poetanazionale per eccellenza, era originario del Salento” (p. 15), Catullo veronese, Virgilio mantovano, Tito Livio padovano, etc. etc.
Gli immigrati faranno fare a Roma un decisivo salto di qualità. La Roma latino-sabina era poco più che un villaggio di pastori e contadini. Saranno i re etruschi, portatori di una civiltà più evoluta, a darle le grandi mura, i grandi palazzi e i grandi templi” (p. 17). D’altra parte, come scrive Polibio, “i Romani sono più pronti di ogni altro popolo a mutare i costumi e adottarne di migliori” (p. 20). Ma allora, immigrazione sì o immigrazione no, si chiederà il lettore? Ebbene per Roma, esemplare anche in questo, non c’erano dubbi: tutto dipende dall’apporto degli stranieri. Infatti, “non tutto ciò che arrivasse dall’estero andava bene: solo ciò che rappresentava un miglioramento, non ciò che peggiorava la vita, le istituzioni, i rapporti sociali” (p. 23). Il criterio non fu mai, salvo alla fine (e ciò provocò l’anarchia), il diritto presunto dello straniero ad essere equiparato al cittadino – vera mostruosità logica e giuridica – ma il bene comune della patria, a volte avvalorato dallo straniero, a volte minato dal barbaro di turno.
Fatte le debite proporzioni non è un criterio valido ancor oggi? Sì, salvo volere,come forse vogliono i poteri forti internazionali, abolire le frontiere e cancellare gli Stati nazionali, creando così l’uomo cittadino del mondo, senza doveri e con infiniti diritti, nella più pura tradizione utopica. Tutta la vita contemporanea instabile, ondivaga, senza lavoro fisso, patria fissa, famiglia fissa porta a questo: ma è la cultura attuale che deve essere corretta, non le leggi stabili della corretta vita civile.
Di più. “Una delle caratteristiche del genio romano fu tuttavia quella di non ricevere mai passivamente, di non subire i contributi dall’esterno, ma di rielaborarli e farli propri, in altre parole di romanizzarli” (p. 24). Così nei secoli passati, l’Europa quando accolse cittadini non europei, li cristianizzò, almeno tendenzialmente, facendoli divenire parte del tessuto sociale e culturale dominante. Ma oggi che l’Unione Europea vuole scristianizzare l’Europa, non esiste più collante comune né tra gli europei, né tra gli abitanti stessi degli stati che la compongono, se non la vita occidentale nichilista e priva di valori, tranne l’accoglienza (ammesso che sia un valore…).
Claudio imperatore disse: “I Galli si sono assimilati a noi nei costumi, nelle arti, nei vincoli di sangue” (cit. a p. 26). Chiaro? “Gli stranieri rimodellavano la loro esistenza sugli schemi e sui valori romani” (p. 30). E quando così non era esisteva “la revoca della cittadinanza a chi era già [divenuto] cittadino, ma aveva dimostrato di non meritarla” (p. 35). 
Il merito è un criterio evidentemente etico e pre-politico, e come tale non superabile. Oggi che il tasso di criminalità presso chi sbarca sulle nostre coste è piuttosto alto, chi merita di divenire cittadino italiano? E chi non lo merita, dopo constatate malefatte, che fine fa? Lo sappiamo tutti: si fa finta, per buonismo, di non vedere. Ma sono proprio i nostri poveri a soffrire di più e si fa finta di non vederli… Tutto questo crea gioco forza insofferenza nell’italiano medio che viene trattato peggio (più tasse, più regole da seguire e meno diritti) del new entry… Al contrario la politica di Roma, ispirata alla filosofia romana realista, fu altra: “Nel 187 a.C. vengono espulsi ben 12.000 Latini immigrati”. (p. 36). Secondo il padovano Tito Livio, che difende il provvedimento, la ragione era che costoro erano diventati “un peso insopportabile per Roma”. D’altra parte, “La difesa dell’ordine sociale e della stabilità interni avevano la preminenza su qualsiasi altra valutazione, anche di carattere umanitario” (p. 38).
Oggi dovremmo, secondo il pensiero dominante (ma impopolare: Brexit docet) accogliere tutti i poveri, tutti i profughi, tutti gli sbandati, tutti i senza patria e tutti i criminali del pianeta. E’ sensato tutto ciò? E’ conforme al bene comune delle nostre nazioni, e specialmente dei suoi ceti economicamente e psicologicamente più fragili ed emarginati, come disoccupati e anziani?
Questa, esattamente questa, fu la causa o almeno una delle cause, secondo l’Autore, del definitivo crollo di Roma. Dopo il periglioso editto di Caracalla del 212 d.C. che concedeva la cittadinanza a tutti coloro che vivevano all’interno dell’Impero, fu un continuo di invasioni barbariche di Vandali, Alani, Svevi, che crearono “enclave autonome” (p. 43). In seguito, ai temibili “Goti, per la prima volta nella storia di Roma, fu consentito di vivere all’interno dell’impero senza sottomettersi, rimanendo un’entità autonoma, con proprie leggi, proprie tradizioni” (p. 44).Sembra quasi che si parli dell’immigrazione mussulmana del XXI secolo… “Si rinnegava il principio tradizionale che vedeva passare l’integrazione attraverso l’assorbimento. L’integrità dell’impero era stata di fatto spezzata e si era creata una spina nel fianco imperiale che ebbe un ruolo importante nel crollo finale” (pp. 44-45).
Così nel 408, nel cuore di una Roma già ampiamente cristianizzata, “stando alla testimonianza di Sant’Agostino, i Visigoti compirono violenze atroci in ogni quartiere e senza distinzione di ceto sociale, saccheggiarono beni, pubblici e privati, eseguirono torture indicibili e stupri numerosissimi, compiuti persino a danno delle monache. Roma non riuscì più a risollevarsi” (p. 45).
Ma al crollo politico della Roma imperiale fece seguito la resurrezione della Roma cristiana guidata dai Pontefici e il suo rinnovato impero con l’incoronazione di Carlo Magno nel Natale dell’Ottocento. Un crollo odierno sarebbe ben più drastico poiché lo spirito non è pronto e la carne è debole.

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