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giovedì 8 agosto 2019

Un microchipinstallato in ogni cuore

Un microchipinstallato in ogni cuore

· ​A colloquio con la scrittrice americana Mary Karr ·

«Che ci si creda o no, prima di scrivere prego per ricevere una guida. Di certo quella guida dà forma a ciò che approda sulle pagine che mando nel mondo. In Lit ho scritto della mia conversione. In Sinners Welcome ho scritto una serie di poesie intitolata Descending Theology, che segue alcune immagini tratte dalla pratica spirituale ignaziana. In Tropic of Squalor c’è un capitolo intitolato The Less 

Than Holy Bible, sulla ricerca costante della grazia nel nostro mondo corrotto»: è un fiume in piena Mary Karr, celebre e pluripremiata poetessa statunitense, classe 1962, professoressa di Letteratura inglese alla Syracuse University. In Italia, se la sua poesia non è ancora stata tradotta, il romanzo, intitolato Il club dei bugiardi (The Liars’ Club), pubblicato nel 2017 per le Edizioni e/o, ha condotto il lettore nel complesso e contraddittorio Texas orientale, depredato da sciami di petrolieri, popolato da famiglie disfunzionali e assediato dal culto delle apparenze.
Mary Karr
Mary Karr, in questa intervista rilasciata al nostro giornale, si presenta al pubblico italiano, ripercorrendo a cuore aperto le tappe della sua “ustionante” evoluzione spirituale: quel cammino che, dopo un’infanzia travagliata, un matrimonio fallito e una forte dipendenza dall’alcol, l’ha condotta a una fede accalorata quanto inaspettata.
«Se in un qualsiasi momento della mia vita qualcuno mi avesse detto che a quarant’anni sarei stata battezzata nella fede cattolica, gli avrei riso in faccia. Era molto più probabile che diventassi un corriere della droga — commenta Mary Karr con un tono ironico e dissacrante che mette in fuga ogni zuccherosa tentazione pia e devota — Da piccola ero cresciuta in una famiglia atea e non ero mai stata battezzata, né avevo ricevuto un’istruzione in una qualunque religione formale. Quindi non avevo idea di possedere un’anima e nemmeno una vita spirituale. Amavo moltissimo i miei genitori, ma bevevano tanto, e mia madre si era sposata sette volte, e quando era ubriaca si metteva a sparare all’impazzata, ed era il caos. Da bambina sono stata stuprata due volte, e ho convissuto con tanta paura e vergogna».
Eppure la bambina Mary Karr, nel caos domestico, nell’orrore per le violenze subite, vive in un Texas, in un Sud degli Stati Uniti che un’altra grande scrittrice americana, Flannery O’Connor, ha definito Christ Haunted, cioè infestato da Cristo, la cui presenza salvifica aleggia, si percepisce in modo quasi tangibile a chiunque ne percorra le 


«Eravamo nella Bible Belt americana — continua Karr — quindi fui trascinata in chiesa dai cattolici e a incontri di risveglio dai battisti del sud. A me sembravano forme di convenzione sociale, non più reali del coniglietto di Pasqua. Quasi ammiravo le mie amichette che credevano, perché sembravano così dolci quando sussurravano tra sé e sé accanto al letto o parlavano con le bambole prima della messa, ma compativo anche la loro ignoranza. È difficile anche solo immaginare quanto fosse profonda l’assenza di Dio nella mia mente. Però ricordo un paio di volte in cui, bambina terrorizzata nella mia famiglia scombinata di bevitori accaniti, ho invocato Dio in maniera cieca, senza parole. E ho gli appunti di una preghiera che ho scritto a dieci anni. Avevo disegnato l’immagine di Gesù sulla croce e copiato la Preghiera del Signore. Poi avevo scritto: “Non sono granché come bambina. Quando crescerò probabilmente sarò un disastro”».
Ciò che viene percepito, in un momento disperazione, è la presenza di un’assenza. Mary sembra improvvisamente riconoscere e invocare un Dio che non sospettava di avere dentro di sé, ma da cui invece era imbevuta fino al midollo: un Dio a cui si relaziona con immediata autenticità, confessandogli la propria inadeguatezza, ma anche un Dio a cui si rivolge come argine di un orrore che la sovrasta.
Eppure, nonostante questo squarcio di luce, le nuvole plumbee addensatesi sulla sua infanzia arrivano fino a offuscare l’età adulta, che sembra dipanarsi in un continuum rovinoso. Prosegue Mary Karr: «Compiuti i trent’anni, dopo la nascita di mio figlio mi resi conto che anch’io non riuscivo a smettere di bere, nemmeno dopo aver cercato l’aiuto di altre persone. Intendo dire che si può sempre smettere, ma per chi ha una vera dipendenza — mi resi conto — è impossibile rimanere sobrio senza una qualche pratica spirituale. Il mio matrimonio stava andando a rotoli. Mio figlio soffriva e io mi disperai. Con l’aiuto di alcune donne sobrie iniziai una pratica di meditazione: contare i respiri, concentrandomi sulla preghiera. E in un certo modo iniziai a “pregare” a un qualche essere sobrio o superiore. Non era un “dio” in senso cristiano quello con qui parlavo. Ma penso che ci sia un chip installato in ogni cuore umano, nel nostro hardware, che ci insegna a cercare Dio. Era tutto così hippy, laico, finto, stupido».
L’occhio impietoso di Mary Karr, che è anche il marchio distintivo della sua poetica, si posa su un’esperienza di vita confusa, incerta: la scrittrice alla fine riesce a smettere di bere, ma è consapevole che la sua cosiddetta preghiera non è che una pratica, una tecnica, una sorta “di esercizio fisico”; sa che cuore e anima sono immobili e ancora scollegati tra loro. L’inizio di un processo di risalita è inaspettatamente affidato a un bambino, a Dev, suo figlio, in nome del quale Mary decide di smettere di bere: «Tra la letteratura per il recupero trovai la preghiera di san Francesco. E ogni sera, quando mettevo a letto mio figlio, “pregavamo” in modo alternato. Io dicevo “dove è odio, fa ch’io porti…”. E lui strillava “amore!”. Se si legge la preghiera da non credente, nulla di ciò che viene auspicato in essa può essere visto come un messaggio valido per cercare di rimodellare una mente depressa. Quindi è così che recitavamo la preghiera: per praticare la speranza. Ma adesso credo che san Francesco e lo Spirito Santo abbiano interceduto per noi presso Dio».
Mary Karr, ripercorrendo le tappe della sua conversione, sembra dunque individuare, a posteriori, un lento lavorio dello Spirito Santo che l’ha condotta in un sentiero via via sempre più chiaro. Dev è ancora la guida di Mary, il suo Virgilio, seguito per amore e con grande onestà intellettuale: «Una domenica mattina mio figlio entrò nella mia stanza con il suo pigiama di Spiderman dicendo: “Voglio andare in chiesa”. Agnostica da tutta la vita, non avevo alcuna intenzione di andare. Ma quando gli domandai perché, disse l’unica frase che avrebbe potuto dire per farmi uscire dalla mia pigrizia. Disse: “Voglio vedere se Dio c’è”. La cosa mi colpì profondamente. E dentro di me pensai che non mi piaceva nemmeno il calcio, però lo avevo portato. Così chiamai un’amica episcopaliana e andammo in quella chiesa, ma era poco riscaldata e gelida. In più, in qualche modo il sacerdote mi sconvolse dicendo che non credevano nel male. Anche se non prendevo per buono Dio, sapevo che il male esisteva! Così mio figlio e io iniziammo la ricerca di un luogo di culto per lui, non per me. La chiamammo Godarama. Ovunque avessimo un amico praticante, andavamo a vedere, che si trattasse di una chiesa, un tempio o uno zendo. Trovammo un sacerdote straordinario, che però all’epoca non mi sembrò tale, ovvero Padre Joseph Kane. Non era un predicatore sobillatore o un intellettuale. Era modesto e dai toni sommessi, e aveva forgiato una chiesa molto amorevole, non moralista. Ci andavano uno dei miei colleghi e anche alcuni amici di Dev, quindi iniziammo ad andarci anche noi. Così, mentre Dev frequentava la scuola domenicale, io a volte durante la messa mi sedevo in fondo, correggendo compiti e bevendo caffè come se fossi in una caffetteria. A un certo punto sono stata semplicemente catturata. Iniziai ad ascoltare. Presi in mano un messale. E mi fu concesso il dono delle lacrime. A volte durante la messa mi ritrovavo con il volto coperto di lacrime, senza singhiozzi ma con una tranquilla consapevolezza (me ne rendo conto ora) del Signore».
Da ora in poi, la lacerazione precedentemente provata nell’avvertire il vuoto di una vita senza pienezza, lascia il campo a una poesia intesa come “liturgia”, come ricerca delle parole con cui entrare in dialogo con un Dio che si fa carico della debolezza umana e la risana: la ricerca di assoluto, continua, urgente, nostalgica, che impronta la scrittura di Mary Karr, ha avuto dunque origine in questo suo lento cammino, in cui il ritrovamento di sé ha coinciso con l’incontro con la fede.
di Elena Buia Rutt

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