Morire a Milano, senza una lacrima
***
Giovanni Testori,
"Corriere della Sera", 1-3-1981.
"Sono un necroforo del Comune di Milano. Domenica scorsa ho fatto un funerale all’ospedale di Niguarda. Una vecchietta chiusa in una bara gratuita del Comune, avvolta in un lenzuolo. Nessuno si è degnato di vestirla. Non un parente o un amico o un conoscente o un prete o qualsiasi sguardo umano si sarebbe posato su quel volto pallido, freddo ma sereno e pulito. Per lei anche il portone della chiesa era sbarrato. Una pietà immensa sconvolse la mia mente e in un gesto d’Amore sollevai quel coperchio trovato già posato sulla bara per donarle il mio sguardo miope ma amoroso e fraterno.
Ed è qui, in quest’attimo di eternità in cui la mia coscienza si smarrisce e rifiuta di concedersi a Dio, che vorrei chiedere a un qualsiasi Testori chi siamo e dove andiamo".
Gatto Mario, necroforo
Semplice, tenera e insieme agghiacciante, straziata d’amore e di carità, tutta avvolta da un sentimento e da una consapevolezza pagati, giorno per giorno, nella carne e nell’anima, questa lettera dovrebbe mettere tutti lì, in ginocchio, a domandare perdono all’uomo, che è in ogni uomo, per dove abbiamo lasciato che l’uomo arrivasse. La vecchietta, chiusa nella bara «gratuita» e senza nessuno che la segua, è l’immagine della nostra vergogna; ma è anche la speranza di salvarci come uomini che, con totale indifferenza, ci lasciamo seppellire, ogni giorno, giù nella terra.
Lei mi chiede, “chi siamo e dove andiamo”. Sempre, le assicuro, mi sono sentito e mi sento qualsiasi; ma le sue parole m’hanno fatto sentire molto meno che qualsiasi; indegno, ecco; se, appunto, ho lasciato e lascio che questo cose accadano qui, nella mia e nostra città, nel mio e nostro paese, sulla mia e nostra terra.
La risposta che mi sollecita, non sono io che posso darla a lei; è lei che l’ha data a me e a tutti noi, col gesto che ha compiuto: sollevare il coperchio della bara e far scendere, anzi come lei dice, “donare” alla povera vecchia il suo “sguardo miope, ma amoroso e fraterno”. Il mondo, l’uomo e la speranza della loro salvezza, in quel momento, li ha raccolti nelle sue braccia lei; e li ha raccolti anche per noi, occupati, come siamo, nel difendere l’indifendibile: una vita che fa i conti sempre e solo con se stessa, col proprio interesse e col proprio egoismo.
In quell’attimo, che lei così giustamente chiama “d’eternità”, dice che la sua coscienza s’è smarrita e “s’è rifiutata di concedersi a Dio”. E come, se proprio compiendo quel gesto lei ritrovava e riaffermava, anche per chi li aveva dimenticati, il senso e il valore della vita? Come, se proprio per quell’Amore, che lei scrive con la A maiuscola, si rimetteva, e completamente, nelle braccia di Dio?
Siamo o, meglio, dovremmo essere quello che è stato ed è lei, miopi forse, ma amorosi e fraterni; e andiamo, anche se lo neghiamo, verso quell’Amore che ci ha creati e che l’ha spinta a donare alla povera, santa morta di Niguarda, il suo sguardo; e, chissà, un suo bacio. Lei ha fatto tutto quello che ha potuto; e in quel modo ha preso il posto dei parenti, degli amici, dei conoscenti e dei preti che non c’erano. Se anche il portone della chiesa, per la povera vecchia, era sbarrato, lei l’ha accompagnata al cuore che non si chiude mai: quello di Cristo. Tutto le sarà reso; e centuplicato, così ha detto proprio lui, Cristo. Ma ci sembra giusto (e Cristo vuole anche questo) che tutto si faccia perché tutto le sia reso centuplicato, anche qui, sulla terra.
Un modo, non certo il primo, può essere quello di scrivere e gridare quali e quante mai indegnità lasciamo che vengano compiute sul cuore e sul corpo dei nostri vecchi; e, insieme, di segnalare e illuminare i gesti d’umanità e di fratellanza che, invece, teniamo nascosti per far scendere nei crani di chi legge, vede e ascolta giornali, radio e televisioni, solo i gesti del clamore, della disumanità e dell’odio.
Che società possiamo mai pensare di costruire se non ci decidiamo a ricollocare al centro della nostra vita il rispetto, l’amore e la venerazione per i nostri fratelli e per le nostre sorelle quand’essi si trovano nei momenti più difficili, cioè a dire nell’infanzia, nella vecchiaia, nella malattia, nella solitudine, nella fame, nella miseria, nella disperazione e nella morte?
«Seppellire i morti»: era un’altra delle opere di misericordia che m’è accaduto di rammentare proprio domenica scorsa e che il nostro tempo ha preferito, invece, scordare. Ma così facendo, dovremmo perlomeno sapere che, come uomini, moriamo ben prima che la nostra vita fisica si chiuda.
Gatto Mario, necroforo del Comune di Milano. No, non necroforo; portatore di fratellanza, di pietà, d’amore e anche di fede, seppur le sembri di non conoscerla e di non "saperla" abbastanza, la fede.
"Sono un necroforo del Comune di Milano. Domenica scorsa ho fatto un funerale all’ospedale di Niguarda. Una vecchietta chiusa in una bara gratuita del Comune, avvolta in un lenzuolo. Nessuno si è degnato di vestirla. Non un parente o un amico o un conoscente o un prete o qualsiasi sguardo umano si sarebbe posato su quel volto pallido, freddo ma sereno e pulito. Per lei anche il portone della chiesa era sbarrato. Una pietà immensa sconvolse la mia mente e in un gesto d’Amore sollevai quel coperchio trovato già posato sulla bara per donarle il mio sguardo miope ma amoroso e fraterno.
Ed è qui, in quest’attimo di eternità in cui la mia coscienza si smarrisce e rifiuta di concedersi a Dio, che vorrei chiedere a un qualsiasi Testori chi siamo e dove andiamo".
Gatto Mario, necroforo
Semplice, tenera e insieme agghiacciante, straziata d’amore e di carità, tutta avvolta da un sentimento e da una consapevolezza pagati, giorno per giorno, nella carne e nell’anima, questa lettera dovrebbe mettere tutti lì, in ginocchio, a domandare perdono all’uomo, che è in ogni uomo, per dove abbiamo lasciato che l’uomo arrivasse. La vecchietta, chiusa nella bara «gratuita» e senza nessuno che la segua, è l’immagine della nostra vergogna; ma è anche la speranza di salvarci come uomini che, con totale indifferenza, ci lasciamo seppellire, ogni giorno, giù nella terra.
Lei mi chiede, “chi siamo e dove andiamo”. Sempre, le assicuro, mi sono sentito e mi sento qualsiasi; ma le sue parole m’hanno fatto sentire molto meno che qualsiasi; indegno, ecco; se, appunto, ho lasciato e lascio che questo cose accadano qui, nella mia e nostra città, nel mio e nostro paese, sulla mia e nostra terra.
La risposta che mi sollecita, non sono io che posso darla a lei; è lei che l’ha data a me e a tutti noi, col gesto che ha compiuto: sollevare il coperchio della bara e far scendere, anzi come lei dice, “donare” alla povera vecchia il suo “sguardo miope, ma amoroso e fraterno”. Il mondo, l’uomo e la speranza della loro salvezza, in quel momento, li ha raccolti nelle sue braccia lei; e li ha raccolti anche per noi, occupati, come siamo, nel difendere l’indifendibile: una vita che fa i conti sempre e solo con se stessa, col proprio interesse e col proprio egoismo.
In quell’attimo, che lei così giustamente chiama “d’eternità”, dice che la sua coscienza s’è smarrita e “s’è rifiutata di concedersi a Dio”. E come, se proprio compiendo quel gesto lei ritrovava e riaffermava, anche per chi li aveva dimenticati, il senso e il valore della vita? Come, se proprio per quell’Amore, che lei scrive con la A maiuscola, si rimetteva, e completamente, nelle braccia di Dio?
Siamo o, meglio, dovremmo essere quello che è stato ed è lei, miopi forse, ma amorosi e fraterni; e andiamo, anche se lo neghiamo, verso quell’Amore che ci ha creati e che l’ha spinta a donare alla povera, santa morta di Niguarda, il suo sguardo; e, chissà, un suo bacio. Lei ha fatto tutto quello che ha potuto; e in quel modo ha preso il posto dei parenti, degli amici, dei conoscenti e dei preti che non c’erano. Se anche il portone della chiesa, per la povera vecchia, era sbarrato, lei l’ha accompagnata al cuore che non si chiude mai: quello di Cristo. Tutto le sarà reso; e centuplicato, così ha detto proprio lui, Cristo. Ma ci sembra giusto (e Cristo vuole anche questo) che tutto si faccia perché tutto le sia reso centuplicato, anche qui, sulla terra.
Un modo, non certo il primo, può essere quello di scrivere e gridare quali e quante mai indegnità lasciamo che vengano compiute sul cuore e sul corpo dei nostri vecchi; e, insieme, di segnalare e illuminare i gesti d’umanità e di fratellanza che, invece, teniamo nascosti per far scendere nei crani di chi legge, vede e ascolta giornali, radio e televisioni, solo i gesti del clamore, della disumanità e dell’odio.
Che società possiamo mai pensare di costruire se non ci decidiamo a ricollocare al centro della nostra vita il rispetto, l’amore e la venerazione per i nostri fratelli e per le nostre sorelle quand’essi si trovano nei momenti più difficili, cioè a dire nell’infanzia, nella vecchiaia, nella malattia, nella solitudine, nella fame, nella miseria, nella disperazione e nella morte?
«Seppellire i morti»: era un’altra delle opere di misericordia che m’è accaduto di rammentare proprio domenica scorsa e che il nostro tempo ha preferito, invece, scordare. Ma così facendo, dovremmo perlomeno sapere che, come uomini, moriamo ben prima che la nostra vita fisica si chiuda.
Gatto Mario, necroforo del Comune di Milano. No, non necroforo; portatore di fratellanza, di pietà, d’amore e anche di fede, seppur le sembri di non conoscerla e di non "saperla" abbastanza, la fede.
In mezzo a un mondo che va sprofondando in una girandola di parole finte e vuote, sono i gesti, gli atti che incarnano fratellanza e amore, ciò di cui tutti abbiamo bisogno. Di questo, della sua umiltà e di quel suo sentirsi incerto su una certezza che, pure, ha così naturalmente praticato, noi la ringraziamo.
Una volta le si sarebbero resi gli onori sul campo: non sul campo dell’armi; ma sul campo, che abbiamo lasciato disseccare, dell’umana coscienza e dell’amore. Bene, quegli onori bisognerà pur cominciare a renderli di nuovo. E poiché così è stato, qui, sul nostro giornale, cominciamo a renderli a lei.
Giovanni Testori, Morire a Milano, senza una lacrima, "Corriere della Sera", 1-3-1981
Giovanni Testori, Morire a Milano, senza una lacrima, "Corriere della Sera", 1-3-1981
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