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martedì 11 febbraio 2025

Bernadette

 


Alberto Maggi "La vera storia della ribelle Bernadette"



Qual era la colpa di Bernadette? Animata dallo Spirito, rifuggiva gli angusti e tetri canoni ascetici dell’epoca, rivendicando spazi di libertà. Come racconta su ilLibraio il biblista Alberto Maggi

A proposito di Lourdes è stato detto che “la prova migliore dell’apparizione è Bernadette stessa”. Ma chi è Bernadette Soubirous?
“Sarà una peste!”, esclamò il giorno del battesimo il padrino di Bernadette, in quanto la piccolina pianse disperata per tutto il tempo della celebrazione. Nessuno avrebbe mai immaginato che la venuta al mondo di Bernadette sarebbe stata un autentico terremoto per tutto il piccolo paese, allora sconosciuto, di Lourdes.

Per scoprire Bernadette, occorre liberarla dai pii detriti che hanno soffocato la sua splendida figura e l’hanno trasformata in un santino. Era una nanerottola (non arrivava neanche al metro e mezzo), dalla testa troppo grande, malaticcia, analfabeta, così tarda di comprendonio da non essere stata ammessa alla prima comunione perché non riusciva a imparare le formule del catechismo, tanto imbranata da non sapere neanche che età avesse (tredici… o quattordici anni). Una ragazzina non più devota delle altre, primogenita di una famiglia emarginata, nota per l’enorme miseria. Bernadette è nata, infatti, nella famiglia più indigente di Lourdes, tanto povera da non avere neanche un’abitazione e costretta a vivere in una cella dell’ex carcere che era stata abbandonata perché insalubre. Con un padre finito in galera con l’imputazione di furto aggravato (ma poi assolto), e una madre della quale, si legge nel rapporto del Procuratore Imperiale, “È a tutti notorio che questa donna si abbandona all’ubriachezza”.

Neanche i suoi parenti godono di buona fama: due sue zie erano state scacciate dalle “Figlie di Maria” per essere rimaste incinta prima del matrimonio. A dispetto dei tanti ritrattini ascetici che le saranno costruiti addosso ancora vivente, Bernadette, ragazza normale che non disdegnava il vino (abitudine che probabilmente le era venuta quando da piccola serviva al bancone dell’osteria di sua zia), verrà apostrofata come “ubriacona”, “sgualdrina”, “puttanella”, al suo primo interrogatorio.

A quanti si meravigliavano scandalizzati e increduli che la Madonna potesse apparire a una nullità come Bernadette, lei candidamente rispondeva: “Se la santa Vergine ha scelto me, è perché ero la più ignorante. Se ne avesse trovata un’altra più ignorante, avrebbe scelto lei”.

In Bernadette trova conferma il metodo di Dio, che per le sue azioni sceglie sempre ciò che agli occhi degli uomini non è degno di stima (1 Cor 1,27), e la sua risposta riecheggia quella di Francesco d’Assisi: “[Dio] non ha veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra…” (Fioretti, X).

L’episodio che doveva cambiarle la vita avvenne l’11 febbraio del 1858, in un luogo malfamato, pascolo di porci, la grotta di Massabielle, dove si era recata insieme alla sorellina e a un’amica per raccogliere legname per il focolare. La descrizione iniziale fatta da Bernardette richiama un’esperienza dello Spirito: tutto è cominciato con “un rumore come un colpo di vento”, come per la Pentecoste (“Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo…”, At 2,2).

Indubbiamente un’intensa esperienza dello Spirito, del divino nel quale sono tutti immersi ma che pochi riescono a percepire. Il messaggio delle apparizioni, rivolto esclusivamente a Bernadette, è un invito alla conversione, tema evangelico per eccellenza, e in lei si adempiono le parole di Gesù “Ai poveri è predicata la buona notizia” (Mt 11,5). La disinvoltura dimostrata da Bernadette di fronte ai ben trentamila interrogatori ai quali fu sottoposta, rimanda alla promessa di Gesù: “Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,19-20). Donna dello Spirito, e quindi libera (2 Cor 3,17), Bernadette è sempre stata se stessa. Lei, ignorante, non si è fatta mai mettere soggezione da nessuno, fosse anche un vescovo (“Devo di nuovo andare in parlatorio…. Sapeste quanto mi costa! Specialmente se si tratta di vescovi!”).

Quando era già suora, un vescovo in visita al convento si faceva baciare l’anello dalle suore, con l’intenzione di farselo baciare da Bernadette. Lei capì, e si defilò. Una consorella le fece notare che così aveva perduto i quaranta giorni d’indulgenza concessi per il bacio dell’anello, e Bernadette pronta, replicò con una giaculatoria (“Gesù mio misericordia!”), e disse, “Ecco, così sono trecento!”. Un altro vescovo, per poter avere una reliquia della veggente ormai inferma, fece in modo che il suo zucchetto cadesse sul letto di Bernadette… se lei l’avesse preso e dato, il vescovo avrebbe avuto il suo zucchetto toccato dalle mani di colei che aveva visto e parlato con la Madre di Dio. Ma Bernadette restò imperturbabile. Il vescovo allora fu costretto a prendere l’iniziativa: “Sorella, volete restituirmi il mio zucchetto?”. E Bernadette: “Monsignore, io non ve l’ho mica chiesto… potete riprendervelo voi!”.

Nel messaggio del 28 febbraio, l’Apparizione disse a Bernadette per tre volte “Penitenza… penitenza… penitenza!”. La penitenza Bernadette la fece quando entrò dalle suore di Nevers, un convento dove andavano le figlie della borghesia e dove, per essere ammesse, occorreva portare una ricca dote. Bernadette, poverissima, fu accolta senza entusiasmo, e solo perché fu imposta dal vescovo. In convento capitò sotto le grinfie della maestra delle novizie, madre Marie Thérèse Vauzou, donna tanto pia quanto disumana. Madre Vauzou, che proveniva dall’alta borghesia, e conservava la sua aria aristocratica, altezzosa e fredda, fin dal primo incontro detestò quella rozza pecoraia che millantava di aver visto nientemeno che la Madonna, e non le risparmiò nessuna umiliazione. Alla radice del disprezzo di madre Vauzou verso Bernadette, c’era pura invidia, come traspare da questa sua ammissione: “Se la santa Vergine voleva apparire su questa terra, perché avrebbe scelto una contadina rozza e ignorante, invece di una religiosa virtuosa e istruita. Non capisco come la santa Vergine abbia potuto comparire a Bernadette. Ci sono tante altre anime, così delicate e nobili… Insomma!”.

La stessa madre Vauzou confiderà a una suora: “Tutte le volte che avevo da dire qualcosa a Bernadette ero spinta a dirglielo con acredine… In noviziato avevo delle novizie di fronte alle quali mi sarei inginocchiata, ma non davanti a Bernadette”. Quando, alla fine del noviziato a ogni suora fu affidato un incarico, Bernadette fu l’unica a essere esclusa, perché, disse acida la maestra, “Non è buona a nulla”. Madre Vauzou, sfogava la sua rabbia e frustrazione su questa suora che non riusciva a plasmare secondo il cliché di religiosa ereditato dalla tradizione, Bernadette era animata dallo Spirito, rifiutava di conformarsi ai modelli proposti, e non si adattava alle pie usanze del convento. Alla mistica della sofferenza, imperante all’epoca, Bernadette contrapponeva un sano equilibrio: “San Bernardo amava la sofferenza… io invece la evito più che posso!”. Quando le proposero di imitare una sua consorella che, pur sofferente, chiedeva al Signore di mandarle ancora più tribolazioni, lei replicò: “Mi bastano quelle che già mi manda!”. Del resto Bernadette era talmente maltrattata e disprezzata, che le altre suore dicevano di lei: “Che fortuna non essere Bernadette!”.

C’era indubbiamente della ruggine tra la maestra e la novizia, che sfociava in episodi che, se non fossero drammatici, sarebbero comici, come quella volta in cui Bernadette si aggravò così tanto che si pensò che non avrebbe passato la notte, e le fecero amministrare l’estrema unzione. Bernadette non aveva ancora emesso i voti, e le suore decisero di farglieli pronunciare in extremis, e chiamarono il vescovo per accoglierli. Bernadette, stremata, non aveva la forza neanche per sussurrare le parole di rito, che furono pronunciate dal vescovo, e alle quali lei rispondeva solo con un Amen. Il vescovo benedì la suora morente, le chiese di ricordarsi di lui in paradiso e si allontanò. Presso il letto di Bernadette restò madre Vauzou in attesa di chiuderle gli occhi. Invece, colpo di scena, non appena il vescovo uscì dalla stanza, Bernadette, vispa più che mai, esclamò gioiosa “Cara madre, mi avete fatto fare la professione credendo che sarei morta questa notte, invece, non morirò questa notte!”. Madre Vauzou, anziché rallegrarsi, furibonda, la investì con parole rabbiose: “Come, sapevate di non morire e ci avete fatto disturbare monsignor Vescovo in un’ora così inopportuna?! Siete soltanto una piccola sciocca e vi assicuro che, se non morirete entro domani, vi tolgo il velo di professa e vi rimando in noviziato!”.

Qual era la colpa di Bernadette? È che lei “sa quel che vuole”. Animata dallo Spirito, lei rifuggiva gli angusti e tetri canoni ascetici dell’epoca, rivendicando spazi di libertà. Bernadette, a differenza delle altre novizie fabbricate in serie, era capace persino di protestare e manifestare il suo dissenso, e questo tra le suore era considerato un crimine. Così fu prontamente etichettata come ribelle e caparbia: “Molto spesso mi sento chiamare ostinata… ciò mi umilia, però non riesco a correggermi”. La montanara ruspante, pur ingabbiata nelle rigide strutture conventuali, ha conservato sempre la sua libertà, e si ostinava a seguire la strada dello Spirito, mentre la maestra delle novizie pretendeva farle percorrere quella del conformismo religioso. Per costringerla a questo, come testimoniò una suora al processo, “la maestra non si lasciava sfuggire nessuna occasione per farle subire qualche umiliazione”. La vita tra le suore, per Bernadette fu un autentico martirio. Forse, prevedendo questo, l’Apparizione il 18 febbraio le aveva detto: “Non vi prometto di farvi felice in questo mondo, ma nell’altro”.

Del resto occorre riconoscere che in convento Bernadette non faceva nulla per conservare l’aureola di santità o di guadagnarsi la stima delle consorelle. Suscitò grande scandalo quando le suore scoprirono che tra i pochissimi effetti personali di questa anomala novizia figurava… una fiaschetta di vino! Bernadette, che aveva conservato i suoi antichi gusti di popolana, non faceva mistero del suo gustare un goccio di buon vino, e non essendo sufficiente quel poco che le passavano in convento, doveva farselo portare da casa, e quando si sentiva un po’ giù, un goccio e via! Ma c’era di più, da far svenire la madre maestra e tutte le suore: Bernadette… fiutava tabacco! Sì, proprio come un maschio, o come certe donne di mondo! E nella sua spudorata innocenza, non lo faceva di nascosto, ma pubblicamente, anche durante le lezioni, e tentava persino di corrompere le sue virtuose consorelle offrendo loro qualche presa dalla tabacchiera…

Madre Vauzou, che non aveva mai creduto alle apparizioni, detestò così tanto Bernadette che si deve a lei il ritardo del processo di beatificazione. Bernadette morì nel 1879, ma il processo si aprì solo nel 1907, con ventotto anni di ritardo, perché la maestra aveva detto: “Aspettate che io sia morta!”. Per ironia della sorte, quando ormai anziana, madre Vauzou venne portata al ricovero delle suore a Lourdes e fu collocata in una stanza dalla cui finestra si vedeva la grotta e il flusso crescente di pellegrini, lei si innervosiva e, sempre più stizzita, chiedeva di chiudere le imposte. Gesù ha proclamato beati i perseguitati (Mt 5,10), ma la persecuzione più feroce e dolorosa non viene dai nemici della fede, ma da quelli più vicini: “e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10,36). 

*Le informazioni contenute in questo articolo sono tratte dalla poderosa opera del più grande studioso di Lourdes, René Laurentin, pubblicata in sei volumi (Lourdes, Documents authentiques, Paris,

domenica 9 febbraio 2025

Essere ricco non significa avere molto ma sentire molto

 Essere ricco non significa avere molto ma sentire molto


Vedete questo dipinto? È uno dei più famosi al mondo, ma pochissimi conoscono la storia commovente e straordinaria che c’è dietro! 

Guardatelo. C’è una donna, una donna come tante in apparenza, che cammina su un prato in quella che dovrebbe essere una bella giornata di sole. Ma lo sguardo della donna è velato, come se custodisse un segreto. Ecco, questa donna, protagonista de La passeggiata di Monet, si chiama Camille Doncieux. Si erano incontrati per la prima volta in una libreria. Lei è una giovane promessa in sposa a un facoltoso rampollo dell’alta borghesia, lui un pittore squattrinato. Non hanno il permesso di amarsi, così fuggono insieme e si sposano in segreto. 

In apparenza non hanno nulla, né denaro, né ricchezze, né una posizione rispettabile. Le loro famiglie li hanno maledetti, i vecchi amici li deridono, ma hanno l’un l’altro e tanto basta! Furono anni «ricchi» quelli, non di cose ma di risate, non di onori ma di amori. Perché essere ricco non significa avere molto ma sentire molto, e la felicità non si misura nelle cose che possiedi. Ma in quelle che custodisci.

Ma poi un giorno Camille si ammalò. Monet cominciò a dipingerla compulsivamente, come a voler tenere la sua immagine ancorata alla tela per far sì che la morte non la facesse sua. Più la malattia di Camille peggiora, più le figure dei suoi dipinti paiono dissolversi davanti agli occhi, non più intrappolate nella rigidità delle linea che tutto definisce e imprigiona. Qualcosa frantuma i contorni, dissolve le linee, trasforma la materia in luce e la carne in anima.

Alla fine però la malattia è più forte: il cancro uccide Camille a soli 32 anni. Ma continuò a dipingerla tra fiori e fili d’erba, perché il corpo non dimentica e l’anima ricorda. E fu proprio dopo la morte di Camille che incominciò a ritrarre le sue famose ninfee. «E saprò accarezzare i fiori, perché tu m’insegnasti la tenerezza». Ogni mattina per i successivi vent’anni, Monet andava allo stagno per dipingere le ninfe
e che gli ricordavano la sua amata Camille. Monet ha dipinto oltre duecento ninfee, guardando sempre lo stesso stagno. A riprova di quanto può essere bella la stessa cosa ogni giorno, quando la guardi con amore.


Fonte : Professor X


Claude Monet, La Passeggiata, olio su tela 1875.



venerdì 7 febbraio 2025

Amore dimenticato

 "C'è un amore indimenticabile che rimane radicato nel cuore anche dopo che tutto è passato. Pensi di averlo superato, di esserti liberato di lui, e all'improvviso, in un momento fugace, senti una voce che assomiglia alla sua, o vedi una persona con i suoi lineamenti, e la tua anima trema come se l'avessi ritrovata di nuovo, ma sai, nel fondo, che ciò che è perduto non ritorna, e che alcuni sentimenti rimangono chiusi nel cuore, mai rivelati, e non muoiono mai. come braci sotto la cenere, aspettando un solo respiro. Per riaccendere... Il vero amore è quello che finisce, o quello che rimane, anche se non esiste più?


Anton Cechov 

mercoledì 5 febbraio 2025

Non bisogna mai nascondere nulla ai bambini

 “Non bisogna mai nascondere nulla ai bambini con il pretesto che sono piccoli e che è ancora presto perché sappiano certe cose. Che idea triste e infausta! Gli stessi bambini si rendono benissimo conto del fatto che i loro genitori li considerano ancora troppo piccoli per capire qualcosa, mentre loro capiscono tutto. 

I grandi non sanno che, perfino sulle questioni più difficili, un bambino è in grado di dare un consiglio assolutamente serio. Dio mio, ma quando uno di quegli uccellini vi fissa con uno sguardo così felice e fiducioso, come non provare vergogna a ingannarlo? Li chiamo uccellini perché, secondo me, al mondo non c'è nulla di meglio degli uccellini. [...] L'anima si risana grazie al contatto con i bambini.”

Fedor Dostoevskij

“L’Idiota “

Devi andare con quelli “meglio” di te

 Devi andare con quelli.                          “meglio” di te

C’era nella cultura popolare una saggezza semplice, genuina; pochi avevano frequentato scuole: si era nel primo dopoguerra, eppure i nostri antenati sono riusciti a indicarci la via più giusta, per non perderci.

Ricordo una frase di mia madre: “Devi andare con quelli “meglio” di te, non dimenticarlo!

Mia madre parlava poco, il suo silenzio mi ha fatto crescere nel silenzio ed il bene mi veniva rivelato nei gesti semplici o in un’occhiata che voleva dire tutto. 

Il nostro dialogo era costante, così avevo capito che per lei quelli “meglio di me” erano non necessariamente persone colte, ma uomini e donne dallo spirito fiero.

Grazie a lei, ho imparato a non dare giudizi, a non soffermarmi alle apparenze, ma a cercare dentro me stessa tutte le risposte che volevo.

La vita è un grande palcoscenico, dove spesso viene osannato chi recita meglio, ecco perché ho sempre amato chi sta in silenzio e osserva: sono quelli di cui parlava mia madre, quelli “meglio” di me.

Giusy Tolomeo

Sereno e lieto giorno sempre e nonostante tutto

domenica 2 febbraio 2025

 Cruda verità 

La tomba



Qua finiscono le gelosie. Qui finiscono le liti per i confini e per l'eredità. Qui finiscono tutti i risentimenti. Qui finiscono tutti i malintesi. Qui finiscono le convinzioni. Qui finiscono gli odi, i soldi, le proprietà. Qui finiscono i dispetti. Qui finiscono le fantasie. Finiscono gli abbracci mai dati, le carezze mai avute, le parole dolci che non abbiamo speso. Qui si pareggia tutto, perché non siamo niente, se non l'espressione fisica della nostra anima che torna al luogo della verità.

 

Autore sconosciuto


mercoledì 29 gennaio 2025

l’importanza dell’aereosol

 ….


Allora avendo un po’ di esperienza come medico di Pronto Soccorso iniziamo ad elencare l’importanza dell’aereosol soprattutto per i bambini.


1) Bronchiolite : patologia tipica virale dei neonati dai 4 ai 9 mesi.

I bronchioli si chiudono la saturazione di ossigeno cala si va in ipercapnia e se non si interviene subito morte.

Rimedi: Aeresol con Adrenalina ha un effetto abbastanza immediato sulla dilatazione dei bronchioli e della ripresa dell’ ossigenazione.

Ovviamente si fa in ospedale perché necessita il bambino di essere monitorato e di altre cure.

Bronchite Asmatica nell’Adulto e nel bambino.

Di solito il paziente entra in ambulatorio affaticato e continua a tossire.

Basta sentire il torace con Rantoli e Sibili su tutto l’ambito polmonare che si fa subito diagnosi.

Terapia il classico Clenil un ampolla più + 18/20 goccie di Bronvovaleas due volte al giorno più ovviamente antibiotico.

Il paziente può stare a domicilio abbiamo la bronco dilatazione i muchi infetti vengono espulsi con completa guarigione del paziente.

Anche in qs caso se trascurata può portare anche a morte….non preoccupatevi succedeva ai tempi di mio padre.


Bambino con la febbre e vie aeree intasate con congestione laringea.

Sempre consiglio prima di metterli a letto anche se sani il lavaggio nasale.

Purtroppo questi bambini appena li si sdraia dopo un po’ iniziano a tossire di notte senza sosta.

Perché la Laringe infiammata straiandoli collassa , le pareti si sfregano e parte il concerto

Terapia che ho adottato con i miei figli: Aeresol di Bunesonide ( Aircort da 0,25 mg) basta un ampolla,

con la tosse respirano benissimo tempo 5/10 minuti e il bambino e la famiglia dormono tranquilli.

Durante il Covid due Aeresol hanno fatto risaturare il paziente in pochissime ore.

L’ho casualmente scoperto su in anziana che tossiva.

Il giorno dopo oltre alla tosse sparita è salita da 90 a 94 la saturazione.

Ovviamente essendo in un gruppo medico ho passato la notizia a tutti.

Lentamente hanno provato ed è stato il classico uovo di colombo per evitare l’ossigeno terapia.

Ovviamente è poi uscito uno studio scientifico del New England che dimostrava il beneficio .


Altro Aeresol che durante il covid aiutava a ri -saturare era quello con eparina.

Sempre accompagnato da pubblicazioni scientifiche.


Otiti : bastano due aresol al giorno con forchetta nasale ed eventuale cura con antibiotico e passano subito, soprattutto i dolori.


N.B non diluisco mai con fisiologica, le ampolle di oggi sono già pronte all’uso.

Dr. Carlo Bruni

domenica 26 gennaio 2025

Le regioni più industrializzate d’ Italia, prima del 1860, erano la Campania, la Calabria e la Puglia

 Le regioni più industrializzate d’ Italia, prima del 1860, erano la Campania, la Calabria e la Puglia: per i livelli di industrializzazione le Due Sicilie si collocavano ai primi posti in Europa.

In Calabria erano famose le acciaierie di Mongiana, con due altiforni per la ghisa, due forni Wilkinson per il ferro e sei raffinerie, occupava 2.500 operai.

L’industria decentrata della seta occupava oltre 3.000 persone.

La piu’ grande fabbrica metalmeccanica del Regno era quella di Pietrarsa, (fra Napoli e Portici), con oltre 1200 addetti: un record per l’Italia di allora.

Dietro Pietrarsa c’era l’Ansaldo di Genova, con 400 operai.

Lo stabilimento napoletano produceva macchine a vapore, locomotive, motori navali, precedendo di 44 anni la Breda e la Fiat.

A Castellammare di Stabia, dalla fine del XVIII secolo, operavano i cantieri navali più importanti e tecnologicamente avanzati d’Italia.

In questo cantiere fu allestita la prima nave a vapore, il Real Ferdinando, 4 anni prima della prima nave a vapore inglese.

Da Castellammare di uscirono la prima nave a elica d’ Italia e la prima nave in ferro. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione.

L’ Abruzzo era importante per le cartiere (forti anche quelle del Basso Lazio e della Penisola Amalfitana), la fabbricazione delle lame e le industrie tessili.

La Sicilia esportava zolfo, preziosissimo allora, specie nella provincia di Caltanissetta, all’ epoca una delle città più ricche e industrializzate d’ Italia. In Sicilia c’erano porti commerciali da cui partivano navi per tutto il mondo, Stati Uniti ed Americhe specialmente. Importante, infine era l’ industria chimica della Sicilia che produceva tutti i componenti e i materiali sintetici conosciuti allora, acidi, vernici, vetro.

Puglia e Basilicata erano importanti per i lanifici e le industrie tessili, molte delle quali gia’ motorizzate. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione.

Le macchine agricole pugliesi erano considerate fra le migliori d’Europa. La Borsa più importante del regno era, infine, quella di Bari.

Una volta occupate le Due Sicilie, il governo di Torino iniziò lo smantellamento "cinico e sistematico" del tessuto industriale di quelle che erano divenute le “province meridionali”. Pietrarsa (dove nel 1862 i bersaglieri compirono un sanguinoso eccidio di operai per difendere le pretese del padrone privato cui fu affidata la fabbrica) fu condannata a un inarrestabile declino.

Nei cantieri di Castellammare furono licenziati in tronco 400 operai.

Le acciaierie di Mongiana furono rapidamente chiuse, mentre la Ferdinandea di Stilo (con ben 5000 ettari di boschi circostanti) fu venduta per pochi soldi a un "colonnello garibaldino", giunto in Calabria al seguito dei “liberatori”.

lunedì 20 gennaio 2025

Le avventure di Pinocchio

Le avventure di Pinocchio

«Ti mando  questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene per farmi venire voglia di seguitarla». Con questo biglietto al direttore del «Giornale per i bambini» il 54enne Carlo Lorenzini accompagnava le prime pagine del libro italiano più famoso al mondo. I primi due capitoli, firmati con lo pseudonimo Carlo Collodi, uscirono il 7 luglio del 1881. Ma già a fine ottobre l’autore, deluso nei suoi ideali politici e stanco della sua situazione personale, scriveva la parola «fine»: Pinocchio penzola da una quercia, impiccato dal Gatto e la Volpe, come narra il capitolo 15. Un finale inatteso che provocò l’insurrezione del pubblico, così che nel febbraio del 1882 Collodi fu costretto a tirar giù dalla quercia il burattino, per arrivare, a giugno, al finale aperto del capitolo 29: la fata promette a Pinocchio che lo trasformerà in un bambino. Il pubblico insorse di nuovo: Collodi doveva scavare ancora. Riprese a raccontare e, all’inizio del 1883 (proprio nel gennaio di 137 anni fa), regalò ai suoi lettori il capitolo 36 di un libro che conquisterà il mondo intero (è il secondo più tradotto della storia dopo Il piccolo principe), una storia tornata di recente in tv con le lezioni di Franco Nembrini e ora al cinema con l’adattamento diretto da Matteo Garrone.

Collodi, bisognoso di soldi per i suoi debiti di gioco (Pinocchio era lui), fu costretto a scandagliare il suo mondo interiore dai lettori più attenti alla verità: i bambini (cioè tutti, perché tutti lo siamo stati). Se un’opera d’arte supera le intenzioni e le forze di chi crea e diventa popolare, è perché ha colto l’universale. Pinocchio non invecchia e rinasce perché racconta ciò che non deve andare perso: il segreto dell’esistenza. C’era una volta... comincia anche questa favola: il termine, dal latino «fabula», è composto da fa-, il «dire divino» che fa essere le cose (da cui fato), e -bul, suffisso che indica il luogo dove l’azione verbale accade (in latino stabula è dove stanno gli animali, le stalle). E così fabula è il luogo in cui qualcuno incontra il suo destino, il senso del suo stare al mondo: per questo delle storie non potremo mai fare a meno. Questa favola però non si intitola semplicemente «Pinocchio», ma «Le avventure di Pinocchio». L’uomo incontra il suo destino nell’avventura, altra parola meravigliosa, uscita dai romanzi medievali. Avventura era il fine della ricerca del cavaliere: dal latino adventus (arrivo del Messia) o eventus (fatto straordinario), indicava l’incontro con l’ignoto, positivo o negativo, con effetti esistenziali definitivi. L’avventura, sostanza della fabula, è quindi il modo unico che ha ciascuno di incontrare il destino, tanto che — sebbene tempi poco cavallereschi riducano spesso «avventura» a piacere effimero — resiste nell’aggettivo «avventuroso» il significato di «rischioso». Le avventure di Pinocchio sono le peripezie che portano una natura morta (un pezzo di legno) alla vita (un bambino) passando per la prova (il burattino). L’avventura è l’uscita verso l’ignoto di ogni esistenza: ne fa accadere la verità come un nuovo venire alla luce. Tutti gli uomini sono avventurieri della vita, cioè sono chiamati a rischiare per cercare il senso della loro vita. E qual è? Nel libro di Collodi è la tortuosa ricerca dell’amore della creatura per il creatore. All’inizio un pezzo di legno sceglie Geppetto per fuggire a mastro Ciliegia, che vuole farne la gamba di un tavolo; poi l’allontanamento dal «babbo» porta il burattino alla morte (l’impiccagione del primo finale); infine il ritorno alla vita con il ritrovamento del padre e la lotta per salvarlo, prima dal ventre della balena e poi dalla malattia, lavorando giorno e notte per comprare il cibo necessario a farlo guarire. Nel finale, Pinocchio, appena sveglio per una nuova giornata di lavoro, «andò a guardarsi allo specchio e gli parve d’essere un altro». Non è un burattino «trasformato» in bambino, come nella edulcorata versione Disney, ma è «un altro». Il burattino giace in un angolo e, non appena Pinocchio lo vede, esclama: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino». Non è trasformazione, ma nascita: è morto l’io-schiavo (burattino) ed è nato l’io-libero (figlio). Si è compiuto il destino: l’avventura di ogni vita è diventare vivi per amore, attraversando la morte dell’io chiuso in sé e ancora incapace di amare, come hanno intuito, da e con prospettive diverse, Manganelli (Pinocchio: un libro parallelo) e Biffi (Contro Mastro Ciliegia) nei più bei libri-commento su Pinocchio.

Vent’anni fa, nel mio primo anno di insegnamento, lessi il libro per intero a una prima media. Rapì loro e me, perché la verità seduce a qualsiasi età e latitudine: per incontrare se stessi bisogna avventurarsi nella vita, rischiarla per trovarne l’origine e la meta, cioè l’amore da cui siamo fatti e per cui siamo fatti. Solo così saremo sempre vivi e rideremo di quand’eravamo solo pezzi di legno.


[Una bambinata universale

di Alessandro D'Avenia

13 gennaio 2020, Corriere della Sera]


domenica 19 gennaio 2025

La vitamina D

 La vitamina D 

La vitamina D non è solo una vitamina: è un pilastro per il tuo benessere generale, spesso sottovalutato. Ecco come può trasformare la tua salute:

  • Rafforza il sistema immunitario: Aiuta il tuo corpo a combattere infezioni, virus e batteri.
  • Protegge le ossa e i denti: Favorisce l’assorbimento di calcio e fosforo, prevenendo osteoporosi e fragilità ossea.
  • Supporta la salute muscolare: Riduce il rischio di debolezza muscolare e migliora le performance fisiche.
  • Influenza il benessere mentale: Studi recenti la collegano a una minore incidenza di depressione e affaticamento cronico.
  • Riduce le infiammazioni: Agisce come un potente regolatore del sistema infiammatorio.
  • Migliora la salute cardiovascolare: Contribuisce a mantenere sotto controllo la pressione sanguigna e il metabolismo lipidico.

sabato 18 gennaio 2025

Maria Gaetana Agnesi

 

Maria Gaetana Agnesi

 
1717, Milano
 
1799, Milano

 

Nella prima metà del Settecento, il mondo scientifico europeo è in fermento. Diverse discipline richiedono una revisione e rigorizzazione metodologica: l’analisi infinitesimale e l’algebra, la meccanica razionale, l’idrodinamica, il calcolo delle probabilità da un lato, la fisica sperimentale (il cui sviluppo è intimamente legato alla costruzione di nuovi strumenti scientifici) e la chimica dall’altro. La principale spinta propulsiva alla scienza settecentesca venne dallo sviluppo del calcolo infinitesimale, che ebbe origine nell’ultimo scorcio del secolo XVII con le ricerche di Newton e Leibniz. I maggiori ricercatori in tale ambito furono il torinese Lagrange, gli svizzeri Jakob e Johann Bernoulli, ed Eulero che nel 1748 pubblicava a Losanna la Introductio in analysin infinitorum, prima parte di un vasto progetto di sistemazione teorica e didattica del calcolo infinitesimale cui sarebbero seguite nel 1755 a Berlino le Institutiones calculi differentialis e a Pietroburgo, tra il 1768 e il 1770, le Institutiones calculi integralis, in tre volumi.











In questo panorama generale si distingue il contributo di Maria Gaetana Agnesi, donna di vasta cultura, matematica molto nota in tutta l’Europa dell’epoca, che nel 1748 scrisse un trattato di analisi algebrica e calcolo infinitesimale di 1000 pagine in due tomi, le Istituzioni Analitiche, nel quale è inoltre studiata una curva che ha preso il suo nome. Alla pubblicazione di quest’opera si deve lo sviluppo e l’espansione degli studi di analisi in Italia. Sebbene scomparsa nel 1799, il profilo di Maria Gaetana Agnesi, fra le prime e più importanti donne dedicatesi alla matematica con risultati di prestigio internazionale, ci suggerisce di presentarla in questa rubrica, abitualmente dedicata a scienziati credenti dei secoli XIX e XX.

Maria Gaetana nacque a Milano il 16 maggio 1718, figlia di Pietro Agnesi, feudatario di Montevecchia, e della sua prima moglie Anna Brivio; venne battezzata nella parrocchia dei SS. Apostoli e Nazaro Maggiore il 23 maggio dal curato Giulio Ottavio Buzzi. La ricchezza assicurata dagli investimenti nell’industria della seta permisero a suo padre, Pietro Agnesi, di provvedere alla solida educazione dei suoi figli e all’ organizzazione fra le mura domestiche di incontri e seminari, su temi che spaziavano dalla filosofia alla matematica. Una delle sorelle di Maria Gaetana, Maria Teresa, fu nota compositrice, librettista e clavicembalista dell’epoca, ed è oggi commemorata da una targa nel museo teatrale alla Scala di Milano. Maria Gaetana dimostrò una precoce padronanza delle lingue classiche. Tale formazione umanistica va ricondotta agli ottimi maestri che visitavano casa Agnesi: l’avvocato Ludovico Voigt, professore delle Scuole Palatine a Milano, che le insegnò il Greco e il Tedesco, e l’Abate Gerolamo Tagliazucchi, letterato e grecista, professore dell’Università di Torino.

All’età di nove anni, la Agnesi recitò a memoria un’opera da lei stessa tradotta in latino dall’originale in italiano scritta dal suo istitutore, l’abate Niccolò Gemelli: l’Oratio qua ostenditur artium liberalium studia a femineo sexu neutiquam abhorrere (Milano, In Curia Regia, 1727) ovvero l’Orazione nella quale si dimostra che lo studio delle arti liberali non è affatto disdicevole al sesso femminile. Tale orazione ebbe luogo in un intrattenimento accademico tenuto nel giardino di casa il 18 agosto 1727.

Il tema dell’orazione era molto dibattuto in quegli anni. Nel diciottesimo secolo, infatti, l’istruzione femminile era ancora poco diffusa, soprattutto per quanto riguarda le materie scientifiche. Solo le donne appartenenti ad un elevato ceto sociale avevano la possibilità di studiare le basi della matematica, studio incoraggiato – in parte – per avere una conoscenza sufficiente da poterne discutere se l’argomento si fosse presentato in qualche conversazione salottiera. A tale scopo furono scritti una serie di manuali per aiutare le giovani a conoscere gli ultimi sviluppi della scienza. Francesco Algarotti fu autore del Newtonianismo per le dame (1737), in cui cercò di spiegare le scoperte di Newton attraverso un dialogo galante tra una marchesa e il suo interlocutore. Per esempio quando l’interlocutore presenta la legge dell’attrazione gravitazionale che è proporzionale all’inverso del quadrato della distanza, la marchesa dà di questa fondamentale legge fisica una sua particolare interpretazione: «Io credo che anco nell’Amore si serbi questa proporzione de’ quadrati delle distanze de’ luoghi, o più tosto de’ tempi. Così dopo 8 giorni di assenza, l’amore è divenuto 64 volte minore di quel che fosse nel primo giorno».

Tuttavia, oltre allo studio delle lingue, la Agnesi ricevette anche una solida formazione scientifica, da lei stessa cercata e approfondita. Francesco Manara, sacerdote e professore di fisica sperimentale all’università di Pavia, insieme con Michele Casati, anche’egli sacerdote e insegnante all’università di Torino, furono i professori universitari frequentatori di casa Agnesi; a partire dal 1733 guidarono Maria Gaetana nel percorso filosofico e scientifico, affiancando la collaborazione – per certi versi assai più importante – del conte Carlo Belloni, filosofo e matematico di Pavia, il quale seppe riconoscere le potenzialità di Maria Gaetana e trasmetterle la passione per la ricerca. Lo scambio epistolare tra il Belloni e l’Agnesi documenta bene l’intensità del rapporto umano e l’ampiezza delle questioni scientifiche coinvolte.

I suoi interessi fisico-matematici, profondamente radicati nella sua esigenza di chiarezza e rigore intellettuale, portarono Maria Gaetana alla pubblicazione nel 1738, delle Propositione philosophicae, determinando poi la sua completa adesione agli studi matematici dopo il 1739. Le Propositiones philosophicae quas crebris disputationibus domi habitis coram clarissimis viris explicabat extempore et ab objectis vindicabat Maria Cajetana de Agnesiis mediolanensis sono 191 tesi che la Agnesi difese durante uno dei seminari informali presso la sua casa di Milano. L’opera, dedicata al conte Carlo Belloni, comincia con una breve introduzione sulla storia della filosofia (Prolegomena) nella quale è contenuto un passo che, entro la convenzionale ascrizione del sapere matematico ad una filosofia onnicomprensiva, rivela tuttavia la disposizione dell’Agnesi verso il carattere etico della matematica: «Le discipline matematiche devono essere ascritte a parti della filosofia, discipline che a buon diritto rivendicano per sé, in confronto alle altre, il nome di scienza, poiché con fondata certezza ci conducono a raggiungere la verità e a contemplarla, della qual cosa niente è più piacevole».

Con un approccio di carattere enciclopedico seguono poi le tesi: le prime riguardano la logica, l’ontologia e la pneumatologia; successivamente le tesi di fisica generale, quali la meccanica dei gravi, la statica, l’idrostatica, l’idrodinamica, l’idraulica; poi le tesi di fisica particolare come il moto dei corpi celesti e la meteorologia; infine uno studio su piante, minerali, animali e la parte animale dell’uomo.

Le Propositiones non presentano parti di assoluta originalità teoretica, ma indubbiamente sono un’opera di valore per la vasta preparazione che testimoniano. L’originalità emergeva dal vivo nella difesa delle tesi durante gli incontri domestici a casa Agnesi. Il diplomatico francese Charles De Brosses, invitato da Pietro Agnesi a Milano nel luglio 1739, ne dà testimonianza nelle sue Lettres familières écrites d'Italie en 1739 et 1740 par Ch. de Brosses (a cura di R. Colomb, I, Paris 1904). Vi leggiamo questi ricordi: «Torno ora dalla casa della Signora Agnesi, dove ieri vi avevo detto che dovevo andare. Mi hanno fatto entrare in un salone grande e bello, dove c’erano trenta persone di tutte le nazioni d’Europa disposte in circolo, e la signorina Agnesi seduta con la sorellina su un canapé. È una fanciulla tra i 18 e i 20 anni, con un’aria molto semplice e dolce. Andando lì, mi aspettavo che si trattasse soltanto di una comuna conversazione con la signorina; invece il conte Belloni, che mi accompagnava, ha voluto fare una specie di pubblica esibizione; ha cominciato rivolgendo alla ragazza una bella arringa in latino, in modo da essere inteso da tutti. Lei gli ha risposto sull’origine delle sorgenti e sulle cause del flusso e riflusso che si manifesta in alcune di esse come nel mare. La fanciulla parlò su questo argomento come un angelo. Terminato questo episodio, il conte Belloni mi ha pregato di disputare allo stesso modo con lei su qualunque argomento mi piacesse, purché fosse un tema filosofico o matematico. Sono rimasto un po’ perplesso, vedendo che dovevo improvvisare un discorso e parlare per un’ora in una lingua che mi è poco familiare. Tuttavia, senza badare troppo al valore di quello che dicevo, le ho fatto un bel complimento; poi abbiamo discusso, dapprima sul modo in cui l’anima può essere colpita dagli oggetti fisici e comunicarli agli organi del cervello, e quindi sulla emanazione dei corpi e sulle proprietà di certe curve geometriche, di cui non ho compreso nulla. Ha parlato a meraviglia su tutti questi argomenti, dei quali certamente non era preavvertita più di quanto non lo fossimo noi. È fanatica della filosofia di Newton, ed è cosa straordinaria vedere una persona della sua età intendere così profondamente temi tanto astratti. Ma, per quanto mi possa aver stupito la sua dottrina, più ancora mi stupì sentirla parlare in latino (lingua della quale certamente non fa un uso continuo) con tanta purezza, facilità e correttezza che posso dire di non aver mai letto un libro latino moderno scritto in uno stile così perfetto come i suoi discorsi. Dopo che ebbe risposto a Loppin, ci alzammo, e la discussione divenne generale. Ogni persona le parlava nella lingua del suo paese, ed ella rispondeva a ciascuno nella sua lingua. Mi disse che le dispiaceva molto se la visita aveva preso la forma di una discussione teorica; che a lei non piaceva affatto parlare di simili cose in mezzo ad una compagnia dove, per uno che se ne appassiona, venti si annoiano, e che la cosa aveva senso soltanto se fatta tra due o tre persone con gli stessi gusti. Questo discorso mi parve altrettanto sensato quanto i precedenti». Da tale testimonianza si evince il rifiuto da parte della Agnesi di una scienza ridotta a materia di intrattenimento sociale. Ella era consapevole del contrasto tra un serio impegno scientifico (“la discussione teorica”) e il contesto accademico salottiero (“per uno che se ne appassiona, venti si annoiano”).

La Agnesi produsse il massimo sforzo teso ad appropriarsi delle conquiste dell’analisi matematica. La sua educazione matematica si svolse alla confluenza delle linee di ricerca allora più moderne in Italia, ovvero tra Milano, Bologna e Pavia. Guidò gli studi matematici di Maria Gaetana l’olivetano padre Ramiro Rampinelli. Quest’ultimo la mise in contatto con i vertici del pensiero matematico italiano di allora (come testimonia la lettera che Jacopo e Giordano Ricati scrissero al Rampinelli il 19 agosto 1745 per lodare i progressi di Maria Gaetana nei suoi lavori di geometria), e probabilmente si deve anche al Rampinelli l’aggregazione della Agnesi all’Accademia delle Scienze di Bologna.

Un altro allievo del Rampinelli, l’astronomo e matematico Paolo Frisi, ricorda il lavoro della Agnesi nel suo “Elogio di Bonaventura Cavalieri”. «Il primo getto del calcolo era propriamente del Geometra Milanese: com’è pure in Milano, che tutte le scoperte Analitiche di quei tempi, e degli altri a noi più vicini sono state elegantemente descritte da una penna muliebre, legate insieme, e ridotte alla maggiore chiarezza e semplicità». La “penna muliebre” è quella della Agnesi, che nel 1748 pubblica la sua opera maggiore: Istituzioni Analitiche ad uso della gioventù italiana. Le Istituzioni furono stampate grazie allo stampatore Richini che trasse da quei mesi di lavoro un’esperienza utile nell’allora difficile resa tipografica dei trattati matematici (ricchi di formule, diagrammi, ecc.), messa poi a frutto in altre edizioni.

Le Istituzioni sono il frutto dello studio della Agnesi dei trattati matematici di algebra e geometria dei più importanti matematici europei dell’epoca. Il suo intento fu quello di sviluppare uno studio sistematico in cui potessero essere coerentemente inquadrati gli innumerevoli risultati conseguiti nel campo del calcolo infinitesimale, nel corso dei decenni precedenti. L’opera è dedicata a Maria Teresa d’Austria. Nell’Introduzione, l’Autrice si rivolge al lettore spiegando le motivazioni del suo lavoro: «Non avvi alcuno, il quale informato delle Matematiche cose, non sappia altresì quanto, in oggi spezialmente, sia necessario lo studio dell’Analisi, e quali progressi si sieno con questa fatti, si facciano tuttora, e possano sperarli nell’avvenire; che però non voglio, né debbo trattenermi qui in lodando quella scienza, che punto non ne abbisogna, e molto meno da me. Ma quanto è chiara la necessità di lei, onde la Gioventù ardentemente s’invoglj di farne acquisto, grandi altrettanto sono le difficoltà, che vi s’incontrano, sendo noto, e fuor di dubbio, che ogni Città, almeno nella nostra Italia, ha persone che sappiano o vogliano insegnarla, e non tutti hanno modo di andar fuori della Patria a cercare i Maestri. […] Sembrerà forse affatto inutile, che compariscano queste mie Instituzioni, avendo altri già da molto tempo così largamente provveduto all’altrui bisogno. Ma su questo punto io prego il cortese Lettore a riflettere, che crescendo le scienze di giorno in giorno, dopo l’edizione del lodato libro moltissimi, ed importantissimi sono stati i nuovi ritrovamenti inseriti dai loro Autori in diverse opere, come era succeduto degli anteriori; quindi per iscemare agli Studiosi la fatica di andare fra tanti libri ripescando i metodi di recente invenzione, mi sembravano utilissime, e necessarie nuove Instituzioni di Analisi. Le nuove scoperte m’hanno obbligata ad un’altra disposizione di cose, e ben fa chi pon mano in sì fatte materie, quanto sia difficile il ritrovare quella, che sia dotata della dovuta chiarezza e semplicità, omettendo tutto il superfluo, senza lasciare cosa alcuna, che esser possa utile o necessaria, e che proceda con quell’ordine naturale, in cui forse consiste la miglior istruzione, ed il maggior lume. Questo naturale ordine io ho certamente sempre avuto in vita, e l’ho sommamente procurato, ma non so poi se sarò stata bastantemente fortunata per conseguirlo»

Da questa Introduzione si comprende come la Agnesi abbia coscienza di vivere in una stagione rivoluzionaria dell’analisi, e abbia anche coscienza della disomogeneità della penetrazione in Italia di tale materia. Lo scopo dell’opera è dunque pedagogico. Nello spiegare la scelta di scrivere le Istituzioni in Italiano, e non in Latino come era d’uso per le opere di carattere scientifico, la Agnesi afferma di aver «avuto in mira più che ogni altra cosa la necessaria possibile chiarezza». Ella sottolinea anche come, insieme alla serietà e all’impegno, la ricerca matematica abbia avuto per lei un carattere ludico, di sincera passione: «non intendo io di raccoglier lodi, contenta di essermi con sodo e vero piacere divertita, e di aver procurato di giovare altrui».

L’opera è divisa in quattro libri, distribuiti in due Tomi. Il Libro I occupa l’intero Tomo I e si intitola “Dell’Analisi delle quantità finite”. Esso contiene una iniziale esposizione di Geometria Analitica, alla quale segue la trattazione dell’Algebra e le sue applicazioni a problemi geometrici. I Libri II, III e IV, contenuti nel Tomo II, comprendono l’analisi infinitesimale. Il Libro II, diviso in cinque parti, è dedicato al Calcolo Differenziale. Il Libro III, in quattro Capi, è dedicato al Calcolo Integrale. Il libro IV si intitola “Del Metodo Inverso delle Tangenti” ossia delle equazioni differenziali, ed è diviso in quattro parti. Nel primo tomo, insieme con varie curve classiche, la Agnesi descrive una particolare curva chiamata “versiera”, nome che viene utilizzato ancora oggi per definirla. Si tratta di una curva a forma di campana, che può essere ottenuta seguendo alcuni semplici procedimenti geometrici, mentre in analisi matematica può essere indicata ed espressa con una funzione cubica. La curva era già conosciuta da Fermat e fu studiata, più tardi, da Guido Grandi. All'Agnesi se ne deve la divulgazione.

Le Istituzioni ebbero successo in tutta Europa, in particolare per la chiara esposizione dei temi e l’accuratezza del linguaggio impiegato dalla studiosa milanese, come testimoniano alcune recensioni apparse, a poca distanza dalla stampa dell'opera, su periodici scientifici, come ad esempio quella di Jean-Jacques Dortous de Marain ed Etienne de Montigny pubblicata nel 1749 sui registri dell'Accademia reale delle scienze di Parigi. Le Istituzioni influenzarono notevolmente la tradizione matematica italiana. Giuseppe Luigi Lagrange annoverò il trattato della Agnesi fra le opere sulle quali egli aveva formato la sua cultura scientifica.

Carlo Goldoni, che conobbe la Agnesi e ricevette da lei in dono una copia delle Istituzioni, fa riferimento alla scienziata italiana, testimoniandone la fama internazionale, nella II scena del I atto della commedia “Il Medico olandese” , in cui uno dei personaggi parla di “un certo libro italiano / che tratta delle Analisi, venuto da Milano. (…) con saper profondo / prodotto abbia una donna un sì gran libro al mondo. / È italiana l’autrice, non è olandese / donna illustre, sapiente, che onora il suo paese”.

L’opera fu tradotta in francese e in inglese. La traduzione francese, relativa al secondo tomo, fu condotta da P. Th. Anthelmy e Ch. Bossut, e venne pubblicata a Parigi nel 1775 con il titolo Traités élémentaires de calcul différentiel et de calcul intégral traduits de l'italien de Mademoiselle A., avec des additions. La traduzione inglese fu curata dal matematico John Colson (1680-1760), traduttore e commentatore del De Methodis Serierum et Fluxionum di Isaac Newton, e fu pubblicata postuma, nel 1801, a cura di J. Hellins col titolo Analytical Institutions (London, 1801). Proprio la traduzione di Colson è all'origine di un equivoco sul nome attribuito in inglese alla curva studiata dalla Agnesi, la versiera. L'errore deriva dalla confusione del termine “versiera” con il vocabolo “aversiera” o “avversiera”, che indicava anche “strega”. Colson traducendo in inglese i testi dell’Agnesi, chiamò la curva “Witch of Agnesi”. Nel mondo anglosassone e in diversi altri paesi come Messico e Spagna, la curva è nota ancora oggi come “la strega di Agnesi”.

Il successo dell'opera fu tale che alla Agnesi fu offerto l’insegnamento della matematica all'Università di Bologna da papa Benedetto XIV, che aveva ricevuto in dono una copia dell'opera. Come riporta Francesco Agnoli in un articolo de Il Foglio (16.02.2012), nella lettera di conferimento del 1750, il Papa scrive alla matematica milanese: «Vi esorto a formare delle compagne che vi somiglino; affinché resti ognuno persuaso che voi valete quanto noi, quando volete studiare. L’anima diventa frivola quando non pensa che a nastri, e pennacchi; ma essa è sublime allorché sa meditare». Nel 1750 il senato accademico dell'Università di Bologna decretò la nomina, ma non è chiaro se la Agnesi abbia mai svolto il suo incarico. Tuttavia fu la seconda donna al mondo ad occupare una cattedra universitaria.

Parallelamente alle sue ricerche e al suo lavoro, la Agnesi si occupò sempre di opere di beneficienza di assistenza presso l’ospedale Maggiore di Milano. Dopo la pubblicazione delle Istituzioni, la Agnesi ridusse i suoi studi e la vita pubblica, per dedicarsi ad opere di sostegno nei confronti dei poveri, mostrando un crescente interesse verso la Sacra Scrittura e la teologia. Dopo la morte di suo padre, Pietro Agnesi, avvenuta il 19 marzo del 1752, Maria Gaetana trasformò la sua casa di via Pantano a Milano in un ricovero per bisognosi. Scriveva così in un’occasione: «L’uomo deve sempre operare per un fine, il Cristiano per la gloria di Dio; finora spero che il mio studio sia stato di gloria a Dio, perché giovevole al prossimo ed unito all’obbedienza, essendo tale anche la volontà e genio di mio padre: ora cessando questa, trovo mezzi e modi migliori per servire a Dio e giovare al prossimo, ed a questi devo e voglio appigliarmi». In seguito a cause ereditarie, la Agnesi fu però costretta ad abbandonare la casa paterna, e dopo aver venduto i gioielli che Maria Teresa d’Austria le aveva donato quale ringraziamento per l’omaggio delle Istituzioni, riuscì ad aprire un nuovo ospizio dedicato alla cura dei minorati psichici. In quegli anni, uno dei suoi motti fu: «Un’anima data al servizio di Dio deve essere santamente libera, e non curante dei biasimi non meno che delle lodi».

Nel 1771 venne aperto il Pio Albergo dei Poveri, nel palazzo ristrutturato del principe Trivulzio di Milano. La Agnesi venne chiamata dal cardinale Pozzobonelli a ricoprire l'incarico di direttrice e visitatrice delle donne dell’Istituto. Condivise la vita delle ospiti dell'istituzione, vivendo in semplici locali del Pio Albergo, per i quali pagava l'affitto; si dedicava con le ricoverate anche ai lavori femminili. Spese qui gli ultimi anni della sua vita, nei quali si dedicò inoltre alla stesura di un testo di carattere religioso, Il Cielo mistico, cioé contemplazione delle virtù, dei misteri e delle eccellenze del Nostro Signore Gesù Cristo, nel quale viene illustrato il progressivo avvicinamento di un’anima a Dio mediante la contemplazione della Passione di Cristo.

Le sue giornate erano organizzate in modo tale da poter alternare la vita di preghiera con le opere assistenziali. Come scrive il suo primo biografo, Antonio Francesco Frisi, fratello del matematico Paolo, «alzavasi di buon mattino e portavasi alla vicina Chiesa di S. Antonio de’ PP. Teatini, dando così la precedenza ai tremendi Misteri: ivi spesso conferiva col suo direttore il P. D. Giuseppe Maria Reina, e due volte alla settimana accostavasi a ricevere i Sacramenti della penitenza e della Eucaristia, con tale compostezza e religiosità anco esteriore che riusciva a circostanti di sorprendente edificazione. Visitava sovente il pubblico Spedale, prestando agli infermi i cristiani uffici di un cuore amoroso e compassionevole, colle parole e colle opere. Passava quindi nella propria parrocchia, somministrando ad esse, e ad altre sparse per la Città nei casi più urgenti ogni opportuno conforto. In qualunque stagione non lasciò mai di accompagnare il SS. Viatico agli infermi suoi comparrocchiani. […] Catechizzava le ragazze di prima età, abilitandole con inesprimibile dolcezza ed invincibile pazienza a ricevere i SS. Sacramenti. Visitava nelle Solennità maggiori le sette Chiese Stazionali della Città […]. Soleva procurarsi nelle proprie stanze una o due inferme, presso le quali godeva di esercitare gli uffici di amica, di spedaliera, di ancella e di maestra di spirito; notte e giorno provvedendo ai loro bisogni colle proprie mani».

La Agnesi morì a Milano il 9 gennaio 1799. Nel 1991, ad uno dei crateri del pianeta Venere venne assegnato il nome “Agnesi” in onore della scienziata italiana.

Bibliografia:

M.G. AGNESI, Istituzioni analitiche ad uso della gioventù italiana, 2 tomi, Milano 1748 (rist. Nabu Press, Charleston 2012).

L. ANZOLETTI, Maria Gaetana Agnesi, Cogliati, Milano 1900.

A.F. FRISI, Elogio storico di donna Maria Gaetana Agnesi, Giuseppe Galeazzi, Milano 1799 (Ristampa della edizione milanese del 1799 curata e commentata da Arnaldo e Giuseppina Masotti, Scuola Tipografica del Pio Istituto per i Figli della Provvidenza, Milano 1965).

P. FRISI, Elogi di Galileo Galilei e Bonaventura Cavalieri, Galeazzi, Milano 1778.

A. MASOTTI, Maria Gaetana Agnesi, «Rendiconti del seminario matematico e fisico di Milano», vol. XIV (1940).

F. MINONZIO, Chiarezza e metodo, l’indagine scientifica di M. G. Agnesi, «Periodico della Società Storica Comense», vol. LXII (2000), pp. 47-184 (riedito da Lampi di Stampa, Milano 2006).

G. TILCHE, Maria Gaetana Agnesi, La scienziata santa del Settecento, Rizzoli, Milano 1984.

E. LAMB, The 18th-Century Lady Mathematician Who Loved Calculus and God, Smithsonian.com (2018).

 

Relativamente alle Istitutiones segnaliamo:

http://mathematica.sns.it/media/volumi/14/Inst_an_1_bn.pdf

http://mathematica.sns.it/media/volumi/14/Inst_an_2_col.pdf

Federica Volpi

LA SOLITUDINE

 LA SOLITUDINE


Esistono tre modi con cui l’uomo tenta di superare il senso di solitudine: la sessualità, il conformismo e l’attività creativa. Nel primo caso il risultato è un sempre crescente senso d’isolamento, poiché l’atto sessuale, senza amore, non riempie mai il baratro che divide due creature umane, se non in modo assolutamente momentaneo.


La soluzione più frequente scelta dall’uomo è l’unione col gruppo. Se io sono uguale agli altri, sia nelle idee che nei costumi, non posso avere la sensazione di essere diverso. Sono salvo: salvo dal terrore della solitudine. L’unione ottenuta mediante il conformismo, non è intensa né profonda; è superficiale e, poiché è il risultato della routine, è insufficiente a placare l’ansia della solitudine.


Un terzo modo per raggiungere l’unione è l’attività creativa: sia che il contadino coltivi il grano o il pittore dipinga un quadro, l’uomo si unisce col mondo nel processo di creazione. Questo, tuttavia, vale solo per il lavoro produttivo, per il lavoro nel quale io progetto, produco, vedo il risultato della mia fatica. Ma nel moderno processo di lavoro, il dipendente, anello di una catena senza fine, è un’appendice della macchina o dell’organizzazione burocratica”. 

Erich Fromm, “L’arte di amare”


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lunedì 6 gennaio 2025

La stella cometa

 

Cosa videro i Re Magi? Una cometa o due pianeti allineati?

Stella cometa magi

Re Magi e la cometa, cosa videro? L’astrofisico italiano Marco Bersanelli rivela che nell’anno 7 a.C. per 3 volte Giove e Saturno si sfiorarono sulla volta celeste, un segno che i tre astronomi persiani non potevano ignorare.


 

Per tradizione dopo l’arrivo dei Re Magi alla grotta guidati dalla stella cometa, il presepe tornerà negli scatoloni in cantina, pronto per il Natale del prossimo anno.

Proprio sull’esistenza storica di questa cometa è intervenuto recentemente il noto astrofisico italiano Marco Bersanelli, professore ordinario di Astronomia e Astrofisica e direttore della Scuola di Dottorato in Fisica, Astrofisica e Fisica Applicata presso l’Università degli Studi di Milano.

L’interesse verso le comete è sempre stato alto, ha spiegato l’astrofisico, anche perché «potrebbero aver contribuito alla formazione di molecole complesse facilitando così la comparsa dei primi microorganismi sul nostro pianeta».

Ancora oggi colleghiamo una cometa al cammino dei Re Magi, ma «va detto subito che il racconto dell’evangelista Matteo, l’unico che lo riporta, non parla mai di “cometa” ma di “stella”. Anzi, usa la parola greca aster, che indica genericamente un astro o un evento astronomico, aprendo così il campo a molte interpretazioni», ha spiegato l’astrofisico italiano.

 

La tradizione della cometa risale a Giotto

La tradizione della cometa risale in realtà a Giotto il quale, dipingendo l'”Adorazione dei Magi” nella Cappella degli Scrovegni a Padova, rappresentò la stella di Betlemme come una cometa, colpito dall’aver osservato nel 1301 la cometa di Halley.

 A lungo si è pensato che quella di Halley potesse effettivamente essere stata la stella dei Magi, «ma oggi questa ipotesi è caduta come conseguenza della precisione raggiunta dagli studi di astronomi e storici».

 

Cosa videro i Re Magi? Due pianeti allineati

Oggi la pista più promettente sembra essere un’altra, scrive Bersanelli.

A volte due pianeti percorrono le loro orbite a velocità diverse e appaiono in cielo allineati, così da formare quasi un’unica luminosissima stella.

Nel 1604 Keplero ammirò la congiunzione tra Giove e Saturno, ebbe un’intuizione e si gettò in un lungo calcolo: proprio lo stesso fenomeno doveva essere accaduto in prossimità della nascita di Gesù.

Oggi, scrive Bersanelli, «grazie alla precisione della meccanica celeste e al potere di calcolo raggiunto, possiamo confermare con certezza che nell’anno 7 avanti Cristo per ben 3 volte (29 maggio, 3 ottobre, 4 dicembre) Giove e Saturno si sfiorarono sulla volta celeste, sullo sfondo della costellazione dei Pesci. Anche Marte si avvicinò, rendendo la scena ancor più ricca e insolita».

Certamente «non poteva certo sfuggire ai Magi, presumibilmente astronomi persiani o caldei, attenti osservatori del cielo. Questa configurazione celeste avrebbe avuto per loro anche un forte significato astrologico e potrebbe così dare conto dell’intuizione che li avrebbe mossi al cammino».

Nella simbologia del tempo infatti Giove rappresentava la “regalità” e la “divinità”, Saturno la “giustizia”, e la costellazione dei Pesci veniva associata al popolo ebraico. È quindi possibile che i Magi abbiano tradotto quel segno celeste nel concetto che “un grande re di giustizia sta per nascere in Israele”.

Ecco allora che si dirigono verso la Palestina e si recano nella reggia di re Erode chiedendo: “Dov’è il re dei Giudei che è nato?”».

 

Nel cristianesimo lo studio delle stelle

Come abbiamo spiegato nel nostro apposito dossier, è con il cristianesimo che si è potuto studiare scientificamente le stelle e le comete, proprio perché non vennero più concepite come dei o angeli, capaci di determinare deterministicamente il destino dell’uomo.

Gli astri, come ha concluso Bersanelli, possiamo «tentare di conoscerli attraverso la scienza proprio perché non sono realtà soprannaturali ma creature provvisorie, segni di una Bellezza più grande. E così la cometa nel nostro presepe continuerà a essere segno della dimensione cosmica della nascita di quel Bambino, tutt’altro che appariscente, ma decisiva per la storia di ogni uomo e della realtà tutta».

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La Redazione

7 commenti a Cosa videro i Re Magi? Una cometa o due pianeti allineati?

  • Francesco B. ha detto:

    Molto interessante, proprio ieri sera mi è capitato sott’occhio un documentario in cui parlavano di questa ipotesi (non chiedetemi che canale e che documentario fosse perché avevo parecchio sonno e ne ho visto un pezzetto :D)

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  • Raffaele Vargetto ha detto:

    Stimo l’astrofisico Marco Bersanelli per i suoi interventi di scienziato credente, che manifestano la sua preparazione scientifica, oltre che la sua onestà intellettuale, ed anche la sua fede cattolica. Tuttavia, sull’argomento della stella dei santi Magi, noto che, sia tra gli scienziati credenti che tra gli stessi ministri di Dio, prevale quasi sempre la tesi che la suddetta stella sia un fenomeno strettamente astronomico. Per me non è così. Dobbiamo attenerci al testo sacro: il Vangelo di Matteo al cap.2 versetto 9, afferma: ” Ed ecco, la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino “. Da ciò si evince, secondo me, che il fenomeno non si situa al di fuori dell’atmosfera terrestre, ma, al contrario, al suo interno; e, inoltre, che esso non è un segno naturale, ma soprannaturale, un segno governato dagli angeli, un segno “intelligente”: “si fermò sopra il luogo”. Non bisogna incensare molto la scienza umana, ma l’onnipotenza divina, che se vuole, può fare a meno dei fenomeni naturali. Non è necessario suggerire soluzioni scientifiche alle più luminose manifestazioni dell’Onnipotenza divina.