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venerdì 1 agosto 2025

La Pietà (1928)

 

La Pietà (1928)



Giuseppe UngarettiLa Pietà
in Sentimento del tempo
Vita d'un uomo. Tutte le poesie

Mondadori, 2005
I Meridiani Collezione,
LXIII-906 p; Euro 12,90

e poesie scritte da Giuseppe Ungaretti in tempi immediatamente successivi alla conversione religiosa, risentano di uno spirito ancora incerto, ma decisamente orientato ai temi della chiesa cattolica e del vangelo di Cristo. Tra queste si distingue per bellezza e per pregnanza La Pietà.

    LA PIETÀ
    1928

    1

    Sono un uomo ferito.

    E me ne vorrei andare
    E finalmente giungere,
    Pietà, dove si ascolta
    L’uomo che è solo con sé.

    Non ho che superbia e bontà.

    E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.

    Ma per essi sto in pena.
    Non sarei degno di tornare in me?

    Ho popolato di nomi il silenzio.

    Ho fatto a pezzi cuore e mente
    Per cadere in servitù di parole?

    Regno sopra fantasmi.

    O foglie secche,
    anima portata qua e là…

    No, odio il vento e la sua voce
    Di bestia immemorabile.

    Dio, coloro che t’implorano
    Non ti conoscono più che di nome?

    M’hai discacciato dalla vita.

    Mi discaccerai dalla morte?

    Forse l’uomo è anche indegno di sperare.

    Anche la fonte del rimorso è secca?

    Il peccato che importa,
    se alla purezza non conduce più.

    La carne si ricorda appena
    Che una volta fu forte.

    È folle e usata, l’anima.

    Dio guarda la nostra debolezza.

    Vorremmo una certezza.

    Di noi nemmeno più ridi?

    E compiangici dunque, crudeltà.

    Non ne posso più di stare murato
    Nel desiderio senza amore.

    Una traccia mostraci di giustizia.

    La tua legge qual è?

    Fulmina le mie povere emozioni,
    liberami dall’inquietudine.

    Sono stanco di urlare senza voce.

    2

    Malinconiosa carne
    dove una volta pullulò la gioia,
    occhi socchiusi del risveglio stanco,
    tu vedi, anima troppo matura,
    quel che sarò, caduto nella terra?

    È nei vivi la strada dei defunti,

    siamo noi la fiumana d’ombre,

    sono esse il grano che ci scoppia in sogno,

    loro è la lontananza che ci resta,

    e loro è l’ombra che dà peso ai nomi,

    la speranza d’un mucchio d’ombra
    e null’altro è la nostra sorte?

    E tu non saresti che un sogno, Dio?

    Almeno un sogno, temerari,
    vogliamo ti somigli.

    È parto della demenza più chiara.

    Non trema in nuvole di rami
    Come passeri di mattina
    Al filo delle palpebre.

    In noi sta e langue, piaga misteriosa.

    3

    La luce che ci punge
    È un filo sempre più sottile.

    Più non abbagli tu, se non uccidi?

    Dammi questa gioia suprema.

    4

    L’uomo, monotono universo,
    crede allargarsi i beni
    e dalle sue mani febbrili
    non escono senza fine che limiti.

    Attaccato sul vuoto
    Al suo filo di ragno,
    non teme e non seduce
    se non il proprio grido.

    Ripara il logorio alzando tombe,
    e per pensarti, Eterno,
    non ha che le bestemmie.

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