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mercoledì 9 marzo 2016

Nicola MIRENZI, Pasolini contro Pasolini,A capo di CL

Nicola MIRENZI, Pasolini contro Pasolini,A capo di CL
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 Lindau 2016, pp. 85-96 (la scheda del libro su http://www.lindau.it/Libri/Pasolini-contro-Pasolini).

A capo di CL
In principio è un rammarico: «Quanto mai quella sera non l’ho accostato – aspettavo l’ultimo aereo che partiva da Milano verso Roma –, distratto da Monsignor Pisoni»1. Dopo, è un desiderio nascosto da previsione: «Se Pasolini fosse stato a due nostri raduni, ci avrebbe investito di invettive, ma sarebbe diventato uno dei nostri capi»2.
Don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, ha coltivato l’amarezza a lungo: l’amarezza di non essere riuscito a stabilire un legame con Pier Paolo Pasolini, il poeta che – secondo lui – aveva Cristo scritto in corpo e non sapeva più leggerlo. Si è reso conto troppo tardi, Giussani, che lo scrittore icona dello scandalo era immerso in una religiosità naturale e tenerissima, dentro cui tutto diventava sacro, anche il profano. Anzi, soprattutto il profano.
Per alcuni dei discepoli di Giussani – le ragazze e i ragazzi di CL e dintorni –, il dolore che il teologo provava per non aver trovato in tempo le parole che avrebbero potuto tendere una mano a Pasolini, si è tramandato come un’ossessione, uno scherzo del destino che non fa ridere, un appuntamento mancato con la testimonianza.
Nella sua biografia di Don Giussani, Alberto Savorana racconta che «la mattina del 3 novembre 1975, nel suo studio di via Martinengo Giussani apprende dal “Corriere della Sera” dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Con lui c’è Laura Cioni, che scorge sulla scrivania una lettera indirizzata allo scrittore, che non sarà mai completata: “Esprimeva una totale consonanza con le posizioni da lui sostenute in tanti articoli sul ‘Corriere della Sera’”» 3.
La lettera non è stata mai inviata e nemmeno ritrovata. È una realtà affidata al ricordo. Vero è che Giussani si accorge di Pasolini come qualcosa d’altro e di più dello scrittore che vuole scandalizzare i borghesi. Leggerlo sul «Corriere della Sera» ha la forza di una rivelazione. L’entusiasmo con cui aveva accolto l’articolo del 24 giugno 1974, Il vuoto di potere, lo ricorda Lucio Brunelli: «Mi vede passare e ballando letteralmente sulla sedia mi chiama: “Vieni Lucio, leggi qua, è l’unico intellettuale cattolico, l’unico…”»4.
Ma cosa mai potevano avere in comune Don Giussani e Pasolini? L’uno capo carismatico di CL, l’altro marxista eretico e omosessuale. Sono due mondi diversi, in teoria alieni. Eppure Giussani vede nello scrittore una possibilità di dialogo. Il leader di CL – spiega il filosofo Massimo Borghesi – era colpito dalla «critica pasoliniana all’omologazione, alla distruzione del popolo ad opera di un nuovo potere, conservatore e dissacrante ad un tempo, per il quale l’unico Dio era la merce, il consumo come forma di vita»5. È una sintonia che appartiene al mondo delle idee, delle analisi razionali della realtà, alle spiegazioni dell’esistente. L’opera-vita di Pasolini non importa granché a Giussani, anzi in essa rintraccia un vuoto. «Pasolini diverrà per Giussani – scrive Borghesi – il paradigma di un dramma, quello di un uomo cresciuto nella tradizione cattolica, ricevuta dalla madre, abbandonata perché non confortata dall’esperienza di un nuovo incontro»6. Giussani stimava sinceramente Pasolini. Ma allo stesso tempo gli appariva incompiuto. Un uomo a cui lui, buon pastore, non ha fatto in tempo a indicare la strada del ritorno a casa. Per Giussani, Pasolini è uno che «la tradizione cristiana genuina» l’aveva scritta nel corpo, «avendola succhiata dal seno di sua madre». Il guaio è stato che Pasolini «ha incontrato un gruppo di persone che si ponevano contro la società di allora» e ha «cercato una strada sbagliata: ha detto che la verità non c’è – meglio che la verità non si sa cosa sia –. Ma lentamente, nella sua vita si è sentito riecheggiare quello che diceva sua madre sulla vita, sulla verità e sulla strada da battere. Se avesse incontrato uno con la nostra passione, se fosse venuto ad un gesto della nostra comunità, soprattutto a certi momenti, Pasolini avrebbe pianto»7.
Quella del pianto non è un’immagine usata a caso. Le lacrime significano qualcosa, qualcosa di molto preciso. Perché quando Giussani parla così di Pasolini ha già incontrato e avviato un rapporto con un altro autore irregolare, protagonista dell’Italia culturale del dopoguerra: Giovanni Testori, l’intellettuale che prenderà sul «Corriere della Sera» il posto che era stato di Pasolini. Dopo aver letto l’articolo che Testori scrive sul rapimento Moro – un articolo ricco di pietas – Don Giussani cerca e incontra Testori nel 1978, in un ristorante di piazzale Aquileia, a Milano.
Appena lo vide, si alzò per andargli incontro. Giovanni era totalmente commosso, sino alle lacrime. Don Giussani, anche lui commosso, lo abbracciò. Testori, piangendo, continuava a dire che lui – che aveva rinnegato e bestemmiato Dio – non era degno di stare di fronte a don Giussani. E poi spiegò come avesse passato la vita a cercare di togliere dalla sua fronte quella croce che nel battesimo gli era stata impressa. E più si sforzava di eliminarla più prepotentemente veniva fuori sino a quando, con la morte di sua madre, era stato rigenerato alla vita. Disse che era come se sua madre, morendo, l’avesse partorito di nuovo8.
Ecco le lacrime che Don Giussani ha in mente quando dice che se Pasolini lo avesse incontrato avrebbe pianto. Quello che non dice, è ciò che è stato dedotto e che lascia intendere. Cioè, che se Pasolini avesse incontrato Giussani, avrebbe seguito lo stesso percorso di Testori, ossia quello di riscoprire il cattolicesimo materno – come se i due fossero la stessa cosa. Entrambi omosessuali, dotati di un’intelligenza libera e mai chiusa negli schieramenti, i due autori, pur avendo più di un punto in comune, sono finiti schiacciati in una sovrapposizione.
Testori torna più volte e con condiscendenza sulle opere di Pasolini9. E la sua rilettura, più che una meditazione, viene scambiata per un’interpretazione autentica, come se il Pasolini di Testori fosse più vero di Pasolini stesso. Stiamo parlando di una lettura intessuta di cattolicesimo, condotta con uno sguardo intimo e sofferto, dove l’omosessualità è colpa e l’eredità religiosa materna diventa una verità che Pasolini ha rifiutato, condannandosi. «L’aver ridotto a una considerazione sociale il problema della mutazione antropologica», scrive Testori, è un limite che «probabilmente gli deriva dalla sua volontà di essere marxista» benché «non era in Gramsci o in Marx che la sua invettiva poteva innalzarsi in modo lacerante e definitivo». Il peccato di Pasolini è non aver rivolto il suo sguardo alla Chiesa, che «non è certo un Palazzo» (cioè l’opprimente immagine del potere secondo Pasolini), «ma una casa, un grembo, un camino»10. Ciò che «gli mancò» – secondo Testori – è anche «il padre»11, una figura della norma e dell’ordine che desse un centro al suo caos.
Ecco così disegnata la figura del Pasolini privo della Sacra famiglia, sordo ai richiami religiosi della madre e privato di un padre, perfettamente in balia di sé stesso: come se la solitudine fosse una condanna, e non una scelta. La sua forza, pure.
Dentro il mondo di CL Pasolini arriva così attraverso un gioco di specchi, in cui l’intuizione di Giussani passa attraverso l’elaborazione di Testori, disegnando un’immagine dello scrittore particolarissima e originale. Un Pasolini mondato degli aspetti più imprendibili e chiamato in causa nella dimensione terrena della religione. Un Pasolini testoriano: cattolico più che marxista. Ed è questo Pasolini che va per la maggiore sulle pagine del «Sabato», che dal 1986 diventa il settimanale di riferimento di CL a Roma. Undici anni dopo la morte dell’autore, gli Scritti corsari e le Lettere luterane vengono rievocate dal «Sabato» come premessa necessaria per capire il presente. «Un giorno sì e l’altro pure lo citavamo nei nostri editoriali», mi racconta Giuseppe Frangi, sino al 1986 responsabile delle pagine culturali del settimanale e successivamente direttore. «“Il Sabato” voleva dare un giudizio storico della secolarizzazione italiana e su tutto ciò che stava accadendo nel Paese. Per farlo, Pasolini era un passaggio essenziale, che permetteva di prendere delle posizioni non banali, nei nostri articoli tornava in continuazione».
«Il Sabato» riprende l’osservazione di Don Giussani e la sviluppa sino a farne una lente privilegiata per scandagliare la società italiana. «Ci interessava – continua Frangi – tutto il tema antropologico di Pasolini, la lettura delle mode e del mondo giovanile». Ma è lì dove la riflessione di Pasolini incontra la Chiesa che avvertivano una sintonia feconda.
Sentivamo giustissima l’analisi che Pasolini fa della Chiesa, cioè la Chiesa messa ai margini e priva ormai di potere. Pasolini percepisce che la Chiesa non conta più nulla, che è un giullare nelle mani di altri poteri. È un tema che Giussani negli anni ’70 aveva intuito benissimo, si rendeva conto che era ciò che stava accadendo, mentre la gerarchia ecclesiastica voltava la testa dall’altra parte. Per Giussani il tema del potere era importantissimo: la Chiesa doveva smettere di sentirsi complessata rispetto al potere, cioè di viverlo come qualcosa da tener nascosto, oppure – come fa il cattolicesimo del dissenso – rifiutandolo come un male. Con il potere, secondo Giussani, bisognava realisticamente fare i conti: perché essere nella storia significa accettare che ci sia.
Il fatto è che Pier Paolo Pasolini odiava il potere. Qualsiasi potere, anche il suo. Il rifiuto ossessivo dell’autorità lo spingeva sino a identificar ogni potere con il fascismo. Pensate al film Salò. Oppure, per restare nei temi cristiani, alla sceneggiatura per un film su San Paolo, dove arriva a spezzare Paolo in due: l’uomo di Chiesa, detentore di un’autorità, disprezzato; e l’uomo piegato dalla sofferenza, che spinge la sua umanità sino alla santità, che invece ammira. Il tema del potere è un tema centrale per Pasolini. Anzi, è proprio il fatto che la Chiesa abbia perso il potere nel mondo ciò che gliela rende sorella e vicina. È in ragione di quella perdita che Pasolini arriva a schierare la Chiesa dalla parte degli esclusi, consigliandole di riprendere «una lotta che per altro è nelle sue tradizioni (la lotta del Papato contro l’Impero), ma non – attenzione a questo inciso – per la conquista del potere: la Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso, totalitario, violento, falsamente tollerante, anzi più aggressivo che mai»12.
I militanti di CL e i giornalisti del «Sabato» – più che dal tema del rifiuto del potere – sono attratti dal Pasolini che vede l’Apocalisse che si sta abbattendo sul mondo e rischia di travolgere la Chiesa. È su questo brandello di Pasolini che insistono e che – a furia di tornarci – espandono sino a ricomprendere – nel frammento – tutto l’autore.
È questo, d’altronde, il tema dell’opera pasoliniana che incrocia anche un intellettuale cattolico come il filosofo Augusto del Noce, che il primo febbraio 1975 annota sul suo diario: «Le cose che Pasolini diceva erano veramente giuste: l’emergere dopo il ’60 del “potere reale” e la relativa sconfitta dei politici.
Comincia il totalitarismo […] quel totalitarismo che il fascismo non riuscì a realizzare perché si trovò davanti la vecchia Chiesa»13. Avete notato la data di quest’appunto? È il febbraio 1975. Del Noce, cioè, sente una sintonia con Pasolini quando ancora era vivo, al contrario di moltissimi altri che se accorgeranno magicamente solo post mortem. E la sente nonostante che la vita di Pasolini gli procuri più di un problema morale ed etico. Per lui, l’omosessualità dello scrittore è davvero inaccettabile.
Ma, come mi spiega Massimo Borghesi, studioso del filosofo,
Del Noce accantona la questione morale perché negli Scritti corsari coglie una diagnosi lucidissima e totalmente realistica della transizione della società italiana dagli anni ’60 agli anni ’70. La famosa rivoluzione antropologica diagnosticata da Pasolini ha più di una coincidenza con l’analisi che Del Noce aveva fatto della società opulenta, il passaggio a una società totalmente irreligiosa. È questo elemento teorico il centro dell’incontro tra Del Noce e Pasolini: entrambi, per vie diverse, capiscono che il nuovo capitalismo non ha più bisogno della religione14.
Contrariamente al luogo comune, continua Borghesi, è
l’elemento nostalgico e conservatore di Pasolini che Del Noce critica e rifiuta: egli non approva affatto il Pasolini che guarda al mondo pre-industriale come il luogo di un mondo ancora intatto e salvo. Per Del Noce, Pasolini è l’uomo di sinistra che permette di far capire la rilevanza della questione cattolica, della Chiesa minacciata dal nuovo potere che avanza, è l’autore che fornisce una conferma spettacolare delle diagnosi che lui, negli stessi anni, stava portando avanti.
Però, vedete? Nella riflessione che Del Noce fa su Pasolini manca la percezione che ogni cosa che Pasolini scrive, dice e fa è indissolubilmente legata alla sua carne, al suo essere diverso, in virtù della relazione strettissima che l’opera intrattiene con la vita, sino al punto che le due cose non si possono distinguere15. È questa la vera dimensione cristologica di Pasolini: Verbo che si fa Carne. E, ancora una volta – anche se in maniera più alta e certo molto più colta – Pasolini è un mezzo, non un fine. Non importa cosa di preciso egli avesse da dire, ma è più urgente capire cosa, usando lui, il suo successo, la sua icona, la sua notorietà, si possa dire. Pasolini è come un taxi che si prende per percorrere un breve tragitto: non un treno per fare un lungo viaggio. Si sale, si arriva a destinazione, si scende. Del Noce saluta Pasolini definendolo un «ribelle incompiuto», riconoscendo che «ha avuto il coraggio di opporsi a quell’orribile dittatura culturale» della secolarizzazione, ma contestandogli di non aver «veramente criticato le ragioni per cui questo fenomeno ha potuto prodursi, è rimasto ancora, per usare una espressione consueta, un ribelle entro il sistema»16.
  1. Alberto Savorana, Vita di Don Giussani, Rizzoli, Milano 2013, p. 537.
  2. Ivi.
  3. Ivi, 535-536.
  4. Vedi Massimo Borghesi, Don Giussani e l’incontro con Pasolini e Testori, «Il sussidiario.net», 4 novembre 2014.
  5. Ivi.
  6. Ivi.
  7. Savorana, Vita di Don Giussani, p. 537.
  8. Ivi.
  9. Sono quattro i pezzi che Giovanni Testori dedica a Pasolini. Uno nei giorni della morte (A rischio della vita, «l’Espresso», n. 45, 9 novembre 1975); uno in occasione di Salò (Salò. Film antipornografico, «Corriere della Sera», 10 dicembre 1975); uno nel quarto anniversario della morte (Testori ricorda Pasolini, «Il Sabato», n. 44, 3 novembre 1979); e uno a commento di alcuni articoli pasoliniani sul tema dell’aborto (Solo, braccato, sincero: gli mancò il centro, il Padre, «Il Sabato», n. 20, 16 maggio 1981)
  10. Giovanni Testori, Le magnifiche sorti? Tutta roba da buttare, «Il Sabato», 26 ottobre-1 novembre 1985.
  11. È il titolo dell’articolo che dedicò a Pasolini su «Il Sabato», ricordato alla nota 9.
  12. Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2006, p. 80.
  13. Augusto Del Noce, Pensieri di un uomo libero, allegato a «Il Sabato», n. 13, 30 marzo 1991, p. 15 (ora in Cristianità e laicità, Giuffrè, Milano 1998, p. 305).
  14. Vedi Massimo Borghesi, Augusto Del Noce. La legittimazione critica del moderno, Marietti, Genova 2011.
  15. Vedi, a proposito, il capitolo che Roberto Esposito dedica a Pasolini in Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010, pp. 192-206.
  16. Del Noce, Cristianità e laicità, p. 190.




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