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sabato 29 ottobre 2022

Ragione e libertà in Chesterton

 

Ragione e libertà in Chesterton. «Il cristianesimo mi ha allargato la ragione»

In occasione dei cento anni dalla conversione al cattolicesimo, un ritratto del grande pensatore inglese. «L’uomo può capire tutto con l’aiuto di quello che non capisce»


Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’intervento integrale tenuto da Ubaldo Casotto alla conferenza “100 anni fa Chesterton entrava nella Chiesa cattolica. ‘Il cristianesimo mi ha allargato la ragione’”, organizzata lunedì 24 ottobre a Milano da Associazione Esserci, Centro francescano culturale Rosetum e Tempi (durante la serata è stata pronunciata solo la prima parte del discorso).

«Potrei dimostrare tutta la dottrina cattolica se mi si permettesse di partire dal valore sommo di due cose: la ragione e la libertà». Chesterton diceva queste cose prima di convertirsi al cattolicesimo.

Che cos’è ragionevole per Chesterton? La fede, o, come lui dice la “credulità”, quel metodo di conoscenza per cui affermo come vero per me quello che ho ascoltato da altri.

Lui all’inizio della sua Autobiografia esemplifica così: «Piegandomi con cieca credulità, come sono solito fare, alla mera autorità e alla tradizione dei miei maggiori, ingoiando superstiziosamente una storia che non mi fu possibile controllare a suo tempo con l’esperienza personale, io sono d’opinione certissima d’essere nato il 29 maggio 1874, a Campden Hill, Kensigton».


Qui c’è già tutto Chesterton, il suo stile, il suo gusto per il paradosso e… la sua data di nascita.

La ragionevolezza parte dal realismo. C’è un dato, l’esistenza, che non è frutto di una scelta, ma oggetto di riconoscenza: va cioè riconosciuto e, tendenzialmente, è un dono per cui si è riconoscenti.

Chesterton ne parla, ben prima di convertirsi, come di una conquista: «Dopo di essere stato per alcun tempo nelle profondità più oscure del pessimismo contemporaneo, sentii un forte impulso interiore a ribellarmi, a scacciare l’incubo e a buttar via l’oppressione. Ma giacché stavo ancora pensandovi e liberandomene da solo, e la filosofia mi giovava poco, e la religione non mi dava un vero aiuto, mi inventai una teoria mistica rudimentale e artificiosa. Era sostanzialmente questa: anche la sola esistenza, ridotta nei suoi limiti più semplici, è tanto straordinaria da essere stimolante. Tutto era magnifico, paragonato al nulla».

Nel suo periodo pessimista – dice –: «Difesi, contro critici teatrali, il merito teatrale di un dramma più recente, che contiene molte cose buone, il dramma intitolato: “Dove non c’è nulla c’è Dio”. Ma io andavo barcollando e gemevo e mi travagliavo con una mia filosofia incipiente e incompiuta, che era quasi il contrario dell’affermazione che dove non c’è nulla c’è Dio. A me la verità si presentava piuttosto in quell’altra forma: dove c’è qualcosa c’è Dio. In filosofia nessuna delle due affermazioni è adeguata, ma sarei rimasto sbigottito se avessi saputo quanto il mio anything (qualcosa) fosse vicino all’Ens di San Tommaso d’Aquino» (Autobiografia).


Un uomo, io, quello che incontro per strada, è di per sé stupefacente «Quel ragazzo avrebbe potuto essere un grande» si dice di solito di una mancata promessa, ad esempio nel calcio. «No», risponde Chesterton. «Quel ragazzo è un grande perché avrebbe potuto non essere» (Ortodossia).

Uno sguardo ragionevole sulla realtà percepisce che è stata strappata dal nulla. È l’esperienza del Robinson Crusoe: «Un uomo sopra un piccolo scoglio con poca roba strappata al mare: la parte più bella del libro», dice Chesterton, «è la lista degli oggetti salvati dal naufragio. La più grande poesia è un inventario… tutte le cose sono sfuggite per un capello alla perdizione: tutto è stato salvato da un naufragio».

Allora il sentimento più ragionevole, ma anche più riflesso, è la gratitudine, l’unica modalità di rapporto vero con la realtà, lui voleva apprezzare le cose e il cristianesimo ha salvato il suo naturale materialismo, che è il materialismo dei santi, tant’è che Francesco d’Assisi «non solo apprezzava ogni cosa, ma anche il nulla da cui ogni cosa fu fatta».

Per lui la vera tentazione del pensiero moderno non era il materialismo, ma lo spiritualismo. I pensatori moderni non hanno avuto il coraggio di essere materialisti fino in fondo, non sono mai saliti così in alto (come san Francesco) perché non sono mai scesi così in basso, non si sono mai messi nudi sulla nuda terra.


Per Chesterton «soltanto l’opera divina è materiale nella creazione di un mondo materiale: quella del demonio resta puramente spirituale». Tommaso d’Aquino ebbe il coraggio di questo materialismo: «Il sistema del d’Aquino parte dal punto di vista universale che un uovo è un uovo. Ora un hegeliano replicherà che un uovo è una gallina, perché esso fa parte dell’infinito processo del Divenire; il seguace di Berkeley sosterrà che la frittata esiste come esistono i sogni, visto che il sogno si può dire causa della frittata come la frittata è causa del sogno; il pragmatico sosterrà che il miglior partito da trarre da un uovo è quello di dimenticare che esso sia stato un uovo e ricordare soltanto la frittura. Ma il tomista non ha bisogno di guastarsi il cervello per evitare di guastare le sue uova, né di guardare le uova in cagnesco, né di chiudere gli occhi per meglio meditare una nuova semplificazione delle uova. Dominatore nella luce sfavillante della fraternità umana, egli constaterà che le uova non sono galline, né sogni, né supposizioni; bensì cose attestate dall’autorità dei sensi, ch’è di Dio».


La novità del cristianesimo, infatti, non è lo spirito, è la carne, la materia. Non è l’eternità, è la storia, l’attimo, l’istante, la rivalutazione di tutto ciò di cui è fatta la vita. Il cristianesimo «non è una filosofia perché, essendo una visione, non è un modello, ma un quadro; non è di quelle semplificazioni che risolvono ogni cosa in un’astratta spiegazione: che tutto è ricorrente, che tutto è relativo, che tutto è illusorio. Non è un meccanismo ma un racconto; ha le proporzioni che si riscontrano in un quadro o in un racconto; non ha le ripetizioni regolari di un modello o di un meccanismo; ma le rimpiazza con l’essere convincente come un quadro o come un racconto. In altre parole è esattamente, ecco la frase, come la vita. Perché infatti è vita».

Quindi, una ragione più larga – sembra di sentire il Ratzinger di Regensburg o del Bundestag «allargare la ragione» – perché l’alternativa è la pazzia o – come diceva appunto Ratzinger – la chiusura in un bunker in cui non entra più la realtà.

In Ortodossia – scritto anche questo ben prima della sua conversione – c’è un capitolo illuminante sulla pazzia dell’uomo contemporaneo. “Quell’uomo crede in sé stesso” diciamo spesso con ammirazione. «Io so dove sono tutti gli uomini che credono in sé stessi», ribatte Chesterton, «in manicomio».


«Oggigiorno ognuno crede esattamente in quella parte dell’uomo in cui dovrebbe non credere: sé stesso, e dubita esattamente in quella parte in cui non dovrebbe dubitare: la ragione divina». Il pazzo è un uomo fissato, monomaniaco fino alla monotonia. «Il pazzo… è preso dalla nitida e ben illuminata prigione di un’idea (sia questa la lotta di classe, o la razza, il progresso… ): è teso verso un punto solo, fino all’esasperazione»; è logico in modo esasperato perché cerca di ridurre la complessità dell’universo e dell’esistenza a un ordinamento semplice che sia alla sua misura. «Il logico pretende di rinchiudere il cielo nella sua testa, e la testa scoppia», «La coerenza del suo spirito è quello che lo rende stupido e pazzo allo stesso tempo»; non è il poeta a essere lunatico, ma il ragionatore.

Di qui la stupenda definizione: «Il pazzo non è l’uomo che ha perduto la ragione, ma l’uomo che ha perduto tutto fuor che la ragione» (laddove la ragione è ridotta alla sola logica). Provate a discutere con un pazzo, non ne uscite, all’interno della sua logica è imbattibile. Qual è il problema allora? Il pazzo ha sempre coerenza e lucidità, ma è chiuso in un mondo piccolo: «La sua mente si muove in un cerchio perfetto ma ristretto. Un cerchio piccolo è infinito, come un cerchio grande, ma pur essendo ugualmente infinito non è ugualmente grande. Allo stesso modo una spiegazione assurda è completa come una spiegazione giusta, ma non abbraccia un campo altrettanto vasto. Una pallottola è tonda come il mondo, ma non è il mondo».


Il problema è aprirgli la testa, o come dice Ratzinger, che nel bunker in cui ci siamo rifugiati si apra una fessura da cui possa rientrare la realtà. Chesterton abbracciò e capì il cattolicesimo perché fece un uso sempre spregiudicato della ragione, per lui il farsi cattolico “dilata la mente”; disse che aderì al cattolicesimo perché era una dottrina “più larga” delle teorie filosofiche che affollavano il suo tempo.

Chiuso nell’autoreferenzialità del suo pensiero l’uomo moderno è incapace di stupore. Lo stupore – l’abbiamo già visto – è la molla che mette in moto la ragione: «Noi vediamo una cosa obiettivamente quando la vediamo per la prima volta». Per vederle sempre così, bisogna essere bambini.

Ne Il ritorno di Don Chisciotte, una delle sue opere minori: «Attraversò il giardino, che era deserto, dirigendosi verso la casa, ma, appena lo fece, qualcosa la bloccò. Fissò per un minuto il monumento che si trovava nel prato, quell’immagine spezzata posta in piedi sul drago. Nel momento in cui lo vide, strane e nuove sensazioni entrarono nella sua anima e nei suoi occhi. Nella chiara ed esaltante intensità della sua felicità e della sua infelicità, diede l’impressione di vederlo per la prima volta».


Ma come vedere ogni giorno le cose per la prima volta? Bisogna essere felici – o molto infelici, perché «il dolore è sempre una gioia rovesciata» (Il ritorno di Don Chiosciotte) – oppure bisogna essere bambini. Lo stupore per la semplice presenza delle cose è la caratteristica del bambino: «Un bambino di sette anni si entusiasma a sentir dire che Tommy aprì una porta e vide un dragone; un bimbo di tre anni si entusiasma solo a sentir dire che Tommy aprì una porta» (Ortodossia). Solo che per essere bambini bisogna essere un po’ come Dio, vivi e instancabili: «Il sole si alza tutte le mattine, io no; ma la differenza è dovuta alla mia inazione e non alla mia attività». Che il sole sorga tutte le mattine è dovuto al fatto che “non è mai stanco”. «Quel che intendo dire si può osservare, per esempio, nei ragazzi, quando trovano qualche gioco o trastullo che li diverta in modo speciale. Un bambino si diverte a battere ritmicamente le gambe per eccesso, non per assenza di vita. Appunto perché hanno una vitalità espansiva e una grande fierezza e libertà di spirito, appunto perciò i bambini desiderano le cose ripetute e invariate. Essi dicono “fallo ancora”; e la persona anziana lo fa ancora fin quasi a morire, perché non ha più la forza sufficiente per godere della monotonia. Dio è forse abbastanza forte per goderne e può darsi che dica al sole ogni mattina “ancora”; e alla luna ogni sera “ancora”. La replica si può avere per milioni di anni, per pura volontà, come può finire in ogni istante».


La ragione – scusate il gioco di parole – deve dar ragione di ciò che vede, non della coerenza del ragionamento con un principio scelto arbitrariamente da noi. Il problema è che non accettiamo quello che vediamo. Perché noi vediamo un enigma. Il problema dell’uomo moderno – scrive in Ortodossia – non è che non sa risolvere l’enigma del mondo, è che non vede l’enigma. «Tocca a ciascuno di noi, all’uomo comune, allo scienziato, al filosofo e al teologo meravigliarsi di fronte all’enigma che siamo» ha detto un teologo spagnolo (Javier Prades) ed è una frase che sarebbe piaciuta molto a Chesterton, che a questo tema ha dedicato un romanzo, L’uomo vivo.

Innocenzo Smith, il protagonista, uno che si è «fatto pellegrino per guarire dall’essere esiliato» nel suo giro intorno al mondo in America incontra un meticcio che gli dice: «Mia nonna avrebbe detto che tutti siamo in esilio, e che nessuna cosa terrena potrà mai guarirci dalla santa nostalgia che ci tormenta». «Credo – gli risponde Smith – che vostra nonna avesse ragione. Credo debba essere codesto il segreto, il mistero della nostra vita così piena d’incanto e d’insoddisfazione».


Mistero. Chesterton usa il termine misticismo nel suo senso letterale, e vi giunge in conseguenza del suo materialismo. Il misticismo non è la fuga dalla realtà, ma la conseguenza addentrarsi in essa. In San Francesco d’Assisi usa un’immagine bellissima: se un uomo iniziasse la discesa verso il centro della terra, a un certo punto dovrebbe iniziare a salire: «Noi non siamo mai saliti così in alto (come Francesco) perché non siamo mai scesi così in basso», la realtà implica l’esistenza del mistero perché la indica continuamente. «Tutto il segreto del misticismo è questo: l’uomo può capire tutto con l’aiuto di quello che non capisce… Il mistico lascia qualcosa nel mistero e così gli diventa chiaro il resto».

Alla base di questa affermazione c’è il suo personalissimo e nello stesso tempo razionalissimo metodo di conoscenza, il metodo di conoscenza più universale – e “democratico” dice GKC – che esista, quello che ricorrentemente chiama il senso comune, e che poggia su due pilastri: la veridicità e sull’autorevolezza del testimone e la molteplicità degli indizi.

«Quando vostro padre passeggiando per il giardino vi diceva che le api pungono o che le rose hanno un dolce profumo, voi non parlavate di prendere il meglio della sua filosofia. Quando le api vi hanno pizzicato non avete detto che era una divertente coincidenza… No, voi avete creduto a vostro padre perché vi è sembrato uno che fosse una viva sorgente di fatti, uno che realmente ne sapeva più di voi, uno che vi avrebbe detto la verità domani come ve l’aveva detta oggi».


Queste testimonianze verificate passano di mano in mano nella storia e diventano tradizione, la “democrazia dei morti”, perché nel novero delle voci da ascoltare contempla anche quella di chi è venuto prima di noi. Anche qui: una democrazia più larga.

Si conosce, inoltre non solo procedendo per deduzioni logico-matematiche, ma per la somma di esperienze giudicate vere dalla ragione, cioè per accumulazioni di fatti che corrispondono all’esigenza di verità, che è il cuore della razionalità. Può sembrare un metodo “caotico” come GKC stesso lo definisce, ma è l’unico che mette ordine nella multiformità del reale, l’unica “chiave” che si adatta perfettamente all’enigma, alla complessa serratura dell’universo e della vita.

Chesterton lo dice espressamente: «Io credo razionalissimamente appoggiandomi all’evidenza. Ma l’evidenza, nel caso mio, come in quello di un agnostico intelligente, non risiede in questa o in quella decantata dimostrazione; essa risiede in una enorme accumulazione di piccoli ma univoci fatti… è proprio tale evidenza frammentaria che persuade. Voglio dire che un uomo può lasciarsi convincere meno, intorno a una filosofia, da quattro libri, che da un libro, da una battaglia, da un paesaggio e da un vecchio amico. Il fatto stesso che le cose sono di diversa specie rende più probante la constatazione che esse convergono in una medesima conclusione».

Detto altrimenti. Il mondo è pieno di indizi, di segnali, di – ecco la parola giusta – “segni” che indicano tutti in una stessa direzione, la cui unica spiegazione è l’esistenza di un punto, che non vediamo, verso cui tutte quelle frecce convergono. La realtà, cioè, implica l’esistenza del mistero perché lo indica continuamente. E il mistero illumina la realtà: «Il mistico lascia qualcosa nel mistero e così gli diventa chiaro il resto».

Fin qui la ragione. Veniamo alla libertà, che, per Chesterton è una volontà senza cause, che non vuol dire senza ragioni, non causata da altro. Ed è infatti propria di Dio.

Rientriamo un attimo nel manicomio: il pazzo «come il determinista, vede in ogni cosa un eccesso di causa» (i complottisti ricordano un po’ i pazzi). «Se si potesse parlare di azioni umane senza causa, esse sarebbero semmai certe piccole azioni che un uomo sano compie senza annettervi importanza: fischiettare camminando, colpire l’erba col bastone, darsi pedate sui garretti, o fregarsi le mani. È l’uomo felice che fa cose inutili, l’uomo malato non ha la forza di abbandonarsi all’ozio. Queste azioni fatte negligentemente e senza scopo sono proprio di quelle che il pazzo non potrebbe mai capire».


Il mio professore di filosofia, quello che mi convinse a fare la tesi su Chesterton, diceva che Dio era così felice che si mise a cantare, così, liberamente: il suo canto è il creato. «Secondo la maggior parte dei filosofi», scrive, «Dio facendo il mondo lo rese schiavo; secondo il cristianesimo lo liberò. Dio ha scritto non un poema, ma piuttosto un dramma» . E il dramma, diversamente dalla tragedia, non si sa come va a finire, avendo in esso ruolo principale la libertà. «La libertad, Sancho, es el más preciado don que a los hombres dieron lo cielos» dice il Don Chisciotte, la libertà è il dono più prezioso che i cieli hanno fatto all’uomo. Chesterton aggiunge una postilla a Cervantes: la libertà è una facoltà di cui Dio non si è voluto privare.

C’è una pagina – e concludo – in cui Chesterton sfiora la blasfemia pur di dimostrare che la nostra libertà è tale solo perché siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio.

«Che un uomo giusto possa essere ridotto alla disperazione lo sappiamo già, ma che possa esservi ridotto Dio, questo sarà il vanto di tutti i ribelli. Il cristianesimo è la sola religione che abbia sentito che la onnipotenza fa Dio incompleto; il cristianesimo solo ha sentito che Dio, per essere interamente Dio, deve essere stato un ribelle, non meno che un re. Solo, fra tutte le religioni, il cristianesimo ha aggiunto il coraggio alle virtù del Creatore. Il solo coraggio degno d’essere chiamato coraggio deve necessariamente significare che l’anima passa per un punto di rottura – e non si rompe… In quel terrificante racconto che è la Passione c’è una chiara e suggestiva allusione al fatto commovente che l’autore di tutte le cose (in qualche impensabile maniera) passò non solo attraverso l’agonia ma anche attraverso il dubbio. Sta scritto: “Tu non tenterai il Signore Dio tuo”. No; ma il Signore Dio tuo può tentare sé stesso; e ciò sembra essere accaduto nel Getsemani. In un giardino Satana tentò l’uomo, e in un giardino Dio ha tentato Dio. Egli dovette passare sommariamente attraverso il nostro umano orrore del pessimismo. Quando il mondo si commosse e il sole oscillò nel cielo, non fu al momento della crocefissione, ma al grido dall’alto della croce: il grido che confessò che Dio era abbandonato da Dio. E ora lasciate che i rivoluzionari scelgano un credo fra tutti i credi e un dio fra tutti gli dei del mondo… essi non ne troveranno un altro che sia stato in rivolta anche lui. Anzi… lasciate che gli atei stessi si scelgano un dio. Essi non troveranno che una sola divinità che abbia manifestato il suo isolamento; non troveranno che una sola religione in cui Dio sia apparso per un istante ateo».


Tutto questo nel 1908. Chesterton aderì al cattolicesimo- «per liberarmi dei miei peccati» – nel 1922. E ammise: «Mi sono con fatica costruito una mia filosofia e ho scoperto che stavo seduto sull’ortodossia cattolica».

Foto Ansa

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