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lunedì 16 settembre 2024

"La tentazione del credere

  "La tentazione del credere

“La natura è costruita in maniera tale che non c'è dubbio che non possa esser costruita così per un caso. Più uno studia i fenomeni della natura, più si convince profondamente di ciò. Esistono delle leggi naturali di una profondità e di una bellezza incredibili. Non si può pensare che tutto ciò si riduca ad un accumulo di molecole. (…)

Più ci guardi dentro, più capisci che non ha a che fare col caso.”

Carlo Rubbia (premio Nobel per la Fisica 1984, da "La tentazione del credere" 1987): 


domenica 15 settembre 2024

Il cristianesimo è l'unica religione vera

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Il cristianesimo è  l'unica religione vera

Il testo della conferenza tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger nel corso di un colloquio svoltosi alla Sorbona di Parigi il 27 novembre 1999 sul tema «2000 ans après quoi?» è stato pubblicato integralmente da “30Giorni” il 1°gennaio 2000.

del cardinale Joseph Ratzinger

Al termine del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa alla verità. Questa crisi ha una doppia dimensione: innanzitutto ci si domanda con sempre maggiore insistenza se è giusto, in fondo, applicare la nozione di verità alla religione; in altri termini se è dato all’uomo conoscere la verità propriamente detta su Dio e le cose divine.
L’uomo contemporaneo si ritrova molto meglio nella parabola buddista dell’elefante e dei ciechi: una volta, un re dell’India del Nord riunì in un posto tutti gli abitanti ciechi della città. Poi davanti agli astanti fece passare un elefante. Lasciò che gli uni toccassero la testa, e disse: «Un elefante è così». Altri poterono toccare l’orecchio o la zanna, la proboscide, il dorso, la zampa, il didietro, i peli della coda. Dopo di che il re chiese a ciascuno: «Com’è un elefante?».
E, secondo la parte che avevano toccato, rispondevano: «È come un cesto intrecciato…», «è come un vaso…», «è come l’asta di un aratro…», «è come un magazzino…», «è come un pilastro…», «è come un mortaio…», «è come una scopa…».
Allora – continua la parabola – si misero a discutere, urlando: «L’elefante è così», «no, è così», si scagliarono gli uni sugli altri e si presero a pugni, con gran divertimento del re.
La disputa tra religioni sembra agli uomini di oggi come questa disputa tra ciechi nati. Perché di fronte al mistero di Dio siamo nati ciechi, sembra. Per il pensiero contemporaneo il cristianesimo non si trova assolutamente in una situazione più favorevole rispetto alle altre, anzi: con la sua pretesa alla verità, sembra essere particolarmente cieco di fronte al limite di ogni nostra conoscenza del divino, caratterizzato da un fanatismo particolarmente insensato, che incorreggibilmente scambia per il tutto la porzione toccata nella sua propria esperienza.Questo scetticismo generalizzato nei confronti della pretesa alla verità in materia religiosa è ulteriormente sorretto dalle questioni che la scienza moderna ha sollevato riguardo alle origini e ai contenuti del cristianesimo. La teoria evoluzionistica sembra aver superato la dottrina della creazione, le conoscenze che concernono l’origine dell’uomo sembrano aver superato la dottrina del peccato originale; la critica esegetica relativizza la figura di Gesù e mette punti interrogativi sulla sua coscienza filiale; l’origine della Chiesa in Gesù appare dubbia, e così via.
La “fine della metafisica” ha reso problematico il fondamento filosofico del cristianesimo, i metodi storici moderni hanno posto le sue basi storiche in una luce ambigua. Così è facile ridurre i contenuti cristiani a simboli, non attribuire loro nessuna verità maggiore di quella dei miti della storia delle religioni, considerarli come una modalità di esperienza religiosa che dovrebbe collocarsi umilmente a fianco di altre. In questo senso si può ancora – a quanto pare – continuare a rimanere cristiani; ci si serve sempre delle forme espressive del cristianesimo, la cui pretesa però è radicalmente trasformata: quella verità che era stata per l’uomo una forza obbligante e una promessa affidabile diventa ormai un’espressione culturale della sensibilità religiosa generale, espressione che sarebbe ovvia per noi a causa della nostra origine europea
Ernst Troeltsch, all’inizio di questo secolo, ha formulato filosoficamente e teologicamente questo ritirarsi del cristianesimo dalla sua pretesa originariamente universale, che poteva fondarsi solo sulla pretesa alla verità. Egli era arrivato alla convinzione che le culture sono insuperabili e che la religione è legata alle culture. Il cristianesimo è quindi solo il lato del volto di Dio rivolto verso l’Europa. Le «particolari caratteristiche legate alla cultura e alle razze» e «le caratteristiche delle sue grandi formazioni religiose che abbracciano un contesto più ampio» assurgono al rango di ultima istanza: «Chi si azzarderebbe a formulare dei giudizi di valore davvero categorici a proposito? È una cosa che potrebbe fare solo Dio stesso, lui che è all’origine di queste differenze».
Un cieco nato sa che non è nato per essere cieco e di conseguenza non smetterà di interrogarsi sul perché della sua cecità e su come uscirne. Solo in apparenza l’uomo si è rassegnato al verdetto di essere nato cieco davanti a quel che gli appartiene, alla sola realtà che in ultima istanza conta nella nostra vita. Il titanico tentativo di prendere possesso del mondo intero, di trarre dalla nostra vita e per la nostra vita tutto il possibile, mostra, così come le esplosioni di un culto dell’estasi, della trasgressione e della distruzione di sé, che l’uomo non si accontenta di un giudizio così. Perché se non sa da dove viene e perché esiste, non è forse in tutto il suo essere una creatura mancata? L’addio apparentemente indifferente alla verità su Dio e sull’essenza del nostro io, l’apparente soddisfazione per non doversi più occupare di tutto questo, ingannano. L’uomo non può rassegnarsi a essere e restare, quanto a ciò che è essenziale, un cieco nato. L’addio alla verità non può mai essere definitivo.Stando così le cose, è necessario riproporre la domanda fuori moda della verità del cristianesimo, per quanto a molti possa apparire superflua e insolubile. Ma come?
Di sicuro, la teologia cristiana dovrà esaminare attentamente, senza timore di esporsi, le diverse istanze che sono state sollevate contro la pretesa del cristianesimo alla verità nel campo della filosofia, delle scienze naturali, della storia naturale. Ma d’altra parte occorre anche che essa cerchi di acquisire una visione di insieme del problema concernente l’essenza autentica del cristianesimo, la sua collocazione nella storia delle religioni e il suo posto nell’esistenza umana. Vorrei fare un passo in questa direzione, mettendo in luce come, alle sue origini nel kosmos delle religioni, il cristianesimo stesso ha visto questa sua pretesa.Che io sappia non esiste alcun testo del cristianesimo antico che getti sulla questione tanta luce quanto la discussione di Agostino con la filosofia religiosa del «più erudito tra i romani», Marco Terenzio Varrone (116-27 a. C.). Varrone condivideva l’immagine stoica di Dio e del mondo; definì Dio come animam motu ac ratione mundum gubernantem (come «l’anima che regge il mondo tramite il movimento e la ragione»), in altri termini: come l’anima del mondo che i Greci chiamano kosmoshunc ipsum mundum esse deum. Questa anima del mondo, tuttavia, non riceve culto. Non è oggetto di religio. In altri termini: verità e religione, conoscenza razionale e ordine cultuale sono situati su due piani totalmente diversi. L’ordine cultuale, il mondo concreto della religione, non appartiene all’ordine della res, della realtà come tale, ma a quello dei mores – dei costumi. Non sono gli dei che hanno creato lo Stato, è lo Stato che ha istituito gli dei, la cui venerazione è essenziale per l’ordine dello Stato e per il buon comportamento dei cittadini. La religione è nella sua essenza un fenomeno politico. Varrone distingue così tre tipi di “teologia”, intendendo per teologia la ratio, quae de diis explicatur – la comprensione e la spiegazione del divino, potremmo tradurre.
Tali sono la theologia mythica, la theologia civilis e la theologia naturalis. Tramite quattro definizioni egli spiega poi cosa si debba intendere per queste “teologie”.
La prima definizione fa riferimento ai tre teologi associati a queste tre teologie: i teologi della teologia mitica sono i poeti, perché hanno composto canti sugli dei e sono così cantori della divinità. I teologi della teologia fisica (naturale) sono i filosofi, cioè gli eruditi, i pensatori, che, andando al di là delle abitudini, si interrogano sulla realtà, sulla verità; i teologi della teologia civile sono i “popoli”, che hanno scelto di non allearsi ai filosofi (alla verità), ma ai poeti, alle loro visioni poetiche, alle loro immagini e alle loro figure.

La seconda definizione riguarda i luoghi a cui nella realtà sono associate le singole teologie. Alla teologia mitica corrisponde il teatro, che aveva di fatto un rango religioso, cultuale; secondo l’opinione comune, gli spettacoli erano stati istituiti a Roma per ordine degli dei. Alla teologia politica corrisponde la urbs. Lo spazio della teologia naturale sarebbe il kosmos.
La terza definizione designa il contenuto delle tre teologie: la teologia mitica avrebbe per contenuto le favole sugli dei, create dai poeti; la teologia di Stato il culto; la teologia naturale risponderebbe alla domanda su chi sono gli dei.
Vale la pena ora di prestare maggiore attenzione:
«Se – come in Eraclito – essi [gli dei] sono fatti di fuoco o – come in Pitagora – di numeri, o – come in Epicuro – di atomi, e altre cose ancora che le orecchie possono sopportare più facilmente all’interno delle mura scolastiche piuttosto che fuori, sulla pubblica piazza», ne deriva con assoluta chiarezza che questa teologia naturale è una demitologizzazione, o meglio una razionalità, che guarda criticamente cosa c’è dietro l’apparenza mitica e la dissolve attraverso la conoscenza scientifico-naturale. Culto e conoscenza risultano separati l’uno dall’altra. Il culto resta necessario fintanto che è una questione di utilità politica; la conoscenza ha un effetto distruttore sulla religione e non dovrebbe quindi essere messa sulla pubblica piazza.
Infine c’è la quarta definizione.
Il contenuto delle diverse teologie da che tipo di realtà è costituito? La risposta di Varrone è questa: la teologia naturale si occupa della “natura degli dei” (che di fatto non esistono), le altre due teologie trattano dei divina instituta hominum – delle istituzioni divine degli uomini. Ne consegue che tutta la differenza si riduce a quella che c’è tra la fisica nel suo significato antico e la religione cultuale dall’altra parte. «La teologia civile non ha in ultima analisi alcun dio, soltanto la “religione”; la “teologia naturale” non ha religione, ma solo una divinità».
Certo, non può avere nessuna religione, perché al suo dio (fuoco, numeri, atomi) non può essere rivolta la parola in termini religiosi. Così religio (termine che designa essenzialmente il culto) e realtà, la conoscenza razionale del reale, si configurano come due sfere separate, l’una accanto all’altra. La religio non trae la sua giustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione politica. È un’istituzione di cui lo Stato ha bisogno per la sua esistenza.
Indubbiamente ci troviamo qui di fronte ad una fase tardiva della religione, nella quale è infranta l’ingenuità dell’atteggiamento religioso ed è quindi innescata la sua dissoluzione.
Ma il legame essenziale della religione con la compagine statale penetra decisamente molto più in profondità. Il culto è in ultima istanza un ordine positivo che come tale non può essere commisurato al problema della verità. Mentre Varrone, nel suo tempo, in cui la funzione politica della religione era ancora sufficientemente forte, per giustificarla come tale poteva ancora difendere una concezione piuttosto cruda della razionalità e dell’assenza di verità del culto motivato politicamente, il neoplatonismo cercherà presto un’altra via di uscita dalla crisi, su cui l’imperatore Giuliano basò poi il suo sforzo per ristabilire la religione romana di Stato. Quello che i poeti dicono sono immagini che non si devono intendere fisicamente; ma sono comunque immagini che esprimono l’inesprimibile per tutti quegli uomini ai quali la via maestra dell’unione mistica è sbarrata. Benché non siano vere come tali, le immagini sono giustificate come approcci a qualcosa che sempre deve restare inesprimibile.

Con ciò abbiamo anticipato qualcosa di quel che diremo. La posizione neoplatonica, infatti, da parte sua è già una reazione contro la presa di posizione cristiana sul problema della fondazione cristiana del culto e del posto della fede che ne è alla base, nella tipologia delle religioni.
– Torniamo dunque ad Agostino. Dov’è che egli situa il cristianesimo nella triade varroniana delle religioni? Quello che stupisce è che senza la minima esitazione Agostino attribuisce al cristianesimo il suo posto nell’ambito della “teologia fisica”, nell’ambito della razionalità filosofica. Si trova così in perfetta continuità con i primi teologi del cristianesimo, gli Apologisti del II secolo, e anche con la posizione che Paolo assegna al cristianesimo nel primo capitolo della Lettera ai Romani che, da parte sua, si basa sulla teologia veterotestamentaria della Sapienza e risale, al di là di essa, fino ai Salmi che scherniscono gli dei. Il cristianesimo ha, in questa prospettiva, i suoi precursori e la sua preparazione nella razionalità filosofica, non nelle religioni.
Il cristianesimo non è affatto basato, secondo Agostino e la tradizione biblica, che per lui è normativa, su immagini e presentimenti mitici, la cui giustificazione si trova ultimamente nella loro utilità politica, ma si richiama invece a quel divino che può essere percepito dall’analisi razionale della realtà. In altri termini: Agostino identifica il monoteismo biblico con le vedute filosofiche sulla fondazione del mondo che si sono formate, secondo diverse varianti, nella filosofia antica. È questo che si intende quando il cristianesimo, a partire dal discorso paolino dell’Areopago in poi, si presenta con la pretesa di essere la religio vera. Il che significa: la fede cristiana non si basa sulla poesia e la politica, queste due grandi fonti della religione; si basa sulla conoscenza. Venera quell’Essere che sta a fondamento di tutto ciò che esiste, il “vero Dio”.
Nel cristianesimo, la razionalità è diventata religione e non più il suo avversario. Perché ciò avvenisse, perché il cristianesimo si comprendesse come la vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità, doveva necessariamente considerarsi come universale ed essere portato a tutti i popoli: non come una religione specifica che ne reprime altre in forza di una specie di imperialismo religioso, ma come la verità che rende superflua l’apparenza. Ed è proprio questo che nella vasta tolleranza dei politeismi doveva necessariamente apparire come intollerabile, addirittura come nemico della religione, come “ateismo”. Non si fondava sulla relatività e sulla convertibilità delle immagini, disturbava perciò soprattutto l’utilità politica delle religioni, e metteva così in pericolo i fondamenti dello Stato, nel quale non voleva essere una religione tra le altre, ma la vittoria dell’intelligenza sul mondo delle religioni.D’altra parte, a questa posizione del cristianesimo nel kosmos di religione e filosofia risale anche la forza di penetrazione del cristianesimo. Già prima dell’inizio della missione cristiana, alcuni circoli colti dell’antichità avevano cercato nella figura del “timorato di Dio” il nesso con la fede giudaica, che appariva loro come una figura religiosa del monoteismo filosofico corrispondente alle esigenze della ragione e allo stesso tempo al bisogno religioso dell’uomo. Bisogno questo a cui la filosofia da sola non poteva rispondere: non si prega un dio solo pensato. Là dove invece il Dio trovato dal pensiero si lascia incontrare nel cuore della religione come un Dio che parla e agisce, il pensiero e la fede sono riconciliati.

In quel nesso con la sinagoga, c’era ancora qualcosa che non soddisfaceva: il non ebreo infatti rimaneva sempre un estraneo, non poteva mai arrivare ad una totale appartenenza. Questo nodo è sciolto nel cristianesimo dalla figura di Cristo, così come la interpretò Paolo. Solo allora il monoteismo religioso del giudaismo era divenuto universale, e quindi l’unità tra pensiero e fede, la religio vera, era divenuta accessibile a tutti.
Giustino il filosofo, Giustino il martire (†167) può servire da figura sintomatica di questo accesso al cristianesimo: aveva studiato tutte le filosofie e alla fine aveva riconosciuto nel cristianesimo la vera philosophia. Era convinto che diventando cristiano non aveva rinnegato la filosofia, ma che solo allora era diventato davvero filosofo. La convinzione che il cristianesimo sia una filosofia, la filosofia perfetta, quella che è potuta penetrare fino alla verità, resterà in vigore ancora a lungo dopo l’epoca patristica. È ancora assolutamente attuale nel XIV secolo nella teologia bizantina di Nicolas Cabasilas. Certo, non si intendeva la filosofia come una disciplina accademica di natura puramente teoretica, ma anche e soprattutto, su un piano pratico, come l’arte del ben vivere e del ben morire, che tuttavia può riuscire solo alla luce della verità.L’unione della razionalità e della fede, che si realizzò nello sviluppo della missione cristiana e nella costruzione della teologia cristiana, portò però correttivi decisivi all’immagine filosofica di Dio, di cui due soprattutto devono essere menzionati.
Il primo consiste nel fatto che il Dio al quale i cristiani credono e che venerano, a differenza degli dei mitici e politici, è davvero natura Deus; in ciò soddisfa le esigenze della razionalità filosofica. Ma nello stesso tempo vale l’altro aspetto: non tamen omnis natura est Deus – non tutto ciò che è natura è Dio. Dio è Dio per sua natura, ma la natura come tale non è Dio. Si crea una separazione tra la natura universale e l’Essere che la fonda, che le dà la sua origineSolo allora la fisica e la metafisica giungono a una chiara distinzione l’una dall’altra. Solo il vero Dio che possiamo riconoscere, tramite il pensiero, nella natura è oggetto di preghiera. Ma è di più che la natura. La precede, essa è la sua creatura.
A questa separazione tra la natura e Dio si aggiunge una seconda scoperta, ancora più decisiva: il dio, la natura, l’anima del mondo o qualsiasi cosa fosse non si poteva pregare; non era un “dio religioso”, avevamo constatato.
Adesso, ed è quello che già dice la fede dell’Antico Testamento e più ancora quella del Nuovo Testamento, quel Dio che precede la natura si è volto verso gli uomini. Non è un Dio silenzioso proprio perché non è solo natura. È entrato nella storia, è venuto incontro all’uomo, e così adesso l’uomo può incontrarlo. Può legarsi a Dio perché Dio si è legato all’uomo. Le due dimensioni della religione, che erano sempre separate l’una dall’altra, la natura eternamente dominatrice e il bisogno di salvezza dell’uomo che soffre e lotta sono legati l’una all’altro. La razionalità può diventare religione, perché il Dio della razionalità è egli stesso entrato nella religione. L’elemento che la fede rivendica come proprio, la Parola storica di Dio, è infatti il presupposto perché la religione possa ormai volgersi verso il dio filosofico, che non è più un Dio puramente filosofico e che nemmeno ripugna alla conoscenza della filosofia, ma l’assume. Qui si manifesta una cosa stupefacente: i due princìpi fondamentali del cristianesimo apparentemente in contrasto, il legame alla metafisica e il legame alla storia, si condizionano e si rapportano l’uno all’altro; costituiscono insieme l’apologia del cristianesimo in quanto religio vera.Se dunque si può dire che la vittoria del cristianesimo sulle religioni pagane fu resa possibile non da ultimo dalla sua pretesa di ragionevolezza, occorre aggiungere che a questo è legato un secondo motivo della stessa importanza. Consiste innanzitutto, per dirlo in modo assolutamente generale, nella serietà morale del cristianesimo, caratteristica che, del resto, Paolo aveva già allo stesso modo messo in rapporto con la ragionevolezza della fede cristiana: ciò a cui in fondo tende la legge, le esigenze essenziali messe in luce dalla fede cristiana, di un Dio unico per la vita dell’uomo, corrisponde a quel che l’uomo, ogni uomo porta scritto nel cuore, cosicché quando gli si presenta, lo riconosce come Bene. Corrisponde a ciò che «è buono per natura» (Rm 2, 14s). L’allusione alla morale stoica, alla sua interpretazione etica della natura, è qui manifesta tanto quanto in altri testi paolini, per esempio nella Lettera ai Filippesi (Fil 4, 8: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri»).

Così la fondamentale (benché critica) unità con la razionalità filosofica, presente nella nozione di Dio, si conferma e si concretizza ora nell’unità, critica anch’essa, con la morale filosofica. Come nel campo del religioso il cristianesimo superava i limiti di una scuola di saggezza filosofica proprio per il fatto che il Dio pensato si lasciava incontrare come un Dio vivente, così qui ci fu un superamento della teoria etica in una praxis morale, comunitariamente vissuta e resa concreta, nella quale la prospettiva filosofica era trascesa e trasposta nell’azione reale, in particolare grazie al concentrare tutta la morale nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo.
Il cristianesimo, si potrebbe dire semplificando, convinceva grazie al legame della fede con la ragione e grazie all’orientamento dell’azione verso la caritas, la cura amorevole dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizione. Che fosse questa l’intima forza del cristianesimo lo si può sicuramente e chiaramente vedere nel modo in cui l’imperatore Giuliano cercò di ristabilire il paganesimo in una forma rinnovata. Lui, il pontifex maximus della ristabilita religione degli antichi dei, si mise ad istituire, cosa che non era mai esistita prima, una gerarchia pagana, fatta di sacerdoti e metropoliti. I sacerdoti dovevano essere esempi di moralità; dovevano dedicarsi all’amore di dio (la divinità suprema tra gli dei) e del prossimo. Erano obbligati a compiere atti di carità verso i poveri, non era più permesso loro di leggere le commedie licenziose e i romanzi erotici, e dovevano predicare nei giorni di festa su un argomento filosofico per istruire e formare il popolo. Teresio Bosco dice giustamente, a questo riguardo, che l’imperatore in questo modo cercava, in realtà, non di ristabilire il paganesimo ma di cristianizzarlo – in una sintesi limitata al culto degli dei, di razionalità e religione.Rivolgendo lo sguardo indietro, possiamo dire che la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale è consistita nella sua sintesi fra ragione, fede, vita; è precisamente questa sintesi che è sintetizzata nell’espressione religio vera.
E a maggior ragione si impone allora la domanda: perché questa sintesi non convince più oggi? Perché la razionalità e il cristianesimo sono, al contrario, considerati oggi come contraddittori e addirittura reciprocamente esclusivi? Che cosa è cambiato nella razionalità? Che cosa è cambiato nel cristianesimo?
Un tempo il neoplatonismo, in particolare Porfirio, aveva opposto alla sintesi cristiana un’altra interpretazione del rapporto tra filosofia e religione, una interpretazione che intendeva essere una rifondazione filosofica della religione politeista.
Oggi è proprio questo modo di armonizzare la religione e la razionalità che sembra imporsi come la forma di religiosità adatta alla coscienza moderna.
Porfirio formula così la sua prima idea fondamentale: Latet omne verum – la verità è nascosta. Ricordiamoci della parabola dell’elefante, contrassegnata proprio da quella concezione in cui buddismo e neoplatonismo si incontrano. In base alla quale non c’è alcuna certezza sulla verità, su Dio, ma solo opinioni.
Nella crisi di Roma del tardo IV secolo, il senatore Simmaco – immagine speculare di Varrone e della sua teoria della religione – ha riportato la concezione neoplatonica a alcune formule semplici e pragmatiche, che possiamo trovare nel discorso tenuto nel 384 davanti all’imperatore Valentiniano II, in difesa del paganesimo e in favore della ricollocazione della dea Vittoria nel Senato di Roma. Cito solo la frase decisiva divenuta celebre: «È la medesima cosa quella che noi tutti veneriamo, una sola quella che pensiamo, contempliamo le stesse stelle, uno solo è il cielo che sta sopra di noi, è lo stesso il mondo che ci circonda; che cosa importano i diversi tipi di saggezza attraverso i quali ciascuno cerca la verità? Non si può arrivare a un mistero tanto grande attraverso un’unica via».
È esattamente ciò che sostiene oggi la razionalità: la verità in quanto tale non la conosciamo; nelle immagini più diverse, in fondo, miriamo alla medesima cosa. Mistero così grande, il divino non può essere ridotto a una sola figura che esclude tutte le altre, a un’unica via che vincolerebbe tutti. Ci sono molte vie, ci sono molte immagini, tutte riflettono qualche cosa del tutto e nessuna di loro il tutto. L’ethos della tolleranza appartiene a chi riconosce in ciascuna di esse una parte di verità, a chi non pone la sua più in alto delle altre e si inserisce tranquillamente nella sinfonia polimorfa dell’eterno Inaccessibile. Esso in realtà si vela dietro a simboli, ma questi simboli sembrano non di meno l’unica nostra possibilità di arrivare in una certa maniera alla divinità.La pretesa del cristianesimo di essere la religio vera sarebbe dunque superata dal progresso della razionalità? È dunque costretto ad abbassare le sue pretese e a inserirsi nella visione neoplatonica o buddista o indù della verità e del simbolo, a contentarsi, come aveva proposto Ernst Troeltsch, di mostrare della faccia di Dio la parte rivolta verso l’Europa? Si deve forse fare un passo in più di Troeltsch, che considerava ancora il cristianesimo la religione adatta all’Europa, tenendo conto del fatto che oggi l’Europa stessa dubita che sia adatta?
Questa è la vera domanda alla quale oggi la Chiesa e la teologia devono far fronte.
Tutte le crisi all’interno del cristianesimo che osserviamo ai giorni nostri si basano di fatto solo secondariamente su problemi istituzionali.
I problemi delle istituzioni così come delle persone nella Chiesa derivano ultimamente da questa questione, e dall’enorme peso che essa ha. Nessuno si aspetterà, alla fine del secondo millennio cristiano, che questa provocazione fondamentale trovi, anche solo lontanamente, risposta definitiva in una conferenza. Non può assolutamente trovare risposte puramente teoriche, così come la religione, in quanto attitudine ultima dell’uomo, non è mai solo teoria. Esige quella combinazione di conoscenza e di azione, su cui era fondata la forza persuasiva del cristianesimo dei Padri

Ciò non significa in nessun modo che ci si possa sottrarre all’urgenza che il problema ha dal punto di vista intellettuale, rinviando alla necessità della prassi.

Cercherò, per finire, solo di aprire una prospettiva che potrebbe indicare la direzione.
Abbiamo visto che l’originaria unità relazionale, tuttavia mai completamente acquisita, tra razionalità e fede, alla quale infine Tommaso d’Aquino dette una forma sistematica, è stata lacerata meno dallo sviluppo della fede che dai nuovi progressi della razionalità. Come tappe di questa mutua separazione si potrebbero citare Descartes, Spinoza, Kant.
La nuova sintesi inglobante che Hegel tenta non restituisce alla fede il suo posto filosofico, ma tende a convertirla in ragione ed eliminarla come fede.
A questa assolutizzazione dello spirito, Marx oppone l’unicità della materia; la filosofia deve allora essere completamente ricondotta alla scienza esatta. Solo l’esatta conoscenza scientifica è conoscenza. Con ciò è congedata l’idea del divino.
La profezia di Auguste Comte, che disse che un giorno ci sarebbe stata una fisica dell’uomo e che le grandi domande finora lasciate alla metafisica in futuro sarebbero state trattate “positivamente” come tutto ciò che già oggi è scienza positiva, ha lasciato un’eco impressionante nel nostro secolo, nelle scienze umane. La separazione tra la fisica e la metafisica operata dal pensiero cristiano è sempre più abbandonata. Tutto deve ridiventare “fisica”.
La teoria evoluzionistica si è andata cristallizzando come la strada per far sparire definitivamente la metafisica, per rendere superflua l’«ipotesi di Dio» (Laplace) e formulare una spiegazione del mondo strettamente “scientifica”. Una teoria evoluzionistica che spieghi in modo inglobante l’insieme di tutto il reale è diventata una specie di “filosofia prima” che rappresenta per così dire l’autentico fondamento della comprensione razionale del mondo.
Ogni tentativo di fare entrare in gioco cause diverse da quelle che una teoria “positiva” elabora, ogni tentativo di “metafisica” appare necessariamente come una ricaduta al di qua della ragione, come un decadere dalla pretesa universale della scienza. Anche l’idea cristiana di Dio è necessariamente considerata come non scientifica. A quest’idea non corrisponde più nessuna theologia physica: l’unica theologia naturalis è, in questa visione, la dottrina evoluzionistica, ed essa non conosce proprio alcun Dio, né alcun Creatore nel senso del cristianesimo (del giudaismo e dell’islam), né alcuna anima del mondo o dinamismo interiore nel senso della Stoa. Eventualmente si potrebbe, in senso buddista, considerare il mondo intero come un’apparenza, e il nulla come l’autentica realtà, e giustificare in questo senso le forme mistiche di religione che almeno non sono in diretta concorrenza con la ragione.È così detta l’ultima parola? La ragione e il cristianesimo sono così definitivamente separati l’una dall’altro? Comunque stiano le cose, non viene discussa la portata della dottrina evoluzionistica come filosofia prima e l’esclusività del metodo positivo come unico tipo di scienza e di razionalità. Occorre che questa discussione venga iniziata da entrambe le parti con serenità e disponibilità ad ascoltare, cosa che finora è accaduta solo in modo debole. Nessuno potrebbe mettere seriamente in dubbio le prove scientifiche dei processi microevolutivi. Reinhard Junker e Sieghfried Scherer dicono a questo proposito nel loro Kritisches Lehrbuch sull’evoluzione: «Tali fenomeni [i processi microevolutivi] sono ben conosciuti a partire dai processi naturali di variazione e di formazione. Il loro esame per mezzo della biologia evolutiva portò a conoscenze significative a proposito della capacità strabiliante di adattamento dei sistemi viventi». Dicono in questo senso che si può a ragione caratterizzare la ricerca sull’origine come la disciplina regina della biologia.
La domanda che un credente può porsi di fronte alla ragione moderna non è su questo, ma sull’estensione di una philosophia universalis che ambisce a diventare una spiegazione generale del reale e tende a non consentire più nessun altro livello di pensiero. Nella stessa dottrina evoluzionistica il problema si presenta quando si passa dalla micro alla macroevoluzione, passaggio a proposito del quale Szamarthy e Maynard Smith, entrambi sostenitori di una teoria evoluzionistica ricomprensiva, ammettono anche loro: «Non ci sono motivi teorici che lascino pensare che delle linee evolutive aumentino in complessità col tempo; non ci sono neanche prove empiriche che ciò avvenga».La domanda che ora bisogna porre va più in profondità: si tratta di sapere se la dottrina evoluzionistica può presentarsi come una teoria universale di tutto il reale, al di là della quale le ulteriori domande sull’origine e la natura delle cose non sono più lecite né necessarie, o se domande ultime del genere non superino il campo della pura ricerca scientifico-naturale.
Vorrei porre la domanda in modo ancora più concreto.
Dice veramente tutto una risposta come quella che troviamo, per esempio, nella seguente formulazione di Popper: «La vita, come noi la conosciamo, consiste di “corpi” fisici (meglio: di processi e strutture) che risolvono problemi. Che le diverse specie hanno “imparato” tramite la selezione naturale, cioè tramite il metodo di riproduzione più variazione; metodo che, da parte sua, fu imparato secondo lo stesso metodo. È una regressione, ma non è infinita…»? Non credo proprio.
In fin dei conti si tratta di un’alternativa che non si può più risolvere semplicemente né a livello delle scienze naturali e in fondo neanche della filosofia.
Si tratta di sapere se la ragione, o il razionale, si trova o no al principio di tutte le cose e a loro fondamento. Si tratta di sapere se il reale è nato sulla base del caso e della necessità (o, con Popper, d’accordo con Butler del Luck and Cunning [caso felice e previsione]), e quindi da ciò che è senza ragione, se, in altri termini, la ragione è un casuale prodotto marginale dell’irrazionale, insignificante, alla fine, nell’oceano dell’irrazionale, o se resta vera quella che è la convinzione fondamentale della fede cristiana e della sua filosofia: In principio erat Verbum – al principio di tutte le cose c’è la forza creatrice della ragione.
La fede cristiana è oggi come ieri l’opzione per la priorità della ragione e del razionale.
Questa domanda ultima non può più, come già si è detto, essere risolta tramite argomenti tratti dalle scienze naturali, e il pensiero filosofico stesso qui si blocca. In questo senso non si può fornire alcuna prova ultima dell’opzione cristiana fondamentale. Ma la ragione può, ultimamente, senza rinnegare se stessa, rinunciare alla priorità del razionale sull’irrazionale, al Logos come principio primo? Il modello ermeneutico offerto da Popper, che rientra sotto diverse forme in altre presentazioni della “filosofia prima”, dimostra che la ragione non può che pensare anche l’irrazionale secondo la sua misura, e quindi razionalmente (risolvere problemi, elaborare metodi!), ristabilendo così implicitamente proprio il primato contestato della ragione. Con la sua opzione a favore del primato della ragione, il cristianesimo resta ancora oggi “razionalità”, e penso che una razionalità che si sbarazzi di questa opzione significherebbe per forza, contrariamente alle apparenze, non un’evoluzione ma un’involuzione della razionalità.Abbiamo visto in precedenza che nella concezione del primo cristianesimo le nozioni di natura, uomo, Dio, ethos e religione erano indissolubilmente connesse l’una all’altra e che quel nesso aveva proprio aiutato il cristianesimo a vederci chiaro nella crisi degli dei e nella crisi dell’antica razionalità. L’orientarsi della religione verso una visione razionale del reale, l’ethos come parte di questa visione e la sua applicazione concreta sotto il primato dell’amore, si associarono l’uno all’altro. Il primato del Logos e il primato dell’amore si rivelarono identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla base di tutte le cose ma come amore creatore fino a diventare com-passione verso la creatura. La dimensione cosmica della religione che venera il Creatore nella potenza dell’essere, e la sua dimensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e divennero una cosa sola. Di fatto, una spiegazione del reale che non può in modo sensato e comprensivo fondare un ethos resta necessariamente insufficiente.
Ora, è un fatto che la teoria evoluzionistica, là dove rischia di allargarsi in philosophia universalis, tenta di fondare un nuovo ethos sulla base dell’evoluzione. Ma questo ethos evoluzionistico, che trova ineluttabilmente la sua nozione chiave nel modello della selezione, e quindi nella lotta per la sopravvivenza, nella vittoria del più forte, nell’adattamento riuscito, ha poco di consolante da offrire. Anche là dove si cerchi di abbellirlo in vari modi, resta ultimamente un ethos crudele. Lo sforzo per distillare il razionale a partire da una realtà insensata in se stessa fallisce qui in modo lampante. Tutto ciò serve a ben poco per quello di cui abbiamo bisogno: un’etica della pace universale, dell’amore pratico del prossimo e del necessario andare oltre il particolare.Il tentativo di ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassia e sull’ortodossia.
Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere, oggi – come sempre, in ultima analisi –, nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali deɓl reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e lo scopo di tutto il reale.

giovedì 12 settembre 2024

Saccharomyces Boulardii

 

Fermenti di Boulardii: cosa sono e a cosa servono?

Tempo di lettura: 3 min

Quando si tratta della salute intestinale, spesso sentiamo parlare di probiotici e dei loro benefici.
Tra i numerosi probiotici disponibili, i fermenti di Boulardii emergono come una scelta interessante per favorire l’equilibrio della flora intestinale e promuovere il benessere gastrointestinale. 

In questo articolo, esploreremo nel dettaglio cosa sono esattamente i fermenti di Boulardii e quale ruolo giocano nella nostra salute.

Cosa sono i fermenti di Boulardii?

fermenti di Boulardii si riferiscono a un ceppo di lievito noto come Saccharomyces boulardiiscoperto per la prima volta dal ricercatore Henri Boulard negli anni ’20. 

Contrariamente alla nozione comune dei lieviti come agenti patogeni, Saccharomyces boulardii è un lievito “amico” dell’organismo; è considerato infatti un probiotico benefico

Questo lievito particolare viene quindi utilizzato per favorire l’equilibrio della flora intestinale, contribuendo al mantenimento di un ambiente intestinale sano.

È stato dimostrato che i fermenti di Boulardii sono assolutamente sicuri per l’uso umano e non sono in nessun modo associabili alle infezioni da lievito comuni. 

Questo probiotico naturale lavora infatti in sinergia con la flora batterica intestinale per sostenere la funzione gastrointestinale e proteggere l’organismo da potenziali minacce patogene. 

La natura non patogena dei fermenti di Boulardii li rende alleati preziosi nella gestione di molti disturbi gastrointestinali, tra cui anche la diarrea associata all’utilizzo di antibiotici e le infezioni da Clostridium difficile.

A cosa servono i FERMENTI BOULARDII o Saccharomyces Boulardii?

I fermenti di Boulardii svolgono un ruolo fondamentale nel promuovere la salute intestinale e quindi anche il benessere complessivo. 

Uno dei loro principali vantaggi è sicuramente la capacità di ripristinare l’equilibrio della flora intestinale disturbato. 

Uno dei casi più comuni di squilibrio intestinale è legato all’utilizzo di antibiotici per la cura di altre patologie; in questo caso infatti l’effetto non selettivo del farmaco può danneggiare sia i batteri nocivi che quelli benefici nell’intestino. 

L’uso di fermenti di Boulardii può aiutare a ristabilire questa armonia, riducendo il rischio di disturbi gastrointestinali.

Inoltre, i fermenti di Boulardii sono stati associati anche a benefici nella gestione di molte infezioni intestinali, tra cui anche quelle causate da Clostridium difficile, un batterio anaerobio sporigeno appartenente alla famiglia Clostridiaceae.

La capacità di questo probiotico di competere con i patogeni per gli stessi siti di adesione nell’intestino contribuisce infatti a prevenire l’insediamento di organismi dannosi. 

Questo meccanismo di azione può quindi aiutare a ridurre il rischio di infezioni intestinali e migliorare la risposta del sistema immunitario.

Integratori naturali con fermenti Boulardii

Gli integratori contenenti fermenti di Boulardii sono ampiamente disponibili sul mercato e rappresentano un modo pratico per integrare questo probiotico nella nostra dieta quotidiana. 

Tali integratori alimentari offrono una soluzione conveniente per sostenere la salute intestinale, ma prima di includere qualsiasi integratore nella propria dieta, è sempre consigliabile consultare un professionista della salute per assicurarsi che sia appropriato per le proprie esigenze e condizioni individuali. 

mercoledì 11 settembre 2024

La Chiesa

  DON DIVO BARSOTTI

La Chiesa è l'unità nel tempo. Guai se se rompiamo il legame che ci unisce alla Chiesa di sempre. Non posso riconoscere la Chiesa di oggi se questa non è la Chiesa del Concilio di Trento,  se non è la Chiesa di Francesco e di Tommaso, di Bernardo e di Agostino. Io non so che farmene di una Chiesa che nasca oggi. Se si rompe l'unità,  la Chiesa è già morta. La Chiesa vive soltanto se, senza soluzione di continuità, io sono nella Chiesa uno con gli Apostoli per essere uno con Cristo. Dobbiamo vivere della tradizione, sentirci fratelli e discepoli non solo di un Dio, ma di un Dio che si comunica a noi attraverso i Padri,  e i Padri sono, nell'ininterrotta successione dell'episcopato, del sacerdozio ministeriale,  Basilio e Giovanni, Agostino e Gregorio,  Bernardo e Tommaso, fino ad Alfonso, a Newman, a Rosmini, a Pio XII; sono oggi i vescovi del Concilio, e, primo fra tutti il Papa. Ma sono anche i santi di tutte le epoche, di tutti i paesi. Nei confronti di tutti, io sono un figlio che riceve la vita. Non si vive nella Chiesa l'amore, se si esclude questo rapporto, non soltanto di fraternità ma di filiazione e questo rapporto è vissuto fondamentalmente nella dipendenza al magistero

DON DIVO BARSOTTI

EDTA

 EDTA 

Fisiatria e terapia chelante

La terapia chelante con E.D.T.A, è una terapia chimica somministrata per via endovenosa sotto stretto controllo medico che permette di risolvere le intossicazioni da metallini pesanti (piombo, alluminio, mercurio).

Questi metalli vengono considerati se non la causa principale di alcune di queste patologie una importante concausa, un fattore che molto spesso se eliminato o ridotto può determinare la riduzione dei sintomi o la regressione della patologia a vari livelli.

Molti ricercatori mettono in relazione le intossicazioni da metalli pesanti (piombo mercurio cadmio arsenico alluminio sono i più rappresentativi)con malattie cronico degenerative e sintomatologie vaghe che possono essere considerate  oggi, insieme a cancro e malattie arterosclerotiche, le patologie dell'industrializzazione. 

E.D.T.A. è una molecola chimica che una volta introdotta nell'organismo si combina con la la forma ioniche di questi metalli pesanti e ne favorisce la captazione a livello renale ed epatico per permetterne l'eliminazione.

 

Per approfondire:

LA TERAPIA CHELANTE CON  E.D.T.A.
di Michele BALLO
Sandro MANDOLESI, 
Mauro Mario MARIANI

CHE COS’E’ LA CHELAZIONE

La chelazione è un processo incontrato frequentemente in natura, nel quale i metalli inorganici, come il ferro per esempio, formano complessi con la materia organica.

Uno degli esempi più comunemente citati è quello dell’emoglobina, nella quale 4 gruppi eme si legano ad un atomo di ferro. Questo processo, detto appunto di chelazione, permette il trasporto vero e proprio delle sostanze chelate (in questo caso del ferro).

STORIA
La terapia chelante, intesa come mezzo terapeutico, ha avuto il battesimo clinico nel 1893 sulla scia di una teoria rivoluzionaria: il premio Nobel svizzero Alfred Werner ipotizzò la formazione di un anello stereotrofico, multidimensionale, ben diverso dal modello lineare di valenza, precedentemente proposto nel processo di chelazione.
L ‘EDTA (acido etilen-diammino tetracetico) fu sintetizzato per la prima volta nella Germania nazista alla fine degli anni Trenta, al tempo in cui il governo tentava di ridurre tutte le importazioni chimiche dall’estero.
I tedeschi avevano bisogno di un sostituto dell’acido citrico per evitarne l’importazione dall’estero. L’acido citrico veniva utilizzato in gran quantità nell’industria tessile, per rimuovere il calcio dalle acque dure. Venne presto dimostrato che l’EDTA era molto più efficace dell’acido citrico nel legare il calcio. Nel 1935 in Germania fu depositato il brevetto per l’EDTA.
Ma l’EDTA era già stato utilizzato negli Stati Uniti nel 1933 con il lavoro del chimico Frederik C. Bersworth, alla Clark Univeristy (Massachussets), che aveva aperto la strada a nuove applicazioni.
Nel 1941 Bersworth depositò un brevetto per il suo composto, l’EDTA sodico; egli scelse la combinazione dell’EDTA con il sodio per l’alta solubilità di questo prodotto e la sperimentò nel trattamento dell’avvelenamento da piombo.
Con la Seconda guerra mondiale si scatenò un grande interesse intorno all’uso dei gas all’arsenico, come mezzo bellico.
Molti scienziati, sia americani che europei, stavano cercando antidoti efficaci nel trattamento dell’intossicazione da metalli pesanti. L’EDTA fu una delle sostanze consigliate, ed, infatti, si rivelò una delle migliori.
Il dottor Martin Rubin, professore di chimica applicata avanzata presso l’Università Georgetown di Washington, era a conoscenza del lavoro del dottor Bersworth.
            Si racconta che la prima applicazione medica dell’EDTA fu suggerita nel 1947 da uno dei due laureandi del dott. Rubin, che stava lavorando con la Food and Drug Administration (FDA); come risultato, l’industria chimica Bersworth istituì una borsa di studio per la Georgetown Univeristy, che permetteva al dottor Rubin ed ai suoi collaboratori di studiare gli effetti biologici dell’ EDTA (1).
Nello stesso periodo, erano stati fatti degli esperimenti al Centro militare Walter Reed allo scopo di usare l’EDTA per dissolvere i calcoli renali e vescicali.

La fortunata scoperta che l’EDTA poteva migliorare i disturbi cardiovascolari fu ottenuta in contemporanea con il trattamento con EDTA sodico nell’avvelenamento da piombo.
I marinai americani dopo la seconda guerra mondiale vennero occupati a ridipingere le navi da guerra, respirando così quintali e quintali di piombo.
Allora il concetto della relazione tra intossicazione da piombo, radicali liberi e  malattie cardiovascolari era ancora sconosciuto.
Questi pazienti affetti da angina e trattati per l’avvelenamento cronico da piombo, mostrarono un marcato miglioramento nel loro “status” cardiovascolare.
Fu sulla base di quest’osservazione iniziale, che venne proposto per la prima volta l’uso dell’ EDTA, nel trattamento dei fenomeni aterosclerotici sistemici.
Nel 1955, il dottor Norman E. Clarke Sr (2), informava la comunità medica dei benefici dell’ EDTA nella rimozione dei depositi patologici di calcio. Un anno più tardi, egli illustro gli effetti vantaggiosi di questa terapia sull’angina (3).
Studi successivi confermarono la sua iniziale osservazione e molti altri colleghi cominciarono ad unirsi al dottor Clarke ed agli altri pionieri nell’uso della terapia chelante con EDTA per combattere i disturbi cardiovascolari (4) (5).
Questo gruppo pionieristico formava quello che ora è conosciuto come ACAM (American College of Advancement in Medicine).
L’ACAM, istituita ufficialmente con questo nome nel 1973, è costituita oggi da oltre 1000 medici, specializzati  nell’applicazione clinica della terapia chelante associata a trattamenti nutrizionali e comportamentali per il trattamento delle malattie degenerative, incluse quelle cardiovascolari.
Con l’introduzione dei beta-bloccanti e dei calcio-antagonisti e, cosa ancora più importante, con la scadenza del brevetto Abbott dell’EDTA (1969), la chelazione divenne una minaccia per molte industrie farmaceutiche.
Non solo i fondi per la ricerca vennero a mancare, ma comincio’ a delinearsi una campagna diffamatoria che purtroppo dura tuttora.
La chelazione si propose come alternativa ad alcuni trattamenti di chirurgia cardiovascolare. Si metteva in competizione con interessi  ben consolidati.
Fu a questo punto, nel 1961, che il dottor J. Roderick Kitchel, un ricercatore che si interessava di terapia chelante scrisse “l’articolo rivalutato”. In questo lavoro, mentre nel corpo dell’articolo si mettevano in evidenza gli effetti positivi dell’EDTA nelle patologie degenerative cardiovascolari, nel sommario si giungeva alla conclusione opposta, con la condanna della terapia chelante. (6)
Il dottor J. R. Kitchel era un ricercatore i cui fondi provenivano dall’industria farmaceutica.
Sulla base di questo articolo si crearono un gran numero di giudizi negativi nei confronti della terapia chelante, sia da parte dei clinici che da parte dei ricercatori. Si contava sulla tendenza di molti clinici, oberati da incessanti valanghe di materiale da leggere, di soffermarsi solo sul riassunto.
Questa pratica comune da parte dei clinici e soprattutto l’interesse economico dell’industria farmaceutica, hanno trasformato l’articolo di Kitchel in un potente mezzo a disposizione dei detrattori della terapia chelante.
Mai una terapia ha incontrato una tale opposizione o dei seguaci più entusiasti.
Un’altra critica spesso sentita è che la terapia chelante non è mai stata sottoposta a uno studio in doppio cieco, ma neanche lo è stata la chirurgia a cuore aperto.
Dopo dieci anni di intense trattative con la Food and Drug Administration (FDA) l’ACAM, l’organizzazione per la divulgazione dell’insegnamento della terapia chelante  con EDTA,  tento’ di fare uno studio in doppio cieco.                                                                                                                                                    
Questo esperimento clinico controllato in doppio cieco iniziò nel 1986 selezionando veterani con patologie vascolari periferiche non operabili, con vari gradi di claudicatio. Questo era in accordo con la richiesta del dott. Lepkie, capo del dipartimento cardiovascolare dell’FDA.
Lo studio veniva condotto secondo i protocolli più rigidi del doppio cieco. La ricerca cominciò al centro Medico Militare Walter Reed a Bethesda (Maryland) e in altri due ospedali militari. Il dottor Lepkie disse specificatamente ai rappresentanti dell’ACAM che la FDA era a conoscenza dell’efficacia della terapia chelante con l’EDTA nel trattamento dell’arteriopatia aterosclerotica: pertanto lo scopo del lavoro era soltanto quello di conoscere i dosaggi ottimali della sostanza. Il gruppo di controllo era diviso in tre gruppi ciechi ai quali veniva somministrato rispettivamente uno, due e tre grammi di EDTA, per venti cicli consecutivi.
Un gruppo (probabilmente quello che riceveva la più alta quantità di EDTA) presentava il miglioramento più marcato della claudicatio; un gruppo aveva risultati modesti ed il terzo risultati scarsi.
Non c’è stato bisogno di aprire il codice dello studio in cieco per capire quello che era successo. Il direttore generale dell’industria farmaceutica, che aveva fornito il magnesio-EDTA usato per l’esperimento, entusiasta dei risultati ottenuti, si offrì di finanziare il completamento dello studio e promise un investimento di più di sei milioni di dollari.
E’ importante capire che, poiché, questa era una nuova formula di EDTA (magnesio EDTA piuttosto che EDTA sodico) questa casa farmaceutica sperava di poter guadagnare molto dal completamento dello studio. La casa farmaceutica (Wyeth) avrebbe avuto a disposizione molti anni di guadagno dopo il brevetto della nuova molecola.
Quando giunse il momento di ricevere i fondi (approvati all’unanimità dal consiglio amministrativo della Wyeth), il direttore generale fu improvvisamente sostituito da qualcuno che affermò che né lui né il suo Consiglio “avevano interesse a continuare quello studio”.
La mancanza di denaro e, cosa più importante, la Guerra del Golfo che determinò lo spostamento al fronte di due degli ospedali militari adoperati per lo studio a doppio cieco mise fine allo sforzo  di concludere la ricerca che era iniziata con finanziamenti raccolti tra gli stessi medici ACAM e da alcune fondazioni.
Situazioni come questa danno una chiara idea delle battaglie economiche che intralciano la medicina. La terapia chelante, per i suoi molteplici effetti, potrebbe essere una minaccia non solo per i produttori dei calcio antagonisti e di altri farmaci cardiovascolari, ma anche per tutta la medicina “tradizionale”.
La terapia chelante, essendo una terapia di ringiovanimento cellulare di tutto il corpo, migliora molte altre condizioni configurandosi pertanto una vera terapia preventiva; questo potrebbe essere, in definitiva, una minaccia a lungo termine per lo status economico dell’industria farmaceutica e per altre attività mediche convenzionali.
Un gruppo che avrebbe molto da perdere è quello dei chirurghi cardiovascolari; infatti, nel 1992, in Danimarca i chirurghi vascolari condussero una ricerca talmente di parte che è ora sotto inchiesta da parte della commissione etica .
Questo studio aveva lo scopo di provare l’inefficacia della terapia chelante. Tra le altre cose, essi chiedevano ai pazienti di masticare compresse contenenti ferro durante le infusioni che come vedremo blocca la capacità dell’EDTA di rimuovere il calcio dalle lesioni dei vasi e dei tessuti molli.
Recentemente, comunque, sono stati effettuati un gran numero di studi positivi e i dottori Efrain Olsewer e James P. Carter, membri dell’ACAM, utilizzando criteri obiettivi su uno studio retrospettivo di 2.870 pazienti cardiopatici, trattati con terapia chelante, riportano un marcato miglioramento nel 76,9% dei casi ed un buon miglioramento nel 17% (7) (8). 
Questi stessi autori condussero e pubblicarono assieme al dottor Sabbag un altro studio controllato a doppio cieco con un placebo su pazienti con claudicatio intermittente  a San Paolo (Brasile). Gli autori riportano un miglioramento significativo in quelli che avevano ricevuto l’EDTA rispetto a quelli a cui era stato somministrato il placebo (9).
Attualmente nel mondo circa un milione di persone sono state trattate secondo il protocollo ufficiale dell’ACAM. senza alcun problema.



MECCANISMO D’AZIONE
Nel 1956 Denham Harman (10) introdusse il concetto di cross-linking del collagene, della formazione della lipofuscina e del danno al DNA come nucleo della teoria del processo di invecchiamento. Tutti questi fenomeni sono il risultato del danno da radicali liberi sulle strutture vitali della cellula e dei vari tessuti.
I metalli tossici rendono molti enzimi incapaci di proteggere dagli effetti dannosi dei radicali liberi che sarebbero responsabili della maggior parte della patologia degenerativa, inclusa l’aterogenesi, il processo di invecchiamento e alcune forme di neoplasie.
Il chelante lega e rimuove i metalli tossici, potenti catalizzatori nel processo della patologia da radicali liberi implicata in molte malattie degenerative.
II grafico mostra che l’affinità  del chelante dipende principalmente dall’azione di massa. Se il sangue del paziente contiene, per esempio, grandi quantità di piombo o di alluminio, senza tenere conto della curva di affinità, l’EDTA si lega prevalentemente con questi metalli.


                       Cr2+ 
Fe3+
Hg2+          complessi molto stabili                
  Cu2+
    Pb2+
         Zn2+
       Cd2+
          Co2+
                   Fe2+     complessi poco stabili
                  Mn2+
                       Ca2+
                                 Mg2+
                                       
  o                           7,3                     pH
 
Come si vede dalla curva la maggiore affinita’ e’ per il cromo.
L’affinità dell’EDTA per il ferro è molto più alta che per il calcio.
Nella ricerca danese, nel cui protocollo si richiedeva ai pazienti di assumere ferro durante il trattamento, la terapia chelante nei confronti delle patologie scelte aterosclerotiche risultava inefficace.
Diversamente questa affinita’ per il ferro puo’ essere utilizzata in patologie collegate ad una ipersideremia.
L’EDTA ha un marcato effetto riparativo cellulare come anche la vitamina E ed il selenio, nel proteggere lo strato lipidico biomolecolare di tutte le membrane cellulari.
Una delle maniere in cui  i metalli tossici  producono processi patologici è quello di sostituirsi  agli enzimi protettivi, come la Superossido dismutasi (SOD), a minerali come lo zinco, necessari per il funzionamento  dell’enzima stesso inattivandoli.
Quando c’è un’eccesso di un metallo tossico c’è un’iperproduzione di radicali liberi che va ad contrastare l’azione degli enzimi antiiossidanti.  Tra questi la catalasi e la superossido-dismutasi (SOD). La SOD è un antiossidante enzimatico tra i più diffusi in tutte le cellule dell’organismo, specie in quelle epatiche Essa contiene manganese, zinco e rame ed esiste in due forme:
quella mitocondriale  e quella extracellulare. 
Uno dei meccanismi invocati per spiegare tutti i processi benefici della terapia chelante, e’ basato sul fatto che l’EDTA stimola in maniera efficace la produzione di enzimi importanti come l’adenosina trifosfato (ATP), enzima  necessario per la produzione di energia cellulare.
I sistemi biologici richiedono grandi quantità di energia per controbilanciare la tendenza verso l’aumento del disordine (entropia).
Il mantenimento dell’organizzazione cellulare e delle funzioni cellulari riproduttive viene ottenuto con grande dispendio di energia.
L’accumulo energetico inizia con il processo di fotosintesi delle piante: viene quindi trasformato nei sistemi biologici in legami chimici; questo coinvolge la sintesi dell’adenosina trifosfato (ATP), la moneta energetica di scambio cellulare universale.
La degradazione dell’ATP rilascia l’energia necessaria per tutte le funzioni vitali . I prodotti tossici del metabolismo cellulare come i radicali liberi e lo stesso processo di invecchiamento alterano le funzioni enzimatiche che sovrintendono alla produzione di ATP.
La terapia chelante ristabilisce l’attività enzimatica ed è quindi, particolarmente utile nel mantenimento dell’omeostasi energetica cellulare.
I mitocondri sono le batterie cellulari in cui sono accelerati i processi d’ossidazione e riduzione con produzione d’energia, per cui vanno protetti in maniera particolare.
Uno sbilancio dei tre minerali (zinco, manganese, rame) produce una diminuzione della SOD, evento che apre la strada allo stress ossidativo, che e’ riconosciuto come la base delle malattie degenerative e dell’invecchiamento.
Il Rame in questo contesto ha una funzione protettiva e non tossica.
Il suo eccesso, così come l’eccesso di minerali in qualsiasi altro sistema biologico, porta a squilibri patologici; nel caso specifico del rame si ha la degenerazione epato lenticolare ( Morbo di Wilson ).
Restaurare i giusti livelli di SOD è dunque d’importanza primaria.
Anche il ferro è un elemento fondamentale.
Il suo eccesso e’ comunque responsabile di una delle patologie da radicali liberi piu’ pericolosa: la produzione di radicali perossidati delle membrane cellulari (lipoperossidazione).
Il meccanismo attraverso il quale l’eccesso di ferro promuove la formazione dei radicali perossidati va sotto il nome di reazione di Fenton.
        
Reazione di Fenton        Fe++→ HO-
E’ da ricordare che il cervello e’ il tessuto a maggiore contenuto lipidico di tutto l’organismo.
Sostanze lipidiche sono del resto in tutte le cellule del corpo, ed infatti sono contenute nella struttura a due strati (bipolare) di tutte le membrane cellulari. In questa membrana sono contenuti: trigliceridi, colesterolo, selenio e vitamina E.     
Queste sono tutte sostanze di difesa, i nostri sacchetti di sabbia in prima linea.
Livelli estremamente bassi di colesterolo (al di sotto dei 150) e di trigliceridi, carenza di selenio e di vitamina E permette ai radicali perossidati di raggiungere strutture vitali come il DNA e i mitocondri, creando cosi danni a volte irreversibili.
Le emoglobinopatie in cui l’eccesso di emolisi libera il ferro e lo mette in circolazione in grandi quantita’, sono condizioni in cui questi livelli di ferro  possono scatenare processi accelerati di ossidazione a catena.
Anche queste patologie genetiche  si possono comunque modulare con l’utilizzazione degli antiossidanti e della terapia chelante che lega e rimuove l’eccesso di ferro.     
E’ importante ricordare che l’uso oculato degli oli essenziali (acidi polinsaturi), conferisce una maggiore flessibilita’ alle membrane cellulari, cosa molto importante nel caso delle emoglobinopatie.
A parte lo zinco, il manganese ed il rame che entrano nella formazione della S O D, e’ da ricordare la funzione essenziale del selenio che fa parte della perossidasi.
Questo enzima e’ vitale nella protezione delle sostanze lipidiche attraverso la formazione dell’enzima glutatione perossidasi.
La terapia chelante di per sè una potente terapia antiossidante: si avvale di tutto un corollario di integratori antiossidanti e, così facendo, risulta la migliore terapia anti radicali liberi e di conseguenza di ringiovanimento cellulare.
Tra i molti danni da  radicali liberi, c’e’ quello della produzione dei legami crociati e di accelerazione dei processi di aterosclerosi.
Se si riuscisse a bloccare tutti i processi di legami crociati del collagene ed i  processi di aterosclerosi dei piccoli vasi, si potrebbe rimanere giovani per sempre.
La terapia chelante elimina il calcio prevalentemente dai piccoli vasi, essendo intoccabile nelle grosse placche sclerotiche di vecchia data, dove la placca calcifica è ormai organizzata e consolidata.
Dopo le prime dieci sedute si ha già  un benefico effetto sui legami crociati di tutti i tessuti con aumento della elasticità dei piccoli vasi. La legge di Poiseuille stabilisce che la portata in un capillare dipende dalla quarta potenza del raggio del capillare stesso. Anche per un modesto aumento del raggio(essendo esso elevato alla quarta potenza) si ha un importante aumento del flusso ematico. Ciò spiega l’aumento della vascolarizzazione ematica di tutti i territori irrorati dal microcircolo dopo terapia.
Un nostro studio del 91, effettuato con la capillaroscopia su 90 pazienti arteriopatici trattati con la terapia chelante ha documentato in vivo l’attivazione del microcircolo a livello delle rilevazioni acrali e congiuntivale. (11)
La terapia chelante ha anche proprieta’ antivirali. Una delle teorie sull’aterosclerosi e’ basata sull’osservazione che il cytomegalovirus, il solo virus studiato in questo contesto, sia responsabile dei processi aterosclerotici danneggiando l’intima.
Un altra teoria dell'inizio degli anni Ottanta, formulata da Daniel Steinberg, docente di medicina all'Università della California a San Diego,  afferma che: “L’ossidazione, cioè la combinazione dei radicali liberi con particelle di LDL, sia la base della formazione della placca che è successivamente circondata da piastrine, fibrina ed altre sostanze con conseguente calcificazione ed intasamento dei vasi sanguigni“.(12)
La terapia chelante abbassa la concentrazione del colesterolo ossidato (LDL) rispetto al colesterolo totale e può, quindi, promuovere la prevenzione dell’aterogenesi associata all’iperlipidemia.
Un nostro studio del 90’ sul glutatione ha evidenziato un significativo effetto anti-radicali liberi dell’EDTA.(13)    
La terapia chelante diminuisce l’aggregazione piastrinica, aumentandone il volume e cambiando le cariche ioniche.
L’effetto dell’EDTA sul metabolismo del calcio ha una grande importanza.
Una delle critiche fatte alla terapia chelante è che l’abbassamento del calcio, da essa provocato, porterebbe all’osteoporosi; in realtà si verifica l’opposto.
La terapia chelante con l’EDTA aumenta la densità ossea stimolando l’attività osteoblastica attraverso la trasformazione dei preosteoblasti ( Rasmussen nel 1974 e C. J. Rudolph 1988). (14)
L’EDTA, legandosi al calcio ematico, abbassa la concentrazione del calcio ionico stimolando di conseguenza l’attività  delle paratiroidi. Il paratormone aumenta la mobilizzazione del calcio, togliendolo prima di tutto dalle placche di nuova formazione. Il ricambio metabolico, con conseguente attivazione dell’ AMPc (adenosinamonofosfato ciclica) a livello osseo, stimola l’attivita’ degli osteoblasti pronti ad utilizzare il calcio circolante.
Questo meccanismo è prolungato nel tempo cosicché, l’effetto antiosteoporotico della terapia chelante, si può evidenziare alla fine e a distanza dal trattamento iniziale.
Il riassorbimento del calcio proveniente dall’assorbimento intestinale, che competerebbe con quello del calcio contenuto nelle placche ateromasiche  viene limitato suggerendo ai pazienti di non assumere prima della infusione cibi ad alto contenuto calcico come i latticini.
E’ stato anche  provato che la terapia chelante può prevenire alcune forme neoplastiche, riducendo la quantità di piombo e di altri metalli tossici che innescano l’oncogenesi.
Il dottor Walter Blumner ed il dottor Elmer Cranton nel 1989 (15) hanno documentato una riduzione della mortalità per cancro del 90% durante un follow up di 18 anni su 59 pazienti trattati con calcio EDTA per intossicazione ambientale da metalli pesanti, il resto della popolazione che viveva nella piccola cittadina svizzera sul bordo di una strada altamente trafficata costituì il gruppo di controllo.


MODALITA’ DI SOMMINISTRAZIONE
Prima dell’inizio della terapia i pazienti devono essere studiati adeguatamente con un check up ematologico, ematochimico e cardiovascolare strumentale completo.
Molto importante è lo studio della funzionalità renale con la valutazione della creatininemia e della clearance della creatinina
L’approccio al paziente deve essere completato con una valutazione clinica generale e vascolare.
Deve essere preparato anche un piano alimentare individuale per compensare eventuali chelazioni di sostanze “utili”  e per compensare eventuali deficit nutrizionali spesso incontrati nei pazienti con patologie degenerative.
L’EDTA legato alle sostanze tossiche chelate viene escreto principalmente tramite la filtrazione glomerulare. L’integrità della funzionalità renale è fondamentale e pertanto va controllata frequentemente la creatininemia e la clearance della creatinina.
Tutti i pazienti sottoposti alla terapia chelante presentano, comunque, alla fine del trattamento un miglioramento della clearance della creatinina, specialmente quando si fa particolare attenzione alla protezione dei reni, regolando la quantità di EDTA e la frequenza dei trattamenti.
Nei pazienti più gravi viene spesso alternate una fleboclisi di magnesio, antiosssidanti ed epatoprotettori, con una di chelante durante la stessa settimana o a settimane alterne.
In caso di situazioni gravi come la gangrena, si aumentano i trattamenti a 3-4 volte la settimana fino a che non venga migliorata la circolazione nell’arto danneggiato.
Regolando la quantità di EDTA in funzione della vitamina C non si presentano lesioni delle strutture filtranti.
L’EDTA si lega anche a sostanze “utili”. E’ bene ricordare che la vitamina B6, molto importante per il funzionamento cardiovascolare e per la riparazione di molti enzimi biologici viene anch’essa chelata dall’EDTA e va quindi reintegrata sia per via orale che durante l’infusione chelante. Lo stesso vale  per lo zinco, il cromo e il magnesio.
E’ quindi importante fare una valutazione degli elettroliti e comunque integrarli.
C’è quindi indicazione all’apporto di alcuni elementi (soprattutto magnesio e potassio) prima di iniziare la terapia chelante.
La chelazione è basata sulla infusione endovenosa di EDTA, minerali (magnesio e potassio) e vitamine.
L’effetto benefico dell’EDTA e’ basato sul fatto che si lega ai metalli tossici ed al calcio tessutale.
La somministrazione dell’EDTA deve essere lenta, per due motivi: l’emivita dell’EDTA è molto breve, da 45 minuti a 1 ora e quindi gran parte dei legami avvengono durante l’infusione; dal momento che l’EDTA si lega ai metalli tossici ed al calcio  ed è allontanato per il 95% dai reni e per il 5% dal fegato, pertanto una infusione lenta protegge questi organi.

L’infusione dovrebbe durare non meno di 3 ore, non solo per preservare l’integrità renale, ma anche per aumentare l’efficacia del processo chelante.
In un fisiologico sangue alcalino (pH tra 7.35 e 7.45) l’EDTA mostra la più alta affinità per il calcio; a pH più basso l’affinità è maggiore per il piombo.
La terapia chelante, a meno che non ci sia una gangrena degli arti inferiori o un’angina severa, e’ meglio effettuarla 1 o 2 volte la settimana. In realtà, è più utile in vista del risultato finale prolungare il periodo che i pazienti effettuano tale terapia. Questo permette ai pazienti un maggior contatto con  il medico del centro di chelazione, che cosi potra’ insegnare loro a cambiare le abitudini alimentari e lo stile di vita.
Questo comporta un sistema di follow-up a lungo termine dell’equipe medica per accertare che questi cambiamenti stiano avvenendo.
Un ciclo di terapia consiste inizialmente in 20 - 30  infusioni, alle quali possono seguire dei “richiami” mensili..
Taluni casi necessitano di ulteriori cicli di “richiamo”.

INDICAZIONI
La terapia chelante non è ancora riconosciuta ufficialmente in Italia, così come all’estero, per il trattamento delle malattie vascolari, ma soltanto come terapia  nella intossicazione da digitale, piombo e nella ipercalcemia.
Sono tuttavia molti gli autori che hanno documentato effetti positivi della terapia chelante con l’EDTA nei pazienti arteriopatici  (16) (17) (18).
Benché la terapia chelante abbia raggiunto come trattamento notorietà nel miglioramento della circolazione con la regressione dei processi aterosclerotici, va puntualizzato che essa ha applicazioni molto più estese.
La terapia chelante è stata  usata efficacemente  anche nel trattamento di alcune forme di cancro in associazione ai trattamenti antitumorali convenzionali e non convenzionali.
La terapia chelante è utile nel trattamento di neoplasie come il linfoma, alcune forme di leucemia e in alcuni adenocarcinomi. La genesi di molte neoplasie é in relazione all’accumulo di metalli tossici.
Riepilogando le indicazioni della terapia chelante con EDTA bisodico sono:
Miocardiopatie ischemiche stabilizzate non dilatative.
Arteropatie degli arti inferiori in tutti i loro stadi.
Vasculopatie cerebrali plurinfartuate.
Retinopatie, in particolare degenerazione maculare della retina.
Nefropatie in fase iniziale.
Complicanze dell’ipertensione.
Vasculopatie diabetiche.
Collagenopatie.
Epatopatie tossiche.
Invecchiamento precoce.
Intossicazioni da agenti ambientali (xenobiosi).
Effetti collaterali e complicanze dei trattamenti radianti.
Nella prevenzione delle complicanze della malattia aterosclerotica in fase preclinica.
Intossicazioni da metalli quali: alluminio, piombo, mercurio
Intossicazione acuta da digitale.
La calcolosi calcica renale ed il Morbo di Dupuytren restano le indicazioni storiche.
CONCLUSIONI
La malattia aterosclerotica è per definizione una patologia polidistrettuale ed evolutiva.
L’atto chirurgico, quando ha buon esito, è eclatante nel risolvere la sintomatologia del paziente (claudicatio, angina, T.I.A. subentranti), ma non rappresenta che una soluzione temporanea ed incompleta della storia naturale della malattia.
Le statistiche indicano che i soggetti operati in un distretto vascolare spesso muoiono, negli anni successivi, per un aggravamento di lesioni talora misconosciute in altri distretti.
Tali pazienti non solo sono stati sottoposti ad accurate indagini preoperatorie, ma dopo l’intervento hanno ricevuto anche un’adeguata copertura farmacologica, secondo schemi terapeutici comunemente accettati, atti a prevenire eventuali complicanze vascolari.
Perché allora tali complicanze sono così frequenti in questi pazienti?
Si deve ipotizzare che:
a) il paziente non cambi le proprie abitudini di vita (motorie, alimentari, voluttuarie, lavorative);
b) la riacquistata salute spinga il soggetto ad eccessi psico-fisici a lui non consentiti prima dell’intervento chirurgico;
c) i farmaci assunti siano, da soli, poco efficaci nel prevenire l’evoluzione della malattia  aterosclerotica;
d) si inneschi un meccanismo di accelerazione della malattia non ancora identificato.
Per provare l’efficacia di un sistema di terapia chelante basterebbe trattare i pazienti ritenuti “inoperabili” e coloro che sono stati sottoposti più volte ad interventi chirurgici.
Riassumendo, la terapia chelante è il trattamento di scelta per la rimozione dei metalli tossici e per la prevenzione dei danni da radicali liberi.
Questo trattamento è una delle migliori possibilità terapeutiche per il rallentamento del processo di invecchiamento cellulare.


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