EDTA
Fisiatria e terapia chelante
La terapia chelante con E.D.T.A, è una terapia chimica somministrata per via endovenosa sotto stretto controllo medico che permette di risolvere le intossicazioni da metallini pesanti (piombo, alluminio, mercurio).
Questi metalli vengono considerati se non la causa principale di alcune di queste patologie una importante concausa, un fattore che molto spesso se eliminato o ridotto può determinare la riduzione dei sintomi o la regressione della patologia a vari livelli.
Molti ricercatori mettono in relazione le intossicazioni da metalli pesanti (piombo mercurio cadmio arsenico alluminio sono i più rappresentativi)con malattie cronico degenerative e sintomatologie vaghe che possono essere considerate oggi, insieme a cancro e malattie arterosclerotiche, le patologie dell'industrializzazione.
E.D.T.A. è una molecola chimica che una volta introdotta nell'organismo si combina con la la forma ioniche di questi metalli pesanti e ne favorisce la captazione a livello renale ed epatico per permetterne l'eliminazione.
Per approfondire:
LA TERAPIA CHELANTE CON E.D.T.A.
di Michele BALLO
Sandro MANDOLESI,
Mauro Mario MARIANI
CHE COS’E’ LA CHELAZIONE
La chelazione è un processo
incontrato frequentemente in natura, nel quale i metalli inorganici,
come il ferro per esempio, formano complessi con la materia organica.
Uno degli esempi più comunemente citati è quello dell’emoglobina, nella
quale 4 gruppi eme si legano ad un atomo di ferro. Questo processo,
detto appunto di chelazione, permette il trasporto vero e proprio delle
sostanze chelate (in questo caso del ferro).
STORIA
La terapia chelante, intesa come
mezzo terapeutico, ha avuto il battesimo clinico nel 1893 sulla scia di
una teoria rivoluzionaria: il premio Nobel svizzero Alfred Werner
ipotizzò la formazione di un anello stereotrofico, multidimensionale,
ben diverso dal modello lineare di valenza, precedentemente proposto nel
processo di chelazione.
L ‘EDTA (acido etilen-diammino tetracetico) fu sintetizzato per la
prima volta nella Germania nazista alla fine degli anni Trenta, al tempo
in cui il governo tentava di ridurre tutte le importazioni chimiche
dall’estero.
I tedeschi avevano bisogno di un sostituto dell’acido citrico per
evitarne l’importazione dall’estero. L’acido citrico veniva utilizzato
in gran quantità nell’industria tessile, per rimuovere il calcio dalle
acque dure. Venne presto dimostrato che l’EDTA era molto più efficace
dell’acido citrico nel legare il calcio. Nel 1935 in Germania fu
depositato il brevetto per l’EDTA.
Ma l’EDTA era già stato utilizzato negli Stati Uniti nel 1933 con il
lavoro del chimico Frederik C. Bersworth, alla Clark Univeristy
(Massachussets), che aveva aperto la strada a nuove applicazioni.
Nel 1941 Bersworth depositò un brevetto per il suo composto, l’EDTA
sodico; egli scelse la combinazione dell’EDTA con il sodio per l’alta
solubilità di questo prodotto e la sperimentò nel trattamento
dell’avvelenamento da piombo.
Con la Seconda guerra mondiale si scatenò un grande interesse intorno all’uso dei gas all’arsenico, come mezzo bellico.
Molti scienziati, sia americani che europei, stavano cercando antidoti
efficaci nel trattamento dell’intossicazione da metalli pesanti. L’EDTA
fu una delle sostanze consigliate, ed, infatti, si rivelò una delle
migliori.
Il dottor Martin Rubin, professore di chimica applicata avanzata presso
l’Università Georgetown di Washington, era a conoscenza del lavoro del
dottor Bersworth.
Si racconta che la prima applicazione medica dell’EDTA fu
suggerita nel 1947 da uno dei due laureandi del dott. Rubin, che stava
lavorando con la Food and Drug Administration (FDA); come risultato,
l’industria chimica Bersworth istituì una borsa di studio per la
Georgetown Univeristy, che permetteva al dottor Rubin ed ai suoi
collaboratori di studiare gli effetti biologici dell’ EDTA (1).
Nello stesso periodo, erano stati fatti degli esperimenti al Centro
militare Walter Reed allo scopo di usare l’EDTA per dissolvere i calcoli
renali e vescicali.
La fortunata scoperta che l’EDTA
poteva migliorare i disturbi cardiovascolari fu ottenuta in
contemporanea con il trattamento con EDTA sodico nell’avvelenamento da
piombo.
I marinai americani dopo la seconda guerra mondiale vennero occupati a
ridipingere le navi da guerra, respirando così quintali e quintali di
piombo.
Allora il concetto della relazione tra intossicazione da piombo,
radicali liberi e malattie cardiovascolari era ancora sconosciuto.
Questi pazienti affetti da angina e trattati per l’avvelenamento
cronico da piombo, mostrarono un marcato miglioramento nel loro “status”
cardiovascolare.
Fu sulla base di quest’osservazione iniziale, che venne proposto per la
prima volta l’uso dell’ EDTA, nel trattamento dei fenomeni
aterosclerotici sistemici.
Nel 1955, il dottor Norman E. Clarke Sr (2), informava la comunità
medica dei benefici dell’ EDTA nella rimozione dei depositi patologici
di calcio. Un anno più tardi, egli illustro gli effetti vantaggiosi di
questa terapia sull’angina (3).
Studi successivi confermarono la sua iniziale osservazione e molti
altri colleghi cominciarono ad unirsi al dottor Clarke ed agli altri
pionieri nell’uso della terapia chelante con EDTA per combattere i
disturbi cardiovascolari (4) (5).
Questo gruppo pionieristico formava quello che ora è conosciuto come ACAM (American College of Advancement in Medicine).
L’ACAM, istituita ufficialmente con questo nome nel 1973, è costituita
oggi da oltre 1000 medici, specializzati nell’applicazione clinica
della terapia chelante associata a trattamenti nutrizionali e
comportamentali per il trattamento delle malattie degenerative, incluse
quelle cardiovascolari.
Con l’introduzione dei beta-bloccanti e dei calcio-antagonisti e, cosa
ancora più importante, con la scadenza del brevetto Abbott dell’EDTA
(1969), la chelazione divenne una minaccia per molte industrie
farmaceutiche.
Non solo i fondi per la ricerca vennero a mancare, ma comincio’ a
delinearsi una campagna diffamatoria che purtroppo dura tuttora.
La chelazione si propose come alternativa ad alcuni trattamenti di
chirurgia cardiovascolare. Si metteva in competizione con interessi ben
consolidati.
Fu a questo punto, nel 1961, che il dottor J. Roderick Kitchel, un
ricercatore che si interessava di terapia chelante scrisse “l’articolo
rivalutato”. In questo lavoro, mentre nel corpo dell’articolo si
mettevano in evidenza gli effetti positivi dell’EDTA nelle patologie
degenerative cardiovascolari, nel sommario si giungeva alla conclusione
opposta, con la condanna della terapia chelante. (6)
Il dottor J. R. Kitchel era un ricercatore i cui fondi provenivano dall’industria farmaceutica.
Sulla base di questo articolo si crearono un gran numero di giudizi
negativi nei confronti della terapia chelante, sia da parte dei clinici
che da parte dei ricercatori. Si contava sulla tendenza di molti
clinici, oberati da incessanti valanghe di materiale da leggere, di
soffermarsi solo sul riassunto.
Questa pratica comune da parte dei clinici e soprattutto l’interesse
economico dell’industria farmaceutica, hanno trasformato l’articolo di
Kitchel in un potente mezzo a disposizione dei detrattori della terapia
chelante.
Mai una terapia ha incontrato una tale opposizione o dei seguaci più entusiasti.
Un’altra critica spesso sentita è che la terapia chelante non è mai
stata sottoposta a uno studio in doppio cieco, ma neanche lo è stata la
chirurgia a cuore aperto.
Dopo dieci anni di intense trattative con la Food and Drug
Administration (FDA) l’ACAM, l’organizzazione per la divulgazione
dell’insegnamento della terapia chelante con EDTA, tento’ di fare uno
studio in doppio
cieco.
Questo esperimento clinico controllato in doppio cieco iniziò nel 1986
selezionando veterani con patologie vascolari periferiche non operabili,
con vari gradi di claudicatio. Questo era in accordo con la richiesta
del dott. Lepkie, capo del dipartimento cardiovascolare dell’FDA.
Lo studio veniva condotto secondo i protocolli più rigidi del doppio
cieco. La ricerca cominciò al centro Medico Militare Walter Reed a
Bethesda (Maryland) e in altri due ospedali militari. Il dottor Lepkie
disse specificatamente ai rappresentanti dell’ACAM che la FDA era a
conoscenza dell’efficacia della terapia chelante con l’EDTA nel
trattamento dell’arteriopatia aterosclerotica: pertanto lo scopo del
lavoro era soltanto quello di conoscere i dosaggi ottimali della
sostanza. Il gruppo di controllo era diviso in tre gruppi ciechi ai
quali veniva somministrato rispettivamente uno, due e tre grammi di
EDTA, per venti cicli consecutivi.
Un gruppo (probabilmente quello che riceveva la più alta quantità di
EDTA) presentava il miglioramento più marcato della claudicatio; un
gruppo aveva risultati modesti ed il terzo risultati scarsi.
Non c’è stato bisogno di aprire il codice dello studio in cieco per
capire quello che era successo. Il direttore generale dell’industria
farmaceutica, che aveva fornito il magnesio-EDTA usato per
l’esperimento, entusiasta dei risultati ottenuti, si offrì di finanziare
il completamento dello studio e promise un investimento di più di sei
milioni di dollari.
E’ importante capire che, poiché, questa era una nuova formula di EDTA
(magnesio EDTA piuttosto che EDTA sodico) questa casa farmaceutica
sperava di poter guadagnare molto dal completamento dello studio. La
casa farmaceutica (Wyeth) avrebbe avuto a disposizione molti anni di
guadagno dopo il brevetto della nuova molecola.
Quando giunse il momento di ricevere i fondi (approvati all’unanimità
dal consiglio amministrativo della Wyeth), il direttore generale fu
improvvisamente sostituito da qualcuno che affermò che né lui né il suo
Consiglio “avevano interesse a continuare quello studio”.
La mancanza di denaro e, cosa più importante, la Guerra del Golfo che
determinò lo spostamento al fronte di due degli ospedali militari
adoperati per lo studio a doppio cieco mise fine allo sforzo di
concludere la ricerca che era iniziata con finanziamenti raccolti tra
gli stessi medici ACAM e da alcune fondazioni.
Situazioni come questa danno una chiara idea delle battaglie economiche
che intralciano la medicina. La terapia chelante, per i suoi molteplici
effetti, potrebbe essere una minaccia non solo per i produttori dei
calcio antagonisti e di altri farmaci cardiovascolari, ma anche per
tutta la medicina “tradizionale”.
La terapia chelante, essendo una terapia di ringiovanimento cellulare
di tutto il corpo, migliora molte altre condizioni configurandosi
pertanto una vera terapia preventiva; questo potrebbe essere, in
definitiva, una minaccia a lungo termine per lo status economico
dell’industria farmaceutica e per altre attività mediche convenzionali.
Un gruppo che avrebbe molto da perdere è quello dei chirurghi
cardiovascolari; infatti, nel 1992, in Danimarca i chirurghi vascolari
condussero una ricerca talmente di parte che è ora sotto inchiesta da
parte della commissione etica .
Questo studio aveva lo scopo di provare l’inefficacia della terapia
chelante. Tra le altre cose, essi chiedevano ai pazienti di masticare
compresse contenenti ferro durante le infusioni che come vedremo blocca
la capacità dell’EDTA di rimuovere il calcio dalle lesioni dei vasi e
dei tessuti molli.
Recentemente, comunque, sono stati effettuati un gran numero di studi
positivi e i dottori Efrain Olsewer e James P. Carter, membri dell’ACAM,
utilizzando criteri obiettivi su uno studio retrospettivo di 2.870
pazienti cardiopatici, trattati con terapia chelante, riportano un
marcato miglioramento nel 76,9% dei casi ed un buon miglioramento nel
17% (7) (8).
Questi stessi autori condussero e pubblicarono assieme al dottor Sabbag
un altro studio controllato a doppio cieco con un placebo su pazienti
con claudicatio intermittente a San Paolo (Brasile). Gli autori
riportano un miglioramento significativo in quelli che avevano ricevuto
l’EDTA rispetto a quelli a cui era stato somministrato il placebo (9).
Attualmente nel mondo circa un milione di persone sono state trattate
secondo il protocollo ufficiale dell’ACAM. senza alcun problema.
MECCANISMO D’AZIONE
Nel 1956 Denham Harman (10)
introdusse il concetto di cross-linking del collagene, della formazione
della lipofuscina e del danno al DNA come nucleo della teoria del
processo di invecchiamento. Tutti questi fenomeni sono il risultato del
danno da radicali liberi sulle strutture vitali della cellula e dei vari
tessuti.
I metalli tossici rendono molti enzimi incapaci di proteggere dagli
effetti dannosi dei radicali liberi che sarebbero responsabili della
maggior parte della patologia degenerativa, inclusa l’aterogenesi, il
processo di invecchiamento e alcune forme di neoplasie.
Il chelante lega e rimuove i metalli tossici, potenti catalizzatori nel
processo della patologia da radicali liberi implicata in molte malattie
degenerative.
II grafico mostra che l’affinità del chelante dipende principalmente
dall’azione di massa. Se il sangue del paziente contiene, per esempio,
grandi quantità di piombo o di alluminio, senza tenere conto della curva
di affinità, l’EDTA si lega prevalentemente con questi metalli.
Cr2+
Fe3+
Hg2+ complessi molto stabili
Cu2+
Pb2+
Zn2+
Cd2+
Co2+
Fe2+ complessi poco stabili
Mn2+
Ca2+
Mg2+
o 7,3 pH
Come si vede dalla curva la maggiore affinita’ e’ per il cromo.
L’affinità dell’EDTA per il ferro è molto più alta che per il calcio.
Nella ricerca danese, nel cui protocollo si richiedeva ai pazienti di
assumere ferro durante il trattamento, la terapia chelante nei confronti
delle patologie scelte aterosclerotiche risultava inefficace.
Diversamente questa affinita’ per il ferro puo’ essere utilizzata in patologie collegate ad una ipersideremia.
L’EDTA ha un marcato effetto riparativo cellulare come anche la
vitamina E ed il selenio, nel proteggere lo strato lipidico
biomolecolare di tutte le membrane cellulari.
Una delle maniere in cui i metalli tossici producono processi
patologici è quello di sostituirsi agli enzimi protettivi, come la
Superossido dismutasi (SOD), a minerali come lo zinco, necessari per il
funzionamento dell’enzima stesso inattivandoli.
Quando c’è un’eccesso di un metallo tossico c’è un’iperproduzione di
radicali liberi che va ad contrastare l’azione degli enzimi
antiiossidanti. Tra questi la catalasi e la superossido-dismutasi
(SOD). La SOD è un antiossidante enzimatico tra i più diffusi in tutte
le cellule dell’organismo, specie in quelle epatiche Essa contiene
manganese, zinco e rame ed esiste in due forme:
quella mitocondriale e quella extracellulare.
Uno dei meccanismi invocati per spiegare tutti i processi benefici
della terapia chelante, e’ basato sul fatto che l’EDTA stimola in
maniera efficace la produzione di enzimi importanti come l’adenosina
trifosfato (ATP), enzima necessario per la produzione di energia
cellulare.
I sistemi biologici richiedono grandi quantità di energia per
controbilanciare la tendenza verso l’aumento del disordine (entropia).
Il mantenimento dell’organizzazione cellulare e delle funzioni
cellulari riproduttive viene ottenuto con grande dispendio di energia.
L’accumulo energetico inizia con il processo di fotosintesi delle
piante: viene quindi trasformato nei sistemi biologici in legami
chimici; questo coinvolge la sintesi dell’adenosina trifosfato (ATP), la
moneta energetica di scambio cellulare universale.
La degradazione dell’ATP rilascia l’energia necessaria per tutte le
funzioni vitali . I prodotti tossici del metabolismo cellulare come i
radicali liberi e lo stesso processo di invecchiamento alterano le
funzioni enzimatiche che sovrintendono alla produzione di ATP.
La terapia chelante ristabilisce l’attività enzimatica ed è quindi,
particolarmente utile nel mantenimento dell’omeostasi energetica
cellulare.
I mitocondri sono le batterie cellulari in cui sono accelerati i
processi d’ossidazione e riduzione con produzione d’energia, per cui
vanno protetti in maniera particolare.
Uno sbilancio dei tre minerali (zinco, manganese, rame) produce una
diminuzione della SOD, evento che apre la strada allo stress ossidativo,
che e’ riconosciuto come la base delle malattie degenerative e
dell’invecchiamento.
Il Rame in questo contesto ha una funzione protettiva e non tossica.
Il suo eccesso, così come l’eccesso di minerali in qualsiasi altro
sistema biologico, porta a squilibri patologici; nel caso specifico del
rame si ha la degenerazione epato lenticolare ( Morbo di Wilson ).
Restaurare i giusti livelli di SOD è dunque d’importanza primaria.
Anche il ferro è un elemento fondamentale.
Il suo eccesso e’ comunque responsabile di una delle patologie da
radicali liberi piu’ pericolosa: la produzione di radicali perossidati
delle membrane cellulari (lipoperossidazione).
Il meccanismo attraverso il quale l’eccesso di ferro promuove la
formazione dei radicali perossidati va sotto il nome di reazione di
Fenton.
Reazione di Fenton Fe++→ HO-
E’ da ricordare che il cervello e’ il tessuto a maggiore contenuto lipidico di tutto l’organismo.
Sostanze lipidiche sono del resto in tutte le cellule del corpo, ed
infatti sono contenute nella struttura a due strati (bipolare) di tutte
le membrane cellulari. In questa membrana sono contenuti: trigliceridi,
colesterolo, selenio e vitamina E.
Queste sono tutte sostanze di difesa, i nostri sacchetti di sabbia in prima linea.
Livelli estremamente bassi di colesterolo (al di sotto dei 150) e di
trigliceridi, carenza di selenio e di vitamina E permette ai radicali
perossidati di raggiungere strutture vitali come il DNA e i mitocondri,
creando cosi danni a volte irreversibili.
Le emoglobinopatie in cui l’eccesso di emolisi libera il ferro e lo
mette in circolazione in grandi quantita’, sono condizioni in cui questi
livelli di ferro possono scatenare processi accelerati di ossidazione a
catena.
Anche queste patologie genetiche si possono comunque modulare con
l’utilizzazione degli antiossidanti e della terapia chelante che lega e
rimuove l’eccesso di ferro.
E’ importante ricordare che l’uso oculato degli oli essenziali (acidi
polinsaturi), conferisce una maggiore flessibilita’ alle membrane
cellulari, cosa molto importante nel caso delle emoglobinopatie.
A parte lo zinco, il manganese ed il rame che entrano nella formazione
della S O D, e’ da ricordare la funzione essenziale del selenio che fa
parte della perossidasi.
Questo enzima e’ vitale nella protezione delle sostanze lipidiche attraverso la formazione dell’enzima glutatione perossidasi.
La terapia chelante di per sè una potente terapia antiossidante: si
avvale di tutto un corollario di integratori antiossidanti e, così
facendo, risulta la migliore terapia anti radicali liberi e di
conseguenza di ringiovanimento cellulare.
Tra i molti danni da radicali liberi, c’e’ quello della produzione dei
legami crociati e di accelerazione dei processi di aterosclerosi.
Se si riuscisse a bloccare tutti i processi di legami crociati del
collagene ed i processi di aterosclerosi dei piccoli vasi, si potrebbe
rimanere giovani per sempre.
La terapia chelante elimina il calcio prevalentemente dai piccoli vasi,
essendo intoccabile nelle grosse placche sclerotiche di vecchia data,
dove la placca calcifica è ormai organizzata e consolidata.
Dopo le prime dieci sedute si ha già un benefico effetto sui legami
crociati di tutti i tessuti con aumento della elasticità dei piccoli
vasi. La legge di Poiseuille stabilisce che la portata in un capillare
dipende dalla quarta potenza del raggio del capillare stesso. Anche per
un modesto aumento del raggio(essendo esso elevato alla quarta potenza)
si ha un importante aumento del flusso ematico. Ciò spiega l’aumento
della vascolarizzazione ematica di tutti i territori irrorati dal
microcircolo dopo terapia.
Un nostro studio del 91, effettuato con la capillaroscopia su 90
pazienti arteriopatici trattati con la terapia chelante ha documentato
in vivo l’attivazione del microcircolo a livello delle rilevazioni
acrali e congiuntivale. (11)
La terapia chelante ha anche proprieta’ antivirali. Una delle teorie
sull’aterosclerosi e’ basata sull’osservazione che il cytomegalovirus,
il solo virus studiato in questo contesto, sia responsabile dei processi
aterosclerotici danneggiando l’intima.
Un altra teoria dell'inizio degli anni Ottanta, formulata da Daniel
Steinberg, docente di medicina all'Università della California a San
Diego, afferma che: “L’ossidazione, cioè la combinazione dei radicali
liberi con particelle di LDL, sia la base della formazione della placca
che è successivamente circondata da piastrine, fibrina ed altre sostanze
con conseguente calcificazione ed intasamento dei vasi sanguigni“.(12)
La terapia chelante abbassa la concentrazione del colesterolo ossidato
(LDL) rispetto al colesterolo totale e può, quindi, promuovere la
prevenzione dell’aterogenesi associata all’iperlipidemia.
Un nostro studio del 90’ sul glutatione ha evidenziato un significativo effetto anti-radicali liberi dell’EDTA.(13)
La terapia chelante diminuisce l’aggregazione piastrinica, aumentandone il volume e cambiando le cariche ioniche.
L’effetto dell’EDTA sul metabolismo del calcio ha una grande importanza.
Una delle critiche fatte alla terapia chelante è che l’abbassamento del
calcio, da essa provocato, porterebbe all’osteoporosi; in realtà si
verifica l’opposto.
La terapia chelante con l’EDTA aumenta la densità ossea stimolando
l’attività osteoblastica attraverso la trasformazione dei preosteoblasti
( Rasmussen nel 1974 e C. J. Rudolph 1988). (14)
L’EDTA, legandosi al calcio ematico, abbassa la concentrazione del
calcio ionico stimolando di conseguenza l’attività delle paratiroidi.
Il paratormone aumenta la mobilizzazione del calcio, togliendolo prima
di tutto dalle placche di nuova formazione. Il ricambio metabolico, con
conseguente attivazione dell’ AMPc (adenosinamonofosfato ciclica) a
livello osseo, stimola l’attivita’ degli osteoblasti pronti ad
utilizzare il calcio circolante.
Questo meccanismo è prolungato nel tempo cosicché, l’effetto
antiosteoporotico della terapia chelante, si può evidenziare alla fine e
a distanza dal trattamento iniziale.
Il riassorbimento del calcio proveniente dall’assorbimento intestinale,
che competerebbe con quello del calcio contenuto nelle placche
ateromasiche viene limitato suggerendo ai pazienti di non assumere
prima della infusione cibi ad alto contenuto calcico come i latticini.
E’ stato anche provato che la terapia chelante può prevenire alcune
forme neoplastiche, riducendo la quantità di piombo e di altri metalli
tossici che innescano l’oncogenesi.
Il dottor Walter Blumner ed il dottor Elmer Cranton nel 1989 (15) hanno
documentato una riduzione della mortalità per cancro del 90% durante un
follow up di 18 anni su 59 pazienti trattati con calcio EDTA per
intossicazione ambientale da metalli pesanti, il resto della popolazione
che viveva nella piccola cittadina svizzera sul bordo di una strada
altamente trafficata costituì il gruppo di controllo.
MODALITA’ DI SOMMINISTRAZIONE
Prima dell’inizio della terapia i
pazienti devono essere studiati adeguatamente con un check up
ematologico, ematochimico e cardiovascolare strumentale completo.
Molto importante è lo studio della funzionalità renale con la
valutazione della creatininemia e della clearance della creatinina
L’approccio al paziente deve essere completato con una valutazione clinica generale e vascolare.
Deve essere preparato anche un piano alimentare individuale per
compensare eventuali chelazioni di sostanze “utili” e per compensare
eventuali deficit nutrizionali spesso incontrati nei pazienti con
patologie degenerative.
L’EDTA legato alle sostanze tossiche chelate viene escreto
principalmente tramite la filtrazione glomerulare. L’integrità della
funzionalità renale è fondamentale e pertanto va controllata
frequentemente la creatininemia e la clearance della creatinina.
Tutti i pazienti sottoposti alla terapia chelante presentano, comunque,
alla fine del trattamento un miglioramento della clearance della
creatinina, specialmente quando si fa particolare attenzione alla
protezione dei reni, regolando la quantità di EDTA e la frequenza dei
trattamenti.
Nei pazienti più gravi viene spesso alternate una fleboclisi di
magnesio, antiosssidanti ed epatoprotettori, con una di chelante durante
la stessa settimana o a settimane alterne.
In caso di situazioni gravi come la gangrena, si aumentano i
trattamenti a 3-4 volte la settimana fino a che non venga migliorata la
circolazione nell’arto danneggiato.
Regolando la quantità di EDTA in funzione della vitamina C non si presentano lesioni delle strutture filtranti.
L’EDTA si lega anche a sostanze “utili”. E’ bene ricordare che la
vitamina B6, molto importante per il funzionamento cardiovascolare e per
la riparazione di molti enzimi biologici viene anch’essa chelata
dall’EDTA e va quindi reintegrata sia per via orale che durante
l’infusione chelante. Lo stesso vale per lo zinco, il cromo e il
magnesio.
E’ quindi importante fare una valutazione degli elettroliti e comunque integrarli.
C’è quindi indicazione all’apporto di alcuni elementi (soprattutto magnesio e potassio) prima di iniziare la terapia chelante.
La chelazione è basata sulla infusione endovenosa di EDTA, minerali (magnesio e potassio) e vitamine.
L’effetto benefico dell’EDTA e’ basato sul fatto che si lega ai metalli tossici ed al calcio tessutale.
La somministrazione dell’EDTA deve essere lenta, per due motivi:
l’emivita dell’EDTA è molto breve, da 45 minuti a 1 ora e quindi gran
parte dei legami avvengono durante l’infusione; dal momento che l’EDTA
si lega ai metalli tossici ed al calcio ed è allontanato per il 95% dai
reni e per il 5% dal fegato, pertanto una infusione lenta protegge
questi organi.
L’infusione dovrebbe durare non
meno di 3 ore, non solo per preservare l’integrità renale, ma anche per
aumentare l’efficacia del processo chelante.
In un fisiologico sangue alcalino (pH tra 7.35 e 7.45) l’EDTA mostra la
più alta affinità per il calcio; a pH più basso l’affinità è maggiore
per il piombo.
La terapia chelante, a meno che non ci sia una gangrena degli arti
inferiori o un’angina severa, e’ meglio effettuarla 1 o 2 volte la
settimana. In realtà, è più utile in vista del risultato finale
prolungare il periodo che i pazienti effettuano tale terapia. Questo
permette ai pazienti un maggior contatto con il medico del centro di
chelazione, che cosi potra’ insegnare loro a cambiare le abitudini
alimentari e lo stile di vita.
Questo comporta un sistema di follow-up a lungo termine dell’equipe
medica per accertare che questi cambiamenti stiano avvenendo.
Un ciclo di terapia consiste inizialmente in 20 - 30 infusioni, alle quali possono seguire dei “richiami” mensili..
Taluni casi necessitano di ulteriori cicli di “richiamo”.
INDICAZIONI
La terapia chelante non è ancora
riconosciuta ufficialmente in Italia, così come all’estero, per il
trattamento delle malattie vascolari, ma soltanto come terapia nella
intossicazione da digitale, piombo e nella ipercalcemia.
Sono tuttavia molti gli autori che hanno documentato effetti positivi
della terapia chelante con l’EDTA nei pazienti arteriopatici (16) (17)
(18).
Benché la terapia chelante abbia raggiunto come trattamento notorietà
nel miglioramento della circolazione con la regressione dei processi
aterosclerotici, va puntualizzato che essa ha applicazioni molto più
estese.
La terapia chelante è stata usata efficacemente anche nel trattamento
di alcune forme di cancro in associazione ai trattamenti antitumorali
convenzionali e non convenzionali.
La terapia chelante è utile nel trattamento di neoplasie come il
linfoma, alcune forme di leucemia e in alcuni adenocarcinomi. La genesi
di molte neoplasie é in relazione all’accumulo di metalli tossici.
Riepilogando le indicazioni della terapia chelante con EDTA bisodico sono:
Miocardiopatie ischemiche stabilizzate non dilatative.
Arteropatie degli arti inferiori in tutti i loro stadi.
Vasculopatie cerebrali plurinfartuate.
Retinopatie, in particolare degenerazione maculare della retina.
Nefropatie in fase iniziale.
Complicanze dell’ipertensione.
Vasculopatie diabetiche.
Collagenopatie.
Epatopatie tossiche.
Invecchiamento precoce.
Intossicazioni da agenti ambientali (xenobiosi).
Effetti collaterali e complicanze dei trattamenti radianti.
Nella prevenzione delle complicanze della malattia aterosclerotica in fase preclinica.
Intossicazioni da metalli quali: alluminio, piombo, mercurio
Intossicazione acuta da digitale.
La calcolosi calcica renale ed il Morbo di Dupuytren restano le indicazioni storiche.
CONCLUSIONI
La malattia aterosclerotica è per definizione una patologia polidistrettuale ed evolutiva.
L’atto chirurgico, quando ha buon esito, è eclatante nel risolvere la
sintomatologia del paziente (claudicatio, angina, T.I.A. subentranti),
ma non rappresenta che una soluzione temporanea ed incompleta della
storia naturale della malattia.
Le statistiche indicano che i soggetti operati in un distretto
vascolare spesso muoiono, negli anni successivi, per un aggravamento di
lesioni talora misconosciute in altri distretti.
Tali pazienti non solo sono stati sottoposti ad accurate indagini
preoperatorie, ma dopo l’intervento hanno ricevuto anche un’adeguata
copertura farmacologica, secondo schemi terapeutici comunemente
accettati, atti a prevenire eventuali complicanze vascolari.
Perché allora tali complicanze sono così frequenti in questi pazienti?
Si deve ipotizzare che:
a) il paziente non cambi le proprie abitudini di vita (motorie, alimentari, voluttuarie, lavorative);
b) la riacquistata salute spinga il soggetto ad eccessi psico-fisici a lui non consentiti prima dell’intervento chirurgico;
c) i farmaci assunti siano, da soli, poco efficaci nel prevenire l’evoluzione della malattia aterosclerotica;
d) si inneschi un meccanismo di accelerazione della malattia non ancora identificato.
Per provare l’efficacia di un sistema di terapia chelante basterebbe
trattare i pazienti ritenuti “inoperabili” e coloro che sono stati
sottoposti più volte ad interventi chirurgici.
Riassumendo, la terapia chelante è il trattamento di scelta per la
rimozione dei metalli tossici e per la prevenzione dei danni da radicali
liberi.
Questo trattamento è una delle migliori possibilità terapeutiche per il rallentamento del processo di invecchiamento cellulare.
BIBLIOGRAFIA
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