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mercoledì 18 giugno 2025

Andate controcorrente

 Andate controcorrente: non ascoltate le voci interessate e suadenti che oggi da molte parti propagandano modelli di vita improntati all’arroganza e alla violenza, alla prepotenza e al successo ad ogni costo, all’apparire e all’avere, a scapito dell’essere. Di quanti messaggi, che vi giungono soprattutto attraverso i mass media, voi siete destinatari! Siate vigilanti! Siate critici! Non andate dietro all’onda prodotta da questa potente azione di persuasione. Non abbiate paura, cari amici, di preferire le vie "alternative" indicate dall’amore vero: uno stile di vita sobrio e solidale; relazioni affettive sincere e pure; un impegno onesto nello studio e nel lavoro; l’interesse profondo per il bene comune. Non abbiate paura di apparire diversi e di venire criticati per ciò che può sembrare perdente o fuori moda: i vostri coetanei, ma anche gli adulti, e specialmente coloro che sembrano più lontani dalla mentalità e dai valori del Vangelo, hanno un profondo bisogno di vedere qualcuno che osi vivere secondo la pienezza di umanità manifestata da Gesù Cristo. (Benedetto XVI - Loreto 02/09/2007 - www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2007/documents/hf_ben-xvi_hom_20070902_loreto.html)

L'intelligenza del bosco

 L'intelligenza del bosco


diAlessandro D'Avenia

11 marzo 2024

Corriere della sera

8 min

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Il fine della vita non è la sopravvivenza ma la bellezza. Che le cose lottino per sopravvivere è evidente, ciò che sorprende è che la lotta miri alla bellezza.


Qualche giorno fa mi si è reso ancora una volta chiaro in una piccola piazza di Milano: sui rami di alcune magnolie brillavano già, in una luce ancora invernale, le prime fioriture. Non era un’anomalia. Molti si fermavano ad ammirare, colti da quel desiderio che la bellezza risveglia perché, essendo la bellezza vita compiuta, ci ricorda che siamo fatti per questo: compierci nel tempo e nel mondo che ci sono dati. La bellezza chiede: a che punto sei con i doni della vita? E se la bellezza è il fine della vita, dovrebbe esserlo anche dell’educazione che è aiutare la vita a crescere.


Avviene nel luogo deputato, dopo la famiglia, a questo: la scuola? Vi si dovrebbe scoprire la propria unicità per poi portarla a compimento cercando nel mondo e nel tempo ciò che serve allo scopo. Eppure il «XXI Profilo dei diplomati» presentato il 29 febbraio da AlmaDiploma, analizzato già su queste pagine, riferisce che un ragazzo su due dice di aver sbagliato indirizzo scolastico e universitario. Esito inevitabile di un orientamento quasi assente nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Si esce da medie e superiori possedendo delle competenze, ma non se stessi. E senza questo non si può essere felici. Perché?


In un mondo in cui il criterio della felicità è l’efficienza, ciò che conta è acquisire quanto prima competenze «spendibili» nel lavoro.

Essere «spendibili» significa essere «comprabili», cioè diventare noi stessi «risorsa» da «esaurire»: questo vuol dire risorsa, e purtroppo abbiamo deciso che le persone sono risorse umane.


Invece la felicità dipende dalla profondità di rapporti che abbiamo con il mondo e con gli altri: i nostri ricordi felici riguardano infatti ciò che abbiamo creato con le nostre attitudini e le relazioni significative che abbiamo stretto. Se non so chi sono e con chi sono, le competenze sono solo vestiti su un manichino.


L’orientamento dovrebbe servire a scoprire i propri talenti per poi farli fiorire a beneficio degli altri nel tempo, grazie a terreni e giardinieri scelti perché adeguati a quelle caratteristiche, come le magnolie che richiamano passanti a sostare e bambini a giocare. Non conoscendo se stessi (cioè non essendo ri-conosciuti da chi li educa) i ragazzi si affidano a impressioni fugaci, scelte di maggioranza, aspettative familiari. Non si può non scegliere ma se non si ha l’energia e il coraggio di una vocazione, si sceglie ciò che sembra più certo, comodo, sicuro, rinunciando così alla propria specifica bellezza. Per questo molti ragazzi si ritrovano in vite non loro, con il senso di colpa e l’ansia tipici di una cultura della perfezione e della performance. A differenza di quelle magnolie che fanno ciò a cui sono chiamate nel tempo che serve loro, proprio in mezzo al traffico, noi rischiamo di essere inghiottiti da quel traffico: un mondo che ci dice come essere e che cosa fare prima di averci permesso di scoprire chi siamo e per chi. Può essere felice una magnolia a cui si chiede di fare pere o di fiorire in tutte le stagioni? Entrerà in contraddizione con se stessa, sarà sfruttata (privata dei suoi frutti) e appassirà.


Allo scopo di orientare nella scuola è stata introdotta quest’anno la figura del docente tutor. È un primo passo, ma una formazione di 20 ore online non può bastare al paziente lavoro educativo necessario a scoprire l’unicità di un ragazzo. Non si diventa giardinieri in 20 ore e l’uomo è più complesso di una magnolia. Qualche giorno fa ho letto l’intervista al calciatore Rafa Leão, per il quale nutro una parzialissima simpatia calcistica, che raccontava la sua infanzia a Lisbona: «il pallone sempre fra i piedi in un quartiere molto popolare, la maggior parte dei suoi abitanti sono immigrati, in molti dall’Africa. Non un posto facile. Lì di buono c’era il pallone, ci giocavo dalla mattina alla sera. Interi pomeriggi nel parcheggio del supermercato. Spesso erano carte appallottolate o una lattina o una bottiglia usate come palla, mentre un’auto era la porta. Il mio modo di giocare è ancora quello, un calcio di strada, fatto di finte, scatti, furbizia». Quel bambino, come ogni bambino, aveva una vocazione che lo avrebbe reso felice: «Dio mi ha dato un dono e io gli sono grato. Il mio lavoro è giocare a pallone, ho coronato il mio sogno di bambino. Come potrei non sorridere?». E quel bambino continua a cercare bellezza e gioia: «Amo i gol belli. Il calcio oggi è solo statistiche, cifre. E a me non piace. Il calcio è magia, gioia. Mi fa arrabbiare che la gente pensi solo ai numeri. Io non sono così. Perché la gente deve divertirsi. E allora mi devo divertire anche io. Sono per la bellezza». Ma senza ciò che hanno fatto per lui la famiglia e i primi maestri quel talento sarebbe andato sprecato.


I livelli della vita parlano dialetti diversi ma la lingua è la stessa: il talento del calciatore e quello delle magnolie sono doni dati ai singoli a beneficio del mondo. Ho scoperto che le magnolie di quella piazza si chiamano soulangeane, una specie i cui fiori bianchi, rosa e viola sbocciano mentre i rami degli altri alberi sono ancora spogli. Il loro nome viene da un ufficiale dell’esercito napoleonico, Étienne Soulange-Bodin (1774–1846), che ne creò l’ibrido da due varietà cinesi nella campagna a cui dedicò la seconda parte della sua vita, diventando un famoso botanico. Un uomo che aveva perso tempo in campagne militari fu poi capace di tornare alle campagne vere e proprie, la sua vocazione, e quella di ogni uomo: creare bellezza. Oggi pensiamo a una persona in formazione come a una macchina su cui installare software sempre più aggiornati e veloci, invece siamo più simili alle piante che con la loro energia intrinseca e specifica realizzano, senza fretta né ritardi, la bellezza a cui sono chiamate. E non lo fanno in competizione (competenza e competizione hanno la stessa radice e avranno quindi gli stessi frutti: tutti lottano per emergere ma sappiamo che ci riusciranno i già avvantaggiati), ma in collaborazione (lavorare insieme: ciascuno emerge per la sua unicità che lo rende necessario agli altri, di cui a sua volta ha bisogno).


La cooperazione è per me uno dei capitoli più interessanti della recente botanica, sviluppato negli ultimi anni dagli studi di Suzanne Simard che ha riscritto il paradigma competitivo nell’evoluzione delle piante (consiglio il TedTalk «How trees talk to each other» del 2016 e il suo libro L’albero madre): quando l’albero di un gruppo è minacciato o si ammala, gli altri esemplari, anche di specie diverse, scambiano non solo informazioni aeree tramite ormoni diffusibili ma soprattutto sostanze nutrienti attraverso l’immensa rete delle loro radici. Gli alberi non sono innanzitutto attori individuali in competizione per le risorse, ma un sistema collaborativo, con alcuni alberi che per la loro età hanno un ruolo centrale per la nascita e la vita dei più giovani, questo sistema è definito da Simard «intelligenza del bosco». Finché la scuola non avrà questa intelligenza, userà solo la lingua dell’utile e dell’efficienza (rendimento, crediti, debiti, competenze...) e non della vita (crescita, maturazione, cooperazione, vocazione...) i suoi «virgulti» spesso appassiranno prima della «maturità» invece di diventare belli come le magnolie che, persino nell’asfalto trafficato e inquinato, spingono a fermarsi a respirare e a chiedersi perché e per chi siamo qui


lunedì 16 giugno 2025

Elicriso

 

Elicriso, un prezioso alleato per la salute

L’elicriso (Helichrysum italicum (Roth) G. Don ) è una pianta tipica dell’area mediterranea, dal profumo molto intenso, assai diffusa in prossimità delle regioni costiere. Appartiene alla famiglia delle Asteraceae. Si deve al dottore Leonardo Santini (1904-1983), medico condotto in Garfagnana (Toscana), l’osservazione che l’elicriso (sommità fiorite), utilizzato dalla gente del posto in maniera empirica per curare diverse affezioni a carico soprattutto dell’apparato respiratorio (tosse, bronchite, ecc.), manifestava un interessante e benefico effetto anche nelle patologie artrosiche e, soprattutto, nelle dermopatie quali psoriasi e forme eczematose ove, con il suo impiego sia per uso interno che locale, si assisteva ad un graduale e netto miglioramento del quadro clinico (regressione dell’eritema, diminuzione del prurito quando presente, ecc.). Incuriosito dai riscontri ottenuti iniziò a studiare la pianta e le sue indagini, rappresentano tuttora una preziosa fonte di dati per la ricerca sull’attività clinica di una pianta il cui uso era caduto nell’oblio.Studi successivi, eseguiti presso l’Università di Pisa (anni 50 del secolo scorso), e voluti dallo stesso dottor Santini, confermarono le sue segnalazione circa le proprietà antinfiammatoria, antiallergica, eudermica, balsamica, antibatterica ed espettorante attribuite alla pianta e ipotizzarono per Helichrysum italicum un’azione corticosurrenalica e antiepatotossica (attività disintossicante a livello epatico).

domenica 15 giugno 2025

L’Amore

 L’Amore mi accolse; ma l’anima mia indietreggiò,

colpevole di polvere e peccato.

Ma chiaroveggente l’Amore, vedendomi esitare 

fin dal mio primo passo, 

mi si accostò, con dolcezza 

domandandomi se qualcosa mi mancava… 

«Un invitato» risposi «degno di essere qui». 

L’Amore disse: «Tu sarai quello». 

Io, il malvagio, l’ingrato? Ah! mio diletto, 

non posso guardarti. 

L’Amore mi prese per mano, sorridendo rispose: 

«Chi fece quest’occhi, se non io?» 

«È vero, Signore, ma li ho insozzati; 

che vada la mia vergogna dove merita». 

«E non sai tu» disse l’Amore «chi ne prese il biasimo su di sé?» 

«Mio diletto, allora servirò». 

«Bisogna tu sieda»⁶, disse l’Amore «che tu gusti il mio cibo». 

Così mi sedetti e mangiai.

(George Herbert - Simone Weil la ripeteva come preghiera)

 "Essi parlano, in ogni modo, di cose che non capiscono. La loro sicurezza è possibile solo grazie alla loro stupidità"

(Franz Kafka, Il processo)


Medioevo

 Con Dante Franco Nembrini ci aiuta a vedere la vita secondo lo sguardo di Dio, che ci ama prima dei nostri meriti. Il nostro stesso venire al mondo è atto di pura misericordia. Ecco la sorgente inesauribile e non inquinabile della nostra autostima.

Come al solito quando scopro o vedo con più chiarezza qualcosa di bello lo faccio nelle parole di qualcuno che lo ha già detto meglio. In questo caso è Franco Nembrini ma di sicuro anche la sua scoperta va ricondotta ad altri e in un’ultima analisi al solo Padrone di tutto. Solito spoiler, si sa, siamo pur sempre in un portale cattolico.

Quello che penso dell’uomo di oggi, poveretto, è che si è messo sì al centro ma, pur essendo circondato di cose, ha tolto tutto, avendone rimosso il senso. Poiché ha sgombrato l’orizzonte dal Creatore e soprattutto dal Salvatore.

Nel Medioevo, testimonial ufficiale delle civiltà incomprese, “l’uomo non era al centro, era troppo fissato con Dio”, si dice senza sapere di che si parla. È una posa che vediamo assumere tanto spesso e che forse involontariamente anche noi in tanti assumiamo, come una reazione istintiva: Medioevo-uguale-secoli bui. È un errore storico, lo sappiamo, ma dovremmo riscattarlo anche nella nostra immaginazione; lo stesso Nembrini prende questo pensiero e lo mette sul banco degli imputati. No, non è così. Non era vero che l’uomo era periferico, sacrificato alla visione invadente e ossessiva di Dio. Piuttosto era diversa l’idea, la concezione che si aveva dell’uomo e anche di tutto ciò che esiste insieme, con e per l’uomo.

UOMO VITRUVIANO

Per spiegare la differenza di visioni usa la semplificazione di due immagini: da una parte l’uomo vitruviano, arruolato erroneamente come segno dell’uomo finalmente al centro dell’universo. Ma c’è un altro disegno, prima di quello di Leonardo, che può sintetizzare l’idea di uomo che si aveva nel medioevo: è un’opera di Santa Ildegarda di Bingen, che in obbedienza al proprio confessore mette su carta le visioni che sperimenta: eccolo, l’uomo al centro. Non solo, non una monade; eccolo nella sua grandezza e con i legami che intrattiene con il mondo naturale e quello soprannaturale prima che una riduttiva idea di umanesimo li recidesse.

ILDEGARDA DI BINGEN

 

Era al centro eccome, ma non di sé stesso, nè messo lì a galleggiare nel nulla dove scorre un tempo senza direzione a sperimentare combinazioni nuove di cose che non durano. Era al centro della pupilla, era sotto l’occhio presente e amante di Dio, che, siccome è ricco di fantasia, senso dell’umorismo e del solenne, lo ha posto tra una miriade screziata di animali, fiori, piante, sassi, corpi celesti, gas, acque, particelle. E soprattutto lo ha messo insieme ad altri uomini e donne per tesserne un anticipo di paradiso, prima che, come per Sartre, “l’enfer, c’est les autres”.

Ai giorni nostri (da qualche secolo in qua a dire il vero) siamo al centro, sì, ma in uno spazio desolato; e sempre più evidenti e identificabili come il bersaglio di un tiro a segno.

Il Medioevo stesso poteva semmai ritenersi buio perché i suoi uomini avevano un termine di paragone per contrasto al quale poteva sembrare crepuscolare la loro civiltà: la città di Dio, la Gerusalemme celeste, Il Regno di Dio. Per questo la realtà, bellissima, attraente, carica di bene, avrebbe però mantenuto la sua promessa di finitezza: non è tutto qui, anima mia. La luce che non si spegne è oltre me, attraversami.

Sub tuum praesidium

 Sub tuum praesidium

preghiera mariana del III secolo

la fiducia nell'intercessione della Vergine.

Originale in greco

modifica
Il papiro antico in lingua greca


Il papiro antico in lingua greca

Il papiro in lingua greca ritrovato ad Alessandria d'Egitto e risalente al III secolo venne acquistato dalla John Rylands Library di Manchester nel 1917 e pubblicato per la prima volta nel 1938; presenta una scrittura a lettere onciali, alta e diritta, stretta e, nello stesso tempo, ariosa, con elementi ornamentali. Questo aspetto decorativo ha fatto ritenere vari studiosi che il papiro fosse un esemplare destinato come modello per un incisore. Questo piccolo foglio (14x9,4 cm), rovinato sul lato destro, riporta dieci righe di testo

(completamenti in parentesi):

[Υ]ΠΟ [ΤΗΝ CΗΝ]
ΕΥCΠΛ[ΑΓΧΝΙΑΝ]
ΚΑ[Τ]ΑΦΕ[ΥΓΟΜΕΝ]
ΘΕΟΤΟΚΕ Τ[ΑC ΗΜΩΝ]
ΙΚΕCΙΑC ΜΗ Π[ΑP]
EΙΔΗC ΕM ΠΕΡΙCΤΑCΕΙ
ΑΛΛ'ΕΚ ΚΙΝΔΥΝΟΥ
ΡΥCΑΙ ΗΜΑC
Μ[Ο]ΝΗ Α[ΓΝΗ, ΜΟΝ]
Η ΕΥΛΟ[ΓΗΜΕΝΗ]

La versione attuale della liturgia bizantina:



Versione romana (da cui deriva la traduzione italiana)
Testotraduzione
Sub tuum praesidium confugimus,
Sancta Dei Genetrix.
Nostras deprecationes ne despicias
in necessitatibus,
sed a periculis cunctis
libera nos semper,
Virgo gloriosa et benedicta.
Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio,
Santa Madre di Dio:
non disprezzare le suppliche
di noi che siamo nella prova,
ma liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta.

Pace

 . La pace verrà   2

Charles de Foucauld

Se tu credi che un sorriso è più forte di un'arma,
Se tu credi alla forza di una mano tesa,
Se tu credi che ciò che riunisce gli uomini è più importante di ciò che li divide,
Se tu credi che essere diversi è una ricchezza e non un pericolo,
Se tu sai scegliere tra la speranza o il timore,
Se tu pensi che sei tu che devi fare il primo passo piuttosto che l'altro, allora...
La pace verrà.

Se lo sguardo di un bambino disarma ancora il tuo cuore,
Se tu sai gioire della gioia del tuo vicino,
Se l'ingiustizia che colpisce gli altri ti rivolta come quella che subisci tu,
Se per te lo straniero che incontri è un fratello,
Se tu sai donare gratuitamente un po' del tuo tempo per amore,
Se tu sai accettare che un altro, ti renda un servizio,
Se tu dividi il tuo pane e sai aggiungere ad esso un pezzo del tuo cuore, allora...
La pace verrà.

Se tu credi che il perdono ha più valore della vendetta,
Se tu sai cantare la gioia degli altri e dividere la loro allegria,
Se tu sai accogliere il misero che ti fa perdere tempo e guardarlo con dolcezza,
Se tu sai accogliere e accettare un fare diverso dal tuo,
Se tu credi che la pace è possibile, allora...
La pace verrà

Amicizia

 "Chi è diventato amico per convenienza, per convenienza finirà di esserlo. Chi si è procurato un amico perché lo aiutasse nella malasorte: non appena ci sarà rumore di catene, costui sparirà. Sono le amicizie cosiddette opportunistiche: un'amicizia fatta per interesse sarà gradita finché sarà utile. 


Così se uno ha successo, lo circonda una folla di amici, mentre rimane solo se cade in disgrazia: gli amici fuggono al momento della prova; per questo ci sono tanti esempi infami di persone che abbandonano l'amico per paura, e di altre che per paura lo tradiscono. 


L'amicizia invece somiglia un po' all’amore. Si ama forse per denaro? Per ambizione o per desiderio di gloria? L'amore di per sé trascura tutto il resto e accende negli animi un desiderio di bellezza e la speranza di un mutuo affetto. Ma come ci si accosta ad essa? Come a un sentimento bellissimo, non per lucro, né per timore dell'instabilità della sorte; se uno stringe amicizia per opportunismo le toglie la sua grandezza".


_Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio



sabato 14 giugno 2025

Pinocchio

 «Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene per farmi venire voglia di seguitarla». Con questo biglietto al direttore del «Giornale per i bambini» il 54enne Carlo Lorenzini accompagnava le prime pagine del libro italiano più famoso al mondo. I primi due capitoli, firmati con lo pseudonimo Carlo Collodi, uscirono il 7 luglio del 1881. Ma già a fine ottobre l’autore, deluso nei suoi ideali politici e stanco della sua situazione personale, scriveva la parola «fine»: Pinocchio penzola da una quercia, impiccato dal Gatto e la Volpe, come narra il capitolo 15. Un finale inatteso che provocò l’insurrezione del pubblico, così che nel febbraio del 1882 Collodi fu costretto a tirar giù dalla quercia il burattino, per arrivare, a giugno, al finale aperto del capitolo 29: la fata promette a Pinocchio che lo trasformerà in un bambino. Il pubblico insorse di nuovo: Collodi doveva scavare ancora. Riprese a raccontare e, all’inizio del 1883 (proprio nel gennaio di 137 anni fa), regalò ai suoi lettori il capitolo 36 di un libro che conquisterà il mondo intero (è il secondo più tradotto della storia dopo Il piccolo principe), una storia tornata di recente in tv con le lezioni di Franco Nembrini e ora al cinema con l’adattamento diretto da Matteo Garrone.


Collodi, bisognoso di soldi per i suoi debiti di gioco (Pinocchio era lui), fu costretto a scandagliare il suo mondo interiore dai lettori più attenti alla verità: i bambini (cioè tutti, perché tutti lo siamo stati). Se un’opera d’arte supera le intenzioni e le forze di chi crea e diventa popolare, è perché ha colto l’universale. Pinocchio non invecchia e rinasce perché racconta ciò che non deve andare perso: il segreto dell’esistenza. C’era una volta... comincia anche questa favola: il termine, dal latino «fabula», è composto da fa-, il «dire divino» che fa essere le cose (da cui fato), e -bul, suffisso che indica il luogo dove l’azione verbale accade (in latino stabula è dove stanno gli animali, le stalle). E così fabula è il luogo in cui qualcuno incontra il suo destino, il senso del suo stare al mondo: per questo delle storie non potremo mai fare a meno. Questa favola però non si intitola semplicemente «Pinocchio», ma «Le avventure di Pinocchio». L’uomo incontra il suo destino nell’avventura, altra parola meravigliosa, uscita dai romanzi medievali. Avventura era il fine della ricerca del cavaliere: dal latino adventus (arrivo del Messia) o eventus (fatto straordinario), indicava l’incontro con l’ignoto, positivo o negativo, con effetti esistenziali definitivi. L’avventura, sostanza della fabula, è quindi il modo unico che ha ciascuno di incontrare il destino, tanto che — sebbene tempi poco cavallereschi riducano spesso «avventura» a piacere effimero — resiste nell’aggettivo «avventuroso» il significato di «rischioso». Le avventure di Pinocchio sono le peripezie che portano una natura morta (un pezzo di legno) alla vita (un bambino) passando per la prova (il burattino). L’avventura è l’uscita verso l’ignoto di ogni esistenza: ne fa accadere la verità come un nuovo venire alla luce. Tutti gli uomini sono avventurieri della vita, cioè sono chiamati a rischiare per cercare il senso della loro vita. E qual è? Nel libro di Collodi è la tortuosa ricerca dell’amore della creatura per il creatore. All’inizio un pezzo di legno sceglie Geppetto per fuggire a mastro Ciliegia, che vuole farne la gamba di un tavolo; poi l’allontanamento dal «babbo» porta il burattino alla morte (l’impiccagione del primo finale); infine il ritorno alla vita con il ritrovamento del padre e la lotta per salvarlo, prima dal ventre della balena e poi dalla malattia, lavorando giorno e notte per comprare il cibo necessario a farlo guarire. Nel finale, Pinocchio, appena sveglio per una nuova giornata di lavoro, «andò a guardarsi allo specchio e gli parve d’essere un altro». Non è un burattino «trasformato» in bambino, come nella edulcorata versione Disney, ma è «un altro». Il burattino giace in un angolo e, non appena Pinocchio lo vede, esclama: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino». Non è trasformazione, ma nascita: è morto l’io-schiavo (burattino) ed è nato l’io-libero (figlio). Si è compiuto il destino: l’avventura di ogni vita è diventare vivi per amore, attraversando la morte dell’io chiuso in sé e ancora incapace di amare, come hanno intuito, da e con prospettive diverse, Manganelli (Pinocchio: un libro parallelo) e Biffi (Contro Mastro Ciliegia) nei più bei libri-commento su Pinocchio.

Vent’anni fa, nel mio primo anno di insegnamento, lessi il libro per intero a una prima media. Rapì loro e me, perché la verità seduce a qualsiasi età e latitudine: per incontrare se stessi bisogna avventurarsi nella vita, rischiarla per trovarne l’origine e la meta, cioè l’amore da cui siamo fatti e per cui siamo fatti. Solo così saremo sempre vivi e rideremo di quand’eravamo solo pezzi di legno.


[Una bambinata universale

di Alessandro D'Avenia

13 gennaio 2020, Corriere della Sera]

La verità

 <<La verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell'odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone, essi incorrerebbero nell'odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti. Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo>>>


Sant'Antonio di Padova, Sermoni

venerdì 13 giugno 2025

L'amore è tutto

 

L'amore è tutto.

Se tacete, tacete per amore.

Se parlate, parlate per amore.

Se correggete, correggete per amore.

Se perdonate, perdonate per amore.

Sia sempre in voi la radice dell'amore, perché solo da questa radice può scaturire l'amore.

Amate, e fate ciò che volete.

L'amore nelle avversità sopporta,

nelle prosperità si modera,

nelle sofferenze è forte,

nelle opere buone è ilare,

nelle tentazioni è sicuro,

nell'ospitalità generoso,

tra i veri fratelli lieto,

tra i falsi paziente.

L'amore è tutto.
(Sant'Agostino)

martedì 10 giugno 2025

Comunione, comunità, amicizia

 DIALOGO FRA ENZO PICCININI E DON GIUSSANI 


Comunione, comunità, amicizia


Racconta Piccinini: «A Forlì salgo in macchina con don Giussani, dovevo andare a fare un’assemblea per il movimento a Bologna e lui mi dice: “Allora come va a Bologna? Cosa devo venire a fare, a dire?”. Beh, a Bologna va bene, stiamo pure crescendo, siamo sempre di più, però… “Però cosa?”. Però sono pochi quelli veramente amici.» Allora Giussani continuando a leggere il giornale dice: «Cos’è che hai detto?!» e Piccinini risponde: «Ho detto che mi preoccupa che il nostro problema a Bologna è che sono pochi quelli veramente amici!».
Giussani incalza: «E che problema è?» e Piccinini, un po’ incredulo, ribatte: «Come che problema è? Non dobbiamo diventare tutti amici nel movimento?! Tu hai sempre detto che dobbiamo diventare tutti amici!». 

Giussani allora risponde: «Tu non hai capito niente! Veramente tu sei un ex brigatista che vuole imporre d’autorità anche l’amicizia, ma sei matto?!
Io ho sempre detto tre cose: che tra noi
 la comunione è un dono di Cristo che ci mette assieme e ci lega con la fede e col sacramento.
 La comunità o la compagnia è un compito che dobbiamo costruire noi dando la vita.  
L’amicizia, infine, è una grazia molto rara in una comunità cristiana. 

Capita ogni tanto a qualcuno, e se la godono pure! Le amicizie di una comunità, le amicizie belle, piacevoli, le simpatie, le preferenze ecco, le preferenze, sono molto rare in una comunità, sono quasi impossibili. Enzo, pensaci,  
come si diventa amici?» e Piccinini risponde: «Per una preferenza» 
e Giussani: «Appunto! Come per la moglie, c’è quella che preferisci! Hai un po’ di amici perché tu preferisci loro e loro preferiscono te. Quando finisce la preferenza te vai via. Tu perché stai nella comunità a Bologna, li preferisci?». «No, no! Non li sopporto! E loro mi odiano, mi ammazzerebbero!!». «E allora perché state insieme?». «Il Signore mi ha chiamato qui, lavoro all’ospedale Sant’Orsola, mi sono stati dati!». «Ma tu li preferisci?». «No». «E chi li preferisce?». «Ah, è Cristo che li preferisce, è Lui che me li dà!». 

«Appunto! In una comunità non ci si entra per una preferenza, ma si entra per una preferenza di Cristo, che tocca il cuore a te, lo tocca a lei e ti mette con gente che tu non hai scelto! Che tu non preferisci! E quindi che ti stanno fondamentalmente antipatici. La loro stessa presenza ti ferisce perché tu non li hai scelti e loro non hanno scelto te, quindi è impossibile che siate amici. Siete in comunione perché c’è Cristo risorto presente. Alla comunità dovete dare la vita, è il compito dare la vita, il compito è fare il movimento. Che poi su mille persone, cinque o sei diventino pure amici è una grazia che Dio fa a loro, che se la godono a servizio di tutti. Ma guai a te se pretendi che tutti siano amici in comunità!». 

Enzo rimane interdetto per circa mezzo minuto e Giussani entra a gamba tesa e gli dice: «E poi ti aggiungo un’altra cosa: che la pedagogia di CL è un’autentica pedagogia cristiana, non favorisce le amicizie. Io non ho come scopo che la gente della comunità vada d’accordo, ho come scopo che ognuno vada d’accordo con se stesso, col proprio cuore e con Cristo, non con gli altri»

Io non dirò mai: «Carletto cerca di essere un bravo ciellino, un bravo prete, o peggio un bravo prete di CL. Sii te stesso! Stacci col tuo carattere! Facci vedere che cosa Dio ti ha messo dentro quando s’è inventato uno scomposto come te! Facci vedere chi sei tu, perché Dio t’ha fatto diverso da tutti gli altri. Io tiro su delle personalità molto caratterizzate, che hanno il gusto di dire “Io son fatto così, m’ha fatto Dio e che ci posso fare? Non ho bisogno di cambiare per stara qua!”». 

"Voglio dei luoghi in cui ognuno possa dire: «Io son fatto così e son contento di come Dio m’ha fatto!»  Ti tiro su personalità spigolose, tendenzialmente conflittuali con gli altri, che costringono tutti i giorni a dire: «Ma chi me l’ha fatto fare?! Ma perché io  sto con te?» E quando ci dicono che noi ciellini litighiamo con tutti, dico: «Benissimo, anche tra di noi!» Perché io non ho come scopo che siate amici, ma che ognuno sia se stesso. Preferisco un alto tasso di conflittualità, ma che si respiri aria pura. Quindi la moglie spigolosa è una fortuna!"