Dostoevskij fu un uomo tormentato, uno di quelli che la vita mette continuamente alla prova. La povertà e i debiti non gli davano tregua, lo inseguivano come un’ombra, soffocandolo. Era afflitto da una grave forma di epilessia, che lo colpiva con violenza e imprevedibilità. Conobbe il dolore più nero: la morte della sua figlia maggiore, ancora bambina, e poi quella del figlio amatissimo, Alyosha, scomparso troppo presto. Intorno a lui, l’incomprensione dei familiari, il disprezzo dello Stato, la meschinità di molti colleghi scrittori, privi di morale e spesso gelosi del suo genio.
In questo mondo che lo respingeva, in una società che sembrava volerlo schiacciare, Dostoevskij aveva ben poco: una sincerità disarmante, un cuore buono, una profonda umanità e la sua penna. Ed era sufficiente.
Fëdor Dostoevskij fu molto più che un romanziere: fu un filosofo, un indagatore dell’animo umano, un profeta del dolore e della redenzione. Le sue opere parlano delle profondità dell’essere, delle contraddizioni dell’uomo, del male e della grazia, della libertà, della colpa, della fede e della disperazione.
Uno dei suoi pensieri più intimi recita:
"Sono una delle persone più difficili, perché sono di quelle che si preoccupano per le cose semplici e si rallegrano con i piccoli dettagli, e a nessuno importa di queste cose."
E ancora:
"I peggiori momenti della mia vita li ho vissuti da solo."
Eppure, quando morì, nel 1881, oltre sessantamila persone riempirono le strade di San Pietroburgo per rendergli omaggio. Un uomo che in vita si era sentito solo, fu accompagnato alla tomba da un’intera nazione.
Dostoevskij è un gigante della letteratura russa e universale. Non solo per i suoi capolavori — Delitto e castigo, I fratelli Karamazov, L’idiota, Memorie del sottosuolo — ma perché ha scritto non dal cervello, ma dal cuore e dalle viscere. Ha guardato nell’abisso, e ne ha tirato fuori parole che ancora oggi ci parlano, ci scuotono, ci consolano.
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