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domenica 28 dicembre 2014

Che cos’è la nostalgia

Che cos’è la nostalgia

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Breve storia di un sentimento antico come l’uomo, ma che ha trovato un nome solo tre secoli fa
Nel libro V dell’Odissea c’è una scena, descritta intorno al verso 190, in cui Ulisse piange. Non è l’ultima volta nel poema, ma è importante. Ulisse si trova seduto sulla sponda del mare con le guance rigate di lacrime, consumato dal pensiero del ritorno. In quel momento Ulisse è sull’Isola di Ogigia da sette anni e anche se accanto a sé ha Calipso, una ragazza incredibilmente bella, se ne vuole andare.
Non serve a nulla il fatto che Calipso lo ami follemente e nemmeno che sia una ninfa, figlia del titano Atlante e di un’oceanina. Non serve nemmeno l’incredibile promessa che lei è disposta a fargli pur di farlo restare: offrirgli l’immortalità, insieme alla promessa di passarla insieme, in quel luogo paradisiaco. Niente, non serve a niente. Ulisse deve partire, ammette che la sua Penelope non regge il confronto con Calipso, che è più bella, ma soprattutto, che è immortale, ma deve tornare a casa lo stesso. Vuole tornare a Itaca, vuole tornare a casa.
Un luogo paradisiaco, una donna bellissima che lo ama alla follia, il sogno dell’immortalità: solo una forza potente può portare un uomo a rinunciare a un sogno del genere. Quella forza, che lo porta a piangere come un bambino sulla sponda del mare pensando a casa — lui, uno dei più coraggiosi e valorosi uomini del Mediterraneo — è un sentimento che conosciamo tutti per averlo provato innumerevoli volte, magari da bambini, magari proprio davanti al mare, alla fine delle vacanze, pensando a casa. È nostalgia, ma lui — e con lui le generazioni di aedi che nei secoli hanno cantato in giro per la Grecia quella scena — ancora non lo sa.
Non lo sa — non lo può sapere — perché il termine “nostalgia”, pur essendo composto di due parole greche, νόστος (nostos, che significa “ritorno a casa”) e άλγος (algos, che significa “dolore”) non è affatto una parola di origine greca, né tantomeno è antica come l’Odissea. La parola “nostalgia” è una parola moderna coniata nel 1688, in Svizzera, da uno studente di medicina di appena diciannove anni di nome Johannes Hofer, il quale fu il primo a usarla nella sua tesi di laurea, Dissertatio medica de nostalgia, discussa proprio quell’anno all’Università di Basilea.
Hofer è uno studente di medicina, e quel termine, “nostalgia”, se lo inventa per descrivere una patologia che affligge i soldati svizzeri, i quali, portati a combattere lontano dalle valli, si ammalavano di tristezza, languivano, piangevano, si disperavano, erano colti da un senso di oppressione e di soffocamento, un po’ come Ulisse sulla riva del mare di Ogigia, e dovevano essere rimpatriati. Così come è teorizzata dal giovane Hofer, la nostalgia è una forza potentissima, un legame che trascende lo spazio e il tempo.
Facciamo un salto in avanti nel tempo di più di tre secoli. In una delle scene centrali di Interstellar, l’ultimo film di Christopher Nolan, Anne Hathaway, che interpreta il ruolo della figlia del professor Brand, recita una battuta che è stata molto criticata per la sua banalità mascherata da profondità e per la sua eccessiva mielosità: «L’amore è l’unica cosa che trascende il tempo e lo spazio». Ora, pur essendo una grandissima teneronata, ottenuta esagerando, e di parecchio, con lo zucchero, quell’affermazione non è sbagliata, è semplicemente incompleta. Perché l’amore non è l’unico sentimento in grado di trascendere tempo e spazio, c’è anche la nostalgia, una forza più vasta, che lega non soltanto le persone tra loro, ma che le lega ai tempi, ai luoghi e agli oggetti perduti del tempo.
La nostalgia, una forza antica come il primo uomo che salutò la sua donna per andare a procacciare del cibo, una forza che ci ha messo parecchi secoli per trovare un nome, ma che esiste da sempre ed è, da sempre, una forza che ci attrae perennemente all’indietro — che l’indietro sia un luogo o uno spazio poco importa — una malinconia totale e definitiva che ha a che fare profondamente con l’essere umano, con la sua mortalità e con uno dei suoi istinti più unici: l’arte.
Lo sguardo della nostalgia è quello del Baudelaire della poesia A una passante, uno sguardo fisso negli occhi della Passante, quel «cielo livido dove nasce l’uragano», occhi che si vedono una volta sola, poi passano, e sfuggono verso l’eternità, verso l’oblio. La nostalgia è lo sguardo rivolto all’indietro dell’Angelus Novus dipinto da Paul Klee e raccontato poi da Walter Benjamin, che tra le sue tesi di filosofia della storia, infilò anche questa meraviglia:

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.
Lo sguardo rivolto all’indietro dell’angelo che Klee regalò a Benjamin, che fissava le macerie del passato incapace di ricomporle; quello di Baudelaire, fisso negli occhi portentosi di una bella sconosciuta che sa di amare ma che non vedrà mai più; quello di Ulisse, rivolto a un orizzonte la cui fine si chiama Itaca: a questo ci ha portati la nostalgia, all’arte, l’unico gesto umano in grado di superare il tempo e lo spazio, da sempre.
Nel 23 a.C. Orazio pubblicava una delle sue liriche più famose, che recita così:

Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo
e più alto della regale maestà delle piramidi,
che né la pioggia che corrode, né il vento impetuoso
potrà abbattere né l’interminabile corso degli anni e la fuga del tempo.
Non morirò del tutto, anzi una gran parte di me
eviterà la morte; per sempre.

Circa duemila anni dopo, a Buenos Aires, Jorge Luis Borges finiva di scrivere uno dei suoi più bei saggi, intitolato Nuova confutazione del tempo, in cui cerca di teorizzare, più esteticamente che scientificamente, l’inconsistenza del passato e del futuro, e la sola sussistenza del presente. È un saggio bellissimo, e finisce così:

Il nostro destino non è spaventoso perché irreale; è spaventoso perché irreversibile e di ferro. Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges.

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