Forse “Via delle storie infinite” sarebbe la
giusta dislocazione per “il caffè della gioventù perduta” di cui parlava
Guy Debord. La vedo ogni giorno questa generazione di venticinquenni e
di trentenni. Volti che fanno tenerezza. Destini incerti come le foglie
nei boschi di dicembre. Proprio nell’età che dovrebbe essere quella
della fioritura, della fecondità, dell’energia.
Silenziosi, pur trovandosi a pagare tutti i conti degli errori della generazione precedente.
Sembrano naufraghi in una terra di nessuno. Ci sono fra loro anche i
“pirla”, come in ogni compagnia, ma perlopiù è una generazione di
ragazzi bravi, intelligenti, col segreto dolore di chi si sente fuori
luogo, senza definizione, anonimo, senza un posto nel presente e forse
nel futuro: “non c’era posto per loro in quell’albergo”.
Così – col versetto evangelico riferito a Maria e Giuseppe (due altri
giovani di duemila anni fa, con un figlio che doveva nascere) – con
quelle parole del Vangelo, si può descrivere la condizione di questa
generazione.
IL SENSO DELLA VITA
Non c’è “un posto” per loro. Non solo un posto di lavoro (e il lavoro
è tanto per un uomo). Ma non hanno un posto nel mondo: una dimora, una
patria, una terra che abbia un perché, una bellezza e un futuro. Non
hanno padri che dicano loro chi sono e per cosa vale la pena vivere.
Abbandonati. Perduti. Senza sapere da chi sono stati fregati.
Smarriti come solo si può smarrire un figlio all’aeroporto. In una terra
di nessuno, che non è più il tuo Paese e non è nemmeno una terra
straniera. E’ un non-luogo. Sembra (ma non è così) che per loro non sia
in partenza nessun volo. Non sentono chiamate.
Sono spaesati. Si dice che il nostro non è un Paese per giovani. Ma è perduta questa gioventù o è perduto un tale Paese?
Guy Debord – ricordate il Situazionismo e la “Società dello
spettacolo”? – fece una suggestiva parafrasi dell’incipit della Divina
Commedia, che sembra un affresco di oggi: “Nel mezzo del cammino della
vera vita, eravamo circondati da una malinconia oscura, che tante parole
tristi e beffarde hanno espresso, nel caffè della gioventù perduta”.
Stava in un libro strano con un titolo misterioso: “In girum imus
nocte et consumimur igni”. Questo bizzarro titolo latino, un vero
palindromo (si può leggere egualmente da sinistra a destra e viceversa) è
in realtà una citazione dell’esametro imperfetto che è stato attribuito
a Paolo Silenziario, un poeta bizantino del VI secolo d.C.
Pare sia dedicato alle falene o alle torce (ma vale per tutte le
gioventù bruciate) e significa: “Andiamo in giro di notte e veniamo
consumate dal fuoco”.
Da quale fuoco? Dalla vita come passione inutile, come diceva Sartre?
L’uomo deve ardere, ma per cosa? Consumarsi per nulla è la dissipazione
e la disperazione. Una gioventù bruciata (dagli altri o da se stessi) è
l’opposto dell’ardore.
Guardo i bei volti dei miei figli e mi chiedo: quale giovinezza è
veramente perduta e bruciata? Non è forse quella che non conosce il suo
significato?
Bisogna donare la propria vita (e così farne un capolavoro) prima che
il tempo ce la rubi. Questo è il vero fuoco, così la giovinezza non
sfiorisce mai. Sapere per cosa (per chi) si vive. E si muore.
Toni Negri ha scritto un libro autobiografico di 600 pagine. C’è una
frase che colpisce: “‘Papà, che cosa vuol dire morire?’, chiede mia
figlia”. La risposta non arriva, in 600 pagine. E allora voglio
raccontarvi una storia di ardore, cioè di amore. Una storia di vita che
vince la morte.
LA GRANDE AVVENTURA
Era giovane anche Robert Southwell. Era un poeta. Nasce a Horsham St
Faith in Inghilterra, viaggia per l’Europa, va a Parigi e poi a Roma (e
non c’era l’Erasmus). A 19 anni, nel 1580, entra nella Compagnia di
Gesù. A 23 anni è ordinato sacerdote. A 25 anni viene mandato, con Henry
Garnett, in Inghilterra.
Era la sua patria, ma la corona aveva imposto l’anglicanesimo e
perseguitava i cattolici. Un feroce decreto della regina Elisabetta
comminava la pena di morte ai sacerdoti cattolici che fossero trovati
sul suolo inglese.
Era un bagno di sangue terribile. Un martirio che fece molte vittime
illustri. Così Robert entrò clandestinamente nel suo Paese. A quel tempo
i gesuiti erano un po’ i “marines” della Chiesa.
Si trovavano sempre nelle imprese più ardimentose, che si trattasse
delle foreste amazzoniche (si ricorda il film “Mission”) o dei Paesi
sotto tirannie anticattoliche, si trattasse di solcare gli oceani fino
all’India e al Giappone, come Francesco Saverio, o di entrare alla corte
degli imperatori cinesi come Matteo Ricci.
Il giovane padre Robert svolse in Inghilterra il suo lavoro
missionario, in segreto, per nove anni. Poi, nel 1592, a 31 anni, fu
denunciato, arrestato e accusato di far parte di un complotto per
assassinare la regina Elisabetta.
Durante la prigionia fu brutalmente torturato, ma lui sempre si
dichiarò innocente sostenendo che dovevano giudicarlo il popolo inglese e
Dio. Nel 1595, a 34 anni, fu condannato a morte per tradimento (come si
vede non ci sono solo gesuiti troppo amici dei potenti anticattolici,
ma anche dei grandi gesuiti martiri).
Gli fu tagliata la testa e il corpo fu fatto a pezzi. Ma quando il
boia sollevò il suo capo mozzato, quel 21 febbraio, a Tyburn, il popolo
non gridò “Traditore!”, come di consueto. Il giudizio del suo popolo era
contenuto in un triste silenzio di sgomento.
E il giudizio di Dio? Robert Southwell fu beatificato nel 1929 e fu
proclamato santo nel 1970 da Paolo VI. E’ uno dei quaranta martiri
d’Inghilterra e del Galles. Un giovane santo e martire.
Una gioventù bruciata, la sua, si direbbe. Ma bruciata per amore, per
il grande Amico, per il vero Re dell’universo, un Re croficisso.
Così Robert Southwell conquistò un’eterna giovinezza. E’ sua una
memorabile poesia su quel fuoco, su quell’ardore, su questa giovinezza
bruciata (vedi sotto il testo integrale).
Southwell fu un grande poeta ed ebbe un’influenza decisiva sulla
letteratura inglese, a cominciare da William Shakespeare di cui fu
amico: c’è chi sostiene che proprio grazie a lui Shakespeare sia morto
(segretamente) da cattolico.
Southwell appartiene a quel fiume di poesia metafisica che comprende
anche John Donne e arriva a Thomas S. Eliot, passando per quello
straordinario poeta che fu Gerard Manley Hopkins (1844-1889), un
convertito al cattolicesimo diventato anche lui gesuita.
CUORI ARDENTI
Dunque, dicevo, fra le poesie di Southwell ce n’è una, strana e
struggente, intitolata “The Burning Babe” (Il bambino che brucia), una
poesia apprezzata da due artisti apparentemente così lontani da
Southwell, come Dylan Thomas e Ben Jonson. E’ stata recentemente
trasformata in canzone dal violinista folk inglese Chris Wood ed è
stata cantata da Sting nella cattedrale di Durham.
Inizia in una sorta di foresta oscura, che è la vita di tutti, dove
accade qualcosa: “Una bianca notte d’inverno, tremando nella neve,/ Fui
sorpreso da un improvviso calore che m’infiammava il cuore”.
L’ “everyman” che racconta questa situazione allegorica si accorge
che il calore gli viene da un “bambino raggiante”, lì vicino, che soffre
per essere avvolto nelle fiamme e versa fiumi di lacrime che quasi le
spengono.
Il fanciullo parla: “appena nato mi consumo in fiamme ardenti,/
eppure nessuno si avvicina a riscaldarsi il cuore o a sentire il mio
fuoco!”.
Ma da dove vengono quelle fiamme? Lo spiega il bimbo: “Il mio petto
innocente è la fornace, la legna ha rovi laceranti,/ Amore è il fuoco,
il fumo son sospiri, le ceneri insulti e scherno;/ Giustizia porta la
legna e misericordia soffia sui carboni”.
E’ un fuoco che trasforma il duro metallo delle “anime degli uomini”,
piene di sozzura, per rinnovarle, e dopo le fiamme “mi scioglierò in un
bagno per lavarle nel mio sangue”.
Conclude il poeta: “Dette queste parole sparì alla mia vista
dissolvendosi d’improvviso,/ e subito mi ricordai che era il giorno di
Natale”.
E’ venuto al mondo per dare la sua vita per te, una follia d’amore, perché tu fossi felice per sempre.
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Antonio Socci
(da “Libero”, 24 dicembre 2015)
NOVITA’: POTETE SEGUIRMI SU TWITTER @AntonioSocci1
www.antoniosocci.com
(nella foto: Robert De Niro nel film “The Mission”)
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The Burning Babe (Il bambino che brucia)
Una bianca notte d’inverno, tremando nella neve,
Fui sorpreso da un improvviso calore che m’infiammava il cuore;
E alzando gli occhi timorosi per vedere quale fuoco avessi vicino
Un bel bambino raggiante mi apparve nell’aria
Che arso dall’eccessivo calore, versava fiumi di lacrime
E sembrava che quei fiotti potessero spegnere la fiamma che alimentava il suo pianto.
“Ahimé” disse “appena nato mi consumo in fiamme ardenti,
eppure nessuno si avvicina a riscaldarsi il cuore o a sentire il mio fuoco!
Il mio petto innocente è la fornace, la legna ha rovi laceranti,
Amore è il fuoco, il fumo son sospiri, le ceneri insulti e scherno;
Giustizia porta la legna e misericordia soffia sui carboni;
il metallo lavorato in questa fornace sono le profanate anime degli uomini;
e come ora io sono per esse infiammato per modellarle al loro bene,
così mi scioglierò in un bagno per lavarle nel mio sangue”.
Dette queste parole sparì alla mia vista dissolvendosi d’improvviso,
e subito mi ricordai che era il giorno di Natale.
di Robert Southwell (1561-95)
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